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Assassin’s Creed: vita e morte di un credo

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Il paradosso storico

Nonostante le ottime vendite, il pubblico sentiva l’esigenza di qualcosa di realmente nuovo. Assassin’s Creed III (2012), il titolo più ambizioso di sempre nella storia di Ubisoft era la risposta, con la produzione passata da Alexandre Amacio ad Alex Hutchinson.
Nuova ambientazione e nuova location, all’interno della Rivoluzione Americana, che vede Connor Kenway, il nuovo protagonista, muoversi tra le fila degli schieramenti. Per i nativi americani Ratonhnhaké:ton, figlio del templare Haytham Kenway e di una nativa americana Kanien’kehá:ka, Connor è il figlio di due mondi contrapposti. Dopo la distruzione del villaggio dove cresciuto e la morte della madre, egli cerca vendetta unendosi così alla causa degli Assassini. Purtroppo la sua caratterizzazione è forse quella meno riuscita: di potenziale da vendere ce n’era, vista la sua doppia origine (da un lato nativo americano, dall’altro inglese), che avrebbe potuto portare a conflitti interiori del tutto trascurati, come del resto remore sulle idee del Credo visto che il padre ricopre il ruolo di Gran Maestro dei Templari.  Fortunatamente la parte riservata a Desmond è ben gestita, ed è possibile vederne i miglioramenti da Assassino del terzo millennio.
Impianto tecnico ragguardevole con l’avvento del nuovo motore grafico denominato Anvil Next, che ha permesso l’utilizzo di tantissimi personaggi su schermo, animazioni migliori e miglior definizione in generale più l’introduzione della navigazione a bordo di un piccolo vascello, contornati da cambiamenti meteorologici in grado di influenzare il gameplay. Il finale di Assassin’s Creed III è quello che tutti i fan aspettavano e funziona, fino a un certo punto. La conclusione della saga di Desmond Miles trova compimento, anche se tutto risulta forse un po’ troppo accelerato e senza il giusto pathos ad accompagnarci tra le scene. Purtroppo, il post credit non lascia adito a dubbi: la saga di Assassin’s Creed continuerà, anche senza Desmond.
Un piccolo sospetto poteva già nascere una volta notata l’uscita contemporanea di Assassin’s Creed: Liberation per PlayStation Vita, con protagonista la prima donna Assassina Aveline De Grandpré di origini franco-africane e del tutto contemporaneo al terzo capitolo ufficiale. Passa poco più di un anno e la serializzazione comincia a mostrare i primi segni di cedimento. Assassin’s Creed IV: Black Flag (2013) stravolge totalmente le fondamenta del franchise, proponendosi come un prequel del terzo capitolo in cui abbiamo come protagonista Edward Kenway, padre di Haytham e nonno di Connor. L’ambientazione totalmente piratesca a prima vista sembra rappresentare il classico “salto dello squalo”, con scelte che mal si sposano con quanto visto finora. Eppure funziona, dando focus alle prime vere battaglie navali del franchise, estremamente coreografiche e molto belle a vedersi grazie anche alla splendida realizzazione dell’acqua, da qui vero fiore all’occhiello per tutte le produzioni Ubisoft. Purtroppo si riscontrano alcune semplificazioni narrative dovute principalmente a un accelerato effetto osmosi e al quasi totale abbandono della componente moderna.
La serializzazione raggiunge il picco nel 2014 quando, oltre al capitolo ufficiale Unity, arriva anche Rogue, col senno di poi, il più interessante dei due. Assassin’s Creed: Rogue parte da una premessa interessante: Shay Patrick Cormac è un giovane assassino che pian piano comincia a dubitare del Credo. Dopo una serie di vicissitudini decide di passare all’altra sponda, entrando a tutti gli effetti nell’Ordine dei Templari e da qui purtroppo, le cose cadranno nell’anonimato  sul piano narrativo. Interpretare l’altra faccia della moneta è stata un’ottima idea e forse in qualche modo studiata a suo  tempo: impersonare non solo un Templare, ma un ex Assassino che ha rinnegato la causa, nelle mani giuste sarebbe potuto essere un colpo da maestro, mettendo i giocatori nella difficile e “reale” scelta tra le due fazioni, così come nell’idea originale. Piccola nota: Rogue è a tutti gli effetti un prequel di Unity.

Ma tutte le attenzioni, ovviamente, erano su Assassin’s Creed: Unity, nel bene e soprattutto nel male.
Il primo vero passo falso di Ubisoft avviene paradossalmente quando sembrava aver portato le giuste novità e riavvicinare così il franchise alla sua epoca d’oro, al primo debutto sulle console di nuova generazione, PlayStation 4 e Xbox One. È ricordato per aver introdotto il co-op online, una reale modalità stealth e soprattutto la possibilità di variare approccio durante le missioni principali, sfruttando vari elementi dovuto ai tumultuosi giorni della Rivoluzione FranceseArno Victor Dorian, il protagonista storico, rappresenta un’altra occasione mancata, simile negli aspetti caratteriali sia a Ezio Auditore che Altaïr ma, come avvenuto per i recenti predecessori, perso in un bicchier d’acqua. Anche la nuova ambientazione, chiamata a gran voce dal pubblico, non risulta incisiva dando la spiacevole sensazione che le vicende di Assassin’s Creed: Unity sarebbero potute funzionare anche in altre epoche, senza risentirne. Ma i problemi erano ben altri: il poco tempo a disposizione si fece sentire questa volta, portando un gioco affetto da numerosi glitch e bug che diedero al pubblico e alla critica un buon pretesto per affossare il titolo. Fu una mazzata, con il CEO di Ubisoft Yannis Mallat costretto a scusarsi personalmente, oltre che una forte perdita di valore in borsa.
A questo punto, chiunque avrebbe imparato la lezione. Critica e pubblico si erano fatti più esigenti ma, nonostante questo, l’anno dopo (2015) ci fu tempo per un altro Assassin’s Creed. Inizialmente conosciuto come Victory, questo nuovo capitolo si basa su un piccolo aneddoto interessante. Non è stato accennato in questo testo ma, ogni anno, a un certo punto e come ormai una tradizione, scattava il “toto ambientazione” del nuovo Assassin’s Creed e le proposte erano davvero innumerevoli e forse potrete trovare piccole correlazioni con quanto accaduto: chi urlava alla Rivoluzione Francese, chi a quella Russa, chi all’Antico Egitto, al Giappone Feudale e chi altri ancora alla Londra Vittoriana. Proprio su quest’ultima uno sviluppatore interrogato sulla possibilità di vedere il prossimo titolo ambientato in tale epoca lo escluse, facendo notare come l’epoca vittoriana era già stata fin troppo trasposta nei vari media. Ecco dunque Assassin’s Creed: Syndicate, ambientato – pensate un po’ – nella Londra Vittoriana, portando una grandissima novità, probabilmente figlia del successo di GTA V: i protagonisti questa volta erano due, una coppia di gemelli di nome Jacob e Evie Frye, intercambiabili e con missioni dedicate a ognuno di essi. Le loro caratteristiche così diverse rendono questo titolo uno dei più vari del franchise, potendo contare sulla forza bruta di Jacob o sulla furtività letale di Evie. Nonostante in fin dei conti sia uno dei migliori Assassin’s Creed, le vendite non furono all’altezza: il ricordo di Unity era ancora troppo fresco e quindi, fu presa una forte e drastica decisione. Basta. Stop alla serializzazione annuale e puntare su un nuovo capitolo, con nuove idee e soprattutto, più tempo per svilupparle.
Si arriva così al paradosso. Ubisoft ha creato una serie di titoli basati su fatti storici realmente accaduti eppure dalla propria storia non è riuscita a imparare la lezione più importante: bisogna sapersi fermare.

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