Unavowed, una delle avventure grafiche più ambiziose degli ultimi anni

Wadjet Eye Games. Questo è il nome della software house che sta lavorando da anni a un punta e clicca che potrebbe dare una ventata d’aria fresca al genere che, superata la sua epoca d’oro, negli ultimi tempi stenta ad affermarsi anche sulla sua piattaforma nativa, ovvero il PC.
Unavowed, oltre a essere il progetto più grande a cui Wadjet Eye abbia mai lavorato, cerca anche di discostarsi dall’avventura grafica tradizionale, che consiste in una trama già “preconfezionata” e quindi statica, completabile in poche ore. Il gioco di Dave Gilbert (fondatore della compagnia) non ha nulla di tutto ciò.

Si ha innanzitutto la scelta del personaggio principale, che può essere un agente di polizia, un barista o un attore; ognuno con diverse abilità speciali e con una diramazione diversa della storia di base. Il protagonista scelto verrà posseduto da un demone, il cui obbiettivo sembra essere quello di spargere violenza e distruzione per tutta New York. La sua vita da allora verrà completamente stravolta: ricercato dalla polizia, senza casa, nè famiglia, nè amici. C’è un solo modo per liberarsi dell’entità malvagia e tornare a vivere normalmente: unirsi agli unavowed (letteralmente, gli inconfessati), un’antica società atta a combattere le forze del male.
Un’altra peculiarità è quella di poter scegliere un secondo personaggio, a scelta tra quattro, che entrerà a far parte del nostro party. Ognuno di loro ha abilità, debolezze e tipi di dialogo unici, che porteranno a una risoluzione degli enigmi proposti ogni volta diversa, a seconda del compagno scelto; il tutto contornato da ben 125 possibili scenari. Tutto questo porta il giocatore a ricominciare più e più volte, trovando sempre qualcosa di diverso.
Uno degli scopi che Gilbert vuole raggiungere con questo titolo è quello di evitare lo spoiler totale del gioco, anche vedendone gamplay e streaming vari prima dell’acquisto, e al contrario, invogliare a chi ha visto quei video a giocare comunque per scoprire cos’altro c’è da vedere.
Unavowed verrà rilasciato quest’anno su Steam in data da definirsi, e se tutte le premesse date rimarranno invariate, potremmo forse assistere alla nascita di un pioniere di una nuova generazione di punta e clicca.




Cliff Bleszinski accusa Epic Games di furto del personale

In molti sicuramente saprete di chi si sta parlando, ma per chi non lo conoscesse, Cliff Bleszinski possiede una certa fama per aver preso parte allo sviluppo delle saghe di Gears of War e Unreal. Dopo ben 20 anni di carriera presso Epic Games, nel 2012 decise di ritirarsi per prendere una pausa dalla professione di game designer, ma tornò a lavorare due anni più tardi fondando la Boss Key Productions insieme ad Arjan Brussee (uno degli  executive producer dietro Battlefield Hardline). LawBrakers, primo titolo prodotto dalla compagnia, non fu proprio un buon trampolino di lancio, ma il nuovo titolo attualmente in accesso anticipato, Radical Heights, potrebbe rappresentare la sua redenzione.
Premesso questo, lo scorso dicembre Brussee ha lasciato Boss Key in favore della stessa Epic Games, dedicandosi a un progetto al momento segreto. Non si sa precisamente quanti altri dipendenti abbiano fatto lo stesso, ma Bleszinski sembra averla presa sul personale, a giudicare dai suoi ultimi tweet.

https://twitter.com/therealcliffyb/status/984933986312114176

Implicitamente, starebbe asserendo che la casa creatrice di Fortnite vede Radical Heights come un possibile terzo partecipante nella gara tra battle royale, insieme a PUBG, e che quindi voglia assumere i suoi sviluppatori per “difendersi”.

https://twitter.com/therealcliffyb/status/984934521157181441

William McCarroll, uno dei dipendenti che ha da poco lasciato Boss Key, ha preso le difese di questi ultimi, ritenendo che hanno tutti avuto le loro buone ragioni per andarsene.

La situazione tra le due case di produzione sembra farsi sempre più tesa.

 




Lo squilibrio tra uomo e donna nell’industry videoludica

La disuguaglianza di genere nel mondo del lavoro non è certo una novità e purtroppo l’industria dei videogiochi non fa eccezione. È stato da poco reso noto da Gamesindustry.biz, che ha stilato una serie di grafici che mostrano la situazione lavorativa delle donne in alcune delle software house più importanti presenti nel Regno Unito come EA, Rockstar, Namco, King, Sumo Digital e molte altre.
Secondo i dati, in media in UK un uomo guadagna il 9,7% in più di una donna, tasso che raggiunge il 17,85% nel mondo dei videogiochi.

Da questo punto di vista, il podio è occupato da Sumo Digital, Rockstar e Codemasters, raggiungendo rispettivamente 34,5%, 31,8% e 27,9% e superando anche più del triplo la media nazionale. La situazione si capovolge con PlayNation (5,9%), Namco e Game, che sono le uniche aziende a pagare in modo equo indipendentemente dal sesso. Un caso sicuramente unico è quello di Inspired Gaming, che retribuisce le donne l’1% in più rispetto alla controparte.

Parliamo ora dei quartili: in media nelle aziende del Regno Unito solo il 38,9% delle lavoratrici rientra in quello principale, nel nostro campo si scende addirittura al 13,9%, il che dimostra quanto il “sesso debole” sia sottorappresentato.

Normalmente, il quartile più basso è composto per il 46,4% da uomini e per il 53,5% da donne contro il 72,7% e 27,3% dell’industry videoludica; nel medio-basso la presenza maschile e femminile è rispettivamente del 50,6% e 49.3% paragonata con una percentuale pari a  77,8% e  22,1%. Nel quartile medio-alto invece la differenza è ancor più marcata: se generalmente vi è quasi una parità tra uomo e donna (54% e 45%), nel mondo dei giochi c’è praticamente un abisso che li divide (83% e 16,9%).

La compagnia dove è presente il maggior numero di donne nei quartili più alti è King, seguita da Namco, EA e Microsoft. Per la seconda volta invece, Sumo Digital risulta la peggiore, avendo in ognuno dei suoi quartili non più del 2,5% composto da donne.

Per quanto concerne la presenza di individui di sesso femminile nel quartile più basso, la situazione sembra essere leggermente migliore: infatti sia King che Namco superano sia la media del loro settore (oltrepassata da altre sei compagnie) che quella nazionale, raggiungendo un buon 55%.

I guadagni bonus ricoprono un ruolo importante nella “videogames industry“, essendo molto più facile riceverne in questo settore piuttosto che in altri, ma nonostante ciò le lavoratrici non sono quasi mai messe in pari. Infatti, nonostante buona parte delle software house prese in esame superi di gran lunga la media nazionale  dei guadagni bonus, solo in tre di queste (Sumo Digital, Microsoft e Gaming Technology) sono ottenuti in numero maggiore da donne.

L’ultima statistica su cui Gamesindustry si è concentrata riguarda il quanto guadagni in bonus una donna per ogni sterlina ricavata da un uomo.

Mediamente la paga per ogni sterlina è di 66 centesimi, terribilmente abbassati da Rockstar, che ne paga solo 16. Fortunatamente non sono pochissime le compagnie che superano la media, come Gamesys e Microsoft che sfiorano le 0,90 sterline.
Sembra proprio che la strada verso l’uguaglianza di stipendio tra i due sessi sia ancora lunga, e il fatto che la presenza femminile nel mondo del lavoro videoludico sia molto bassa non aiuta quelle aziende che cercano come possono di valorizzarla.




Monolith rimuoverà le microtransazioni da La Terra di Mezzo: L’Ombra della Guerra

Da quando uscì su PS4, Xbox One e PC il 10 ottobre scorso, un’aggiunta in particolare fece storcere il naso a molti utenti, indipendentemente dalla piattaforma: la presenza delle microtransazioni che, anche se non necessarie per completare la storia principale, non sono state ben accette dal pubblico in un gioco non free-to-play.
Monolith Productions ha ascoltato le lamentele della sua utenza, assicurando che nel giro di pochi mesi gli acquisti in game con valuta reale e le stesse loot box  spariranno del tutto, o quasi da L’Ombra della Guerra.

Nello specifico, gli update dell’ 8 maggio rimuoveranno la possibilità di acquistare gold, anche se si potranno ancora comprare casse con quelli già in possesso dei giocatori, ma solo fino al 17 luglio, quando un altro aggiornamento eliminerà in modo definitivo le loot box, i gold e lo stesso shop interno del gioco. Da quel giorno in poi, tutti i gold residui non spesi saranno convertiti in casse, una ogni 150G (chiunque ne avesse di meno ne riceverà comunque una).
Ma non è finita qui: nuovi aggiornamenti arriveranno presto portando altri tipi di novità, stavolta incentrati sulla campagna, come nuovi elementi narrativi che secondo Monolith porteranno a un’esperienza di gioco più dinamica e coesa. Di cosa si tratterà?




Siamo tutti utenti Microsoft

Da quando è nata la console war, è solito etichettare i vari giocatori in base alla piattaforma di gioco preferita: abbiamo i “sonari“, “nintendari“, “boxari“, “master race” e chi più ne ha più ne metta. Ma quello che il più della gente dimentica è che due dei grandi colossi dell’industria videoludica non si limitano, e sopratutto, non sono nati con lo scopo di produrre console di gioco (in realtà anche Nintendo aveva altri scopi, ne abbiamo parlato qui), dunque il far parte di una determinata categoria di utenti si dovrebbe estendere a tutti i prodotti che la suddetta “fazione di appartenenza” offre.

Prendiamo Microsoft: è nata come software house nel 1975 e la prima Xbox sarebbe arrivata solo 25 anni più tardi, ma è anche grazie a lei che abbiamo Windows, il pacchetto Office, Internet Explorer (che non sarà stato il top dei browser ma grazie lo stesso, zio Bill) e tantissimi altri prodotti, anche hardware, come i recenti Microsoft Surface e innumerevoli altri device come telefoni cordless, cuffie e webcam; per non parlare dell’acquisizione di Nokia. Per quanto riguarda il nostro campo, MS ha creato, oltre alle sue console, la saga di HaloFableAge of  Empires, Microsoft Flight SimulatorZoo Tycoon e inglobato la Mojang, diventando di fatto la proprietaria di uno dei giochi più diffusi di sempre, ovvero Minecraft.
Chiunque di noi ha usato o usa attualmente un videogioco, una componente, un cellulare, un computer, un software o qualsiasi altra cosa proveniente dall’azienda di Bill Gates, e questo ci rende di fatto dei boxari, o comunque, degli utenti Microsoft, il che ormai viene visto come un insulto – e non lo è – ma allo stesso tempo non decide le sorti della console war.
Giochi su un pc con Windows 10 e sfrutti Xbox Play Anywhere? Sei un boxaro.
Hai un computer che sfrutta un altro sistema operativo ma nella tua libreria di giochi ne hai almeno uno tra quelli sopracitati o usi un controller Xbox al posto della tastiera? Sei un boxaro.
Hai Minecraft sulla tua console Sony o Nintendo? Anche qui, sei un boxaro.

Quindi pensateci due volte la prossima volta che vorrete insultare il vostro amico che ha da poco comprato la sua Xbox One X, mentre a casa avete un computer con Windows 10, collegato a un indirizzo email su Outlook, rimpiangete l’ormai andato MSN e siete iscritti a molteplici canali Youtube che trattano Minecraft o uno qualsiasi di questi giochi.




I videogiochi possono renderci più aggressivi?

Quante volte vi è capitato, magari quando eravate più piccoli, di sentirvi dire dai vostri genitori che l’ultimo videogioco che vi hanno comprato non è adatto a voi perché troppo violento e che questo può influenzarvi negativamente? O di aver sentito innumerevoli telegiornali etichettare Call of Duty e GTA come le cause principali di un omicidio o attentato? Il rapporto tra violenza virtuale e reale è un tema presente da anni e specialmente in questo periodo, con le parole di Donald Trump in merito all’argomento, le considerazioni si sprecano.

Un video pubblicato dal canale della Casa Bianca che si schiera contro la violenza nei videogiochi.

Eppure, nessuno studio ha mai confermato che giocare assiduamente a titoli violenti porti a essere tali nella vita vera, al contrario può portare a diversi benefici (come potete leggere qui). Fortunatamente un altro esperimento condotto di recente arriva a sostenere che uno dei nostri hobby preferiti non ci porta a diventare degli assassini senza scrupoli: secondo Douglas Gentile, psicologo dello sviluppo ed ex Director of Research del NIMF (National Institute on Media and the Family) giocare abitualmente a quel tipo di giochi porti a essere generalmente più aggressivi, ma fa anche una grossa distinzione tra l’aggressività e la violenza fisica. Per aggressività non si intende il senso pieno del termine, ma bensì si riferisce all’indole che è insita in ognuno di noi: nessuno si vede come una persona totalmente cattiva, ma a tutti capita di compiere delle azioni non proprio buone, ma che non sono definibili crudeli, come rispondere male a qualcuno di proposito o ignorarlo, o ancora dire qualcosa di non propriamente carino per il puro scopo di insultare; Gentile con il suo essere “kind of mean” intende proprio questo.

Al suo esperimento hanno preso parte 3000 bambini di Singapore: inizialmente è stato misurato il tempo passato davanti a videogiochi violenti e in seguito come questi mostrano di essere dei “bimbi cattivi” concentrandosi su tre criteri: in che misura si accettano le cose fastidiose che accadono e se si pensa che queste siano in un qualche modo fatte di proposito, come si reagisce alle provocazioni decidendo se è il caso di rispondere in maniera cattiva o meno, e infine le fantasie aggressive, ovvero pensare a come sarebbe essere più o meno cattivi davanti ad altri. Secondo gli studi di Gentile, i bambini che passano più tempo davanti a giochi con scene cruente sono quelli che mostrano di più questi tipi di pensiero.
Questo non vuol dire che tutti i videogiocatori di shooter e simili diventano automaticamente aggressivi, ma influenza allo stesso modo di un film o una serie tv di quel genere, o di quegli imprevisti che accadono nella vita di tutti i giorni come macchiarsi la camicia col caffè o far cadere lo smartphone per terra e scoprire che lo schermo si è rotto; nessuna di queste cose è degna di accuse tanto grandi come quella di causare omicidi di massa o sparatorie nelle scuole, né tanto meno i videogiochi, infatti Gentile è apertamente in disaccordo con chiunque affermi il contrario. Ciò su cui invece è d’accordo e che consiglia di fare sopratutto ai genitori con figli piccoli è quello di osservare il rating di età e di informarsi su che tipo di contenuti offre il gioco che si sta per acquistare.
Ma quindi, perché scagliarsi a mani basse su questo media? Perché nessuno ha mai incolpato film o libri che portano lo stesso tipo di contenuti? Ovviamente nessuno di questi ha colpa, ma la risposta potrebbe derivare dal fatto che il videogioco agli occhi di molti è ancora qualcosa di sconosciuto e di difficile comprensione, e purtroppo, come la storia ci insegna, questi termini vanno spesso a braccetto con sbagliato o pericoloso. Semplicemente sarebbe più facile rendersi conto che come il sangue che si vede in tv è “solo salsa di pomodoro” e le persone che muoiono sono tutti attori, nei videogiochi sono semplicemente file ISO ed effetti sangue. Niente induzione alla violenza, solo intrattenimento.




L’e-governance potrebbe essere il futuro dei paesi più piccoli

Per electronic governance si intende la possibilità di offrire elettronicamente i servizi di amministrazione pubblica, senza bisogno di recarsi fisicamente nei luoghi che li offrono. Diversi stati (Italia compresa) l’hanno parzialmente adottato e molte procedure si sono semplificate grazie all’ausilio dei sistemi informatici, e per certe nazioni potrebbe rappresentare un vero punto di svolta. Una di queste è l’Estonia, seguita a ruota dalle Isole Fær Øer: il loro obbiettivo è quello di creare delle vere e proprie infrastrutture digitali dedicate all’amministrazione entro il 2020; e trattandosi di stati, di rispettivamente di poco più di 1.300.000 abitanti e appena 50.000, la cosa è molto plausibile.
Kristina Háfoss, Ministro delle Finanze delle Isole Fær Øer è una delle menti dietro l’ambizioso progetto che vede la completa digitalizzazione dell’arcipelago (chiamato appunto Digital Faroe Islands).

«Stiamo vivendo un’ondata di bei tempi nelle Isole Fær Øer. L’esempio più importante è che la nostra economia sta andando bene, la disoccupazione è bassa e la nostra popolazione sta crescendo. Dobbiamo cogliere questi momenti, e il modo migliore per farlo è assicurarsi che il nostro paese entri opportunamente nell’era digitale. […] Con questo progetto, stiamo creando un’infrastruttura digitale nelle Isole Fær Øer.»

Un fatto da tenere molto in considerazione è che, in un paese del genere, il meteo domina sugli impegni degli abitanti e difficilmente può essere favorevole, per questo viene spesso chiamato “la terra del forse“, ma grazie alla digitalizzazione, Kristina Háfoss vuole trasformarlo nel “la terra del domani“.
Un altro problema che il progetto potrebbe risolvere è quello del calo della popolazione giovanile, che nella maggior parte dei casi, una volta conclusa l’istruzione all’estero, difficilmente torna a casa, ma sembra che la situazione stia già cambiando.

«Fondamentalmente assicurerà più posti di lavoro in un campo per il quale molte persone sono state preparate e rafforzerà la nostra competitività. Renderà semplicemente il nostro paese più invitante e sicuro per il futuro.»

Nicolai Mohr Balle è il leader principale del progetto e si è fortemente ispirato al sistema utilizzato in Estonia, che si basa su quattro pilastri principali: il portale dei servizi, l’identità digitale, il sistema di interoperabilità X-road e i registri digitali di base.

«Ciò che sembra più semplice è il portale dei servizi, dal quale si può gestire la pubblica amministrazione. Ci si può occupare di tutto da lì:  operazioni bancarie, appuntamenti dal dottore, richieste per la disinfestazione, comprare una casa o fare domanda per l’università. Tutto è accessibile attraverso lo stesso portale con l’identità digitale.»

Quel che renderebbe questo sistema comodo è che i cittadini non hanno bisogno di inserire i loro dati ogni volta che hanno un’operazione da fare, ma questi verranno conservati. Per quanto questo possa risultare precario o rischioso, Nicolai assicura che l’intero scambio di dati è totalmente sicuro e decentralizzato grazie all’X-road, una piattaforma di dati (inventata in Estonia ma usata anche da altri paesi come Finlandia, Namibia e Azerbaijan) che collega i singoli server attraverso un percorso crittografato end-to-end.

La stessa identità digitale è usata anche come firma digitale, che comprende un username e una password da inserire e confrontare con una chiave privata. Questa soluzione è conforme alla normativa EU eIDAS sull’identificazione elettronica.

«La digitalizzazione è di cruciale importanza per una piccola nazione. Specialmente una come la nostra, che si vanta di avere una società benestante, quel tipo di società benestante che resta adeguata solo se la manteniamo allo stesso tempo moderna.»

Anche Kristina Háfoss vede un grande potenziale nella digitalizzazione dei piccoli Paesi.

«Sapete che è più facile far partire un motoscafo piuttosto che una superpetroliera e questa è la strategia e la forza trainante per rendere le Isole  Fær Øer un modello di riferimento nell’e-governance. In una società piccola le cose sono più facili. Dal punto di vista legale, governativo e in generale.
Solo il fatto che abbiamo meno sistemi essendo piccoli crea molto meno lavoro legale e ci permette di arrivare a nuove soluzioni. Ecco perché credo che le Isole  Fær Øer possono diventare un competitor a livello mondiale per quando riguarda l’e-governance e una società veramente digitalizzata, offrendoci competitività in un mondo globalizzato in continua crescita.»

Prima l’Estonia, poi le Isole Fær Øer, quale nazione sarà la prossima ad effettuare un vero e proprio shift digitale?




Innamorarsi in VR

Da quando la realtà virtuale ha iniziato a fare capolino sul mercato, in molti si sono chiesti a quali campi si potesse adattare e in quali modi: subito si è pensato di rendere ancora più interattive delle esperienze di gioco già esistenti (come è successo con Fallout 4 , Doom e tanti altri) o di crearne di nuove fatte apposta per dimostrare quanto dei dispositivi del genere possano essere immersivi nella loro semplicità (vedi Job Simulator), oppure ancora dei veri e propri “viaggi virtuali” che portano chi ha l’headset addosso in posti lontani, dalle grandi metropoli ai più importanti monumenti storici fino ai luoghi più esotici e sperduti altrimenti irraggiungibili. Alcuni tra i più furbetti hanno pensato di sfruttare la VR per scopi più “hot” portando la pornografia a un livello più alto, creando giochi a puro tema sessuale dove l’utente si trova effettivamente nel mezzo dell’azione: qui il Giappone fa dà padrone al genere eroge con i suoi Custom Maid 3D e Honey Select. Ma, se invece di concentrarsi sul lato più carnale di una relazione (o presunta tale), ci si spostasse su quello più romantico?
Esistono infatti già dei progetti il cui scopo principale è quello di incontrare la nostra presunta anima gemella (che sia reale o meno), conoscersi, frequentarsi e diventare effettivamente una coppia.
Un primo esempio è Virtually Dating, che non è un videogioco, bensì una serie di episodi dove due perfetti sconosciuti, una volta scannerizzati e con un HTC Vive addosso, si incontrano all’interno di un mondo totalmente virtuale, nonostante si trovino effettivamente l’uno davanti all’altra. In poche parole un appuntamento al buio in computer grafica.

Sposare la vostra waifu è sempre stato il vostro sogno? Probabilmente non vorreste arrivare a compiere un tale passo, ma ancora una volta il Giappone ci sorprende con Niitzuma LovelyxCation, dove si potrà effettivamente frequentare fino a convolare a nozze con una dei tre personaggi proposti. E non si parla solo di matrimonio in-game, ma anche di quello vero, in una chiesa vera, attraverso una cerimonia a tutti gli effetti.

Un’esperienza più “normale” può essere invece offerta da VR Kanojo, dove il giocatore deve dare delle lezioni di recupero a una ragazza, lezioni che prima o poi sfoceranno in altro. Vi ricorda un certo Summer Lesson che ha falsamente promesso lo stesso tipo di contenuti?

Ma la domanda principale è: ci si può effettivamente innamorare grazie a un videogioco in realtà virtuale? La risposta al momento è ““.
Fall In Love è uno di quei titoli che in un qualche modo ci prova, avendo come scopo principale quello di incoraggiare un’autentica conversazione e suscitare all’interno di chi gioca una connessione emotiva con il suo interlocutore, per quanto fittizio. Il gioco si ispira inoltre alle note “36 domande per innamorarsi“, grazie alle quali, secondo l’ideatore, lo psicologo Arthur Aron, due perfetti sconosciuti possono entrare in intimità in pochissimo tempo.
La realtà virtuale è piena di potenzialità e ha sicuramente stravolto il modo di giocare di molti, ma è davvero possibile coinvolgere a tal punto i sentimenti nella tecnologia? Per quanto immersiva e coinvolgente, l’esperienza nella VR potrà mai essere comparata all’essere davvero davanti a qualcuno e conoscerlo di persona? Tra l’altro, esistono moltissimi modi per trovare qualcuno con cui avere una storia tra chat room e siti di incontri, questo potrà davvero essere un valore aggiunto?




Il fenomeno Doki Doki Literature Club!

Quasi tre milioni di copie vendute in meno di sei mesi, tantissimi youtuber (italiani e non) l’hanno portato sul loro canale ottenendo tantissime visualizzazioni, la fanbase è già grandissima e da tempo circolano teorie e speculazioni sulla trama. È l’ennesimo gioco tripla A che tutti aspettavano da anni? Tutt’altro, stiamo parlando di un indie prodotto da sole tre persone, e probabilmente sia loro che il prodotto non hanno bisogno di molte presentazioni.
Per chiunque sia estraneo a tutto questo, Doki Doki Literature Club! è una visual novel con elementi di dating sim prodotta dal Team Salvato, uscita nell’autunno del 2017 su Steam, disponibile su Linux, Windows e macOS, ed è anche free to play. Durante l’anno appena passato ha inoltre vinto diversi premi agli IGN Best of 2017 Awards, ovvero Miglior storiaGioco più innovativoMiglior gioco di avventura.
La trama è molto semplice e non sembra essere molto diversa da moltissimi altri titoli dello stesso genere ambientati in Giappone: il nostro protagonista è un normale studente del liceo che, convinto dalla sua amica e compagna di scuola Sayori (classica liceale impacciata ma tenera), entra in un club di letteratura che comprende altre tre ragazze oltre lei: Natsuki, la ragazza timida e impulsiva amante dei manga, Yuri, intelligente ma appartata e Monika, la fondatrice del club, sempre solare e sorridente, molto sicura di sé. All’interno del club, l’attività principale è quella di leggere i testi scritti dai vari membri e commentarli, ed è proprio scrivendo che si attirerà l’attenzione di una ragazza in particolare, a discrezione del giocatore e a seconda delle parole scelte durante un minigioco, finché la suddetta ragazza non inizierà ad avvicinarsi e a stringere un rapporto più serio. Ma dietro quella grafica tenera e colorata si nasconde un’esperienza di gioco tutt’altro che tranquilla e romantica: l’avviso che sconsiglia il titolo a persone che soffrono d’ansia o di cuore, che appare sia prima che dopo l’acquisto, non avrebbe motivo di esistere altrimenti.
Dopo una prima parte dove si familiarizza con le meccaniche e con i personaggi, tutto inizierà a prendere una piega strana, per poi scendere sull’inquietante e raccapricciante, fino a quando non si entra nel vero e proprio horror psicologico dove verranno scosse le basi del gioco stesso, e forse è proprio questo crescendo di paura e distorsione che ha portato così tante persone ad acquistarlo. La mescolanza di generi apparentemente così distanti e la quasi totale distruzione dei canoni delle visual novel ha portato DDLC a superare persino i numeri di Mystic Messenger durante il suo primo anno di vita.
Una delle principali differenze tra Doki Doki Literature Club! e le visual novel più amate è la durata: Clannad per esempio conta più di 50 ore per giocare tutte le route, mentre per Doki Doki ne bastano solo 7 per completarlo al 100%. Altro fattore, sempre relativo al tempo, è l’approfondimento dei personaggi, poiché avendo una durata ridotta si avranno molte meno occasioni per conoscere i membri del club e scegliere il proprio preferito. Poi, ovviamente, c’è la componente horror, che nonostante si inserisca in modo graduale arriva comunque al giocatore come un fulmine a ciel sereno; e per quanto esistano delle visual novel horror come la serie di  Danganronpa, il fattore “paura/ansia”  viene mostrato in modo diverso, meno diretto all’inizio e in maniera quasi esagerata alla fine.
Lo stesso Dan Salvato non si aspettava un feedback così positivo, per quanto il suo obbiettivo fosse quello di unire più categorie proprio per far conoscere le visual novel ad un pubblico più ampio.
Per avere una visuale quanto più completa del titolo (spoiler e teorie comprese) consiglio il video di Parliamo di videogiochi che segue.




Un’ora di videogame al giorno ci rende davvero più intelligenti?

Siete stanchi di sentir dire dai vostri familiari o amici che i videogiochi fanno male? Oggi abbiamo l’ennesima prova a dimostrazione che uno dei nostri hobby preferiti è tutt’altro che dannoso per la mente, se esercitato nelle giuste quantità. Uno studio condotto da un’università cinese (University of Electronic Science and Technology of China) avrebbe dimostrato che alcuni giocatori, giocando a League of Legends per un’ora, hanno leggermente sviluppato alcune delle loro attività cerebrali, fra cui una maggior concentrazione sulle informazioni più importanti evitando le distrazioni.
Nello specifico, l’esperimento è stato svolto con l’ausilio di 29 studenti: una parte di loro aveva almeno due anni di esperienze videoludiche nel genere action alle spalle, un’altra meno di sei mesi.
L’attenzione visiva selettiva  delle “cavie” (l’abilità di focalizzarsi solo sulle informazioni cruciali ignorando il resto, citata prima) è stata valutata prima e dopo le sessioni di gioco, attraverso un test: su diverse parti dello schermo di un computer apparivano dei quadrati, uno sempre al centro, un altro in un qualsiasi altro punto; l’obbiettivo era capire dove sarebbe apparso il successivo basandosi sulla posizione del secondo quadrato.
Concentrarsi in questo modo sfrutta molto le potenzialità del cervello e ciò porta gli scienziati a credere che chi è bravo a ragionare selezionando ciò che è più importante distinguendolo da ciò che lo è meno faccia un uso più efficiente delle proprie funzioni cerebrali.
Durante il test, l’attività cerebrale dei giocatori è stata monitorata attraverso un elettroencefalogramma. Prima che iniziassero a giocare, la macchina aveva registrato un’attenzione visiva selettiva più alta negli “esperti” che nei “principianti”, oltre a un’attività generale maggiore.
Dopo la sessione di gioco, non solo entrambi i gruppi avevano registrato un’attenzione più alta rispetto a prima, con punteggi molto simili, ma anche il livello di attenzione dei non esperti era aumentato, risultando incredibilmente vicino a quello dei veterani.

Nonostante i risultati, sono necessari più studi per sapere quanto questo effetto possa durare.

Delle analisi condotte in precedenza hanno dimostrato che anche giochi come Halo o Call of Duty possono migliorare l’attenzione visiva.
Una ricerca condotta nel 2010, per esempio, indica che giocare ai videogiochi può migliorare la concentrazione nell’addestramento militare e nell’istruzione. Lo stesso Bjorn Hubert-Wallander, l’uomo a capo di questa ricerca, ha detto che:

 «L’attenzione visiva è fondamentale per prevenire un sovraccarico di sensazioni, visto che il cervello è costantemente soggetto a una quantità travolgente di informazioni visive. È un’abilità che è particolarmente enfatizzata durante attività visivamente impegnative come guidare un’auto o cercare un amico in mezzo alla folla, dunque non è sorprendente che gli scienziati siano stati interessati a lungo a come modificare, estendere e migliorare le diverse sfaccettature dell’attenzione visiva» 

Dunque non preoccupatevi più se ogni tanto vi concedete un po’ di tempo col vostro titolo preferito su pc o console: se non esagerate, può solo farvi bene.