I migliori videogame in co-op locale

Negli ultimi anni abbiamo vissuto una grandissima evoluzione del multiplayer, sempre più proiettato verso una dimensione competitiva e globalmente interconnessa, soprattutto con il crescere delle potenzialità delle nostre reti domestiche.
Passando da barattoli collegati con lo spago alla più moderna fibra ottica, sembra però venuto meno il senso di “unione fra giocatori” che in passato si percepiva attorno a un nuovo videogame, quasi come se questa caratteristica fosse rimasta d’esclusivo appannaggio dei boardgame (che, diciamocelo, grazie al cielo stanno vivendo un ottimo momento).
Se la natura stessa delle console mitiga in parte questo fenomeno di distacco (con la bandiera dei party game tenuta alta da Nintendo Switch e da Sony Playlink), chi ha scelto il computer come piattaforma di gioco non può (apparentemente) vantarsi di un catalogo titoli degno di nota.
Cosa fare? Privarsi di invitare un amico oppure il partner per una sessione di gioco? L’idea ci rende assai tristi. I titoli da giocare ci sono eccome: sono stati semplicemente oscurati da un mercato dalle esigenze assai differenti; ed è proprio per questo motivo che abbiamo creato questa Top 5.

I titoli presi in esame non sono posti sotto forma di classifica (reputiamo delle bellissime esperienze ludiche “di coppia” anche i giochi inseriti nelle “Menzioni d’onore”, in fondo a questo articolo), quindi considerate quelli selezionati come dei “campioni” nel loro genere di appartenenza.
Non parleremo di grafica e gameplay come in una normale recensione ma ci concentreremo in relazione alla loro componente cooperativa locale, utilizzando come criteri di valutazione: quanta importanza gli sviluppatori hanno dato al multigiocatore rispetto al singolo, quanto la complementarietà dei giocatori sia fondamentale e (ultimo ma più importante) quanto è appagante l’esperienza nel complessivo.
Siete pronti? Si parte!

Salt&Sanctuary

Voto: 8

Per metà souls-like e per metà metroidvania, il gioco di Ska Studios nasconde a prima vista la possibilità della coop locale. Per attivare il secondo giocatore, infatti, bisognerà per prima cosa creare due personaggi dal menù principale. Avviata la partita si potrà “convocare” il compagno soltanto dopo aver portato una specifica statuetta sino a uno dei santuari (che funzionano da zone di “riposo”, come succede con i falò dei vari Dark Souls). Queste statuette non saranno illimitate, quindi consigliamo vivamente di gestirle in maniera parsimoniosa, anche se, una volta convocato il secondo giocatore, questi rimarrà in partita fino alla fine della sessione pur fungendo da spettatore nella storia dell’host (potrà quindi sfruttare vendor e aiutare il primo giocatore, ma non potrà effettuare scelte relative alla trama).
Non lasciatevi però scoraggiare da questa meccanica forse esageratamente punitiva e fine a se stessa, il gioco regala un’esperienza completa e appagante. Potrete plasmare personaggi diversi a seconda del vostro modo di giocare, creando combo devastanti o finendo rovinosamente annientati. Dipende tutto da voi. L’unica certezza? Salt&Sanctuary è una piccola grande perla, da vivere in compagnia.

Gauntlet

Voto: 7

Remake del famosissimo Coin-op di Atari (classe 1985), Gauntlet ci fionda in un classico e stereotipato dungeon crawler con visuale isometrica di matrice fantasy. Quattro il numero massimo di giocatori reclutabili sia in rete che in locale.
Cosa lo rende speciale? Il fattore “ipocrisia”.
Gli eroi, infatti, saranno chiamati a collaborare per raggiungere la fine dei vari livelli (a volte persino sfuggendo letteralmente alla morte, falce alla mano), ma solo uno di loro vincerà il premio di “eroe più avido”, dopo aver raccolto un maggior numero di tesori o saccheggiato il vostro cadavere agonizzante.
Le classi a disposizione obbligano ad approcci diametralmente opposti ma, indipendentemente dal fatto che siate maghi, guerrieri, valchirie o elfi, l’agonismo instillato dalla corsa all’oro vi farà dimenticare parecchie amicizie.

Cuphead

Voto: 9

Shoot’em up dal carattere hardcore, con un design grafico straordinario che si rifà ai cartoni animati anni ’30, Cuphead si è dimostrato un successo su tutta la linea fin dalla sua uscita.
Focalizzato su boss fight serratissime, l’esclusiva Microsoft mette in evidenza la sua vocazione cooperativa sin dal video iniziale, in cui verremo a conoscenza dell’antefatto che catapulterà la tazzina Cuphead e il suo fratello Mugman in un mare di guai.
Le feature che gli sviluppatori hanno aggiunto al multigiocatore rispetto al singolo sono la possibilità di salvare in extremis il compagno caduto (dando un “cinque” alla sua anima in dipartita) e di cedergli una vita, quando se ne posseggono almeno due. Inoltre, la difficoltà (ben) calibrata per due giocatori, si ristabilisce nello standard singleplayer nel caso uno dei due dovesse passare a miglior vita.
Le hanno proprio pensate tutte? Sì! Cuphead è un gioco con tutti i pezzi al posto giusto. Un capolavoro senza tempo.

Trine Trilogy

Voto: 7

Puzzle-platform bidimensionale (con sfondi 3D) di stampo fantasy, Trine fa della fisica il suo punto di forza, affidando al motore Physx (di casa Nvidia) la gestione (egregia) degli enigmi ambientali che dovremo affrontare per raggiungere l’end game.
I personaggi intercambiabili (mago, guerriero e ladra) sono ben diversificati, ma non così tanto complementari: si potrà difatti portare a termine l’intero gioco anche con un solo eroe.
Se considerate una longevità non elevatissima (ma comunque crescente, insieme alla qualità generale, nei tre titoli), la cooperazione diventa l’unica maniera effettiva per godere a pieno di un titolo che in realtà offre molta più “magia” di quella che si possa pensare. E se l’esperienza del gioco base non vi sembra abbastanza, potrete contare nell’ottimo supporto di Steam Workshop e nell’editor di livelli presente all’interno del gioco.

Overcooked: Gourmet Edition

Voto: 8

Salvare l’Onion Kingdom da una bestia fatta di spaghetti al sugo con le polpette, andando a ritroso nel tempo e girando le location più improbabili (da galeoni pirata a navi spaziali), cucinando zuppe, hamburger, fish&chips e altro ancora. Ogni livello di Overcooked è una sfida diversa; un’imprevedibile corsa contro il tempo tra ostacoli ambientali e ricette via via più complesse e creative.
Cooperazione, coordinazione, organizzazione e nervi saldi sono le doti fondamentali per portare a termine le varie comande, tagliando, cucinando e servendo (stando attenti a non bruciare nulla e senza dimenticare di lavare i piatti).
Se a parole sembra semplice, nei fatti il gioco si presenta solido nelle meccaniche, immediato e divertente come poche altre cose al mondo.
Cuochi solitari, defilatevi. Il gioco è un multiplayer locale duro e puro; offre anche una modalità competitiva e la possibilità di condividere un joypad nel caso siate a corto di periferiche e si presentino alla porta nuovi amici (quattro il numero massimo di giocatori).
Non abbiamo dubbi e lo consigliamo senza remore: Overcooked vi conquisterà dal primo piatto.

Menzioni d’onore:

Magicka / Guacamelee / Hyper Light Drifter / Rayman Origins / Helldivers / Worms WMD / Lego Series / Lara Croft And The Temple Of Osiris / Castle Crushers

Se ancora non siete stanchi di andare in tandem, vi invitiamo a dare un’occhiata ad A Way Out, titolo dei creatori di Brothers: A Tale Of Two Sons, che uscirà il prossimo 23 marzo su PC, PS4 e Xbox One.
Non lo nascondiamo neppure: è il titolo che più ci ha coinvolti allo scorso E3.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello




Dark Souls e la cultura del contesto

Se avete giocato almeno una volta a Dark Souls, fiore all’occhiello della nipponica From Software, sarete sicuramente scesi a patti (come del resto accade con le Fazioni all’interno del gioco) con la sua controversa e dibattuta “non narrazione” o lore (della quale trovate una disamina in questo corposo speciale) che di fatto costituisce una grossa fetta di quella fortuna che lo ha reso capostipite di un vero e proprio sottogenere di giochi di ruolo, quello dei soulslike.
Oltre che a reinterpretare la difficoltà dei tempi passati con un gameplay tanto punitivo quanto gratificante, Dark Souls fa della libera interpretazione il più grande punto di forza, perché è proprio attraverso le speculazioni che la community arricchisce l’esperienza di gioco, donandogli una linfa vitale che si rinnova a ogni discussione.
È però il gioco stesso a richiedere cooperazione da parte del suo interlocutore (inteso come “giocatore”) e su questa impernia il suo significato più profondo. Tutto ciò, in maniera consapevole o meno, può essere relazionato alla cultura d’origine dell’opera ed è quello su cui ci concentreremo qui di seguito.

Analizzandone il linguaggio, possiamo considerare quella nipponica come una High Context Culture (HCC), ovvero quel tipo di cultura basata più sul senso complessivo di una frase che sul significato della singola parola che la compone. Nella lingua giapponese non esiste differenziazione tra maschile e femminile, singolare e plurale; inoltre, i verbi sono coniugati in maniera uguale per tutte le persone ed esistono soltanto due tempi verbali: il “passato” e il “non passato”, il quale racchiude in sé presente e futuro. Tutto ciò evidenzia come il sistema linguistico valorizzi il contesto come chiave di lettura per la comprensione. Tornando a Dark Souls, riuscite a immaginare quanto la lingua di partenza possa creare un allontanamento dalla nostra attuale capacità di interpretazione? Se avete provato un forte senso di alienazione giocando, sì; e se ne siete stati affascinati al punto da sentire il bisogno fisiologico di approfondire, be’, gioite, siete i giocatori perfetti per Dark Souls.
L’appartenenza a una HCC coinvolge in maniera incisiva, oltre che la lingua, anche la sfera personale, influenzando le tradizioni, il linguaggio non verbale e la stessa percezione del tempo. Generalmente, infatti, gli occidentali tendono a vedere il tempo proiettato verso il futuro, in maniera lineare, mentre nella cultura orientale la ciclicità sta alla base di tutto. Chiusa una stagione se ne aprirà una nuova, come in cerchio, esattamente come avviene per le varie ere che compongono la (apparentemente) distorta linea temporale dei vari Souls.
Tornando al linguaggio in relazione alla HCC, i gesti rappresentano, nel gioco di Miyazaki, l’unico strumento di comunicazione tra i giocatori, che interfacciandosi sono riusciti in senso lato a coniare parole nuove e locuzioni, riutilizzate usualmente all’interno della community («Loda il Sole» vi dice qualcosa?); inoltre, si è venuta a creare una forma autentica di galateo (inchinarsi dinnanzi a un nuovo giocatore, soprattutto se ostile, rappresenta sempre il primo passo per ottenere un “leale scambio di opinioni”). Tutto ciò rispecchia in pieno l’idea di tradizione di origine, pur rappresentando di fatto un’innovazione all’interno del mondo del gaming.

Ma Dark Souls è unico nel suo genere?
Solo in parte, perché sono tantissimi i giochi che richiedono una cooperazione simile da parte dell’interlocutore-giocatore. Basti pensare ai giochi del Team Ico, come The Last Guardian e Shadow Of The Colossus (tornato da poco sugli scaffali in veste rimodernata) o più semplicemente all’idraulico più famoso di tutti i tempi: Super Mario.
Quindi tutti i giochi provenienti da una HCC necessitano di interpretazione?
Come in ogni opera (dal cinema alla musica), pensare al contesto sociopolitico e culturale di partenza aiuta a comprendere più a fondo i significati più o meno espliciti, ma la risposta, anche in questo caso, è un parzialissimo “no”. Le eccezioni sono tante in numero proporzionale a quanti sono i giochi appartenenti alla regola. La saga di Resident Evil, ad esempio, meriterebbe un’analisi approfondita, ma in linea di massima riesce bene nell’intento di raccontarsi, probabilmente perché nel tempo ha subito una più profonda influenza da parte del mondo occidentale.

Viviamo in un melting pot di culture, e in questa sede è impossibile non citare giochi non narrati e ad alto contesto di provenienza europea, come lo struggente quanto nostrano Last Day of June, sviluppato da Ovosonico; Inside dei danesi Playdead (dei quali si potrebbe citare anche Limbo); infine anche Little Nightmares degli svedesi Tarsier Studios, come gli stessi Souls distribuiti da Bandai Namco.
Va da sé che questa è solo la punta dell’iceberg: a ragion veduta si potrebbero analizzare miriadi di realtà differenti, soprattutto in un momento così florido per il mercato degli indie game, che spesso fanno del linguaggio visivo una forma d’arte. Puntualizzato che questo articolo voleva soltanto fornire degli spunti di riflessione, rimaniamo al vostro fianco in attesa dell’uscita di Dark Souls Remastered, il 25 maggio su PC, Playstation 4, Xbox One e Switch.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello