GameCompass – I motoristici (02×08)

La nuova puntata di GameCompass è dedicata ai motoristici, da GT Sport a Forza Motorsport 7 passando per Project Cars 2 e tanti altri! In studio Gero Micciché, Vincenzo Zambuto e Marcello Ribuffo!




South Park: Phone Destroyer sarà rilasciato a breve

Ubisoft ha da poco annunciato la release del suo prossimo gioco mobile free-to-play, South Park: Phone Destroyer. Il titolo è sviluppato da RedLynx e South Park Digital Studios e la data del rilascio è fissata per il 9 novembre per dispositivi iOS e Android.
Si tratta di un gioco di strategia con battaglie in real-time che unisce a scontri mozzafiato anche una componente da trading card game. Il titolo permetterà la personalizzazione dei personaggi e la loro crescita all’interno del gioco nonché l’espansione del proprio mazzo con caratteri e abilità. Secondo lo stesso publisher:

«Con più di 80 carte uniche, South Park: Phone Destroyer include una divertente campagna per giocatori singoli con 60 livelli di dialogo basati sulla storia, completati per aggiornare il mazzo, raccogliere nuove carte, sbarazzarsi del bottino e sbloccare nuove sfide!»

Inoltre, South Park: Phone Destroyer dispone di battaglie multiplayer online contro altri giocatori. Il gioco sarà disponibile dal prossimo 9 novembre.




L’impatto dei calcistici sul calcio reale

Ottenere un realismo sempre maggiore in una simulazione sportiva è uno dei pallini degli sviluppatori di videogame sin dagli albori: ogni anno i risultati sono sempre migliori nei vari generi e discipline, e il gioco del calcio è uno degli sport nel quale sono stati certamente raggiunti traguardi ragguardevoli.
Serie come Fifa e Pro Evolution Soccer sono ormai le più consolidate: da più di due decenni Electronic Arts e Konami si contendono il titolo di miglior calcistico dell’anno, lasciando a Football Manager spesso il titolo di miglior gestionale.
La serie FIFA ha venduto più di 150 milioni di copie in tutto il mondo, risultando a oggi il più vasto franchise videoludico di genere sportivo della storia, e superando il diretto concorrente giapponese, le cui vendite si attestano comunque attorno al centinaio di milioni, stando ai dati più recenti: il manageriale di Addictive Games è invece uno dei più venduti su piattaforma PC.

Ma non sono soltanto i giocatori e gli appassionati di calcio a decretare il successo dei calcistici: Zlatan Ibrahimovic ha dichiarato che, a inizio carriera, era capace di giocare a certi titoli anche per 10 ore di fila e di aver spesso individuato su console soluzioni che ha poi applicato sul campo, metodo che, secondo il difensore tedesco Mats Hummels, applicherebbero anche altri colleghi. L’allenatore Alex Wenger definisce “giocatore da Playstation” lo stesso Leo Messi, il quale è anche un utente della piattaforma Sony, come testimonia l’ex compagno di squadra Victor Vázquez che nelle giovanili lo vedeva giocare per almeno tre ore di fila, nelle pause. Non si potrà dar torto allora ad Andrea Pirlo quando afferma che «dopo la ruota, la PlayStation è la migliore invenzione di tutti i tempi», arrivando a sintetizzare in positivo con il nome della console Sony il modo di impostare e vedere il calcio di Josep Guardiola nella sua carriera di allenatore.
Un fan dei gestionali pare essere invece il centrocampista francese Paul Pogba, avvistato ad allenare il Chelsea in Football Manager durante la Coppa del Mondo 2014.

Ma questo forte impatto dei videogame nel calcio non si ferma ai soli giocatori, anzi, un’influenza significativa si registra proprio fuori dal campo. Società come Opta, azienda leader mondiale nella raccolta ed elaborazione in diretta di dati sportivi, hanno dovuto la loro crescita anche al successo di titoli come Football Manager, che dei dati in ambito calcistico ha fatto la spina dorsale del gioco, e la cui popolarità è cresciuta in parallelo al sempre maggior uso dei numeri nel calcio. Le stesse società hanno negli anni formato analisti e scout di dati che sono passati poi a lavorare per importanti squadre di calcio, e società di analisi come ProZone hanno cominciato addirittura a combinare i propri dati con quelli di Football Manager per i propri programmi di scouting.
Ovviamente l’impatto non poteva non estendersi anche al pubblico del calcio giocato: Pro Evolution Soccer ha contribuito ad aumentare il numero degli appassionati di questo sport in Giappone mentre la serie Fifa ha fatto proseliti con un impatto positivo sul soccer americano, portando in parallelo la crescita del franchising con quella dello sport negli Stati Uniti. Da un sondaggio è emerso che gli americani che si definiscono tifosi di calcio sono cresciuti costantemente dal 2009 a oggi, soprattutto nella fascia tra i 12 e i 17 anni, periodo in cui è aumentata anche la popolarità di Fifa. L’aumento degli appassionati di calcio negli Stati Uniti è stato di ben il 35% soltanto dal 2010 al 2012, raggiungendo i 2,6 milioni di persone. Oltre un terzo degli utenti che hanno acquistato Fifa si è appassionata al calcio dopo aver giocato alla sua trasposizione videoludica e a giovarne è stato anche lo sport in Tv che, secondo una ricerca Nielsen, ha visto accrescere da 5 a 12 il numero di canali USA che mandano in onda partite di calcio e ha portato i fan statunitensi della Premier League a circa 30 milioni.

Se in Germania si sperimenta già da qualche anno Helix, simulatore nel quale i calciatori sono sottoposti a un trainer cognitivo di stampo videoludico per svilupparne le “funzioni decisionali”, significa che il rapporto tra calcio e videogame e destinato a durare, e chissà che non diventi sempre più rilevante.




Detroit: Become Human

David Cage sta per tornare. Non si conosce ancora la data di rilascio del nuovo lavoro di Quantic Dream ma a Parigi abbiamo avuto di avere un periodo orientativo: primavera 2018. La versione demo di Detroit: Become Human gira ad ogni modo per varie fiere del settore, e farsi scappare l’occasione di giocarla sarebbe stato davvero da incoscienti.

La demo mette a disposizione una singola missione, Hostage, della durata di poco più di 10 minuti. Il personaggio di cui abbiamo il controllo è Connor (interpretato da Jesse Williams), un androide specializzato in mediazioni inviato in un appartamento dove ha avuto luogo il massacro di una famiglia e quel che rimane da fare è salvare una ragazzina, unico membro scampato al pluriomicidio e adesso tenuto in ostaggio dall’assassino. Capiamo ben presto che il probabile motivo per cui Connor è stato inviato è molto semplice: chi tiene in ostaggio la ragazzina è un altro androide.
Fin dall’ingresso nella casa sarà possibile esplorare gli ambienti e familiarizzare con i controlli di base, soprattutto su ciò che riguarda l’acquisizione di informazioni semplici che potranno tornare utili nella trattativa.
All’interno dell’appartamento capiamo un’altra cosa: l’atteggiamento della polizia nei confronti degli androidi non è benevolo, né tantomeno di collaborazione e fiducia. Toccherà a Connor ricostruire l’intera scena del delitto con le sue sole capacità, iniziando però col parlare col capo delle operazioni. I dialoghi si basano su un sistema che prevede quattro scelte multiple (fra domande e risposte) fra le quali scegliere in un tempo limitato.

Il resto delle informazioni dovremo raccoglierle nel resto dell’appartamento, analizzando gli oggetti ma soprattutto soffermandoci sulle vittime: qui la visuale passa dalla terza all prima persona e torna qualche meccanismo classico di casa Quantic Dream: soffermandoci sulle ferite presenti sui corpi e, muovendo gli stick analogici, sarà possibile “unire i punti” e ricostruire l’intera dinamica di ogni omicidio, acquisendo nel frattempo altre preziose informazioni. Maggiori saranno i dati acquisiti, più alta sarà la probabilità di successo nella trattativa, come ci segnalerà di volta in volta un indicatore sullo schermo dopo ogni interazione.
Del countdown non avremo contezza, verremo solo avvisati che non c’è più tempo e saremo costretti a iniziare le trattative: essere tempestivi nelle indagini sarà importantissimo.
Il rapitore si trova al bordo del terrazzo, tiene in braccio la ragazzina puntandole contro una pistola. Starà a noi scegliere la migliore strategie tramite le risposte che selezioneremo, le cui combinazioni porteranno a esiti diversi: potremo puntare sull’empatia fra androidi, mostrarci cinici e razionali o addirittura minacciosi. In base alle informazioni acquisite, avremo a disposizione alcune frasi che potrebbero rivelarsi carte importanti da giocare e che porteranno a diversi finali. Tornano in questa fase anche i classici quick-time event a cui la casa transalpina ci ha abituati nei precedenti titoli, dunque anche qui bisognerà tenersi pronti a rispondere ai comandi.

Quel che resta di questa demo è un insieme di impressioni che potrebbero dar adito a speculazioni di vario genere. Quel che pare indiscutibile è il comparto tecnico dell’opera: se nei vari video rilasciati negli ultimi due anni abbiamo potuto saggiare un aspetto grafico di riguardo, dove le animazioni facciali si fanno sempre più accurate, gli scenari più ricchi di dettagli, e dove la tendenza al fotorealismo si fa davvero concreta, rendendo i personaggi mimetici rispetto agli attori che li impersonano, adesso abbiamo anche potuto testare il sistema di controlli che, fin da questa demo, pare rispondere benissimo, garantendo fluidità al titolo nel direzionamento del personaggio fra i vari ambienti, nella fase di esame di oggetti e situazioni e nella ricostruzione delle dinamiche partendo dai singoli dati.
L’engine proprietario di Quantic Dream sembra insomma lavorare bene, delineando una netta crescita qualitativa di titolo in titolo, qui impreziosita da un art-style che riprende rispettosamente i canoni della cinematografia sci-fi, trasportandoci in una megalopoli futuristica e caotica che richiama i grandi classici del genere.
Quel che ovviamente resta ancora da capire è cosa ne verrà fuori: la società di David Cage mostra ancora il suo forte interesse per la narrazione e per lo sviluppo di storie in cui le scelte del giocatore si rivelino il core dell’esperienza videoludica. Plot, dialoghi e azione sembrano finora ben bilanciati, anche tenendo presente il video mostrato all’E3, che mostra un altro pezzo di storia.
Quantic Dream si confronta questa volta con una serie di cliché di genere fantascientifico, che apre le porte a varie domande: quale futuro per l’intelligenza artificiale? Se lo sviluppo tecnologico porterà alla creazione di esseri senzienti, dotati di quella che potremmo chiamare coscienza, come gli umani si rapporteranno agli androidi? E, se questi saranno una realtà, gli riconosceremo un’anima?
Temi antichi, a cui hanno dato risposte decani della fantascienza letteraria come Philip K. Dick, Isaac Asimov e John W. Campbell, per citarne alcuni, ma non solo loro, diranno gli amanti di Ghost in The Shell e Terminator (e qui fermiamo immediatamente il flusso citazionistico, perché la lista sarebbe lunghissima). Ma sono argomenti al contempo attualissimi e ancora affrontabili senza cadere nel banale, come ci dimostra l’ultimo Blade Runner 2049 (non perché speculi in maniera approfondita su questa tematica, ma perché il risultato finale sul piano narrativo e visivo è di riguardo).

David Cage si ritrova dunque tra le mani una patata bollente, e dovrà maneggiarla con cura: il fatto che siano temi enormemente visti e sentiti non significa che Detroit: Become Human sia condannato a perpetuare cliché all’interno della storia cadendo nella banalità di genere; al contempo, sarà importante calibrare le scelte narrative, ricordando che un gioco per molti versi straordinario come Farhenheit, che rimane a oggi un eccellente prodotto sul piano della regia e della giocabilità, inciampa inesorabilmente in fase di scrittura, prendendo una piega quasi grottesca nell’ultima parte a causa di scelte posticce, probabilmente operate proprio per rifuggire la banalità, che si sono rivelate un boomerang.
Ad ogni modo, ogni lavoro di Quantic Dream merita certamente attenzione, per un approccio alle storie mai superficiale e in grado di fornire ampia capacità di scelta al giocatore, elementi che, uniti a un cast che ogni volta coinvolge attori di buon rango, ci inducono ad attendere con gran curiosità un titolo che, a un primo assaggio, ha tutto il potenziale per diventare un’opera da ricordare.




GameCompass – I Calcistici (02×07)

Ogni anno gli appassionati di tutto il mondo attendono con ansia l’uscita della nuova edizione di FIFA e PES: al solito, è scattata la competizione fra quale sia il migliore, e i nostri Gero Micciché, Vincenzo Zambuto e Marcello Ribuffo ne hanno parlato in questa puntata dedicata al gioco più bello del mondo, decretando il vincitore tra FIFA 18 e PES 2018 e condendo il tutto con uno speciale sull’impatto del calcio virtuale sul calcio reale e l’immancabile top finale dove sono stati scelti i 5 migliori giochi calcistici di sempre.




Xbox One X

Call of Duty: World War II e Destiny 2 sfrutteranno il potenziale di Xbox One X

Call of Duty: World War II e Destiny 2 gireranno su Xbox One X in una versione migliorata .
TrueAchievements ha pubblicato una lista di giochi che godranno dei miglioramenti permessi da Xbox One X, e fra questo sono inclusi gli shooter di Activision e Bungie.
L’esatta fonte dell’annuncio è sconosciuta e Activision non si è pronunciata, ma certamente farà felici i fan Microsoft e i prossimi acquirenti della nuova ammiraglia Xbox.




GameCompass – Le Microtransazioni (02×06)

Con l’uscita di La Terra di Mezzo: L’Ombra della Guerra è tornato vivo il dibattito sulle microtransazioni: Gero Micciché, Simone Bruno e Daniele Spoto affrontano il tema in questa puntata nella quale hanno parlato anche con lo youtuber Luca Wright. Troverete la recensione di La Terra di Mezzo: L’Ombra della Guerra, e inoltre spazio ai dati del settore con uno speciale sulle microtransazioni e la classica top 5 con i migliori titoli con acquisti in-game!




Microtransazioni: quel che l’industry ha imparato dal mobile

Secondo il Global Games Market Report, le 25 più grosse aziende del settore videoludico hanno conseguito ricavi per 41,4 miliardi di dollari solo nella prima metà del 2017, registrando un incremento del 20% rispetto allo stesso periodo del 2016. Secondo stesso report stilato dalla società di ricerca Newzoo, il mercato mondiale dei videogame racimolerà quest’anno circa 109 miliardi di dollari totali, di cui 46,1 saranno imputabili al mercato mobile. Non a caso, l’azienda con i maggiori ricavi del settore è il colosso cinese Tencent, che nel trimestre aprile-giugno del 2017 ha registrato un aumento del 70% dei ricavi derivanti dai giochi su smartphone.

Ma come fanno i titoli sui nostri cellulari a generare introiti di questa portata? La ragioni sono molteplici: la praticità di poter giocare ovunque un titolo facilmente scaricabile da uno store e la maggiore potenza di calcolo degli odierni smartphone incentivano gli utenti all’acquisto, ma non è esattamente questo a far la differenza. I giochi di maggior successo sono infatti liberamente scaricabili e conseguono ingenti guadagni con i cosiddetti acquisti in-game: basti pensare che titoli come Arena of Valor, altrove meglio noto come Honor of Kings, che nel primo quadrimestre del 2017 avrebbe generato un flusso di denaro pari a 875 milioni di dollari, secondo la società di ricerca Quartz, e avrebbe fruttato a Tencent 150 milioni di dollari nel solo mese di giugno, per rendersi conto della portata del fenomeno. A numeri così grandi, corrisponde spesso un’ampia platea di utenti, e infatti il titolo conta 55 milioni di giocatori nella sola Cina, più di un quarto dell’intero globo, dove ne conterebbe circa 200 milioni, superando di gran lunga fenomeni del calibro di Pokémon GO.

Si penserà che sia un numero di utenti così alto a spendere in proporzione in modo da determinare ricavi così ampi. Ma i maggiori introiti di un gioco mobile sono invece de da un numero assai limitato di utenti.
Una ricerca SWRVE del 2014 sottolineava come la metà degli introiti di un gioco mobile con microtransazioni sia determinata da circa 10% degli utenti, i quali, secondo un’indagine Optimove, arriverebbero in certi casi a generare addirittura il 75% degli introiti di un social game. Ma il dato più interessante riguarda il fatto che il 30% dei ricavi totali sarebbe generato in particolare dall’1% degli utenti. Questi “high spender” vengono classificati con il nome di “Whale”, e sono coloro che portano i guadagni più interessanti a un titolo free to play. La loro individuazione cambia da società a società: il developer di social game 5th Planet Games, classifica come “Whale” gli utenti che spendono almeno 100 dollari al mese, mentre Facebook li individua a partire da 25 dollari al mese. Robert Winkler, Chief Executive di 5th Planet Games, aveva rivelato che il 40% del titolo Clash of the Dragons proveniva dal 2% di giocatori che erano arrivati a spendere più di 1000 $ al mese.

Anche fra gli utenti “Whale”, le modalità di acquisto cambiano da giocatore a giocare, ma veder spendere cifre da capogiro come quelle appena dette non è affatto la regola: DeltaDNA ha infatti tracciato nel 2015 un milione di “high spender” su mobile scoprendo che più della metà di essi non aveva mai effettuato un acquisto superiore ai 50 $.
È ovvio che le società del settore siano adesso molto attente a questi particolari giocatori, arrivando a classificare, oltre alle “Whale”,  altre tipologie di utenti target minori come Dolphin, Minnow e così via.
I metodi messi in atto per attrarli sono molteplici, e passano certamente attraverso le dinamiche e gli effetti dell’esperienza di gioco, quell’altalena fra frustrazione e appagamento che dirige il flusso del gameplay, e la creazione di una community attiva, che stimoli sentimenti di collaborazione, da un lato, e di competizione dall’altro, generando nell’utente il bisogno di acquistare per crescere all’interno del gioco.
Ovviamente è necessario distinguere i titoli che prevedono microtransazioni e la presenza di loot box come complemento del gioco da quelli meramente “pay to win“, dove acquistare diventa necessario ai fini di un avanzamento verso la vittoria.Quello degli acquisti in-game sembra comunque un piatto troppo ricco perché gli sviluppatori non ne siano interessati: la società di ricerca SuperData ha infatti stimato che 4 miliardi dei 7,8 previsti come ricavi del mercato digitale su console per il 2017 proverranno proprio da DLC e microtransazioni, più del 50% di quelli totali. Del resto, se si calcola che il popolare Overwatch ha conseguito finora ricavi su console per un totale di 61 miliardi solo tra pacchetti che comprendono mappe e outfit di personaggi, è comprensibile che gli sviluppatori vogliano seguire la tendenza.
Il mercato mobile, insomma, ha insegnato tanto, ma i grossi produttori di videogame su console e PC hanno già imparato benissimo.




Premiata la collezione di Zelda più grande al mondo

Il Guinness World Records ha mostrato un singolare record correlato ai videogame sulla propria home page mostrando la più grande collezione al mondo di memorabilia di The Legend of Zelda. La proprietaria della raccolta (e detentrice del primato) è la norvegese Anne Martha Harnes, che ha collezionato ben 1.816 singoli articoli basati sulla classica serie di Nintendo.
Il numero è impressionante, e nel video ci si può far un’idea di quanto mastodontica sia una simile collezione. La Harnes ha dichiarato che il suo capitolo preferito della serie di Zelda è Majora’s Mask e che l’elemento più prezioso della sua enorme collezione è la “Zoraxe“, chitarra fatta da ossa di pesce fabbricata dalla Jackson che riproduce la chitarra di Zora.




Mother!

Confesso di essermi recato al cinema un po’ prevenuto: da un lato il recente Noah non aveva offerto il meglio di Darren Aronofsky dal punto di vista narrativo; di Mother!, inoltre, si parlava come di un’opera dal forte carattere simbolico, e questo mi ricordava l’operazione di The Fountain, piena di buone idee e basata su ottime premesse, ma che metteva insieme un quadro non privo di falle che ne indeboliva il messaggio. I fischi di Venezia, infine, erano stati così clamorosi da farmi temere il peggio. Ma si tratta di Aronofsky, appunto, vedere Mother! è quasi un dovere culturale, lo stesso che si ha verso tutti i registi rilevanti del nostro tempo.
Ed ecco che allora mi ritrovo al cinema Anteo di Milano, locus amenus in cui è possibile godersi la versione in lingua originale, che anche in questo caso risulta particolarmente importante per valutare la recitazione degli attori.

Home Invasion

Fin dai primi minuti si intuisce che non sarà una passeggiata: l’oscurità che avvolge ogni cosa si dirada dando luce alle pareti, al mobilio, agli ambienti della casa in cui è interamente ambientato il film. Un’ombra minaccia lo stato di quiete di quel piccolo Eden abitato dai nostri protagonisti, ma non sappiamo ancora di cosa si tratti.
Capiamo ben presto che Javier Bardem è uno scrittore che sta attraversando un momento di crisi creativa, e che Jennifer Lawrence è la sua amorevole e devota compagna, pronta a servirlo e ad accontentarlo il più possibile pur di garantirne l’equilibrio umorale e di agevolare il ritorno della sua vena creativa. E per questo accetta senza batter ciglio che il marito voglia ospitare per la notte uno sconosciuto (impersonato da Ed Harris) che sbuca improvvisamente una sera in casa loro, al quale dal giorno dopo si unirà la moglie, una straordinaria e cinica Michelle Pfeiffer (qui probabilmente in una delle sue migliori prove attoriali).
È l’ingresso di un corpo estraneo, l’apertura di una falla che causerà un’irrimediabile emorragia: gli eventi precipitano, la gente in casa aumenta, dando vita a un home invasion di proporzioni colossali.

Parabole Bibliche

Il film è studiato per generare costante fastidio: vedere la Lawrence accettare impotente la noncuranza del compagno nei confronti della furia distruttrice della folla che a poco a poco invade la sua casa è irritante, e questa sensazione si acuisce con l’avanzare del film, in un climax di frame caotici ed eccessivi che rendono la visione un’esperienza davvero disturbante.
Il messaggio alla fine emerge davvero potente: e questo anche prescindendo dalla morale che Aronofsky ha inteso instillare. Per abitudine non leggo quasi nulla su un film, preferisco accogliere quel che il regista decide di rappresentare: nel caso di Mother!, avevo dato una mia interpretazione, più orientata a puntare il dito verso il narcisismo e il solipsismo dell’artista, talmente compreso nella propria vocazione creativa da distruggere e fagocitare indirettamente chi gli sta accanto, il tutto condito da evidenti parabole bibliche.

Dopo il settimo giorno

Dopo aver letto la spiegazione di Aronofsky, ritengo che la mia interpretazione rimanga comunque coerente, ma è meglio soffermarsi qui su quel che effettivamente intendeva rappresentare il regista.
Eviterò gli spoiler ma, chi abbia intenzione di vedere il film senza alcuna anticipazione e voglia provare a comprendere da sé, è meglio che salti questa parte.
Il film è un’allegoria del rapporto uomo-natura: la casa è un Eden, dicevo, rappresentazione di un Mondo in cui una Lawrence-Madre Natura (Mother, appunto) mette costantemente in ordine ogni cosa per regalare bellezza alla propria dimora. Bardem è chiaramente Dio, creatore, padre e soprattutto anima aperta a ogni essere vivente che bussi alla propria porta: un’apertura che, unita a un infinito narcisismo e al bisogno di essere adorato dalle folle, dà il via libera a un’umanità rappresentata in questo film peggio che in qualunque film bellico.
La simbologia e i riferimenti a certi passi della Bibbia (dalla Genesi ad Adamo ed Eva, qui rappresentati da Harris e Pfeiffer, passando per Caino e Abele fino al Diluvio Universale e al sacrificio del corpo di Cristo) sono invece palesi, come chiaro è l’attacco nei confronti di un’umanità vorace, sorda e inarrestabile, la cui violenza viene rappresentata in una straordinaria sequenza di 5 minuti convulsi e veementi che vanno dritti in faccia allo spettatore.

Maschere nude

Buona parte delle critiche sul film fanno sorridere: alcuni rimarcano una recitazione che risulterebbe artefatta, quando questa è invece per scelta smodatamente teatrale; non si è davanti a un’opera cinematografica ma a una rappresentazione da Teatro dell’Assurdo, e gli attori (straordinari, in verità) ne osservano rispettosamente i dettami in un film parossistico ed estremamente corporeo sul piano recitativo. Questo viene confermato dai titoli di coda, nei quali i personaggi non sono richiamati per nome, ma semplicemente come “Him”, “Mother”, “Man”, “Epicureus” e così via, rivelandoci un proscenio di maschere antiche in preda a un feroce baccanale.

Caotica palingenesi

Mother! di Aronofsky è un film pazzesco, girato con coraggio come un’opera teatrale, capace di coniugare Artaud e Buñuel in un simbolismo esasperato ma ferreo, in una critica feroce all’umanità, un attacco surrealista all’egotismo e al divismo dell’intera specie. Una bibbia moderna su pellicola (si fa per dire) che è compendio degli eccessi dell’intera storia umana, un film che mischia Roman Polanski (e non soltanto Rosemary’s Baby, ma soprattutto Repulsione Cul-de-sac) e le dinamiche più estreme degli home invasion in un’allegoria dalla straordinaria potenza visiva. Il richiamo più diretto è proprio Buñuel con il suo L’Angelo Sterminatore, ma qui siamo davanti a un’operazione molto più cruenta, in un’escalation di caos e violenza famelica in cui nessuno ha scampo, sino alla palingenesi finale.
La domanda che rimane dopo la visione di Mother! è: ma, a Venezia, cosa hanno visto?