GamePodcast #5 – Dai Pronostici sui Game Awards al disastro Google Stadia
Star Wars Jedi: Fallen Order – Il Lato Grigio della Forza
Manca poco alla conclusione della nuova trilogia di Star Wars ma in qualche modo il brand trova sempre nuovi sistemi per tenersi in vita. Basti pensare alla nuova serie Disney+ The Mandalorian, con protagonista Pedro Pascal o, in tema videoludico, al nuovo lavoro di Respawn Entertainment Jedi Fallen Order. In questo contesto, il brand del fu Guerre Stellari ha vissuto di alti e bassi, finendo nell’ultimo periodo in discussione tra titoli dimenticabili e progetti cancellati: Star Wars 1313 e il progetto di Visceral Games sono solo due degli esempi in tal senso ed è interessante come il lavoro capitanato da Stig Asmussen, sia riuscito a sopravvivere sino all’uscita. Electronic Arts ha creduto al progetto, che vanta probabilmente una delle peggiori presentazioni della storia all’E3 2018, in cui Vince Zampella (Co-fondatore dello studio) presentò il titolo semplicemente citandone il nome, e nient’altro. Ma Star Wars Jedi: Fallen Order è ora tra noi, tra mille sorprese e qualche perplessità che a mano a mano sviscereremo.
Nella notte più profonda…
Ambientato quindici anni dopo l’Ordine 66, che eliminò quasi totalmente i Jedi dalla Galassia per opera del nuovo Impero, il titolo Respawn ci catapulta in una storia che non brilla certo per scrittura ma comunque godibile, trovando spazio nell’intricato universo espanso. Cal Kestis è dunque il protagonista, un giovane con abilità Jedi (fortunatamente Disney non c’entra nulla) alla ricerca del proprio passato e del proprio destino. Seguirà dunque un’avventura sparsa tra diversi pianeti, braccati dall’onnipresente Impero Galattico e dall’Ordine degli Inquisitori, creato appositamente per estinguere ogni traccia del lato chiaro della Forza.
Il problema principale di Jedi Fallen Order sta essenzialmente nella prima ora e mezza di gioco in cui tutto, dalla narrazione a molti elementi di gameplay faticano a uscir fuori, dando l’impressione d’esser privo di qualsiasi mordente. Fortunatamente, con un po’ di pazienza, l’avventura di Cal Kestis comincia a prender forma, seguendo a grandi linee il percorso di un certo Luke Skywalker: capire se stessi e il proprio posto non solo è la chiave che farà maturare (e rendere più interessante) il protagonista ma getterà nuova luce sui Jedi superstiti e alla lotta serrata contro il Lato Oscuro. Se, dunque, Cal Kestis può vantare una discreta maturazione e carisma, altrettanto si può dire dei comprimari (forse più accattivanti) e del piccolo droide ormai amico dei bambini BD-1, mascotte non solo essenziale per la narrazione ma, come vedremo più avanti nel gameplay. Ovviamente anche i villain di turno trovano un certo spazio, a cominciare dalla Seconda Sorella degli Inquisitori e qualche sorpresa che i fan di Star Wars apprezzeranno sicuramente. Anche perché, diciamocelo, di fan service il titolo è pieno ma sempre utilizzato con criterio. Come la nuova trilogia cinematografica ci ha insegnato, non basta gettare nella mischia un cast di personaggi storici e intrinsecamente carismatici per aumentare il valore di un’opera. La direzione di Stig Asmussen, che ricordiamo, è il papà di God of War III, ha reso Jedi Fallen Order un titolo con una sua identità e ben calata nel contesto creatosi tra Episodio III ed Episodio IV, vantando la diretta collaborazione di Lucas Arts e il suo team preposto al controllo della continuity con tutte le opere esistenti. Ne consegue dunque un titolo apertamente indicato a tutti gli amanti della saga, che troveranno numerosi riferimenti al franchise ma senza diventare mai melenso. Per chi non ha mai visto una spada laser in vita sua, potrebbe lasciar passare in secondo piano il contesto narrativo in favore di meccaniche magari già viste ma ben implementate.
Uno Jedi Shinobi… sulla carta
Se a primo acchito può venir in mente Il Potere della Forza con protagonista StarKiller, pad alla mano ci si accorge che di quel gioco non vi è alcuna traccia. Evidentemente Sekiro: Shadows Die Twice ha portato un nuovo modo di affrontare gli action/adventure e la sensazione di aver a che fare con un suo diretto discendente è molto forte. Ma tagliamo la testa al toro: il combat system di entrambi i titoli non sono minimamente paragonabili. In generale il lavoro di Respawn, da questo punto di vista, risulta meno rifinito, andando a discapito di moveset e precisione. Sì perché una delle cose che salta subito all’occhio è un tempo di risposta del comando della deflezione o comunque della parata meno preciso rispetto al suo papà giapponese oltre a un sistema di tracking che raramente permette l’aggiramento o schivate all’ultimo istante. L’avversario sembra quasi essere calamitato al protagonista, riuscendo a colpire in quasi tutte le direzioni. Questo fa un po’ storcere il naso perché il sistema generale di combattimento funziona, risultando anche appagante in certi frangenti. Quello che manca è il cosiddetto “passo in più” che consiste in una manciata di animazioni di supporto in modo da aumentare le possibilità di approccio in combattimento. Anche quando avremo nuove abilità dalla nostra fedele spada laser non potremmo mai veramente costruire combo concatenando le diverse abilità, diventando un balletto fatto di “spam” del tasto X e talvolta Y (quadrato e triangolo su PlayStation), sfruttando ovviamente i poteri della Forza.
Tutte queste abilità vengono sviluppate attraverso un classico “albero” in cui è possibile acquisirle tutte in una sola run. Ma da qui nasce un piccolo qui pro quo. Osservando tutte le abilità presenti, il nostro modo di agire, non si può non notare come le nostre azioni siano ben lontane da quelle proposte finora in un Jedi. Non c’è modo di girarci intorno: Cal Kestis è uno stermina Impero, un “vedovatore” di soldati, distruttore della fauna locale. Tutti i poteri a disposizione sono squisitamente offensivi e la barra che indica la Forza a nostra disposizione si ricarica colpendo o eliminando il nemico. Ovviamente il contesto è quello di un gioco d’azione e Cal Kestis è costantemente in pericolo, ma in qualche modo le nostre azioni sono comunque più vicine a quelle di un Sith che un vero e proprio Jedi.
Ma passando oltre, fortunatamente oltre al menare le mani c’è di più, e questo di più si chiama esplorazione: in qualche modo Respawn è riuscita a creare mappe molto aperte in un sistema che ricorda sicuramente i vari “metroidvania” ma anche la struttura dell’ultimo God of War: mappe ampie in diversi luoghi separati. Quello che ci troviamo di fronte dunque, è un titolo aperto che spinge il giocatore a cercare potenziamenti e segreti sparsi per le mappe, alimentando un codex in grado di non solo di approfondire quanto narrato ma anche di migliorare l’intero contesto. L’utilità del droide BD-1 la si scopre soprattutto in questi frangenti dove, con opportuni potenziamenti, il robottino sarà in grado di hackerare, migliorare le possibilità di movimento di Cal Kestis nonché di riuscire a guarirlo con gli Stim. Inoltre, è anche in grado di proiettare in maniera attiva l’intera mappa olografica della zona, estremamente utile per capire cosa rimane da esplorare. Ma quello che colpisce maggiormente è il level design, costituito da diversi percorsi, scorciatoie e anfratti segreti che enfatizzano le fasi platform e puzzle, che avvicinano il titolo – seppur con la dovuta cautela – alla serie Uncharted.
Prima di passare in rassegna l’altalenante comparto tecnico, c’è da segnalare un altro dettaglio: i punti di controllo su cui il protagonista può meditare, permettendogli di riposare, potenziarsi e rigenerare il numero di Stim del droide, apre un altro piccolo disappunto una volta comparso l’avviso indicante la riapparizione di tutti i nemici sconfitti. Se da un lato si capisce l’esigenza di gameplay, funzionando come veri e propri falò “soulsiani” tranne che non ci può teletrasportare tra di essi, dall’altro si avverte come questa meccanica sia assolutamente priva di senso e nemmeno contestualizzata. Perché il riposo dovrebbe far resuscitare tutti i soldati imperiali uccisi dalla nostra lama laser non ci è dato saperlo. Non è certo la prima volta che accade ovviamente: in tutti i titoli che traggono ispirazione dai lavori di Miyazaki vi è sempre questo stesso elemento, più o meno contestualizzato in base alla direzione narrativa intrapresa dal gioco. Ma qui è diverso. Nel contesto pluri-decennale di Star Wars, è una meccanica fuori luogo e lontana anni luce da quanto abbiamo visto, sentito, letto finora. Non basta prendere una meccanica semplicemente perché è funzionale: il genio di un team di sviluppo sta anche nel capire come adattare in contesti diversi qualcosa che sulla carta non ha il minimo collegamento.
Così come purtroppo le personalizzazioni estetiche fine a se stesse che consistono in skin per la Mantis (la nostra nave) e BD-1, oltre che per spada laser e Cal. Sono elementi, soprattutto quando si parla della nostra arma, che purtroppo non aggiungono nulla, nemmeno mezza caratteristica. È chiaro come negli ultimi anni siamo abituati a una certa “rpgzzazione” di quasi tutti i titoli presenti, ma in questo caso – e visto il contesto – è una mancanza che fa storcere il naso, dando addirittura l’impressione che non si abbia avuto il tempo di implementare queste possibilità.
È pur sempre la prima volta
Star Wars Jedi: Fallen Order è uno dei titoli che si discosta dalla volontà di Electronic Arts di sviluppare qualunque franchise sotto la potente ala del Frostbite Engine. Sviluppato dunque su Unreal Engine 4, motore ormai affidabile ed estremamente diffuso, il lavoro di Respawn mostra il fianco a qualche incertezza: nonostante l’impatto sia assolutamente di primo ordine, quasi di stampo cinematografico, numerosi sono i bug che infliggono il titolo, soprattutto nelle fasi di esplorazione. Cal Kestis sembra fin troppo spesso una marionetta in balia del caso, mancando semplici appigli, precipitando nel vuoto cosmico così come i nemici, compenetrati all’ambiente e persino esplosi, con mesh un po’ qui e un po’ la. Quello che manca è un evidente pulizia finale del codice che purtroppo alle volte crea alcuni problemi di avanzamento. Tralasciando questo aspetto però, Jedi Fallen Order è un titolo assolutamente godibile, vantando un’ottima realizzazione del cast e di tutti gli ambienti anche se è un peccato la mancanza di una reale varietà in assenza di ambienti urbani, ad esempio.
Interessante è poi la scelta stilistica di non mostrare interfaccia di gioco a schermo, demandando il controllo della salute ai led di DB-1, sempre sulle spalle del protagonista. Questo espediente, che ricorda tanto quanto visto in Dead Space di Visceral Games, riesce ad aumentare ancor di più la ricerca verso una visione cinematografica dell’opera, facendo comparire ciò che serve solo quando è opportuno.
Dal punto di vista sonoro, impeccabile è la riproposizione dei suoni classici della saga, oltre a musiche che riarrangiano non solo temi classici ma che riescono a proporre qualcosa di nuovo con brani calzanti nelle boss fight e d’accompagnamento (quasi goliardico) durante le fasi d’esplorazione, quando potremmo essere facilmente fatti a pezzi qualunque bestia sul nostro cammino. Divertente.
Il titolo si presenta completamente localizzato in italiano, in cui il doppiaggio esegue un lavoro di tutto rispetto mostrano tutti i lati caratteriali dei personaggi, con il giusto tono e senza mai commettere scivoloni. Ma c’è da dire che la versione originale (inglese), riesce a trasmettere qualcosa in più, soprattutto per l’utilizzo degli attori reali in fase di motion capture nella realizzazione delle cutscene.
In conclusione
L’unico sopravvissuto dei progetti Star Wars lanciati da Electronic Arts si mostra come una delle più convincenti sorprese dell’anno nonostante alcuni problemi che possono risultare limitanti per giocatori più esigenti. Si posiziona tra i migliori titoli dedicati al franchise negli ultimi anni, aprendo la strada a futuri sequel e magari alla “speranza” di rivedere sulla scena alcuni dei progetti abbandonati anzitempo. Star Wars Jedi: Fallen Order ci mette un po’ a carburare, ma superato l’impatto iniziale riesce a regalare ottimo intrattenimento soprattutto ai fan duri e puri di una delle saghe più apprezzate della storia.
Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10
The Outer Worlds – Più Vero del Vero
Dopo tante ma veramente tante ore di gioco, allontanarsi dal Sistema Alcione in maniera semi-definitiva lascia un velo di nostalgia. The Outer Worlds è dunque un’esperienza riuscita sotto tanti punti vista, una scommessa quella di Obsidian non solo vinta, ma anche capace di dimostrare come lo studio è ancora in grado di dire la sua nel genere.
Come una Matrioska
Tra circa trecento anni, l’essere umano ha già colonizzato numerosi mondi, tra cui il sistema solare di Alcione, centro su cui ruoteranno le innumerevoli vicende del titolo. The Outer Worlds non perde certo tempo: sin da subito il tono della narrazione è scandito da un umorismo raro di questi tempi, a partire dal dottor Phineas, vero mattatore del titolo. Ma è tutta l’atmosfera a mostrare segni di ilarità, già dalle descrizioni delle “classi” capaci di strappar già qualche risata. La scelta se intraprendere una carriere da ascensorista, cassiere o giardiniere, oltre a garantire un bonus passivo è in grado di mostrare le reali potenzialità del gioco dal punto di vista narrativo. È vero, si ride e si scherza, ma quando c’è da fare sul serio è il black humor a prendere il sopravvento. Il Sistema di Alcione è governato da una serie di Corporazioni differenziate da una diversa visione del rapporto tra l’uomo e il lavoro. Ma è il Consiglio che detta legge, mettendo l’efficienza sul lavoro al primo posto delle priorità. Capiterà spesso di aver a che fare con il “personale” del Consiglio ed è qui che The Outer Words spalanca le porte del suo essere, amalgamando perfettamente narrazione e un umorismo sempre sul pezzo, in grado di accentuare la follia e disumanizzazione della maggior parte dei coloni di Alcione. Il lavoro è al primo posto, anche rispetto all’amor proprio; ne consegue un’alienazione totale di molti NPC, alcuni capaci di comunicare solo attraverso slogan pubblicitari. Ovviamente non tutti i cittadini vedono di buon occhio una simile situazione: il nostro risveglio dalla situazione di stasi criogenica a opera del dottor Phineas ci catapulta in una lotta di classe e corporazioni con, sullo sfondo, qualcosa di cui nessuno deve essere a conoscenza.
Il nostro viaggio comincia qui, accompagnati da ADA, l’intelligenza artificiale dell’Inaffidabile (la nostra nave) e un gruppo di comprimari che via via ci accompagneranno tra i pianeti del sistema stellare. La solida scrittura di Obsidian si nota anche grazie ai nostri compagni, tutti con un proprio background capace di ricordare a grandi linee la profondità di Mass Effect: da Parvati al Vicario Max, ogni personaggio possiede una propria etica e qualche scheletro nell’armadio che, qualora volessimo, potremo aiutare a tirar fuori risolvendo situazioni spinose. Ma non pensate per forza a storie struggenti e strappalacrime: la forza del titolo è quella di non prendersi mai sul serio se non serve e molto spesso, l’ilarità di certe situazioni vi strapperà di sicuro un sorriso o perché no, una sana risata.
La struttura in ogni caso ricalca quella di Fallout: New Vegas, con un mondo costituito dalle varie fazioni a cui potremmo aderire o meno in base agli incarichi svolti. Anche in questo caso il tutto funziona abbastanza bene, cercando di trovare sempre il bilanciamento perfetto tra simpatia e vantaggi usufruibili da tutte le corporazioni e non. Tutto è molto “grigio”: nessuno è depositario della verità, nessuno è considerabile realmente buono; tutto dipende dal vostro punto di vista e dalla vostra visione del mondo. The Outer Worlds è per l’appunto un test politico e sociale dove gli utenti si troveranno faccia faccia con scelte esistenti nel mondo reale, dirette grazie ai dialoghi ma, soprattutto, un po’ come il nuovo Prey, con scelte invisibili, dettate dalla vostra condotta etica in quel di Alcione. È bene dunque ricordare che nulla è lasciato al caso: tutto ha delle conseguenze, e non basta aspettare le fasi finali per accorgersene.
La forma segue la funzione
Inutile girarci intorno: il feeling più immediato con cui fare dei paragoni è indubbiamente la serie Fallout, di cui Obsidian sviluppò uno spin-off, denominato New Vegas. Questo gioco, datato 2010, pur rimanendo familiare dopo l’uscita del reboot Bethesda, presentava diverse migliorie, tra cui l’introduzione di una serie di fazioni pronte a darsi battaglia per il controllo della Diga di Hoover, l’unica rimasta in funzione dopo l’olocausto nucleare. Rispetto a Fallout 3, New Vegas mostrava un mondo estremamente vario, ricco e maturo, sia nella costruzione degli ambienti che nella caratterizzazione narrativa di mondo e personaggi.
Tutta quell’esperienza, con l’aggiunta del lavoro svolto con Pillars of Eternity, trova compimento in The Outer Worlds: ogni elemento strutturale di gameplay è ampiamente riconoscibile, in cui non si è cercato di innovare ma piuttosto di portare qualcosa che funzionasse a dovere, esaltato dal contesto narrativo. Se di questo abbiamo già discusso, è il modus operandi a là Fallout che colpisce. Perché diciamoci la verità: funziona molto meglio dell’originale.
Lo stampo principale è ovviamente quello di un RPG, in cui trovare, riciclare e potenziare le risorse a nostra disposizione non è che la punta dell’iceberg della produzione. Già dalla buona possibilità di personalizzazione del nostro alter ego, con l’attivazione di bonus passivi e attivi, a colpire è la consapevolezza e padronanza del genere da parte di Obsidian, in cui tutto sembra esser nel posto giusto, con una funzione specifica di ogni dettaglio, senza inutili frivolezze stilistiche. Chi ha giocato degli RPG si sentirà a casa e chi non ha mai affrontato il genere sarà comunque ben accolto. Dove Obsidian ha cercato di far qualcosa di diverso è nella gestione di bonus e malus passivi: nel corso delle battaglia, nel caso in cui tutto non sia esattamente filato liscio, si svilupperà una debolezza (Fobia), quasi fosse un trauma, verso una particolare tipologia di arma, danno o nemico. Questa è un’introduzione interessante in quanto porta una variazione nell’accumulo d’esperienza: non tutto ciò’ che affrontiamo porta necessariamente a un miglioramento…
Altro fulcro dell’opera non poteva che essere la fase shooting, che purtroppo non riesce mai restituire dei reali feedback “maschi”. È chiaro che non ci si aspetti un lavoro targato id Software da questo punto di vista, e in effetti siamo ben lontani da quel tipo di feeling, eppure, nel suo essere discreto si lascia ben giocare. Con qualche miglioramento investendo i nostri punti esperienza, lo shooting andrà via via divenendo più concreto ma senza mai appagare a pieno: le numerose bocche da fuoco, suddivise per tipologia, potenza e tipo di danno inflitto (oltre che contornate da una descrizione spesso esilarante) mostreranno pochissime differenze se non nel rateo di fuoco. In ogni caso, basta poco per trovare il set di quattro armi adatte a noi, senza contare quelle corpo a corpo, forse ancor più deludenti di quelle da fuoco. Nonostante risultino spesso efficaci, difficilmente restituiscono il giusto peso o il giusto impatto, dando la sensazione di colpire molto spesso l’aria. Evidentemente la posizione delle hitbox è leggermente a là René Ferretti, inficiando sulle sensazioni fornite dagli scontri. Forse è proprio la gestione della fisica a spegnere un po’ gli entusiasmi. Ma a venirci in aiuto – per così dire – vi è la cosiddetta Dilatazione Tattica del Tempo, un sorta di bullet time che trova – incredibilmente – anche contesto narrativo. Questo espediente aiuta molto gli scontri a fuoco, in maniera del tutto similare allo S.P.A.V. di Fallout anche se meno rifinito.
Qualora non vogliate andarvene in giro da soli per il Sistema di Alcione, in pieno stile Mass Effect, potrete essere scortati da due dei sei compagni che potranno accompagnarvi nel corso dell’avventura. C’è subito da dire che la loro I.A. non è per nulla male: qualora non dessimo ordini diretti sapranno attaccare o trovare riparo in maniera del tutto autonoma (il più delle volte) cercando di aggirare il nemico in caso di possibilità. Gli scontri dunque, soprattutto con grossi gruppi di nemici, diventano un “cerca e distruggi”, soprattutto una volta che i nostri compagni scateneranno tutto il loro potere attraverso un colpo speciale (unico per ognuno dei compagni) e con un equipaggiamento di un certo livello. Come buon RPG insegna, se dotati della giusta pazienza e attenzione, diventare delle macchine di morte inarrestabili può essere un obbiettivo facilmente perseguibile, contando anche di numerosi potenziamenti applicabili alle nostre armi.
Chiaramente non di solo fuoco si vive: tutte le caratteristiche presenti risultano utili, adattandosi a qualsiasi tipo di giocatore. Questo perché essenzialissime il lavoro di Obsidian è incentrato prima di tutto sulla libertà d’approccio, dallo stealth (anche se necessita di qualche rifinitura), alla retorica, probabilmente vero Deus ex Machina del titolo. Come detto, la narrazione e la scrittura svolgono un ruolo chiave e sviluppare caratteristiche in grado di valorizzare la nostra “parlantina” è un buon modo per risolvere questioni senza nemmeno sfoderare le nostre armi. In poche parole, è possibile terminare The Outer Worlds senza nemmeno sparare un colpo.
Quasi come da tradizione
Dove The Outer Worlds mostra un po’ il fianco è nel comparto tecnico, appena discreto considerato il contesto attuale. Nessun modello poligonale risulta veramente dettagliato e nemmeno texture e shader riescono a salvare la situazione, risultando spesso “sporche” e a bassa risoluzione. Tutta via, complice un buona direzione artistica, il colpo d’occhio generale risulta più che piacevole: ogni pianeta del sistema possiede una propria identità, contornato da flora e fauna unici anche se, da questo punto di vista si poteva fare sicuramente di più. Il design degli avamposti, creature, navi stellari, richiama la classica fantascienza degli anni cinquanta e sessanta fatta di ingenua semplicità ma in qualche modo plausibile pur essendo ambientata a qualche secolo di distanza. Purtroppo la versione PC è affetta da qualche problema di frame rate, pop-up delle texture ma nulla di paragonabile alla produzioni Bethesda (purtroppo punto di riferimento negativo del genere).
La soundtrack, composta da brani richiamanti l’epoca descritta poc’anzi, accompagna tutte le fasi proposte dal titolo, facendosi a tratti goliardica come tragicamente seria o disturbante quando è richiesto. Il doppiaggio, rigorosamente in inglese con sottotitoli, è uno dei punti di forza del titolo, riuscendo a restituire con forza personaggi sopra le righe ma mai fuori luogo, tutti perfettamente in parte. I toni delle affermazioni, il sarcasmo o una semplice battuta tagliente sono davvero ben resi, restituendo personaggi verosimili.
In conclusione
A conti fatti, The Outer Worlds è un’opera di tutto rispetto, capace di intrattenere come pochi. Obsidian ha vinto la sua scommessa, portando un titolo complesso in cui spiccano narrazione e contesto, contornati da un gameplay magari non innovativo ma ricco di sostanza. A patto di qualche piccolo inciampo dunque, l’ultima opera dello studio californiano è una delle migliori di questo 2019, ponendo un’ottima base su cui –probabilmente – verranno sviluppati dei sequel.
Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10
GamePodcast #3 – Da Google Stadia a The Mandalorian
- arriva Google Stadia, ben al di sotto delle aspettative;
- Anthem e Mass Effect avranno nuova luce?;
- Microsoft è già più avanti di Sony?;
- Sonic è tornato!;
- The Mandalorian è il vero Star Wars;
- For All Mankind, la serie evento.
GamePodcast #2 – Da Kojima a Star Wars
Nuovo episodio incentrato su tantissimi argomenti: Death Stranding è o non è gioco dell’anno? Splinter Cell open world? Cosa succede a WWE 2K20 e 2k? Star Wars: Jedi Fallen Order vale la pena di esistere? Star Wars: Episodio IX, perché? Senza dimenticare tutto il resto ovviamente.
In compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi.
GamePodcast #1 – Da Death Stranding a The Outer Worlds
Comincia finalmente un nuovo corso di GameCompass: GamePodcast vi accompagnerà settimanalmente, discutendo su quello che accade nel mondo videoludico. Armatevi di auricolari e restate con noi!
Joker o (Le Imprevedibili Virtù dell’Ignoranza)
Su Joker si è detto tanto, forse molto più di quello che il film intendesse dire. Questo lungometraggio segna però un fatto importante, non solo per la vittoria del Leone d’Oro a Venezia (primo cinecomic a riuscirci), ma anche per aver creato un fenomeno, delle sensazioni, meraviglia dove invece non c’era nulla. Non stiamo certo dicendo che il film non è valido, tutt’altro: Joker è un film memorabile, con un’interpretazione sublime di Joaquin Phoenix (certamente da almeno alla candidatura alla statuetta) e una fotografia capace di accompagnare l’andamento delle vicende sino al suo climax finale.
Ma Joker, è davvero così profondo, è davvero così eccezionale? Ragionandoci probabilmente no e oggi analizzeremo a fondo la pellicola cercando di trovarne l’intento: cosa racconta Joker?
Amor, ch’a nullo amato amar perdona
Joker ha la virtù di affrontare tante tematiche più o meno esplicite, che non ruotano necessariamente intorno alla figura di Arthur Fleck, la vera identità del villain. La Gotham rappresentata è uno spaccato della società attuale, ma fino a un certo punto: non si è ancora arrivati al punto della guerriglia urbana per differenze sociali, ma qualcosa comincia a intravedersi. Il contesto presentato è quello di una città in piena campagna elettorale, dove la forbice tra facoltosi e disagiati è sempre più ampia e tra quest’ultimi vi è proprio la famiglia Fleck. Qualcuno potrebbe dire che la Gotham mostrata non si discosti poi tanto da quella dei fumetti, e in effetti è così, ma il taglio più autoriale e intimo della pellicola riesce a dare un punto di vista diverso, toccando con mano quei bassi fondi e quel disagio che normalmente tra menti criminali senza scrupoli e cazzotti in pieno volto perdono di forza a discapito di altro. Una cosa che esce fuori dalla pellicola è il modo di affrontare i problemi sociali (e non solo), racchiuso nella frase pronunciata da Murray Franklin (Robert de Niro) «per catturare dei super topi servono dei super gatti» (frase con duplice significato, tra super cattivi e super eroi); non c’è serietà, o per meglio dire, si sottovaluta quanto accade attorno, non accorgendosi dell’avvenire in potenza. Proprio la nostra società, italiana ed estera, sembra vivere di questo principio, dalla Brexit, all’immigrazione fino al possesso di armi; nessuno è in grado di affrontare seriamente le questioni, nessuno è in grado di proporre soluzioni concrete, creando così un duplice effetto: il problema sussiste e chi vive il problema viene ulteriormente trascurato, aumentando ancor di più il disagio sociale. Nemmeno il brillante Thomas Wayne (Brett Cullen), ha l’intelligenza di capire la situazione, mettendo ancor più benzina sul fuoco dopo l’”incidente” della metropolitana. Sembra quasi che la situazione debba degenerare inevitabilmente ed è da qui che la figura del Joker può uscir fuori.
Ma chi è Arthur Fleck? Essenzialmente, Arthur è una persona disturbata, vuoi per la tragica infanzia, vuoi per il suo senso di inadeguatezza. Il percorso che lo porta a diventare Joker però, si scontra con una domanda non banale e che in qualche modo fa scaturire per forza di cose un paragone: nella sua malvagità, quanto c’è della sua indole e quanto della malattia? Il Joker di Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro di Nolan, è ritratto come un lucido psicopatico, permeato da una follia razionale. Quello, è un Joker immerso in un contesto reale (non questo), una figura emblematica capace di trasmettere con puro meccanicismo il suo pensiero sul mondo; una figura simile al Comico di Watchmen, in cui comprensione e messa in atto sono due cose estremamente collegate. Nel Joker di Joaquin Phoenix, tutto questo prende strani connotati, mostrando un personaggio alla continua ricerca dell’accettazione e di un palcoscenico in cui mostrare le sue reali virtù ma, sempre e solo in balia degli eventi. Se verso la fine del film, assistiamo alla “maturazione” di Arthur, d’altro canto assistiamo anche a un punto di non ritorno che non ha un vera base da cui partire. Arthur si è semplicemente adeguato al Mondo, mondo non inteso come società, ma inteso proprio come sistema nella quale è facile venir trascurati, e non abbiamo certo bisogno di un discorso finale incentrato sull’empatia per accorgerci di quanto questo sia vero. È il Mondo a decidere le sorti di uno o dell’altro ed è il Mondo stesso a creare i propri mostri. Joker non è altro che uno di questi, qualcosa di inevitabile, proprio perché il Mondo è difficilmente plasmabile. Ne consegue dunque che la società, in mancanza di reali obbiettivi e leader acclamino un pazzo come loro guida, e il resto è storia. Ma in tutto questo, Arthur è spettatore, tanto quanto noi.
Nemmeno la visione della società varia secondo il punto di vista, seguendo la teoria secondo la quale tutto ciò che vediamo all’interno del film non è altro che la visione di un proto-Joker, pronto ad aprire gli occhi sulla reale natura del mondo. Il film è molto chiaro da questo punto di vista: le parti in cui la fantasia prende il sopravvento è spiegata in modo didascalico, quasi per evitare qualsiasi tipo di fraintendimento. Per cui, quello che vediamo è effettivamente la realtà dei fatti, in cui Arthur non è che un anello debole del sistema.
Dal Giustificazionismo al male dell’Empatia e viceversa
Ma, il film purtroppo non approfondisce ulteriormente la questione e, come vedremo, questo sarà un habitué; sembra quasi un “vorrei, ma non posso” e questo trova risposta nel pubblico. Il film, per fare un paragone strambo, ha sembianze di un fucile a pompa, in cui non è importante la precisione del messaggio e il bersaglio da colpire: si spara una rosa di colpi, si ferisce qualcuno ma mai mortalmente. In questo assurdo paragone, il “ferito” è il pubblico che in qualche modo ha sì apprezzato la pellicola ma che è anche rimasto deluso dalla profondità narrativa che Joker sembra vantare. Questo perché essenzialmente, il lavoro di Todd Philips e Co. DEVE piacere a tutti, senza distinzioni ed è per questo che alcune scene vengono edulcorate o persino non mostrate.
Da questo, si arriva a un altro problema del film, il rapporto tra Arthur e il pubblico. Sembra stupido ricordarlo ma Joker, è un sadico pluri-omicida capace di commettere qualunque atrocità con la massima freddezza. In questo lungometraggio esiste un problema con l’empatia che spinge lo spettatore a mettersi nei panni di un uomo con evidenti problemi psichici e che, per una successione maledetta di eventi si ritrova a essere quello che è. Il problema però, è che manca un reale “punto di rottura” del legame tra Joker e gli spettatori. Facendo un esempio, Walter White in Breaking Bad ha un percorso molto simile, dove l’intento di Vincent Gilligan è stato quello di creare un personaggio con cui il pubblico poteva identificarsi ma che man mano che la storia proseguiva, quello stesso pubblico l’avrebbe rigettato. Vi è più di un momento in cui Walter White commette atti ingiustificabili e proprio su questa parola ruota tutto il senso dell’articolo. Nel film, come detto, manca il punto di rottura: non vedremo mai Arthur compiere una reale atrocità nei confronti di un innocente. I suoi omicidi (tralasciando l’ultimo, in cui il personaggio può dirsi “formato”) sono una sequela di vendette verso chi ha riso di lui, non prendendolo mai sul serio. Gli atti malvagi compiuti infatti, fanno tendere il personaggio pericolosamente verso l’antieroe, cosa che la figura di Joker non è e non deve mai essere, come se gli atti potessero essere in qualche modo giustificati. Il giustificazionismo presente deriva essenzialmente dalla malattia e dal “se la sono cercata”, cosa che contrasta alquanto con ciò che si vorrebbe rappresentare. Inoltre, la figura della follia di Arthur non viene mai realmente fuori, nemmeno dopo l’aver soffocato a morte la madre: la frase, ormai iconica, «la parte peggiore dell’avere una malattia mentale è la gente che si aspetta che finga di non averla” sembra un pensiero molto egoista quando quella stessa donna, forse messa peggio del protagonista, viene mandata in cielo senza tanti giri di parole. Ma ehi, è Joker, che vi aspettavate? E no, perché questo atto contrasta con uno degli intenti del film e si ricollega al suo più grande problema: la banalità.
Quello che Joker non riesce proprio a fare è spingerci davvero a ragionare sulle questioni che accadono tutti i giorni, fermandosi proprio prima della spinta finale: la critica alla società, la messa in scena della malattia mentale e il rapporto con gli altri, derivano essenzialmente da una sovralettura di un film lineare e forse un po’ pretenzioso. Anche il “metterci nei panni degli altri” non è altro che la riproposizione di un concetto d’empatia storpiato negli ultimi anni, portato avanti da Obama in poi: l’empatia intesa in questo modo, oltre a non essere una buona guida morale, è anche controproducente alla società, mettendo a fuoco solo determinati problemi, determinate vittime a discapito di tutti gli altri. Eppure, anche questo concetto, viene espresso con la stessa banalità, da un pazzo che in un programma TV chiede soltanto un po’ di attenzione.
In Conclusione
Joker ha indubbiamente moltissime qualità e in generale è sicuramente un buon film sorretto dalla straordinaria interpretazione di Phoenix. Ma tutto questo non basta a decretarlo come capolavoro. La sovralettura creatasi è qualcosa che ha più ha che fare l’emotività e l’empatia, quasi se si fosse avvolti da un’aura di Sindrome di Stoccolma che porta il pubblico ad amare oltre modo qualcosa che semplicemente meriterebbe un abbraccio.
Questa è una delle poche voci fuori dal coro, che vede il film per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse. In ogni caso, se cercate reale critica alla società, approfondimento e immersività nelle malattie mentali vi suggeriamo qualche opera: le prime due sono fumetti di Alan Moore, V for Vendetta e Watchmen da cui sono stati tratti due lungometraggi. L’ultimo è invece un videogioco: Hellblade: Senua’s Sacrifice di Ninja Theory, racconta le vicende di Senua, affetta da disturbi mentali come la schizofrenia, regalandovi un punto di vista estremamente intimo e diverso da qualunque media esistente.
Dateci un’occhiata e poi rivedete Joker. Ne riparleremo.
GRID – Quanta fretta, ma dove corri?
Sono passati più di dieci anni dall’arrivo di Race Driver: GRID, evoluzione della serie TOCA, pietra miliare dei racing game. Il titolo funzionava molto bene, portando su tutti i nostri schermi l’ormai classico riavvolgimento temporale e una struttura della carriera che tanto ricordava la storica serie Gran Turismo. Con l’originale GRID dunque, Codemasters si riconfermava come una delle poche software house a restituire agli appassionati la gioia del guidare digitale ma, con i successivi capitoli, qualcosa cominciava a scricchiolare. GRID 2 segna il passaggio della serie alla sponda dei racing arcade e con il successivo Autosport a un ritorno, in qualche modo, allo stile di guida originale. Tutto questo ha gettato confusione negli appassionati, accomunati tutti da una sola domanda: che cos’è GRID? Il nuovo capitolo, che potremmo definire remake dell’originale, vanta alcune caratteristiche interessanti, eppure qualcosa non quadra. Come novelli archeologi digitali, cercheremo di scavare a fondo per trovare la verità, rispondendo alla domanda fondamentale.
… Con la partecipazione di Fernando Alonso
Partiamo da un fatto: quando punti a restituire le sensazioni dell’originale GRID, sviluppando il titolo col due volte Campione del Mondo di Formula 1 Fernando Alonso, qualche aspettativa comincia a crearsi. Le sbandate (volute) con il secondo capitolo e Autosport, riecheggiano ancora tra gli appassionati, orfani di un titolo capace di colmare il vuoto tra gli arcade puri e i semi-simulativi.
Il nuovo GRID ritorna a una struttura decisamente più classica, con l’intera esperienza suddivisa in tanti piccoli campionati (alcuni molto simili tra loro) a difficoltà sempre crescente, con l’obiettivo finale di entrale nella lega definitiva: la Grid World Series.
Le sei discipline presenti spaziano da Touring Car, Time Attack, Classe GT e Prototipi fino alle Formula, dove potremmo saggiare anche le doti della Renault R26, Formula 1 che aiutò Alonso a vincere il campionato 2006. Proprio dalla visione delle classi e delle vetture presenti, si capisce subito come l’intento di Codemasters sia quello di concentrare tutta l’attenzione del giocatore sulle gare in pista, senza particolari distrazioni, notando un certo sbilanciamento verso “muscle car” americane e qualche auto mutuata dai precedenti capitoli. Nessuna auto stradale è presente in questo titolo, puntando direttamente alle corse; il che ci da già un primo indizio: forse più che il nuovo GRID, questo non è altro che GRID: Autosport 2. Ma andiamo avanti.
Oltre la Carriera, abbiamo a disposizione una modalità Gioco Libero, che in fin dei conti tanto libera non è: di fatto, possiamo guidare solo auto acquistate durante la Carriera, salvo alcune eccezioni in cui è possibile “affittare” il veicolo per una sola gara. Ma oltre questo, poco più, con classica modalità Multiplayer che molto spesso prende le sembianze del Destruction Derby.
Cosa abbiamo dunque: un titolo senza fronzoli a cui interessa solo portarci in pista. Bene, ma benché la varietà non manchi, almeno per quanto riguarda la carriera, tutto il contorno in qualche modo non riesce a colpire, rischiando di finir ben presto nel dimenticatoio. Ma oltre la domanda sulla vera natura di GRID un’altra sorge spontanea: qual è stato il vero ruolo di Fernando Alonso?
Ti conosco, mascherina!
Scesi finalmente in pista, notiamo subito qualcosa di strano: per chi di voi abbia guidato almeno una volta nella vita un Go-Kart, sa benissimo che cercare le giuste traiettorie per sfruttare una leggera derapata è una delle chiavi del successo. Ecco, GRID ricorda tanto i Go-Kart: non importa su quale auto poggeremo il sedere, lo stile di guida sarà il medesimo per ogni categoria di vetture, con minime variazioni sul tema. Questo è il peccato più grande del lavoro di Codemasters: nessun’auto riesce a regalare particolari emozioni e quando non si sente l’esigenza di utilizzare la visuale interna, evidentemente c’è qualcosa che non va. Quindi, possiamo appurare che siamo lontani dal titolo originale, ma in qualche modo anche dal precedente Autosport.
A venirci incontro arriva però la tanta decantata intelligenza artificiale e il sistema Nemesi, in grado di creare vere e proprie rivalità con i piloti avversari. Ma anche l’I.A. mostra alle volte alcuni cenni di carenza di quoziente intellettivo e il Nemesi diventa molto spesso un “processo alle intenzioni”. Ogni qual volta urteremo con una certa veemenza un avversario, questi ci darà letteralmente la caccia, a suon di vendetta. Se sulla carta questo sistema può aver il suo perché, ricordando alla larga il duo Vettel-Hamilton in Azerbaigian 2017, a conti fatti si dimostra fallace e molto spesso scorretto, anche perché capiterà spesso di venire a sportellate con qualcuno. Questo fa pendant con un buon sistema di danni, sia meccanici che estetici, in grado di esaltare il contesto da guerriglia pistaiola. Questo perché essenzialmente il nuovo GRID è un gioco “sporco”, dove la guida pulita ha poca importanza, come del resto la manciata di impostazioni dedicate al setup della vettura. Le gare sono dunque delle battaglie e in qualche modo, divertono: GRID è assolutamente diverso dagli altri racing game, in cui vincere è l’unica cosa che conta ma non perché è richiesto dal gioco (basta arrivare tra i primi tre), ma perché ogni gara sembra prendere le sembianze della Selezione Naturale di Darwin: chi vince ha maggiore probabilità di evolversi, acquistando vetture sempre più performanti e sbloccando nuove livree da indossare e personalizzare. Anche questo aspetto purtroppo passa in secondo piano, con una scarsa possibilità di personalizzare il proprio team, tralasciando nome e compagno di squadra, che potremmo ingaggiare scegliendo tra le varie caratteristiche interessate. GRID dunque è tutto quì: una serie di gare in cui divertirsi senza fronzoli.
Possiamo dunque rispondere alle due domande, tenendoci la più importante per ultima. Intanto, qual è stato il ruolo di Fernando Alonso? Uomo immagine, ne più ne meno. È altamente improbabile che la sua consulenza abbia portato a un titolo in cui buttar fuori l’avversario sia l’andazzo giornaliero. Ma allora perché non ingaggiare Pastor Maldonado!?
Bello e possibile
L’Ego Engine è in pieno spolvero, mostrandosi perfettamente ottimizzato anche con risoluzioni elevate. A 4K, settaggi massimi, il titolo tiene botta a 60fps, calando solamente nelle situazioni più concitate e durante la pioggia, davvero ben resa. Ogni modello è ben realizzato sino ai più piccoli particolari, anche se, non bisogna aspettarsi i dettagli presenti in titoli più blasonati. Di questo ci si accorge soprattutto sulle Formula, vetture a ruote scoperte che lasciano intravedere parte della loro struttura interna, fin troppo “statica”: non vedremo mai ammortizzatori comprimersi o movimenti meccanici, risultando a conti fatti, un titolo d’altri tempi. Ma poco importa quando il colpo d’occhio generale è davvero suggestivo, regalando delle piccole cartoline in cui si vorrebbe scendere dall’auto per gustarsele a fondo.
Sul fronte audio non ci sono grosse novità, con campionamento dei motori molto simile alle controparti precedenti, che manca della giusta profondità.
In conclusione
Che cos’è dunque il nuovo GRID? Abbiamo appurato che non è il remake dell’originale titolo del 2008, troppo distante per sistema di guida e struttura ludica. Non è nemmeno Autosport 2, con quell’esagerata vena arcade. La verità è che ci troviamo di fronte al remake di GRID 2, un titolo dalla indubbia anima arcade ma che – colpo di scena – funziona. Visto in quest’ottica, il nuovo GRID è un titolo divertente, capace di avvicinare due diversi universi di pubblico. Abbandonate il senso del pudore, abbandonate la voglia di accarezzare i cordoli cercando di limare i tempi sul giro e abbandonate altresì, la voglia di chiedere l’autografo a Fernando Alonso: il nuovo lavoro Codemasters saprà intrattenervi… in attesa di qualcosa di meglio.
Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10
C’era una volta alla… Milan Games Week
Questo è un articolo diverso dal solito. Normalmente questa rubrica cerca di sviscerare tutte le tematiche possibili del mondo videoludico (da qui il nome 42), ma oggi no. Oggi vi propongo un racconto personale della mia prima esperienza alla Milan Games Week, una fiera che ho sempre voluto visitare ma che si è scontrata con le mie aspettative, quelle di un sognatore capace di meravigliarsi per qualunque cosa, anche di una “auto blu”.
Un nero mare di infinita gente
Saltando a piè pari il lungo viaggio che mi ha portato in quel di Milano, dopo lo straniamento causato da due palazzi adiacenti alla fiera, ecco che finalmente vedo l’ingresso della Milan Games Week 2019. Il primo pensiero è andato verso il tesseratto della società odierna, formato da tante piccole menti accomunate da un solo pensiero: la f…ortuna di trovarsi nel centro nevralgico del videogame in Italia. In poche parole, gente, gente e ancora gente. Incredibilmente, il paragone più efficace per far rendere l’idea è quello del casinò, un luogo chiuso, ipnotico, strapieno di luci e belle ragazze. Tralasciando il piccolo dettaglio che non viene servito da bere gratis, tutto risulta abbastanza similare, creando così l’effetto Trainspotting: pochi minuti diventano ore e, improvvisamente, è tutto finito. Ma andiamo con ordine.
Partiamo con lo stand di Cyberpunk 2077, per quanto mi riguarda il titolo che aspetto di più il prossimo anno. Stand carino come quelli di JoJo ma povero di contenuti come Pomeriggio Cinque. Ovviamente niente demo giocabile (ci mancherebbe) e con questa ultima frase potrei chiudere qui l’articolo. Ma mi faccio forza, recupero dalla delusione e proseguo.
Si, perché di stand ce ne sono a bizzeffe, alcuni con ottime trovate come in quello di FIFA 20, allestito con una gabbia al cui interno era possibile testare le nostre qualità di calciatori professionisti a parole. Purtroppo non sono riuscito a giocare fisicamente (avrei umiliato tutti quanti…) ma digitalmente si, visto che da diversi anni gioco al calcistico EA dopo una pre-adolescenza passata in Konami. La novità più eclatante è senza dubbio la Modalità Volta, come si evinceva dalla gabbia lì fuori: un FIFA Street dentro FIFA 20 è quello che Electronic Arts ci propone e nonostante funzioni, in qualche modo non mi ha entusiasmato. Inutile dire come le vere novità cominceranno ad apparire l’anno prossimo con l’avvento della nuova generazione, ma la stagnazione comincia a farsi sentire ed è per questo cari amici, che sono tornato da PES. Anche per Pro Evolution lo stand era ben presente ma visto che avevo provato abbondantemente la demo e il gioco completo precedentemente sono semplicemente passato oltre.
Le prove effettuate con diversi titoli sono state abbastanza interessanti, grazie anche alla scoperta di app atte alle prenotazioni dei vari test… ammesso e concesso che ci si riesca, certo.
L’unica prova prenotata con successo è stata quella di Nioh 2, seguito del fortunato RPG a tinte “souls like” di Team Ninja. Giocare con qualcosa che uscirà solo tra qualche mese è interessante per diversi aspetti: il primo è quello di sentirsi privilegiati, toccando con mano qualcosa che la gente comune vedrà solo nel prossimo futuro. Tralasciando questi finti sensi di onnipotenza, la prova è utile anche per poter discutere delle sensazioni preliminari con altri utenti e con gli sviluppatori (che ovviamente non erano presenti ma mi piace pensare che osservassero i nostri gameplay in gran segreto).
Terzo e ultimo punto, puoi suggerire cambiamenti o miglioramenti che ovviamente non verrebbero presi in considerazione a pochi mesi dal lancio. E quindi Nioh 2? Risulta molto simile al precedente capitolo, con la differenza che il nostro alter ego non è più un personaggio predefinito ma “customizzabile” e la possibilità di trasformarsi in un potentissimo Yokai, anche se ancora quest’ultima non sembra essere contestualizzata narrativamente, almeno per ora. Inoltre non vi è stato modo di testarne eventuali malus, un po’ come la trasformazione “draconica” dei Dark Souls ma, in ogni caso, è una soluzione che regala gran soddisfazione.
Non accontentiamoci
Passiamo a un gioco molto simile: Grid. Battute a parte, il nuovo remake Codemasters può diventare una delle migliori sorprese dell’anno, con quel sistema Nemesi che tanto ricorda (ma forse solo per omonimia) il tanto decantato La Terra di Mezzo: L’Ombra di Mordor o L’Ombra della Guerra, ma applicato ai piloti. Effettivamente l’intelligenza artificiale degli avversari sembra rivaleggiare con i Drivetar dei Forza Motorsport e Horizon, anche se è ancora molto presto per sbilanciarsi. Il titolo sembra ricordare per diversi aspetti il precedente Grid: Autosport, un ibrido simulativo-arcade che può si aprire verso un pubblico molto vasto ma che rischia di non accontentare nessuno. Essendo un grande fan dell’originale Grid, non vedo l’ora di toccarlo con mano, per cui attendevi ben presto una recensione tra queste pagine.
Ma altro titolo molto atteso non poteva che essere il remake di Final Fantasy VII, progetto misterioso ma ora più concreto che mai. Il titolo si presenta molto bene, con quel gameplay ibrido che ha inizialmente suscitato molti dubbi ma che in realtà si rivela essere la scelta più azzeccata. Siamo comunque nel 2020, la gente è abituata all’azione e, per quanto un sistema a turni possa dare quel tocco di tatticismo in più, non riesce a regalare la giusta dose di adrenalina di cui siamo assuefatti nell’età contemporanea. Effettivamente, vedere un titolo giocato non so quanti anni fa in questa veste totalmente rinnovata fa abbastanza impressione: la cosa interessante, almeno per quanto mi riguarda, è che quando avevo l’età in cui la vita risulta molto semplice, il gioco, mi sembrava così, con la stessa veste grafica. In poche parole, era come se l’immaginazione mettesse del suo, producendo elementi che l’hardware non riusciva a riprodurre. Un po’ come il viso di Snake in Metal Gear Solid.
Saltando altri episodi discretamente interessanti, sono rimasto sorpreso dello spazio dedicato al mondo degli Indie, alcuni dei quali veramente interessanti come Forgotten Hill Disillusion e altri lavori che puntano non solo al divertimento in senso stretto ma in grado di approcciare l’apprendimento o il management in maniera innovativa. Inutile dire come alcuni Indie erano pressoché scadenti, nonostante le buone idee di base: l’impressione è che alle volte non si sfrutti pienamente il palcoscenico di una fiera così importante, mancando totalmente il bersaglio. Si può avere l’idea migliore del mondo ma se non si sa esprimere diventa essenzialmente come uno sputo in pieno oceano: è vero che il livello del mare aumenta, ma è del tutto irrilevante.
Sugli e-sport dedicherò probabilmente un articolo (più serio) a parte; del resto è un fenomeno interessante e che sta evolvendo precipitevolissimevolmente e uso questa parola semplicemente perché non ho mai trovato occasione per farlo.
La Milan Games Week arriva al termine dopo aver visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, aver incontrato tantissime persone e nuove realtà, aver provato titoli in anteprima e camminato per decine di chilometri. Il risultato: potrebbe essere fatto molto di più. Non fraintendete, è stata un gran bella esperienza, eppure il sentore che in qualche modo ci si accontenti permane. Forse servirebbero più anteprime, magari internazionali, ospiti di maggior livello ed eventi in grado di far partecipare più attivamente il pubblico.
La scena videoludica italiana sta crescendo, anche grazie a questa fiera ma forse, è arrivato il momento della sferzata decisiva e dare lustro a un settore che nel nostro paese non ancora apprezzato come dovrebbe.