Tom Clancy’s The Division 2 – Vinci o Impari

La prima iterazione di Tom Clancy’s The Division ha lasciato tutti quanti un po’ interdetti: dopo una presentazione in pompa magna, tra trailer suggestivi e campagna marketing aggressiva, quello che arrivò tra gli scaffali fu un titolo “monco”, pieno sì di potenziale e di buone speranze ma che si perdeva in alcune ingenuità come alcune feature inaccessibili da subito e nemici in grado di assorbire ingenti quantità di proiettili. Ubisoft e Massive Entertainment hanno gradualmente imparato la lezione, portando grossissimi miglioramenti al pacchetto, anche se forse un po’ troppo tardi. Il secondo capitolo dunque, è frutto degli insegnamenti appresi in precedenza, presentandosi in maniera poco velata come un ottimo “more of the same”.

Una Divisione per gli Stati Uniti

Sono passati sette mesi da quando una devastante epidemia ha colpito gli Stati Uniti il giorno del Black Friday. Se, come abbiamo visto, New York non è rimasta indenne dalla caduta della società, non se la passa di certo meglio la capitale, una Washington D.C. contesa da diverse fazioni divise per ideologia, tutte alla ricerca di ascendere al potere. Anche qui La Divisione è chiamata a riportare l’ordine, cercando di ristabilire un governo che possa rimettere in qualche modo le cose a posto. Il compianto Tom Clancy ci ha regalato negli anni, storie al cardiopalmo, thriller politici e colpi scena come se piovesse, ma qui, purtroppo, nonostante dei buoni asset narrativi, tutto risulta dannatamente piatto e di certo l’eccessiva frammentazione delle quest non aiuta il giocatore a interessarsi di una trama molto debole. Tutto suona di pretesto, un contesto in cui qualsiasi giocatore possa collegare il suo agire con una qualsiasi motivazione narrativa. L’amaro in bocca rimane, soprattutto per una scrittura che di per sé non è neanche male, contando su dialoghi talvolta ispirati.
Cosa resta dunque? Molto poco, ed è un peccato perché tutto il resto funziona, e molto bene.

Sbagliando si impara

Tutto ciò che abbiamo visto nel precedente capitolo, qui viene riproposto con diverse migliorie e novità, a cominciare da una maggiore personalizzazione di armi e poteri tecnologici, in grado di rendere unico il proprio alter ego. Proprio sulle armi è stato eseguito un lavoro certosino, moltissime per numero e tipologia ed estremamente diversificate. Ogni arma ha le sue caratteristiche, un proprio rinculo, un proprio rateo e così via, rendendo l’esplorazione di queste peculiarità parte attiva del gameplay, alla ricerca dello strumento di morte adatto a noi. L’aggiunta di nuovi armamenti poi, ha ampliato a dismisura le possibilità da gioco di ruolo del titolo ma soprattutto una maggior ricercatezza tattica; questo perché anche l’intelligenza artificiale è degna del nome che porta, garantendo una sfida adeguata, già a partire dai primi frangenti di gioco: accerchiano, stanano e si coordinano, sfruttando ripari, torrette o postazioni sopraelevate. Inoltre è sparito il fastidioso effetto di “bullet sponge” dei nemici, che tanto aveva afflitto la precedente iterazione. Di fronte a tutto ciò, è qui che il giocatore deve prestare maggiore attenzione, cercando di utilizzare tutte le risorse a disposizione, tra armi e gadget. Il loro potenziamento è dunque vitale, così come lo è l’avanzamento di livello sino ad arrivare alla fatidica soglia di trenta, momento in cui le cose a Washington cambieranno drasticamente.
Nonostante si presenti come titolo da day one, l’offerta è già abbastanza completa, rendendo disponibile sin da subito anche la componente multiplayer competitiva che però mostra il fianco a diverse critiche: prima di tutto il matchmaking, capace di far competere un livello cinque contro un livello venti – non c’è partita ovviamente – e una struttura che ben funziona in singolo o in cooperativa ma che lascia qualche perplessità nel competitivo, in cui la differenza è fin troppo lasciata all’equipaggiamento in dotazione.
Tralasciando questo però, The Division 2 regala grosse soddisfazioni, con un ottimo feedback dalle armi e dei movimenti, di molto migliorati rispetto alle beta: ci troviamo sempre di fronte a un classico TPS con coperture attive, ed è qui che il level design mostra i muscoli, sia all’aperto che all’interno: l’attenzione dedicata a questo aspetto è encomiabile, con ambienti non solo ricchi di dettagli puramente estetici ma anche ricco di elementi che potremmo utilizzare come ripari adatti a tutte le situazione e sfruttabili tatticamente. La libertà d’approccio è quasi totale e conoscere gli anfratti di Washington a menadito può risultare spesso un grosso vantaggio. Nonostante la capitale degli Stati Uniti non vanti lo stesso fascino e suggestione di New York, è comunque una meraviglia, viva, variegata e che soprattutto invita all’esplorazione. Andare alla ricerca di equipaggiamento via via sempre più performante è un elemento chiave ma anche un piacere in questo caso.
Le cose da fare di certo non mancano, con un’elevata mole di missioni principali e secondarie in cui perdersi, ma in grado di fornire ricompense adeguate, che invogliano il giocatore a intraprenderle, approfondendo in senso lato anche la narrazione.
Massive Entertaiment ha già promesso importanti update gratuiti nel corso dell’anno e di fronte a una base di partenza così solida siamo curiosi di vedere come questo titolo possa migliorare, magari facendo da maestro ad altre produzioni simili ma che faticano a “tirare avanti”.

La forma segue la funzione

Vista la sua natura, il compito di lasciare a bocca aperta gli utenti attraverso il comparto tecnico, non è stato nelle priorità di Massive Entertainment; nonostante ciò, il titolo si mostra abbastanza bene, con ambienti e contorno che si discostano molto dalla New York del capitolo precedente. Una palette di colori molto accesa accompagna il giocatore attraverso una Washington sfaccettata, ricca di dettagli ed estremamente varia, segno che dal punto di vista artistico si è fatto un gran lavoro. Su PC il titolo non mostra alcuni segni di cedimento per quanto concerne il frame rate anche se vi è da segnalare un eccessivo pop-up di texture e alcuni elementi a bassa definizione. Per il resto, The Division 2 riesce a regalare scorci mozzafiato, soprattutto in zone avanzate della mappa. Sul fronte audio si segnala un buon doppiaggio italiano, che cerca in qualche modo di far risaltare quanto viene narrato, accompagnato da musiche sempre adatte al contesto: nulla di memorabile, ma in grado, in certi frangenti di esaltare alcune sezioni di gameplay. Ottimo lavoro per quanto concerne invece l’ambiente sonoro, capace di caratterizzare una città in decadenza ricordando a tratti i fragorosi silenzi di “Io Sono Leggenda”. Il buon lavoro eseguito sul mixaggio audio inoltre – apprezzabile soprattutto se dotati di headset 7.1 – aiuta tantissimo la nostra percezione dell’ambiente e soprattutto dei nemici, fondamentale in molti frangenti.

In conclusione

Tom Clancy’s The Division è dunque un titolo riuscito, capace di intrattenere come pochi nel suo genere, dimostrazione di come sia importante inciampare per poter rendere al meglio successivamente. Tutto ciò che è stato apprezzato precedentemente viene riproposto in versione migliorata e potenziata, riducendo il più possibile i difetti tanto criticati dalla community. È il miglior loot shooter sul mercato? Probabilmente sì: tutto funziona a dovere, regalando fin da subito varietà d’approccio, un gran senso di libertà al videogiocatore, che mai come adesso, si sente protagonista nella riconquista della civiltà andata perduta.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Il futuro è arrivato da Google. Ma siamo pronti?

Per troppi anni siamo stati abituati al duopolio Sony-Microsoft, con Nintendo a fare da outsider. Ma tutto questo, nel corso degli anni, ha portato quasi a una standardizzazione dell’hardware, ma anche del software, dove si fa veramente fatica a trovare titoli in grado di fare un reale salto di qualità. In questo mondo semi-stantio tante sono state le voci di nuove pretendenti al trono di migliore console in commercio, a cominciare da Amazon, Apple sino a Google e proprio quest’ultima, dopo una serie di roboanti rumor, è finalmente tra noi.
Google Stadia è il nome del nuovo sistema, la materializzazione di un futuro già preventivato ma forse distante per essere realmente immaginato. Si dice spesso che la tecnologia avanzi più velocemente di quanto l’uomo riesca a padroneggiarla e anche nel mondo del gaming sembra essere arrivato il momento. Google Stadia è pronta. Ma noi?

Qui studio a voi Stadia

Tutti aspettavamo con trepidazione la conferenza Google alla GDC di quest’anno. Troppo importante era l’ingresso in campo di un quarto competitor e già le supposizioni, gli entusiasmi e le preoccupazioni fioccavano come i tweet di Wanda Nara. La nuova console Google avrebbe fatto la fine di Sega? Porterà qualcosa di nuovo? Se alla prima domanda non possiamo ancora rispondere, possiamo già dar forma al secondo quesito: sì, Stadia è qualcosa di nuovo; forse troppo.
Ovviamente il tutto non poteva che essere presentato da Sundar Pichai (amministratore delegato Google), che con molto entusiasmo ha presentato al pubblico il nuovo progetto, in cui la parola accessibilità ne è chiave di volta.

Tutti sapevamo che il futuro del gaming sarebbe stato nel Cloud e che PlayStation 5 e l’eventuale Xbox Two, sarebbero state le ultime console fisiche. Google è stata furba: come entrare in un settore così omologato, attraendo una clientela sin troppo abituata al solito trio? Semplice: anticipare di anni la concorrenza, perché quello mostrato da Google sembra a tratti fantascienza già alla portata di tutti. Il videogioco dunque non passa più attraverso tediose attese, tra download e aggiornamenti; non è più relegato a un singolo sistema ma soprattutto, cade la barriera tra videogiocatore e spettatore.
Google Stadia può essere infatti utilizzabile attraverso qualunque dispositivo dotato di Google Chrome, dalle SmartTV agli Smartphone, dai PC ai tablet e così via con un tempo d’ingresso in partita di massimo cinque secondi, senza alcun download o caricamento di sorta. Il pad progettato dalla casa californiana segue a ruota la filosofia del nuovo servizio, connettendosi via Wi-Fi direttamente alla sessione in corso e con accesso immediato a Google Assistant, in grado di fornire indicazioni al giocatore, mostrando direttamente su YouTube il frangente di gioco interessato.
Tutto questo è possibile attraverso un ecosistema di macchine ognuna delle quali dotate di chip AMD in grado di raggiungere i 10.7 Teraflops (una cifra standard per le console di nuova generazione); ne consegue che lo streaming potrà essere sfruttato in 4K HDR 60FPS su qualunque dispositivo e situazione, con possibilità nel breve futuro di arrivare all’8K.

Tutto questo ben di dio non interessa fortunatamente soltanto la partita singola: il multiplayer, attraverso il cross-platform, è anch’esso al centro del progetto, aumentando a dismisura il coinvolgimento, la partecipazione e l’interazione tra gli utenti. Pur giocando in multiplayer online non si perderà qualità, permettendo dunque a tutti gli utenti in partita di godere al massimo del titolo con cui si sta giocando. Entrano in scena nuovi modi di interazione tra gli utenti, tra cui lo State Share, che permetterà ai giocatori di condividere o interagire con determinati segmenti di gioco, sfruttabile ad esempio per confrontare punteggi o sfidarsi su un singolo elemento del gioco. Crowd Play invece, consentirà a qualunque giocatore di entrare istantaneamente in partita o in una lobby multiplayer, anche attraverso un video su YouTube. Tutto questo fa immediatamente pensare ai Content Creator, con i quali Google ha collaborato a stretto contatto: l’interazione tra essi e il pubblico, in questo caso, aumenterà a dismisura.
Google è dunque pronta a entrare a “gamba tesa” nel mercato, supportato già da molte aziende e software house come Ubisoft e Id Software, presente in conferenza con Doom Eternal, ma supportato anche da Jade Raymond il nuovo capo di Stadia Games and Entertainment, dedicato allo sviluppo di prime parti e alla collaborazione con altri publisher.

E adesso?

L’arrivo di questo servizio, come detto, ha un po’ cambiato le carte in tavola. Sony e Microsoft sono probabilmente nell’ultima fase di sviluppo delle loro nuove console, ma come si approcceranno al nuovo concorrente, così diverso e così allettante? Il prossimo E3 potrebbe riservare molte sorprese ed è un peccato a questo punto l’assenza del colosso giapponese.
Google Stadia è dunque rivoluzionario, quasi sin troppo bello per essere vero; ma qualche perplessità permane. Prima di tutto, riusciranno le connessioni internet (si parla di 25Mbit per il 1080p 60FPS e 30Mbit per il 4K) meno performanti a gestire questo servizio? Una volta connessi centinaia di migliaia di utenti in contemporanea, il sistema reggerà? E poi l’elemento più importante, i costi; funzionerà attraverso un abbonamento stile Netflix o si dovrà possedere il singolo gioco? Queste domande avranno probabilmente risposta a Giugno in quel di Los Angeles, ma per un attimo, andiamo oltre.
La produzione e l’acquisto di nuovo hardware per l’utente potrebbe aver perso qualunque significato: rimanendo nel settore gaming, perché comprare una 2080Ti quando basta accedere a un servizio per giocare a 4k HDR e 60fps al secondo? Questo discorso vale indubbiamente anche per le console che sì, possono puntare su esclusive software (vedi Death Stranding o Halo Infinity), ma di fronte a tutto questo, valgono l’acquisto di una console e tutto ciò che ne consegue? La risposta non è così scontata e starà a Google e la poderosa campagna marketing che seguirà a mostrarci le reali potenzialità di Stadia.
Anche la distribuzione di giochi, a partire dalle beta e le demo potrebbe cambiare drasticamente, permettendo agli utenti un facile accesso, evitando download e attese che ormai sembrano far parte del medioevo. E la “Console War”? Anche questa finirebbe tra i libri di storia, nella sezione futilità.

E noi? Così come non siamo pronti ad auto a guida autonoma o a salire su aerei senza pilota, siamo già pronti a giocare senza console? I servizi cloud di Sony e Microsoft sembrerebbero portarci verso una risposta positiva, ma si tratta comunque di servizi che rispondo alla “naturale evoluzione” di quello che il gaming sta diventando. Google Stadia sembra andare oltre il prossimo step, con la sensazione che le vere potenzialità di questo servizio siano ancora segrete, delle cartucce da sparare direttamente contro Sony, Nintendo e Microsoft sul loro campo di battaglia, l’E3 di Los Angeles che, a questo punto, potrebbe oscillare tra una Waterloo o una Hastings.




Just Cause 4 – Un calcio alla Ragione per far Spazio all’impossibile

Il mondo dell’intrattenimento è ormai suddiviso in così tante categorie che non basterebbe questa recensione per elencarle tutte. Se il mondo del cinema pullula di film che riescono a intrattenere e divertire senza pretese particolari, il campo videoludico – paradossalmente – soffre la mancanza di titoli di questo tipo e, eccezion fatta per gli sportivi, se ne trovano meno di quanti dovrebbero forse essercene: il “divertiti e basta” a volte viene accantonato in favore di una ricercatezza narrativa che però risulta, la maggior parte delle volte, difficile da gestire, andando quindi verso una direzione molto lontana rispetto quella prevista dagli autori. Ben vengano dunque i titoli à la Michael Bay di cui la serie Just Cause è fiero portavoce. Perché avere una trama e una caratterizzazione degna di nota quando si possono usare liberamente dei razzi per far volare una mucca nell’iperspazio? Just Cause 4 porta tutti i principi della saga su nuovi livelli, in un un mondo di gioco cui ignoranza fa rima con benessere psicofisico.
Per noi italiani, poi, questo titolo ha anche un sapore particolare: Francesco Antolini, game director di Avalanche Studios, dimostra come un designer nostrano, immerso in un contesto che funziona, può far grandi cose.

Stessa storia, stesso posto, stesso bang

L’intera Isola di Solìs può essere considerata il nostro hub, nel quale si svolgono vicende vicine al lungometraggio con protagonista Gerard Butler – tra l’altro perfetto come  protagonista per un eventuale adattamento cinematografico della saga Avalanche – Geostorm: per Rico Rodriguez è tempo di capire chi è, esplorando il proprio passato, alla ricerca di risposte ad ataviche domande. Peccato che la Mano Nera, nome altisonante per la classica organizzazione malvagia di turno, metta i bastoni tra le ruote insieme a tornado e tempeste di vario tipo. Tutto ruota infatti sul controllo del clima, vista come arma vera e propria, che diventa mezzo e oggetto di sequenze davvero spettacolari capaci di far dimenticare la piattezza di una trama che fatica a decollare è che diventa – come ovvio in questi casi – un pretesto per permettere ai giocatori, attraverso Rico, di sbizzarirsi nel favoloso parco divertimenti di nome “Just Cause Land”. Inutile dunque soffermarci su caratterizzazione di personaggi e qualità dello script: tutto è funzionale, come un film di Michael Bay ben riuscito – so che è difficile immaginarlo, ma fate uno sforzo.

Spara che ti passa

Just Cause 4 non è che l’ennesima evoluzione di un gameplay riuscito sotto diversi aspetti, aperto alle più diverse fantasie dei videogiocatori. Tutto rimane sostanzialmente invariato, con Rico capace di effettuare qualunque tipo d’azione à la Steven Seagal che vi venga in mente: paracadutarsi sparando all’impazzata? Si può; lanciarsi da 10000 metri in picchiata verso il vostro obiettivo, aprendo la tuta alare all’ultimo secondo mentre lanciate una granata a un serbatoio di carburante sfruttando la spinta ascensionale dell’esplosione per riprendere quota? Anche. Utilizzare un pallone aerostatico su una mucca per poi farla precipitare sui vostri nemici? Ma ovviamente sì.
Paragonato ad alcune produzioni attuali come Red Dead Redemption 2, Just Cause 4 è una soddisfacente sveltina: semplice, diretto e perfetto per tutte le occasioni. Le novità introdotte nel nostro arsenale prevedono Sollevatore (mutuato direttamente da Metal Gear Solid V: The Phantom Pain), Riavvolgitore e Booster. Questi potenziamenti per il nostro rampino aumentano a dismisura la libertà d’approccio permessa al giocatore, trasformando tutto in un’orgia  di “roba” senza precedenti: se come già citato, il primo produce palloni aerostatici per sollevare qualsiasi cosa, il riavvolgitore consente di attrarre qualsiasi oggetto verso un altro, con il booster, fiore all’occhiello del titolo, a far da lanciatore universale e che Elon Musk approverebbe seduta stante. Questi dispositivi possono essere utilizzati in contemporanea, con tre diversi gradi di potenza: senza giri di parole, se confrontato al titolo Avalanche, Sharknado è un film di Sorrentino.
Le varie personalizzazioni dei gadget vengono sbloccate attraverso decine di missioni secondarie abbastanza ripetitive, sparse per la vasta isola di Solìs, che spazia tra villaggi, città ultra moderne e immense distese di natura incontaminata, dalle calde spiagge alle vette innevate, che purtroppo non portano ad alcuna variazione in termini di gameplay, ma una varietà d’ambienti invidiabile. Se tutto vi sembra “rose e fiori”, correggiamo subito il tiro: il problema principale di Just Cause 4 è infatti la reale mancanza di progressione in quanto tutto ciò che possiamo fare sul finire dei gioco è possibile già sin dalle prime battute. Se non fosse per una manciata di quest principali dalle quali bisogna obbligatoriamente “passare”, nulla ci vieterebbe di andare al quartier generale nemico per farlo saltare in aria senza troppe domande; se poi aggiungiamo che attraverso mirate missioni secondarie potremmo avere a disposizione quasi sin da subito carri armati, elicotteri armati di tutto punto e F-22 come se non ci fosse un domani, capite bene che l’equilibrio di gioco non è dei migliori, volendo essere diplomatici. Il “carico da novanta” arriva però quando da uno dei menu presenti, possiamo scegliere quale equipaggiamento possiamo farci recapitare, grazie allo sblocco di piloti, che lanceranno da aeri cargo qualunque cosa di cui abbiamo bisogno e che, al 95%, coincide con la lista di poco sopra.
Dunque cosa abbiamo? Un gioco in cui ci si diverte tanto ma che alla lunga, in mancanza di una reale sfida, tende spegnersi come un fiammifero in una bufera di neve.

Com’è? Simpatico

Dal punto di vista puramente tecnico, a un primo colpo d’occhio Just Cause 4 si presenta abbastanza bene, con scorci mozzafiato, quasi da cartolina. Purtroppo però lo sguardo sullo schermo si posa molto più che il tempo di una fugace occhiata e basta poco per accorgersi che qualcosa non quadra, come un’ottimizzazione tutt’altro che perfetta ma soprattutto l’utilizzo di texture, shader e filtri che suonano forse un po’ superati. Fortunatamente – e a ben donde – l’effettistica svolge un egregio lavoro e tra esplosioni, fulmini e tempeste ci si sente tra tanti green screen cinematografici. Ovviamente, ma in certi casi si può anche chiudere un occhio, sono presenti alcuni problemi legati alla fisica, come oggetti che passano tra pavimento e la Luna in un istante, senza apparente motivo e compenetrazioni tra le più suggestive mai viste. Ma in un titolo come questo, dove anche i fili d’erba possono saltare in aria, è un miracolo che tutto funzioni senza particolari incidenti di percorso.
Se il comparto tecnico non brilla dunque per qualità, al contrario l’audio mostra i muscoli, con un ottimo doppiaggio italiano capace di comprendere la natura scanzonata del titolo ma che a volte fa a pugni con una scarsa sincronia col labiale. Effettistica molto nella norma (un peccato) ma musiche in grado di spaziare tra diversi generi, decisamente orecchiabili.

In conclusione

Just Cause 4 è forse l’ultimo della saga ad avere queste caratteristiche: benché diverta, intrattenga, permettendoci di utilizzare un’arma per richiamare fulmini dal cielo – roba che Gael in Dark Souls III levate proprio – a conti fatti rappresenta un “more of the same” dei lavori Avalanche Studios. Ma Francesco Antolini può andarne fiero, diventando (si spera) un apripista per molti talenti italiani presenti sul territorio, quelli che il nostro Bel Paese spreca, e che speriamo trovino la voce che meritano.

 

Nota: nessuna mucca reale è stata lanciata nella stratosfera per la realizzazione di questa recensione.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
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Devil May Cry 5 – I Tre dell’Ave Maria

Devil May Cry è un brand che non ha bisogno di presentazioni ma, qualora vi servissero, be’… tornate indietro, recuperate almeno i quattro titoli principali e poi tornate qui; sicuramente leggerete questa recensione con un piglio un po’ diverso. Hideaki Itsuno è tornato, e il suo Devil May Cry 5 sembra raccogliere quanto di meglio la serie abbia prodotto nel corso degli anni: c’è un bel po’ del quarto capitolo, la freschezza del terzo, le idee dell’originale e qualche piccolo dettaglio ispirato anche dal DMC – Devil May Cry di Ninja Theory, lavoro tra i più sottovalutati del settore ma apprezzato dai designer originali. Il secondo capitolo, invece, vanta soltanto qualche accenno, come se tutto fosse accaduto durante una bella sbronza.
Insomma, detta così Devil May Cry 5 sembra un “more of the same”, un titolo che cerca di accontentare i fan della serie con del fan service banale in ricordo dei tempi andati; ma fortunatamente c’è molto, ma molto di più, tanto che l’ultima fatica Capcom si candida automaticamente a essere uno dei migliori giochi di questo 2019.

Bastardi senza gloria

Benché non sia l’elemento principale del franchise, gli sceneggiatori hanno avuto comunque l’onere di completare linee narrative rimaste in sospeso. Ma a far la differenza –  come sempre del resto – non è “cosa” si racconta ma il “come“. Nelle dodici ore circa necessarie a completare la campagna verremo avvolti da sequenze al cardiopalmo e contornate dal solito mood nonsense, tamarro e diretto che ci ha accompagnati soprattutto a partire dal terzo capitolo. Oltre a Nero, che ritorna da Devil May Cry 4, e ovviamente Dante, fa la sua comparsa un terzo protagonista misterioso: V (una lettera, un perché). Oltre a essere un personaggio funzionale alla narrazione, questi è anche il motore che dà il via alle vicende, con lo scopo di fermare il Qliphoth, un ancestrale Albero Sacro. Del suo modo di combattere parleremo successivamente ma, nonostante un’eccessiva rapidità, quasi repentina, nel suo cambiamento di stato, V riesce a far centro, con la sua dose di carisma necessaria all’interno di un roster che vede per protagonista un mostro sacro come Dante e il riuscitissimo Nero. Le vicende si susseguono con ritmi incalzanti, a volte con ritmo frenetico, altre con il giusto tempo, per darci modo di entrare “in intimità” con il personaggio in questione. Tralasciando qualche piccola ingenuità, come le prevedibili reali identità di Nero e V, tutto procede spedito, con una narrazione non lineare e ben congegnata e su più livelli temporali, ricca di riferimenti ai capitoli precedenti e ad altre opere come l’anime, ripreso più volte grazie anche all’ingresso in-game di Morrison (“agente” di Dante), che nel frattempo ha subito un cambio di etnia. Il passato di Dante e dei suoi trascorsi sono sviscerati a più riprese, mostrando anche piccoli traumi e debolezze che arricchiscono ancor di più il background di un personaggio ormai iconico. Non si tratta certo di una scrittura da premio Oscar, sia ben chiaro, ma è comunque sufficiente a rendere Devil May Cry 5 il migliore dal punto di vista narrativo. Ovviamente non potevano mancare Trish e Lady, accompagnate in questa occasione da Nico, la compagna d’avventura di Nero senza peli sulla lingua che svolge funzione di principale di comic relief ma anche da amica fidata, oltre che un ruolo chiave all’interno del gameplay.

Col sorrisetto, sulla faccetta

È chiaro come in un hack ‘n’ slash il gameplay svolga un ruolo chiave. Devil May Cry 5 riprende lo stile e le meccaniche del precedente capitolo ma reinterpretandole in una nuova salsa, sfruttando anche la maggiore potenza dell’hardware attuale. Abbandonata la telecamera fissa, ci si ritrova all’interno di un’orgia adrenalinica di colori, suoni e botte da orbi che Capcom ci ha saputo regalare spesso, anche se qui siamo su ben altri livelli. Aver tre personaggi giocanti significa avere tre differenti approcci al combattimento: partendo dal nuovo arrivato V, ci troviamo ad avere a che fare non con il “solito” mezzo demone armato di lama ma con un evocatore, in grado di richiamare due creature più una speciale, vecchie conoscenze del capitolo originale. Lo stile di V è totalmente diverso rispetto a qualunque altro personaggio della serie: a combattere saranno i demoni evocati, mentre “l’uomo misterioso” starà a distanza, agendo solo in caso di colpo di grazia. Ma ricordiamoci che si tratta pur sempre di Devil May Cry e anche qui le cose si fanno interessanti: come da abitudine (e vale anche per Nero e Dante) abbiamo a disposizione una caterva di combo e colpi speciali da sbloccare grazie all’ausilio di Gemme Rosse (la moneta in-game); ne consegue che la varietà di abilità presenti tange i picchiaduro più affermati, dovendo di volta in volta imparare le combinazioni presenti, accordare il più possibile armi e combo, annullare l’animazione del personaggio e così via. Con V tutto questo risulta forse un po’ troppo facilitato, raggiungendo molto spesso il Grado SS senza particolari difficoltà. Non che manchi tecnicismo, ma l’utilizzo di più creature, unita alla capacità di effettuare un eliminazione dopo l’altra, facilità un po’ le cose.
Nero è semplicemente Nero. Persa la possibilità di utilizzare il Devil Bringer, è costretto a usufruire di protesi speciali costruiti dalla sua fedele Nico. I Devil Breaker, diventano così un’idea geniale, in grado di variare l’approccio ai combattimenti come raramente visto in altre produzioni: essi hanno abilità diverse ed è possibile portarne sino a otto se sbloccati gli slot necessari; ognuno di loro ha capacità uniche come la possibilità di lanciare scariche elettriche in grado di stordire i nemici, fermare il tempo o trapanare per bene. La loro varietà è molto ampia possedendo a loro volta un’abilità speciale devastante che se usata causerà la distruzione dell’arto meccanico. Proprio la loro distruzione diventa un elemento attivo del gameplay di Nero in quanto l’unico modo per cambiare Devil Breaker è quello di sacrificarlo. Se a prima vista questa scelta può sembrare limitante, giocando ci si accorge come tutto abbia un senso logico: oltre a portare un certo tatticismo nella scelta delle protesi da utilizzare a inizio missione, le esplosione hanno sempre un effetto attivo, danneggiando i nemici, aiutando quasi a non interrompere le combo. Inoltre c’è da considerare che inserendo la possibilità del cambio, Nero sarebbe stato sin troppo simile a Dante, capace di cambiare stile, influenzandone il moveset. Ma lo vedremo dopo. Ogni Devil Breaker è dotato di un rampino, capace di far attrarre verso di noi ogni nemico e sbilanciarlo oppure di lanciarci verso il malcapitato con tutta la nostra furia.

Ma che Devil May Cry sarebbe senza una spada? La Red Queen di Nero torna più in forma che mai, con la sua peculiarità di poter essere caricata (sino a un massimo di tre volte) rendendola ancor più potente. La combinazione di Red Queen e dei Devil Breaker trasforma Nero in una macchina di morte quasi esilarante: Nero si diverte e con lui ci divertiamo anche noi. Pad alla mano, l’utilizzo del nuovo ammazza demoni è una gioia per gli occhi e per il cervello, restituendo feedback puramente adrenalinici capaci di assuefare ogni videogiocatore. E non siamo ancora arrivati alla parte migliore.
Ovviamente Dante riesce a regalare le migliori soddisfazioni, non migliori rispetto a Nero ma semplicemente diverse, probabilmente per l’affezione all’iconico personaggio. Dante è in tutto e per tutto il figlio di Sparda che conosciamo, capace di intercambiare in tempo reale armi e stile come solo lui sa fare. Passare dalla Rebellion (la celeberrima spada di Dante) alla Balrog (una sorta di armatura per gli arti) e Cavaliere R, in poche parole uno “moto – sega” (!) è puro piacere, intenso come un Ferrero Rocher fondente (molto buono). Tutto diventa, dopo aver fatto un po’ di pratica – soprattutto ne Il Vuoto – pura tecnica e istinto, una combinazione che raramente, ma molto raramente troverete in altre opere simili.
È un titolo che come da tradizione predilige l’attacco più che la difesa e ovviamente non ci si può staticamente difendersi: l’importanza alla schivata è infatti relativa e seppur presente, attraverso una combinazione di tasti, difficilmente sarà un opzione presa in considerazione.
L’attenzione riservata al puro combattimento è andata anche verso la realizzazione di ambienti strutturati con cognizione di causa e benché presentino il più delle volte il sistema classico di “corridoio-arena”, il level design riesce a sorprendere, invogliando in qualche modo l’esplorazione alla ricerca di oggetti utili alla missione. Questo in certi frangenti diventa fondamentale in quanto in questo capitolo sono state completamente rimosse le Stelle di cura e di ricarica del Devil Trigger. Dunque la barra vita che abbiamo è quella che ci dobbiamo tenere, sfruttando eventualmente la trasformazione in demone per rigenerarla. A far da contraltare però vi è una maggiore disponibilità di Gemme Dorate (una sorta di vita in più) oltre a un numero infinitamente più alto di gemme rosse, visto anche la presenza dei tre personaggi giocabili. Il titolo è estremamente equilibrato e nonostante sia presente la possibilità di effettuare degli acquisti attraverso microtransazioni, non se ne sente mai il bisogno.
Piccola nota anche all’aggiunta del cosiddetto Cameo System, in cui uno o più giocatori reali possono intervenire in partita, trasformando in certi frangenti, DMC in un cooperativo online. Questo sistema, però, benché discretamente interessante, è un elemento quasi superfluo e che non incide in alcun modo sull’andamento della partita, se non per qualche piccolo aiuto in caso di numerosi nemici.
In ogni caso Devil May Cry 5, in ogni sua traslitterazione di gameplay, è puro piacere e se non vi diverte, allora il problema siete voi.

Un Giappone che funziona

Il RE Engine si mostra in tutta la sua potenza, rendendo Devil May Cry 5 una gioia per gli occhi, soprattutto su PC. La modellazione dei personaggi, così come le animazioni rendono il tutto molto verosimile, enfatizzato da animazioni facciali tra le migliori viste finora. Tutto risulta pulito e fluido e su PC perfettamente ottimizzato, segno che in Giappone forse stanno cominciando a prendere a cuore la comunità di “pcisti”. Proprio questa versione risulta essere di gran lunga la migliore rispetto alla versione console, garantendo una maggiore cura per i background e soprattutto per gli effetti, dal motion blur all’occlusione ambientale, tra l’altro presenti con opzione “variabile” nel menu apposito, permettendo una gestione adeguata di questi anche per macchine non performanti. Spiccano, come già accennato, i modelli e le animazione dei personaggi, non solo durante le cutscene (splendide, coreografiche e ricercate) ma anche durante il gameplay, tra evoluzioni pittoresche e violenza inaudita.
Anche la componente audio non è da meno, con l’ormai iconica Devil Trigger del duo Casey e Ali Edwards e le musiche d’accompagnamento diverse per ogni personaggio ma che hanno in comune il crescendo parallelamente al livello di stile ottenuto. Ne consegue che la musica accompagna direttamente, ma in maniera naturale, l’azione, creando un mix perfetto e adrenalinico. Rispetto al reboot di Ninja Theory (DMC – Devil May Cry) il gioco non è doppiato in italiano ma soltanto in inglese e giapponese, con sottotitoli. La sincronia con il labiale è perfetta in entrambi i casi, piacevole e godibile in entrambe le lingue.

In conclusione

Devil May Cry 5 è l’ulteriore conferma del periodo d’oro di Capcom: nonostante sia un sequel di una saga quasi ventennale riesce nell’intento di accontentare tutti, dai fan più esagitati ai neofiti, che magari potranno recuperare i prequel. Una trama funzionale ma ben sceneggiata accompagna tre differenti gameplay di altissimo livello, rendendo questo quinto capito forse il migliore hack ‘n’ slash degli ultimi dieci anni. Soltanto qualche leggero difetto sporca un titolo da eccellenza assoluta e che forse aprirà le porte a un nuovo remake sulla falsa riga di Resident Evil II: quello dell’originale Devil May Cry.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
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Shadow of the Tomb Raider – Bellezza Letale

Il reboot di una delle serie più importanti della storia dei videogame, con l’intrinseca riscrittura di un’icona pop come Lara Croft, è stato un successo. Con l’ultimo capitolo di questa ideale trilogia, Shadow of the Tomb Raider, possiamo dirlo ma, diciamocela tutta: era più semplice sbagliare che fare bene.
Sin dal 2013, anno di debutto della nuova archeologa e delle sue avventure, Tomb Raider ha saputo a poco a poco abbattere i pregiudizi dei fan, portando capitoli interessanti dal punto di vista qualitativo (ricordiamo infatti l’eccellente Rise of the Tomb Raider) e soprattutto nella ricostruzione di una Lara Croft più umana, con un percorso di crescita che l’ha portata a essere (quasi) l’eroina che tutti conosciamo. Con Shadow of the Tomb Raider, il focus è incentrato sui tratti caratteriali e conseguenze negative dell’agire dell’archeologa, in un viaggio attraverso i suoi traumi infantili e insicurezze che finora, ha ben mascherato.

E se poi te ne penti?

Da quando Lara era formata da pochi e spigolosi poligoni, il suo agire non ha mai portato a conseguenze particolarmente fatali per il genere umano: si trovava una reliquia e la si prendeva, senza far troppe domande. Ma come Indiana Jones insegna, non è tutto oro ciò che luccica e questa volta, le conseguenza si faranno sentire. Sin dal prologo, assistiamo a un lato che poco si era visto nella trilogia: la superbia, il credere di essere fondamentale per il destino del mondo, unica protettrice dell’umana stirpe. Inutile dire come le cose prenderanno una brutta piega, dopo aver creduto di aver fatto la scelta giusta. L’avverarsi di un’antica profezia Maya getterà nel caos Messico e Perù e Lara, non potrà far altro che sentirsi in colpa per quanto sta avvenendo.
Comincia così un lungo cammino di redenzione per la protagonista, esplorando se stessa, la sua infanzia e il suo ruolo nel mondo, un cammino, come da tradizione, intriso di pericoli, a cominciare dalla Trinità, una presenza costante ma forse fin poco tangibile. L’avventura, tra esplorazione, stealth e azione frenetica, riesce a intrattenere anche grazie a una rinnovata regia non solo nelle cinematografiche cutscene ma anche in game, mostrando sempre i tratti più spettacolari o struggenti dell’azione. Da questo punto di vista Shadow of the Tomb Raider dà il meglio di se, trasponendo una campagna completa, suggestiva e contornata da missioni secondarie presenti nelle località che potremmo utilizzare quasi come degli hub. Queste missioni (forse un po’ troppo vecchia scuola), permettono, alla loro conclusione, lo sblocco di nuove armi ed equipaggiamento ma con l’effetto collaterale di frammentare fin troppo la narrazione. In qualche modo infatti, purché non obbligatorie, queste rallentano, sino quasi ad arrestare le quest principali, che appesantiscono ulteriormente il vero problema (e forse unico) di questo titolo: il ritmo. Se è vero che ci troviamo di fronte a un racconto maturo, con i giusti colpi di scena e la giusta dose di pathos, la narrazione non procede mai con ritmi costanti risultando veramente interessante solo in alcuni frangenti. In qualche modo, con le modifiche di gameplay adottate, non si è riusciti a bilanciare il tutto, anche perché allargare la natura del franchise verso l’open world, non sembra la scelta azzeccata.
A mostrare il fianco – a tratti – è anche la sceneggiatura, che riesce a esaltare molti momenti chiave ma anche a neutralizzare alcuni dei momenti più empatici della protagonista e dei comprimari, svolti forse con troppa fretta e superficialità.
Nonostante tutto però – soprattutto se avete giocato i due prequel – Shadow of the Tomb Raider vi terrà incollati allo schermo, proprio per poter vedere con i vostri occhi come una ragazza fragile, ingenua ma con tanti sogni nel cassetto, sia riuscita a divenire un donna forte, in grado di cambiare il proprio destino.

Sangue e Fango

Come prevedibile Shadow of the Tomb Raider è l’evoluzione (finale?) di quanto visto finora, dal 2013 a Rise of the Tomb Raider. Il cambio di location ha permesso alcune implementazioni, a cominciare dall’uso del rampino, necessario per raggiungere appigli altrimenti inaccessibili, agganciandosi alle pareti o permettendoci di salire o scendere in sicurezza. Questo attrezzo si dimostra utile anche nelle fasi stealth, in cui potremmo letteralmente impiccare il povero malcapitato tra i rami degli alberi, alla stregua di quanto avveniva in Assassin’s Creed III con protagonista Connor Kenway. Ma l’agire nell’ombra è facilitato anche dall’uso di altri nuovi elementi, come trappole da innestare nei cadaveri o speciali frecce in grado di mandare in delirio i nemici, uccidendosi a vicenda. L’approccio rimane dunque abbastanza libero e anche l’ambiente circostante arriva in soccorso, tra innumerevoli alberi e vegetazione in grado di fornire il giusto riparo. All’interazione ambientale consona, si aggiunge anche la possibilità di poter utilizzare del fango per ricoprire il corpo di Lara, rendendola invisibile (soprattutto la notte) a fugaci occhiate. È in questi frangenti che ci si toglie le grosse soddisfazioni, potendo sfruttare tutto l’ambiente a nostro vantaggio tra alberi, cespugli, pareti, alture e acqua. In questi frangenti Lara Croft è la cacciatrice, disposta a tutto pur di fermare la Trinità che, in questi frangenti, può contate su un’intelligenza artificiale leggermente sopra la media, in grado di stanarci con l’utilizzo di granate e di accerchiarci prendendoci alla sprovvista.
Come già accennato, l’avventura di Lara può essere arricchita da incarichi secondari più o meno interessanti, presenti all’interno delle città che visiteremo. In questi ambienti regna la tranquillità dove, interagire con gli abitanti, diventa fondamentale non solo per sbloccare nuovo equipaggiamento ma anche per scovare segreti e tesori sparsi per la mappa. Il problema di queste sezioni, benché ben congegnate, è che hanno l’effetto collaterale di diluire fin troppo la narrazione con elementi che in fin dei conti, non sono fondamentali. Aggiungere tali elementi, quasi da “open world”, in un’avventura nello stile di Tomb Raider è il problema più evidente: manca l’amalgama necessaria per apprezzare queste “pause” dalla narrazione principale e purché si tratti di location suggestive, la voglia di proseguire è fin troppo più grande rispetto a quella di eseguire piccoli incarichi secondari. Fortunatamente però, tornano, più grandi, più complesse e artisticamente più ispirate, le Tombe della Sfida e le Cripte. In questo terzo capitolo, esse assumono un ruolo attivo nello sviluppo della protagonista sbloccando, alla loro risoluzione, equipaggiamento (soprattutto vestiario) ma soprattutto abilità bonus e accessibili solo in questo caso, come la possibilità di trattenere maggiormente il respiro sott’acqua. Questo, regala finalmente la giusta importanza all’esplorazione delle tombe, ovviamente il punto focale dell’intero franchise, rispondendo alle critiche verso i capitoli precedenti in cui tutto ciò risultava del tutto secondario. Le abilità di Lara comunque, sono molteplici e suddivise in tre branche principali; la diversificazione delle capacità è la chiave per la sopravvivenza e in questo Crystal Dynamics ed Eidos Montreal hanno svolto un egregio lavoro dando l’opportunità al giocatore di “lavorare di fino” per personalizzare la nostra eroina. È tutto il gioco a invogliare a esplorare e a potenziale le abilità di Lara, sfruttando le capacità acquisite eventualmente nel new game + e nei contenuti aggiuntivi.
Dal punto di vista meramente action, dove la fasi shooting la fanno da padrone, non vi sono novità rilevanti: probabilmente il punto più debole del pacchetto, non riesce a risaltare quanto dovrebbe, contando su animazioni dedicate troppo legnose; cambiare arma, mirare, sparare e ricaricare non avviene con la giusta fluidità, finendo alle volte per preferire di gran lunga eliminare in silenzio i vari nemici. Nulla che intacchi l’avventura, ma forse è arrivato il momento di “svecchiare” queste sezioni, magari prendendo spunto dal suo rivale maschile (Nathan Drake, ndr).

Sinestesia

Come accaduto soltanto per la recensione di Hellblade: Senua’s Sacrifice, anche questa volta si parte dall’audio, un lavoro eccellente sotto tutti i punti vista. Le musiche, composte e dirette da Rob Bridgett, sono sempre adatte al contesto, creando atmosfere uniche non solo nei momenti riflessivi o nostalgici ma anche quando l’azione si fa via via più frenetica. Tutto viene enfatizzato anche dall’ausilio di alcuni strumenti tipici Maya, atti a ricreare probabilmente una delle migliori colonne sonore di questo 2018. Ma anche il doppiaggio (come da tradizione) non è da meno: l’ormai storica voce di Benedetta Ponticelli riesce a trasporre una Lara in costante conflitto con se stessa, attanagliata dai sensi di colpa senza andar mai sopra le righe. Tutti i dialoghi dell’archeologa restituiscono un personaggio reale, così come lo sono i comprimari, a cominciare dal suo fedele Jonah (Diego Baldoin), amico, guida e fratello maggiore di una Lara in via di maturazione. Ma il lavoro che lascia più di stucco è quello eseguito sugli effetti sonori e la loro tridimensionalità (consigliato vivamente l’utilizzo di un buon paio di headset). Tutti i suoni risentono delle varie superfici presenti, con un contrasto netto tra interni ed esterni; tutto è al posto giusto e in grado di generare ancor di più un forte senso di immedesimazione.
La parte meramente visiva invece spicca come una delle produzioni migliori degli ultimi anni e sicuramente il miglior Tomb Raider visto sinora. Tutti gli ambienti di gioco, dai piccoli villaggi alle intricate foreste godono di innumerevoli particolari, con l’attenzione minuziosa per i dettagli. Che siano baracche o semplici alberi, tutto è realizzato con cura, così come i modelli dei personaggi principali (Lara ovviamente splendida), esaltati da una regia che raramente è visibile in un videogioco. Il salto di qualità a livello narrativo, come detto, è forse mancato, ma il modo in cui vengono raccontate le vicende hanno subito un boost eccezionale, non solo per quanto riguardo le scene più adrenaliniche, mostrando ampie panoramiche in grado di risaltare l’impatto empatico con quanto avviene, ma anche un’attenzione particolare per i primi piani e durante alcuni momenti costruiti ad hoc per rimanere impressi per sempre nella mente dei giocatori. Tutto questo ben di dio, è purtroppo macchiato da qualche imprecisione nella fisica degli oggetti, qualche piccolo glitch e compenetrazione di troppo, quasi a segnalare un ultimo mancato intervento di “pulizia”. Nulla comunque che possa minare l’eccellente lavoro svolto da Crystal Dynimics.

In conclusione

L’ultimo capitolo della trilogia reboot dedicata a Lara Croft, riesce anche questa volta a fare centro. Nonostante la struttura narrativa soffra di alcuni cali di ritmo, dovuti anche all’introduzione di alcuni elementi di gameplay che forse mal si sposano con le caratteristiche dell’avventura proposta, il cammino di redenzione dell’archeologa più famosa al mondo riesce a trasmettere le giuste emozioni e il giusto grado di empatia. Il lavoro svolto da Crystal Dynamics dunque è di ottimo livello, riconfermando quanto di buono svolto dai precedenti  capitoli, migliorando in toto tutta la parte tecnico-artistica, in cui spiccano audio e regia. Shadow of the Tomb Raider chiude il cerchio su una Lara molto diversa dall’icona pop degli anni ’90, ma sicuramente più vicina a noi, tralasciando ricchezza, l’atletismo di Ercole e la bellezza afrodisiaca. Anche questa Lara, ci piace.

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Darksiders III – Chi Dice Donna Dice Ahi!

Una frase che sta bene su tutto come «sembrava impossibile, ma ce l’abbiamo fatta», è adatta anche a un franchise dalle grandi potenzialità e ben visto dalla critica come Darksiders, che sembrava destinato ai più bassi gironi dell’Inferno. Dopo la fine di Vigil Games le speranze di vedere un nuovo capitolo dedicato a uno dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse sembrava impossibile sino a quando, una flebile luce apparve all’orizzonte; non una luce divina, ma quella targata Nordic Games, che acquisì tutti gli asset a disposizione, mettendosi al lavoro sul nuovo capitolo. Sono passati anni da allora ma finalmente il progetto Darksiders III è arrivato tra noi, sotto tutela di Gunfire Games, che a suo tempo si occupò della remastered di Darksiders II, denominata Deathinitive Edition. Come da tradizione i cambiamenti sono molteplici e la nuova protagonista, Furia, riserva alcune sorprese.

Un’anima in tempesta

Dopo aver raccontato le vicende di Guerra e delle macchinazioni di Inferno e Paradiso, dopo aver raccontato di Morte e di quanto sia disposto a fare per il fratello in catene, ora tocca all’unica donna del quartetto di Nephilim a portare avanti le vicende di Darksiders: Furia. Come accaduto per il secondo capitolo (e come accadrà per l’eventuale sequel) la storia si svolge nel periodo tra l’arrivo dell’Apocalisse e l’entrata in scena di Guerra sul campo di battaglia, mentre quest’ultimo si trova in catene accusato di aver dato inizio al Giudizio Finale prima del tempo stabilito. Al contrario dell'”affettuoso” Morte, Furia è un personaggio Tsundere, che nella cultura giapponese indica un carattere arrogante e presuntuoso ma che nasconde il suo esser affettuoso e generoso. In Darksiders III, molto più dei precedenti capitoli, lo sviluppo caratteriale di Furia segue sì dei classici stilemi narrativi ma del tutto efficaci, mostrando una naturale evoluzione di un personaggio discretamente complesso e con la giusta dose di sfaccettature adatte al contesto. La caccia ai Sette Vizi Capitali dunque, non è solo la risoluzione di un problema dell’Arso Consiglio ma un pretesto, un viaggio nella psicologia del Cavaliere in grado di mostrare tutte le sue fragilità.
Questo percorso sarà facilitato grazie all’incontro di vecchie conoscenze come Vulgrim, l’avido demone mercante e Ulthane, un Creatore che sarà ben di più di un semplice fabbro, ma sarà anche ostacolato dai “sette”, più o meno riusciti per caratterizzazione estetica e non: personaggi come Avidità, Lussuria e Superbia spiccano sugli altri, vantando non solo un design forse più ricercato, ma anche le loro attitudini e capacità. Tutti gli altri purtroppo, non riescono a bucare lo schermo come dovrebbero, presentandosi come generici boss e nulla più, come se si fosse svolto un semplice compitino. Questo può essere spiegato con un budget a disposizione piuttosto basso rispetto a quelli disponibili per i capitoli precedenti e soprattutto la mancanza di Joe Madureira, fumettista che ha dato vita al design dell’originale e del suo sequel. Se, fortunatamente, il design dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse era già stato deciso (dunque Furia e Conflitto sono assolutamente frutto del suo lavoro), non lo è stato per un terzo capitolo che non era più previsto nei piani di “Joe Mad!” e questo, lo si nota anche negli ambienti di gioco che mancano in qualche modo di quella “magia” post-apocalittica alla quale eravamo abituati.
Nel complesso dunque, narrativamente, Darksiders III funziona, approfondendo i sotterfugi e i motivi dietro la fine dell’umanità, presentando una Furia più complessa rispetto ai suoi fratelli.

Ora ti percuoto!

I vari Darksiders si presentano con caratteristiche proprie, cercando di sfruttare le peculiarità di ogni Cavaliere. Se il primo era un hack’n’slash puro e il secondo vantava una forte componente RPG, Darksiders III verte verso un indirizzo più souls like ma con le uniche caratteristiche permanenti del franchise che permangono: l’essere un metroidvania con caratteristiche che ha reso grande la saga di The Legend of Zelda.
In questo capitolo dunque l’approccio appare diverso, a cominciare dall’inquadratura del personaggio molto più ravvicinata (quasi da action/adventure) e un combat system meno frenetico e per certi versi più complesso, anche se alcune scelte di design risultano un po’ discutibili, quasi a segnalare il travagliato sviluppo del titolo. Una delle caratteristiche principali di Furia è il poter sfruttare quattro differenti poteri (Hollow), ognuno dei quali accompagnato da una specifica arma. Tutto questo si presenta in maniera del tutto simile a God of War III dove, questa apparente semplificazione, si trasformò in uno dei punti di forza del capitolo finale dedicato a Kratos, con la possibilità di cambiare armi e poteri senza soluzione di continuità durante ogni combattimento. In questo caso purtroppo, questo risulta difficile: il passaggio da un potere all’altro manca di quella fluidità necessaria per permettere diversi approcci non solo al combattimento, ma anche all’esplorazione; ad esempio il potere delle Fiamme permette di compiere salti più ampi mentre quello Elettrico di planare; qualora volessimo raggiungere un appiglio distante, concatenare le due caratteristiche risulta impossibile, visto che ogni passaggio di potere e compimento dell’azione voluta avviene con fin troppa meccanicità, con un azione che in poche parole interrompe l’altra. Inoltre, potrebbe apparire lapalissiano che l’utilizzo dei vari poteri comporti anche danni elementali diversi, anche in corrispondenza di ambienti e nemici specifici: prendendo di nuovo come esempio la nostra Elettricità, ogni colpo inferto contro nemici acquatici o comunque in ambienti umidi non comporta assolutamente alcun boost di potere, enfatizzato tra l’altro dall’assenza di qualsivoglia debolezza elementale da parte dei nemici. La quantità di danno inferto dunque dipende solamente dal tipo di colpo e dalla potenza dell’arma, potenziabile attraverso l’uso di Adamantiti, alla stregua delle Titaniti di Dark Souls.

Nonostante queste mancanze però, Darksiders III è in tutto e per tutto un Darksiders, in grado di sorprendere e divertire come ogni capitolo del franchise. Al contrario di Guerra e della sua Divoracaos (uno spadone) e di Morte e delle sue ovvie Falci, Furia utilizza una Frusta, che si dimostra incredibilmente utile sia negli sconti a media distanza che a distanza ravvicinata: il suo moveset (così come quello delle altri armi a disposizione) non è estremamente complesso ma comunque efficace, mostrando una buona varietà. Come precedentemente detto, andare alla carica contro decine di nemici non è più consigliato, anche perché, ogni nemico sin da quello base, può fare molto male. La natura souls like entra in scena in questi frangenti, quando lo scontro con i nemici deve esser portato avanti con attenzione, cercando di schivare nel miglior modo possibile i colpi avversari; come Morte infatti, anche Furia non dispone di parata per cui, schivare col giusto tempismo è la chiave per uscire vittorioso da ogni combattimento. Oltre ai colpi fisici, Furia dispone anche di magie, ognuna corrispondente ai quattro poteri a disposizione, consumando l’apposita barra. Anche qui purtroppo, non è possibile concatenare i vari colpi magici, visto che il potere non potrà essere cambiato sino al consumo totale della barra della Collera. I vari poteri a disposizione, trasformano Furia nella “maga” del gruppo, permettendole un approccio più vario agli scontri e la possibilità di esplorare e raggiungere zone inaccessibili per ognuno dei suoi fratelli. Questo perché Darksiders III vanta uno dei migliori level design degli ultimi anni, presentando una mappa vasta suddivisa in dungeon collegati tra loro in maniera praticamente perfetta. L’esplorazione diventa dunque fondamentale, non solo per scovare oggetti rari ma anche per raggiungere boss fight segrete in grado di rilasciare ottime ricompense, anche se qui, si denota una certa “legnosità” dei movimenti di Furia, fin troppo “vecchia scuola”.
Tutta l’esperienza accumulata e l’avanzamento di livello è suddivisa in due tronconi principali: attraverso le anime donate a Vulgrim, che ci permetteranno di aggiungere un grado e una percentuale a Salute, Danni e Danni Arcani, oppure attraverso dei manufatti potenziabili e associabili a scelta a ogni arma disponibile, valorizzando diverse caratteristiche di Furia.
Ovviamente torna anche la Forma Caotica, ovvero la vera sembianza di un Cavaliere dell’Apocalisse, potentissima e attivabile non appena l’apposito contatore raggiunge il livello massimo. A differenza delle precedenti però, questa forma è influenzata dalla forza elementale di Furia per cui, se non potenziata a sufficienza, potrebbe causare meno danni rispetto alla nostra frusta. Ma tutto questo non importa, attivarla è sempre un piacere immenso.

Nel segno della continuità

Come detto, l’assenza di Joe Madureira si sente, ma nonostante ciò, il feeling visivo resta immutato, sfruttando le basi dei precedenti capitoli. Il mondo, letteralmente post-apocalittico, si presenta nella maniera consona a un Darksiders, in grado di mischiare sapientemente strutture reali a elementi fantasy tanto cari al franchise. Anche i personaggi secondari e i vari nemici non sono da meno nonostante evidenti alti e bassi, soprattutto per quanto concerne i Sette Vizi Capitali,  i boss principali del titolo; solo pochi di loro però vantano un design quantomeno “memorabile”, lasciando nel dimenticatoio tutti gli altri. Tutto questo si svolge in un contesto tecnico che non fa gridare al miracolo, traducendosi in un’opera funzionale e ben ottimizzata, anche per PC meno performanti.
Come di consueto (anche se per questo capitolo non era poi così scontato), Darksiders III vanta un’ottima localizzazione in italiano, con Stefania Patruno in grado di restituire tutte le sfaccettature di Furia. Anche il resto del cast fa un buon lavoro nonostante effetti sonori e soprattutto l’accompagnamento musicale, non sono all’altezza della produzione.

In conclusione

Darksiders III rappresenta quasi un miracolo: nonostante tutti i problemi di sviluppo e un basso budget a disposizione, riesce a restituire il feeling di una delle saghe migliori degli ultimi anni, con una Furia più complessa di quanto ci si aspetti. Purtroppo, alcune scelte artistiche e di game design – a uno sguardo più attento – si fanno sentire, ma comunque nulla in grado di compromettere l’esperienza.
L’arrivo del prossimo capitolo però, con protagonista Conflitto, non è così scontato. Si spera dunque che questo terzo episodio raggiunga un buon successo, grazie anche al ricco supporto post-lancio promesso.

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Call of Cthulhu – Pronto? C’è Qualcuno?

Beh, qui le scelte sono due: potremmo offrire una recensione piena zeppa di citazioni e frasi altisonanti di “voi sapete chi” oppure, una recensione che analizza il gioco in modo che anche voi lettori potrete arrivare a delle conclusioni per valutarne l’acquisto.
Dunqueper molti, Call of Cthulhu non è un videogioco come tutti gli altri ed effettivamente, l’ultima fatica di Cyanide non lo è. Troppo potente è il “richiamo” di uno dei più grandi autori mainstream degli ultimi anni, quel H.P. Lovecraft che in qualche modo tutti conoscono ma che probabilmente nessuno vorrebbe mai incontrare. Tratto dunque dall’omonimo gioco di ruolo del 1981 e, ovviamente, traendo spunto dal Ciclo di Cthulhu, questo investigativo-RPG-survival horror, è stato attentamente seguito dagli appassionati, mettendo sulle spalle degli sviluppatori un peso enorme, costituito da milioni di aspettative parecchio elevate. Sarà riuscito nell’intento?

Citazione a scelta N.1

Tutte le vicende ruotano attorno alla famiglia Hawkins e al suo tragico destino. Ma, come potete immaginare, nulla è come sembra e Edward Pierce, investigatore privato prossimo al fallimento, dovrà scoprire la verità celata tra le strade di Darkwater. Proprio questa cittadina costiera, riesce ad assumere il ruolo di co-protagonista, creata ad hoc come habitat naturale delle idee “lovecraftiane” e in cui, Edward verrà immerso come guidato da un beffardo destino. Le ispirazioni al Ciclo di Cthulhu sono palesi ma fanno capolino altre citazioni da ogni racconto partorito dalla mente dello scrittore statunitense divenendo quasi un “parco giochi” per ogni fan, alla ricerca di riferimenti e piccole “chicche” sparse dappertutto. La narrazione dunque procede spedita ma forse, in maniera fin troppo lineare: nonostante l’utilizzo di dialoghi a scelta multipla infatti, la sensazione di non aver alcun controllo sulle vicende rasenta di tanto in tanto l’imbarazzo, che si fa ancor più marcato una volta arrivati alla conclusione. In generale tutto risulta discretamente interessante  e anche i colpi di scena presente, risultano un po’ telefonati. Ogni scelta intrapresa porterà ad alcune conseguenze più o meno tangibili ma trascurabili, una volta scoperto che per arrivare ai diversi finali, in fin dei conti è l’ultima scelta la più importante. Il viaggio di Edward Pierce verso la follia (non poteva essere altrimenti), è sorretta però da poche ma decisamente interessanti trovate narrative e dalle atmosfere, vero fulcro su cui ruotano attorno le vicende: l’aria opprimente di Darkwater e dei suoi abitanti, schiavi di un singolo evento accaduto anni prima e dell’inquietante setta, è l’elemento più riuscito del titolo, che ci spinge ad approfondire come si è arrivati a questo punto, sfruttando tutto quello che abbiamo a disposizione, come l’innaturale fiuto da detective e l’innaturale talento nel mettersi nei guai. Anche i personaggi con cui interagiremo non brillano per caratterizzazione, interpretando delle “maschere” magari funzionali alle vicende ma che, insieme al contesto creato, minano ulteriormente l’immedesimazione. Call of Cthulhu basa tutto il suo essere sulla narrazione che comunque, nonostante alti e bassi riesce a intrattenere e trasportare il giocatore sino ai titoli di coda; ci vorranno una decina di ore, ma offre la possibilità di rigiocarlo compiendo scelte diverse dalle precedenti, sperando cambi realmente qualcosa.

Citazione a scelta N.2

Come detto nell’incipit, si tratta di un investigativo che mischia alcuni elementi da gioco di ruolo e survival horror. Nostra premura appunto, è quella di cercare e trovare gli indizi necessari per proseguire e ricostruire interamente gli avvenimenti accaduti; esplorazione e interazione con ambiente e personaggi sono elementi essenziali per ogni buon investigatore e anche noi lo siamo, visto che non potrà essere altrimenti; la risoluzione di piccoli enigmi infatti, si presenta in maniera semplicistica, non dando al giocatore modo di sfruttare le proprie sinapsi. Tutto sembra abbastanza abbozzato e anche la ruota delle abilità sembra indicare altrettanto: la componente RPG è riassunta in punti esperienza acquisiti a ogni azione significativa conclusa e lo sviluppo di sette diverse branche che vanno dall’investigazione alla medicina, passando occulto e psicologia, che potranno esser sviluppate in modo da sbloccare nuove abilità (sopratutto oratorie). Tecnicamente è possibile dunque specializzare il nostro Pierce a nostro piacimento, visto che non potremmo potenziare tutto al massimo livello; purtroppo però questo si scontra con la realtà dei fatti, in cui ogni categoria sviluppata non sembra incidere come dovrebbe, ne durante i dialoghi e ne durante l’esplorazione, limitandosi al semplice compitino. Anche i dialoghi a scelta multipla tendono a far storcere il naso, suddivisi in base alle caratteristiche sopracitate e in grado sì di approfondire la narrazione ma che a conti fatti, influiscono davvero poco sul suo prosieguo. C’è da dire però che nel mettere assieme gli indizi, scovando nuove informazioni, dialogare con più personaggi possibile diventa fondamentale per capire quanto sta avvenendo attorno a noi. Ma queste nuove informazioni purtroppo, hanno un valore risicato in quanto, qualunque cosa noi facciamo, arriviamo comunque all’obiettivo.
Ma a parte questo, bisogna anche muoversi da un punto “A” a un punto “B” e solitamente lo si può fare accovacciati visto che, in molte sezioni, essere scoperti significa essere uccisi. Nascondersi dunque è un buon modo per per farla franca e qui entra in gioco una meccanica purtroppo poco sfruttata: il Panico. Pierce prima di tutto è un uomo, capace anch’egli di tremare di fronte l’inconoscibile – o una guardia… – e questo in game, non fa altro che generare confusione, esplicato attraverso frastornanti movimento di camera e desaturazione dei colori, ovviamente contornate dai lamenti del protagonista. Una simile meccanica, se implementata a dovere, avrebbe portato quasi qualcosa di innovativo, immedesimando di più il giocatore con un personaggio di fronte a un pericolo potenzialmente letale. Anche la meccanica della Follia – e che vi aspettavate!? – che aumenta a ogni evento traumaticamente inspiegabile, è solo abbozzata, avendo reale valore solo per uno dei finali (tre in tutto). Il risultato finale dunque è solo discreto visto che ogni elemento di gioco possiede dei pregi ma anche dei grossi difetti.

Citazione a scelta N.3

Nonostante siamo ormai a fine generazione, Call of Cthulhu sembra essere un memorandum di titoli apparsi per la prima volta su PlayStation 4 e Xbox One, nel limbo tra vecchia e nuova era. Se, come detto, l’atmosfera generale è ben gestita, arricchita da una direzione artistica che ricrea a piene mani le opere di riferimento, la componente meramente tecnica rischia di tanto in tanto di lasciare l’amaro in bocca, smorzando così l’entusiasmo. Tutto comincia dai modelli dei personaggi, avara di dettagli e che consta di animazioni davvero datate. Ma nonostante l’utilizzo di texture non esaltanti ed effettistica generale deludente, il titolo soffre anche di un’inadeguata ottimizzazione, non solo su PC ma persino su console, visibile in toto durante i caricamenti tra un capitolo e l’altro, talmente lunghi che nel frattempo potreste scrivere un Ciclo di Cthulhu tutto vostro.
Anche dal punto di vista sonoro la situazione non cambia: il doppiaggio (inglese con sottotitoli) si attesta su buoni livelli, con ovviamente Edward Pierce a fare da padrone. Nessuna eccellenza dunque, soprattutto durante gli attacchi di panico del nostro investigatore privato, ispirati probabilmente dal Tony Stark di Iron Man 3. Ovviamente, anche il comparto sonoro, tra musiche ed effetti non poteva che non andare diversamente, segnalando come il lavoro Cyanide Studio non sia stato dei migliori.

In conclusione

Call of Cthulhu in fin dei conti, può essere considerato un buon omaggio a quel bontempone di H.P. Lovecraft, nonostante l’adattamento a una trama ben diversa dagli scritti originali. Le atmosfere, vissute tra Darkwater e la famiglia Hawkins sono ben riprodotte, gettandoci in avvenimenti ai limiti della comprensione ma smorzati da alcune scelte narrative che rendono la vicenda sin troppo guidata, annullando di fatti il senso dei finali multipli. Chiudendo poi un occhio sul comparto tecnico il titolo Cyanide è consigliato a tutti gli amanti delle opere dello scrittore di Providence ma anche degli amanti dell’horror in generale, che magari non conoscono Lovecraft come dovrebbero.

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My Hero One’s Justice – Poco Plus, Poco Ultra

Con la facilità odierna nel reperire manga e anime in occidente era naturale che la diffusione di tali media travalicasse la carta stampata o animata. Ormai siamo circondati da live action cinematografici di ogni tipo e anche il videogioco non è stato da meno; dai Dragon Ball Budokai, passando per i più recenti Naruto Shippuden di Cyberconnect 2 sino alle trasposizioni di Attack on Titan, Black Clover, Seven Deadly Sins e Kill la Kill, stessa sorte non poteva che non toccare al battle shonen del momento: My Hero Academia. L’opera di Kohei Horikoshi, targata 2014, è diventata in breve tempo il nuovo punto di riferimento per gli orfani di Naruto & Co. trovando sostegno anche dai pezzi grossi del settore come Masashi Kishimoto e Eiichiro Oda. My Hero One’s Justice non poteva che presentarsi come un picchiaduro e come prima iterazione, risulta essere una buona base di partenza su cui sviluppare eventuali seguiti.

I due moschettieri

Da un po’ di tempo a questa parte il mondo non è più lo stesso: improvvisamente cominciarono a manifestarsi nuove capacità nell’essere umano, forse un salto evolutivo che ben presto interessò circa l’80% della popolazione mondiale. L’apparizione dei Quirk (o Quork se guardate Italia 2) portò il mondo nel caos e solo alcuni uomini valorosi riuscirono a mettervi ordine. La nuova società formatasi ha reso possibile la realizzazione di un sogno d’infanzia, essere Super Eroi, un mondo precluso però al protagonista delle vicende: Izuku Midoriya. Nonostante la passione e la voglia di realizzare il suo sogno, Izuku è una delle poche persone al mondo a non possedere alcun Quirk e solo dopo un evento significativo potrà cominciare la sua rincorsa verso la propria realizzazione. Questo è in sostanza l’incipit di My Hero Academia ma stranamente, non lo è di My Hero One’s Justice. La scelta di Byking, sviluppatori del titolo, è quella di far partire le vicende già nel vivo, con Izuku (o da questo punto se preferite, Deku), intento a eseguire il tirocinio da Gran Torino, vecchia gloria tra gli eroi. Non partire dall’inizio dunque, è una scelta a dir poco coraggiosa, in quanto il rischio di tener fuori chi ancora non si è affacciato alle vicende di Horikoshi è presto detto: non basta una piccola introduzione iniziale infatti per creare il giusto contesto; solo chi segue il manga o l’anime dello studio Bones, riuscirà ad apprezzare quanto vede su schermo. Narrazione che prosegue attraverso tre tronconi principali di cui il primo dedicate al punto di vista degli Eroi e il secondo dei cosiddetti Villain, che ripercorrono le vicende del manga/anime con combattimenti singoli intervallati da piccole cutscene in stile fumetto. Sono presenti anche combattimenti “what if“, che cercano di aggiungere un minimo di profondità a storie già narrate. Nel complesso dunque, benché l’idea di separare le campagne rispecchia l’idea originale del mangaka, la narrazione non riesce a rendere giustizia alla famosa opera anche per chi conosce nei dettagli quanto avvenuto. Purtroppo anche le tematiche vengono un po’ lasciate da parte, palesando la natura di tie-in senza troppe pretese. My Hero Academia infatti, rappresenta l’ultima evoluzione dei battle shonen, con personaggi estremamente approfonditi, siano essi protagonisti o personaggi secondari, dando anche spazio a personaggi femminili di livello cosicché, anche il pubblico del gentil sesso abbia la possibilità di immedesimarsi nella sua eroina preferita. L’unione di manga giapponese con uno stile vicino ai fumetti americani inoltre, è la ciliegina sulla torta, in grado di far spiccare, anche visivamente, i disegni di Horikoshi, un altro punto forte dell’intera opera.
Ma il videogioco, non cerca di narrare solo le vicende del manga ma anche di divertire attraverso alcune modalità extra: oltre ai classici scontri uno contro uno e la modalità allenamento, My Hero One’s Justice offre anche le Missioni, un sistema di combattimenti suddivisi in vari stage con difficoltà crescente, in cui via via è possibile aumentare il livello del proprio personaggio e sbloccare le componenti dedicate alle personalizzazione, anche se purtroppo solo estetiche. Questa modalità rappresenta tutto il gioco: l’idea sulla carta è buona ma molti elementi risultano sin troppo abbozzati. A questo punto possiamo desumere che l’eventuale My Hero One’s Justice 2 potrebbe avvicinarsi a quanto mostrato in Dragon Ball Xenoverse, Attack on Titan 2 o Naruto to Boruto: Shinobi Striker, in cui la creazione del proprio alter ego, sfruttando componenti RPG, potrebbe dare quella profondità necessaria per tenere incollati i giocatori più a lungo.

Quirk, quork e quark

È chiaro sin da subito come in My Hero One’s Justice bisogna menare le mani e lo si fa all’interno di arene che replicano gli stage più importati del manga. Una volta scesi in campo dunque si ha a che fare con un combat system ibrido, che mischia piccoli tecnicismi all’accessibilità, soprattutto per rendere ogni tipo di utente già pronto per il campo di battaglia. Oltre a combo fisiche eseguibili con la sola pressione di un tasto, abbiamo la possibilità di eseguire salti e scatti, quest’ultimi differenziati da personaggio a personaggio. In questo caso infatti, si nota una cerca cura al dettaglio: lo scatto di Lida col suo Quirk Engine è del tutto diverso da quello di Bakugo, che sfrutta le esplosioni generate dalle mani per muoversi rapidamente. Questo, oltre al fattore visivo, influenza anche gli scontri in piccola dose, dato che oltre allo scatto anche alcune movenze sono influenzate dal Quirk posseduto. Sembra che ogni personaggio sia stato modellato sulla base del proprio potere, risultando dunque diverso da qualunque altro. Ma esistono Quirk e Quirk e il loro sbilanciamento si riscontra anche sul roster, che conta soltanto 22 personaggi, lasciando fuori oltre ad alcuni elementi della della sezione A, anche la sezione B e soprattutto molti Pro Hero. Una delle pecche più grandi del titolo è appunto lo sbilanciamento: alcuni personaggi risultano del tutto inutili mentre altri, fin troppo efficaci. All for One, AllMight ma anche Todoroki, sono dei veri killer e utilizzarli permette già di partire con un minimo di vantaggio.
Ogni combattimento purtroppo soffre di molti alti, ma anche di profondi bassi, dovuti essenzialmente a un’IA in single player veramente deficitaria e una risposta ai comandi non sempre all’altezza. Anche la scelta di poter utilizzare alcuni colpi Quirk base a ripetizione, senza quindi ricaricare alcunché, rende le partite, sopratutto online, un vero incubo, in quanto si è portati allo spam di qualunque tecnica a nostra disposizione. I veri colpi Quirk, denominati Plus Ultra, richiedono il caricamento di una barra apposita (attraverso colpi inferti o subiti), su tre livelli, ognuno corrispondente a un determinato colpo spettacolare tranne il terzo, utilizzabile sono quando i due compagni a seguito (à la Naruto), sono a disposizione. Il risultato generale è soddisfacente ma è indubbio che è possibile fare di meglio. Resta inoltre inspiegabile come sia possibile combattere sulle pareti verticali di ogni stage come nell’opera di Masashi Kishimoto visto che, sia in manga che anime, questo non avviene.
Anche la personalizzazione dei propri personaggi preferiti non riesce a far centro: se è vero che abbiamo a disposizione molti asset differenti per grado di rarità, appartenenti ai vari personaggi, purtroppo questi hanno solo valenza estetica, senza dunque influire su alcuna statistica di gioco. Però possiamo divertirci a personalizzare le entrate in scena dei personaggi, partendo dal suo slogan e per sino le frasi da utilizzare in battaglia, piccole chicche per gli amanti della saga.

JoJo style

Se escludiamo l’eccellente Naruto Shippuden: Ultimate Ninja Storm 4, tutti i tie-in di anime e manga soffrono del medesimo problema e purtroppo, anche My Hero One’s Justice, non fa eccezione. Si può notare infatti una forte discrepanza visiva tra i modelli poligonali dei protagonisti e gli scenari, che vantano si un’ottima distruttibilità ambientale,  ma rispetto agli ottimi modelli dei personaggi, soffrono di una mancata cura nei dettagli e nell’uso di shader e texture. Come dicevamo appunto, i protagonisti risultano eccellenti, con ottime animazioni e in grado di rispecchiare le tavole di Koei Horikoshi, con tanto di onomatopee su schermo. Il risultato, almeno visivamente, è quello di un manga interattivo, molto bello a vedersi. Inoltre, tutto risulta stabile sui 60fps, con leggeri cali solo quando vi è un forte spam di Quirk. Anche i filtri svolgono un buon lavoro, tra anti-aliasing e anisotropico (anche se quest’ultimo non regolabile su PC), regalando una buona pulizia.
Sul fronte audio non poteva mancare il doppiaggio originale dell’anime giapponese, introducendo i capitoli nella modalità storia, nelle poche cutscene animate presenti e ovviamente durante gli scontri, forse in questo caso un po’ ripetitivi, ma con la possibilità di personalizzarli una volta sbloccati gli asset necessari. A sorpresa, anche le musiche risultano di buon livello, cercando di replicare nei suoni l’eccellente colonna sonora dell’anime, firmata Yuki Hakashi.

In conclusione

My Hero One’s Justice è, a conti fatti, un discreto punto di partenza: riesce a divertire nonostante qualche imprecisione qua e la e un comparto tecnico che pur soffrendo di alti e bassi, riesce a regalare un buon colpo d’occhio. Quello che manca è una reale profondità, con Byking che forse si è limitata a svolgere un semplice compitino con l’intento di  aggraziarsi senza fatica i fan della serie. L’auspicio è quello di vedere un futuro secondo capitolo più curato in ogni aspetto, in grado di dare giustizia a uno dei manga migliori degli ultimi anni.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




La creazione di un Open World

Con l’avanzare delle tecnologie, la creazione di nuovi interi mondi digitali in ambito videoludico è divenuta realtà. Dai primi esponenti del genere Open World a oggi l’evoluzione è stata enorme, sino ad arrivare ai recenti Assassin’s Creed: Odyssey, Red Dead Redemption II e Cyberpunk 2077. L’immersione del videogiocatore in un contesto credibile non è solo l’obbiettivo principale: intrattenere, prolungare la durata del titolo e sopratutto restituire un senso di crescita e libero arbitrio, sono tra le componenti più difficili da bilanciare anche perché, questi titoli, possono viaggiare su un limbo molto sottile, dividendosi tra il divertimento e la noia. Come nasce dunque un Open Word e come si sviluppa sino alla sua pubblicazione non è noto a tutti, e oggi cercheremo di raccontarlo. Si tratta di uno dei generi di più complessa elaborazione in assoluto, in poche parole, una “bomba alla legge di Murphy” pronta a esplodere.

Il Mondo in uno Schermo

Sembra incredibile ma gli open world conoscono un proprio Medioevo: più di dieci anni fa infatti, titoli come Beyond Good & Evil, Gran Theft Auto III e Far Cry, si attestavano già su buoni livelli se paragonati alle macchine su cui dovevano girare. Ma a un certo punto, gli open world cominciarono a sparire, in favore di avventure più lineari e, di conseguenza, più “semplici” da produrre. Chiedete al pubblico il perché di questa scelta: fatto sta che l’evoluzione di questa tipologia di videogame subì un drastico rallentamento e per questo l’avvento di saghe come Assassin’s Creed, dopo anni di “buio”, fu una vera e propria rivoluzione, che contribuì a rendere la categoria così come la conosciamo ora. Con l’avvento delle console di attuale e precedente generazione le cose cominciarono a farsi interessanti, arrivando a quel The Witcher III divenuto pietra miliare e nuovo metro di paragone del genere, almeno fino a oggi.
La creazione di un Open World varia a seconda dell’obiettivo finale, racchiudendosi in due macro universi: quelli basati sul mondo reale e quelli fittizi. Entrambi sono uniti dalla gigantesca mole di lavoro necessaria a produrli, che non si limita alla creazione del mondo in sé ma, sopratutto, al bilanciamento generale, al fine di restituire il giusto senso di progressione.
I primi si basano su rilevamenti sul campo, al fine di ricreare nella maniera più dettagliata possibile strade, palazzi, piazze che potremmo vedere dal vivo; ovviamente tutto in scala. Esempi di questo tipo ne abbiamo a bizzeffe come ad esempio il dimenticato The Gateway (2002) in grado di riprodurre una piccola Londra su Playstation 2, passando ovviamente per gli Assassin’s Creed fino ai giorni nostri, dove i rilievi effettuati, soprattutto nella planimetria delle città e dei luoghi storici raggiunge livelli sopraffini. Ma c’è chi ha fatto di più e sempre in casa Ubisoft: The Crew, racing arcade immerso negli interi Stati Uniti. Era possibile letteralmente viaggiare da New York a Los Angeles, (impiegando circa tre ore; niente male) e visitare non solo le maggiori città americane ma anche i piccoli centri e luoghi più famosi dei coloni di tutto il mondo. Creare degli ambienti reali ha la propria dose di responsabilità e, essendo il videogioco un’opera globale, è possibile incappare in qualche imprevisto, come la scelta di censurare statue patrimonio dell’umanità, per evitare di urtare la sensibilità di qualcuno (vedi Assassin’s Creed: Origins). E per chi crea un mondo da zero? La difficoltà viene decuplicata, non tanto per la realizzazione tecnica quantoper quella artistica: anche se fittizio, un mondo possiede delle sue regole, e far sì che l’ambiente di gioco sia coerente con se stesso è la prima regola da rispettare. Del resto abbiamo visto come in The Elder Scrolls V: Skyrim e Fallout 3 tutto questo è estremamente rilevante in quanto, il contesto visivo è la chiave di volta per far sì che la narrazione possa attecchire su solide basi. Questo perché alle volte, un open world può essere anche un pretesto, “mascherando” la poca qualità della trama con la frammentazione della stessa in varie quest, principali e non o, ancora peggio, non sfruttando l’ambiente e il contesto creato. Assassin’s Creed è sempre un franchise da cui è possibile trarre numerosi spunti e anche in questo caso ci accontenta: Unity è stato un disastro per tanti motivi, ma sopratutto perché il suo svolgimento sembra del tutto slegato dalla Parigi rivoluzionaria di fine 1700. Immergere un videogiocatore in un contesto visivo credibile è la base su cui si poggia un open world in tutte le sue declinazioni, una sorta di regola scrittore-lettore che, una volta infranta, riduce di molto l’appeal verso il titolo interessato.

Faccio cose, vedo gente

Dopo aver modellato un nuovo mondo come novelle divinità, arriva la parte più complicata, riassunta nella domanda “e mo’ che ci metto?”. È chiaro che questo processo arriva dopo centinaia di ore di brainstormig, storyboard, idee azzeccate e sbagliate fino a quando si arriva alle decisioni finali. In questo frangente molto dipende dal tipo di videogioco creato che può andare da FPS, TPS, Racing, RPG e persino spaziale. In un racing game, ad esempio, come l’eccellente Forza Horizon 4, il focus, oltre ad andare alla realizzazione dei modelli delle auto, è indirizzato a rendere l’intero ambiente di gioco abbastanza vario da poterne definire diverse regioni, enfatizzandone magari differenze di flora, fauna e clima, oltre a cercare di restituire il giusto colpo d’occhio nelle grandi città. In questo caso, il numero di NPC presenti ad esempio ha una limitata rilevanza così come, elementi di contorno che poco hanno a che fare con le corse sfrenate a bordo di bolidi.  Tutt’altra storia con open world con componente narrativa ed esplorativa come Assassin’s Creed: Odyssey e Red Dead Redemption II, anche se con approcci diametralmente opposti. Entrambi però sembrano aver risolto un problema intrinseco presente in mappe molto vaste: il vuoto. È capitato, in diversi frangenti, che vastità non fa rima con divertimento, presentando zone senza elementi particolari tra altre che esplodevano di vita. Questo equilibrio spezzato, visibile anche nell’acclamato The Legend of Zelda: Breath to the Wild (ma non preoccupatevi, verrà elogiato successivamente), è stato il tallone d’Achille di quasi tutti gli open world ma fortunatamente, grazie forse a macchine più performanti (o magari una maggiore attenzione), questo problema sembra essere risolto: quest, zone intere da esplorare, segreti o semplici scorci mozzafiato, sono la cura di questo male, ma che Rockstar al contrario di Ubisoft, è riuscita a plasmare nella maniera più naturale possibile.
Ma esistono titoli che fanno degli ambienti ricreati il loro punto di forza: Dark Souls vanta una direzione artistica che difficilmente è riscontrabile in altri titoli, con una cura maniacale necessaria, perché è proprio la mappa che ci parla. Questa, visibile quasi interamente da ogni dove e benché non sia un open world in senso stretto, è utile a capire quanto sia importante inserire elementi corretti, coerenti e soprattutto in grado di risaltare agli occhi del videogiocatore.
Quello che colpisce nel titolo Nintendo e Rockstar precedentemente citati è la capacità di reinventarsi, cercando di portare qualcosa di nuovo. Link è immerso in un mondo sconosciuto e libero da vincoli dettati da missioni in sequenza da svolgere per portare al termine il titolo. Siamo vicini alla pura libertà d’azione in cui, il progresso avviene in maniera del tutto naturale, un’approccio molto diverso dai rivali, probabilmente anche per limitazioni hardware; ma non basta fare di necessità virtù: bisogna saperlo fare. Il team di sviluppo è riuscito a portarci tra le mani un’avventura genuina, una scelta che è stata ben premiata durante tutto il corso del 2017. Ma con Red Dead Redemption si è andati oltre, e sicuramente piccolo anticipo di quel che vedremo nei prossimi anni: un mondo vivo, in costante evoluzione e mai uguale a sé stesso; l’evoluzione, visibile sia negli ambienti che fra i personaggi giocanti e non, è un elogio alla cura per il dettaglio, spiegando anche i circa dieci anni di sviluppo. Ed è proprio questo il punto: l’open world è qualcosa di mastodontico e serve il giusto tempo per poter portare qualcosa di innovativo e curato in ogni dettaglio; ma ne vale la pena? In un mercato frenetico come quello di oggi, con questa moda che sembra più prendere il largo, non c’è il rischio del copia-incolla? Sì, e lo vediamo in continuazione. Eppure, basta variare l’intento con cui si crea un mondo aperto: Avalanche Studios, ad esempio, è maestra in questo e il suo Just Cause è una festa per gli occhi. La libertà concessa al giocatore (ben diversa da quella di Link) è in qualche modo indirizzata verso la spettacolarizzazione, rendendo di fatto questo titolo uno dei più divertenti e intrattenti sul mercato. Inoltre, anche il futuro Rage 2 potrà contare su una vasta mappa che metterà assieme il contesto esagerato di id Software con la cura per gli ambienti di Avalanche.
Il contesto è e resterà sempre fondamentale: creare un mondo credibile in tutti i suoi aspetti la regola d’oro per chi vuole cimentarsi in questa faticosa missione. Ma poi c’è la tecnica e, come Bethesda insegna, basta poco per distruggere tutto.

L’abito fa il monaco

Il bello della tecnologia è che ogni anno c’è sempre qualcosa di nuovo. Quello che un tempo era impensabile a un certo punto diventa possibile ma l’insidia è sempre dietro l’angolo. I moderni open world sono molto complessi anche dal punto di vista tecnico, dove si cerca di mettere assieme diverse simulazioni nella maniera più omogenea possibile. Una delle più grandi innovazioni l’ha introdotta Ubisoft con il suo Sea Engine, apparso in Assassin’s Creed III e ulteriormente potenziato in Assassin’s Creed IV: Black Flag: l’utilizzo di diverse equazioni sulla fisica dell’acqua, ha permesso un’attenta simulazione delle onde, cosa essenziale quando oltre al suolo, è possibile esplorare anche gli oceani. Da questo punto di vista le ultime produzioni dedicate agli Assassini, sono davvero eccellenti, mostrando mondi così diversi come quello acqueo e terrestre in tutta la loro complessità. Negli ultimi anni ha fatto anche capolino la simulazione del clima, passando da caldo afoso a intense nevicate, in grado tra l’altro di influenzare il gameplay. Anche questo processo è estremamente delicato: gestire centinaia di elementi diversi nello stesso momento può risultare davvero arduo e solo con le recenti macchine si è riusciti a raggiungere ottimi risultati. Questo perché è tutto l’ambiente a risentire del cambiamento: prendiamo ad esempio la pioggia; ogni goccia è indipendente l’una dall’altra e, ognuna di esse, viene influenzata dall’ambiente circostante dunque, già di per sé, molto complesso. Se aggiungiamo anche la simulazione dei venti o la gestione di elementi volumetrici come nebbia o fumo, il rischio del patatrac è dietro l’angolo. Per non parlare di come le superfici, una volta bagnate, debbano riflettere ancora più luce e di conseguenza ambiente circostante, appesantendo ancor di più il tutto. Ma per rendere veramente reale l’ambiente in cui ci muoviamo, devono intervenire le luci, che stanno pian piano passando da un’illuminazione globale al ray tracing. L’illuminazione globale è stata croce e delizia per ogni sviluppatore, che ha permesso sì una buona approssimazione nella simulazione dei fasci di luce ma molto distante dalla realtà. Funzionando in stretta relazione con gli shader, questo sistema riproduce centinaia di fasci di luce multi-direzionali, influenzando anche le ombre e le rifrazioni. Niente male, ma il ray tracing? Non abbiamo ancora visto la sua applicazione su larga scala ma le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti. I prossimi open world potrebbero contare su un rivoluzionario sistema di illuminazione, trasformando gli odierni Odyssey o Marvel’s Spider-Man, in oggetti da antiquariato. Ma tutto questo ben di dio richiederà macchine ancor più performanti delle attuali GPU, visto la fatica con cui la GTX 2080 riesce a gestire tutto ciò, solo con anti aliasing DLSS.
A meno che non si tratti di post apocalittici come Fallout o Rage, anche la vegetazione ha il suo bel da fare, a dimostrazione di come un’innovazione tecnica possa influire sul gameplay. Il caso eclatante arriva sempre da Assassin’s Creed, che con un maggior dettaglio del fogliame 3D dinamico è riuscita ad aggiungere alcune meccaniche stealth anche in mancanza di architetture. E non dimentichiamo le animazioni: ci vorrebbe un articolo a parte per parlare di quanto sia difficile gestire animazioni uniche in base al contesto, non solo per il personaggio che controlliamo ma per tutti gli NPC presenti su schermo. Non siamo ancora al punto di avere personaggi non giocanti unici, avendo a che fare molte volte con la ripetizione esasperata dei diversi modelli (vedi We Happy Few). Proprio le animazioni, unite alla gestione della fisica, sono le vere gatte da pelare e serve un ottimo lavoro di pulizia dei vari codici affinché non avvenga il disastro. Come dicevamo, Bethesda è ormai habitué in questi termini, contando su un motore di gioco (Creation Engine) targato 2011 e già imperfetto alla sua nascita. La buona norma, sarebbe quella di creare un nuovo motore di zecca a ogni passaggio di generazione piuttosto che aggiornare il precedente perché, a ogni riscrittura, possono generarsi conflitti che se presi sottogamba, possono rovinare l’intera esperienza.

In sostanza, questi sono i parametri da tener d’occhio nella creazione di un open world: tutto deve funzionare in perfetta armonia affinché il giocatore possa sentirsi integrato all’interno di nuovo mondo. La creazione della mappa è solo la punta dell’iceberg di un immenso lavoro e magari, ora che state giocando uno di questi titoli, soffermatevi davanti a una roccia o un cespuglio, chiedetevi perché si trovi lì e il tempo necessario alla sua modellazione. Poi alzate lo sguardo verso l’orizzonte: vi accorgerete di quanto ogni programmatore e artista abbia faticato per permettervi di godervi sane ore di svago.




X018: la formica Microsoft

L’X018 di Microsoft era molto atteso, soprattutto dopo un E3 interessante e che ha posto ottime basi per la prossima generazione. E proprio come una formica, che in inverno deposita risorse per il prossimo periodo florido, Microsoft effettua altri piccoli passi per cambiare un’immagine che forse si era un po’ distaccata all’essenza del gaming. Tanti sono stati gli annunci ma soprattutto, si è intravista la voglia di rimboccarsi le maniche, mettendo subito in chiaro l’intento della casa di Redmond: si gioca, prima di tutto. E Lawrence “Larry” Hryb ha cercato sin dall’inizio di mostrare come la divisione gaming di Microsoft sia pronta a dar battaglia a Sony e Nintendo nel prossimo futuro, confermando anche l’acquisizione esclusiva dei servigi di Obsidian. Ecco dunque tutte le novità mostrate a Città del Messico.

Si comincia con Playerunknown’s Battlegrounds, che entra nel Game Pass a partire dal 12 Novembre. Aggiunta interessante, considerando che tra un mese il battle royale arriverà su PlayStation 4, approfittando dunque ancora di questo mese d’esclusiva.

La prima World Premiere arriva dagli ex di Irrational (Blue Manchu) e disponibile subito sul Game Pass dal day one, un roguelike, simile a Prey: MooncrashVoid Bastard si presenta completamente in cell shading e ispirato da pezzi grossi come Bioshock e System Shock 2. Questo shooter in prima persona arriverà come esclusiva temporanea sulla console di Redmond.

Crackdown 3 è già leggenda, forse per i motivi sbagliati ma qui, all’X018, è stato finalmente mostrato con un trailer a dir poco fuori di testa. 15 Febbraio 2019 (nel Game Pass dal day one) è la data di rilascio, scelta infelice considerando l’uscita di numerosi AAA molto attesi. Il multiplayer (denominato Wrecking Zone) vede due squadre 5vs5 affrontarsi in un ambiente completamente distruttibile. Ovviamente tutto risulta estremamente frenetico ma visivamente interessante una volta cominciato a devastare l’intero ambiente di gioco. Le perplessità permangono ma, nonostante tutto, la sua uscita è giù una buona notizia di per sé. Contento anche Phil Spencer, che forse si è liberato di un peso.

L’altra World Premiere riguarda Sea of Thieves e il suo nuovo DLC The Arena, un PvP dedicato al combattimento tra team per recuperare tesori inimmaginabili. The Arena sarà disponibile gratuitamente agli inizi del 2019 come riferito anche dai producer Craig Duncan e Joe Neate sul palco. Sea of Thieves è stata la riscossa di Rare e questa introduzione, richiestissima dai fan, non è altro che la dimostrazione di come il team dia molta importanza ai feedback dei giocatori. Ogni match si presenterà diverso e avvincente, cambiando modo di approcciare il titolo. Nuove informazioni arriveranno nei prossimi giorni, facendo il punto sui prossimi aggiornamenti.

Jump Force trova il suo spazio grazie a un nuovo trailer in anteprima, presentando le versioni SSGSS di Goku e Vegeta, oltre alla trasformazione Gold di Freezer. Dunque anche Dragon Ball Super trova spazio nel nuovo picchiaduro che racchiuderà i combattenti di Weekly Shonen Jump, che ha sfornato la maggior parte dei nostri eroi preferiti.  È probabile che i Saiyan non saranno gli unici a sfruttare questo tipo di boost; attenderemo notizie in merito prossimamente. Anche qui, uscita prevista per il 15 Febbraio 2019.

Non poteva mancare ovviamente Just Cause 4, probabilmente il gioco più “caciarone” del momento. Il nuovo trailer World Premiere ha visto susseguirsi sul palco Francesco Antonini, creative director di questo titolo targato Avalanche. Il rampino, introdotto nel terzo capitolo, torna ulteriormente potenziato, trasformando il titolo in una festa per youtuber e streamer di varia natura.  Il 4 Dicembre è il giorno prefissato per trasformare l’isola di Solìs nel nostro parco divertimenti.

Devil May Cry 5, previsto per l’8 Marzo 2019, si arricchisce di una nuova modalità, denominata The Void,  praticamente la modalità allenamento. Lo storico ideatore Hideaki Itsuno e Matt Walker, il producer, hanno unito le forze per creare l’atmosfera perfetta per il team a lavoro sul quinto capito della saga dedicata a Dante & Co.

Kingdom Hearts III ha il suo trailer all’X018, presentando un nuovo personaggio: Winnie the Pooh. Il trailer presenta anche alcuni elementi di trama, con i piani malvagi di Maestro Xehanort e dell’Organizzazione XIII. L’uscita è sempre prevista per il 29 Gennaio 2019.

The Forge è il primo DLC di sette di Shadow of the Tomb Raider. Sul palco, il narrative director Jason Dozois e il senior associate producer Jo Dahan hanno commentato le nuove meccaniche co-op. L’espansione è prevista per il 13 Novembre.

Il 13 Dicembre sarà il turno della prima espansione di Forza Horizon 4, denominato Fortune Island, in cui verranno implementati nuovi tracciati e nuove vetture. Ambientato nelle isole nordiche della Gran Bretagna, questo DLC metterà alla prova i videogiocatori con condizioni meteorologiche avverse, tra tempeste e persino aurore boreali. Inoltre, anche Ken Block tornerà protagonista con cinque nuove vetture che faranno sfoggio nel prossimo video Gymkhana.

 

Infine, piccola carrellata delle altre notizie:

  • State of Decay 2, si espanderà il 16 Novembre con un nuovo DLC gratuito denominato Zedhunter Pack, contenente nuove armi e aggiornamenti al gameplay.
  • Give With Xbox è la nuova campagna di beneficenza Microsoft, creata per la raccolta fondi destinati a Gamers OutreachSpecialEffectChild’s Play, e  Operation Supply Drop. Per partecipare basta inviare un’immagine con il tag #givewithxbox, sfruttando il tema dello stare insieme. Per ogni immagine, Microsoft, destinerà cinque dollari fino a un totale di 1 Milione di dollari agli enti sopracitati.
  • Dalla prossima settimana, tutti gli utenti Xbox potranno contare sul supporto di tastiera e mouse. Ovviamente il focus è destinato principalmente agli sparatutto (e cross-platform) come Fortnite, che sarà uno dei primi a sfruttate tale novità. Inoltre, Razer (nuovo patner Microsoft) realizzerà specifiche tastiere e mouse per console, presentate al prossimo CES di Las Vegas.
  • Xbox Game Pass si arricchirà di 16 nuovi titoli nei prossimi mesi:Hellblade: Senua’s SacrificeAgents of MayhemOri and the Blind ForestPlayerUnknown’s BattlegroundsMutant Year ZeroVoid Bastards e molto altro, proveniente dalla scena indipendente. Inoltre per i nuovi abbonati, sarà possibile provare il primo mese del servizio a solo un dollaro.
  • Richiesta da moltissimi utenti, anche Xbox Game Pass avrà la sua App:  sarà possibile sfogliare la libreria Microsoft, selezionare e mettere in download i titoli interessati, al fine di trovarli già pronti sulla propria console. Disponibile ovviamente sia per Android che iOS.
  • Final Fantasy XIII, Final Fantasy XIII-2 e Lightning Returns: Final Fantasy XIII, saranno inseriti nel catalogo retrocompatibilità Xbox a partire dal 13 Novembre. Come da abitudine, i titoli subiranno un boost tecnico, per usufruire al meglio della potenza di Xbox One X. Arriveranno nel catalogo anche Final Fantasy VII, Final Fantasy IX, Final Fantasy X e X-2 e Final Fantasy XII.
  • Ci avviciniamo al Black Friday  e ovviamente Microsoft non poteva starsene con le mani in mano. Con un video à la Roberto Da Crema, “Il Maggiore” Lawrence “Larry” Hryb, ha presentato le nuove offerte: meno 100 dollari sulle console, e sconti a partire dal 35% sulla maggior parte della libreria Microsoft.
  • InXile Entertainment entra a far parte della famiglia Microsoft, conosciuti soprattutto per Wasteland 2 e altri lavori di natura RPG. Lo studio potrà lavorare autonomamente ma potendo contare sulle ingenti risorse del colosso di Redmond.
  • Come per il calciomercato, bisogna aspettare l’ufficialità prima di poter crederci. Obsidian Entertainment è ufficialmente di proprietà Microsoft. Fondata nel 2003 e creatori, tra gli altri,  di Fallout: New Vegas e Pillars of Eternity, il nuovo team è subito a lavoro su un nuovo progetto, che probabilmente potremmo vedere solo tra qualche anno.