Bloodborne: l’incubo di H.P. Lovecraft

Di Hidetaka Miyazaki abbiamo parlato tanto, un uomo che ha aperto la strada ai souls-like grazie a Demon’s Souls, prima, e la trilogia di Dark Souls dopo. Ma c’è un’opera in particolare che l’ha consacrato come uno dei migliori autori videoludici contemporanei, creando una delle maggiori esclusive PlayStation 4 di successo: Bloodborne.
Sin dai suoi primi trailer, il titolo colpì sin da subito per ambientazioni intrise di un misto fra gotico, vittoriano e la classica spruzzata di dark fantasy che qui trova il suo picco. Eppure fu altro ad attirare l’attenzione, dei legami forse all’inizio flebili ma che man mano sarebbero risultati palesi: l’influenza di uno dei più grandi scrittori horror e di fantascienza del ‘900, ben presto saldarono un legame inaspettato tra Miyazaki e H.P. Lovecraft, un’unione perfetta che oggi sviscereremo.

Attento a ciò che desideri

Nato nel 1890 a Providence (Stati Uniti), Howard Philips Lovecraft è uno scrittore che, come in molti casi, ebbe maggior fortuna e successo solo dopo la sua morte (1937), divenendo vero e proprio autore cult dei nostri tempi per tutti gli amanti dell’horror, dark fantasy e fantascienza. Tra i temi principali delle sue narrazioni spicca la ricerca della conoscenza definita dall’autore “proibita”, in quanto, una volta ottenuta, il destino non è dei più auspicabili. Ne Il Richiamo di Cthulhu (1926), infatti, è proprio l’ignoranza la vera salvezza dell’uomo, intesa come l’incapacità di mettere assieme i vari pezzi del puzzle cosmico, un fattore misericordioso, capace di tenerci lontano dalle oscure verità che si celano al di là dei neri mari dell’infinito. Fondamentale è anche il tema del sogno e la struttura onirica derivante, protagonista in molte opere dello scrittore statunitense e, soprattutto, la filosofia del Cosmicismo, un pensiero tangente al nichilismo, che converte la mancanza di significato in insignificanza, della quale l’uomo è all’oscuro. Secondo Lovecraft, infatti, l’essere umano non è altro che una particella dell’infinito, tanto che se la nostra specie dovesse un giorno scomparire nessuno lo noterebbe. Nessuna scienza, fede o conoscenza porterà l’uomo ad avere un posto di rilievo nel Cosmo.  Questi temi dunque, sono quelli che si legano maggiormente l’autore di Providence a Bloodborne e Miyazaki, che ne ha mescolato il pensiero con le opere di  Heidegger ed Ernst Jünger, è riuscito a trasporre in maniera coerente l’ideologia e il simbolismo dell’intera struttura narrativa “lovecraftiana”.
Punti intuizione, conoscere l’inconoscibile, i Grandi Esseri, le mutazioni, l’Incubo, non sono altro che la realizzazione di un pensiero preciso e forse condiviso tra i due autori.

«La più antica e potente emozione dell’uomo è la paura e, la più antica e potente paura, è la paura dell’ignoto.»
«Temi ciò che non comprendi. Temi il sangue Antico.»

Con queste due frasi, appartenute a Lovecraft e a Maestro Willem, fondatore dell’Accademia di Byrgenwerth in Bloodborne, apriamo la nostra analisi di un’opera che non solo trae ispirazione dagli scritti di H.P. ma riesce anche ad andare oltre.

The call of the Moon Presence

L'”andare oltre” è stato possibile grazie a un’opera interattiva come il videogioco. Si è discusso a lungo di come “l’ottava arte” possa intersecarsi con opere di natura diversa, approfondendone diversi aspetti, esaltandone qualità o elaborandone il potenziale in nuce. Questo è ciò che è avvenuto con Bloodborne, un’opera che, come da tradizione From Software, è indicata a chi sa ascoltare e leggere attraverso i simboli, traendone conclusioni una volta terminato il gioco più volte.
Tutto ciò che troviamo a Yharnam lo si deve ai Pthumeriani, esseri capaci di raggiungere una conoscenza superiore, grazie alle tracce di entità “aliene”, potenti e capaci di interagire su piani diversi dell’esistenza. L’ascensione verso i Grandi Esseri fu un evento fondamentale ma uno di essi in qualche modo rimase indietro, generando gli eventi iniziali di Bloodborne. La scoperta di questo Grande Essere (Ebrietas) avviò uno scontro di idee tra Maestro Willem e il suo allievo prediletto, Laurence, in una dialettica che è metafora di uno scontro tra scienza e fede. Entrambi infatti, capirono l’enorme possibilità che si era appena aperta ai loro occhi: elevare la specie umana, al fine di scoprire i significati più reconditi dell’esistenza. Ma mentre Willem attuò tale idea attraverso lo studio dei Grandi Esseri, cercando di “allineare” occhi e mente per svelare il nascosto, Laurence intraprese un’altra via, seguente a un’incredibile scoperta avvenuta nei sotterranei della città di Yharnam. Una volta trovato il Sangue Antico, Laurence comprese che l’unico modo per raggiungere i Grandi Esseri era quello di utilizzare questa sostanza dalle proprietà incredibili, capace di curare qualsiasi male. Nacque così la potente Chiesa della Cura, che la distribuì come fosse una benedizione concessa dagli dèi (avvenimento simile nel ciclo dei Miti di Cthulhu). Inutile dire che il Sangue Antico rivelò conseguenze inaspettate. Ma in realtà la questione è un’altra: il Sangue Antico è qualcosa che deve essere temuto, l’umanità non è pronta ad aprire gli occhi, e questa è una cosa che Willem e Laurence sanno molto bene. Ma quest’ultimo, decide comunque di andare oltre. Possiamo affermare che l’elevazione dell’uomo non avviene tramite l’utilizzo della “benedizione” divina ma attraverso il superamento delle proprie paure nei confronti delle divinità che, ben presto, divenne pura e semplice arroganza. Non a caso, il rapporto con le divinità in Lovecraft è una delle chiavi per la comprensione della sua poesia, che si evolverà al punto da divenire vero e proprio Misoteismo, la visione negativa e malvagia degli dei.
Al nostro primo ingresso tra le vie di Yharnam tutto questo ha già trovato una connotazione ben precisa: gli uomini curati si trasformarono in bestie e qualcosa di potente ma inconoscibile sta per arrivare (o è già arrivato). Proseguendo, scopriamo che Maestro Willem è riuscito nel suo intento, riuscendo a svelare la natura dei Grandi Esseri e forse, i loro piani: la riproduzione. Forse è dovuto a questa scoperta la creazione di Rom, unica barriera dimensionale capace di fermare l’ingresso dei Grandi Esseri nel nostro piano esistenziale. Infatti, proprio dopo la sua eliminazione, l’inganno viene svelato, entrando nella dimensione della Presenza della Luna, probabilmente architetto di tali incubi. È qui che la visione onirica degli scritti di Lovecraft raggiunge il suo picco in Bloodborne: quello che viviamo all’interno del gioco è sempre una realtà (sogno o incubo) generata da qualcun’altro e, via via, riusciremo a infrangere le varie barriere in cui si intersecano le varie dimensioni. Questo è possibile anche grazie all’utilizzo delle Rune, descritte come la trascrizione in simbolo della voce dei Grandi Esseri e palese collegamento alle iscrizione su pietra ne Il Richiamo di Cthulhu.

Noi siamo i Grandi Esseri

Lo scopo del Sogno del Cacciatore è quello di eliminare un Grande Essere o, se volete, una divinità. Siamo ben lontani dalle azioni di Kratos in quanto, non cerchiamo vendetta, non cerchiamo comprensione verso noi stessi e ben che meno sollievo. La morte della divinità non rappresenta nemmeno la decadenza di Yharnam, come poteva essere nel caso della morte di Dio in Nietzsche. La fine del Grande Essere segna la libertà, il potere di decidere il proprio destino, elevandoci però, a un Grande Essere noi stessi una volta consumati tutti i cordoni ombelicali. Se il nostro alter ego evoluto sarà una presenza benevola o malevola non ci è dato saperlo, ma è interessante notare come l’unica scappatoia alla comprensione totale del mondo sia diventare ciò che non vorremmo essere, quasi seguendo la filosofia degli “oppressi oppressori”.  Negli altri finali avremo l’opportunità di risvegliarci dall’incubo grazie e solo alla nostra morte per mano di Gehrman, il Primo Cacciatore, ma potremo divenire anche i nuovi burattini della Presenza della Luna, alla ricerca di qualcuno che elimini altri Grandi Esseri.
Ma c’è molto di più.
All’interno del titolo, due sono i consumabili più importanti: le Fiale di Sangue per ripristinare punti vita e i Punti Intuizione, necessari per comprendere il mondo intorno a noi e svelare l’inimmaginabile (ma portandoci alla Follia). Abbiamo bisogno di entrambi e, come abbiamo detto, entrambi gli oggetti vengono da idee contrapposte. In poche parole l’elevazione dell’umanità, è possibile solo attraverso l’unione di scienza e fede, capaci di completarsi a vicenda, svelando i punti nascosti dell’una o dell’altra. Ma, come Lovecraft insegna, tutto ciò non fa altro che portare alla follia o alla morte, vista anche come una sorta di liberazione, cosa che effettivamente avviene – come detto – in uno dei finali.
L’opera di Miyazaki va oltre Lovecraft. Bloodborne è un esperimento metaludico in cui le nostre azioni sono ben più significative rispetto al mero uccidere mostri per le vie di Yharnam. Ma con “le nostre azioni” non ci riferiamo alle azioni del nostro alter ego bensì alle nostre, quelle che compiamo da videogiocatori.
Il nostro alter ego agisce da protagonista delle vicende, alla ricerca di quel libero arbitrio reso insignificante dai Grandi Esseri. Ma così come il nostro personaggio è all’oscuro di essere una marionetta nelle mani di qualche divinità, così come per Lovecraft potrebbe essere l’essere umano, il personaggio è all’oscuro della nostra esistenza come videogiocatori e guida diretta delle sue azioni. Questo perché, essenzialmente, i Grandi Esseri siamo noi.
E se non c’è paura più grande dell’ignoto, questo potrebbe rivelarsi come atroce una volta compreso forse che Lovecraft c’era andato vicino e che Miyazaki non ha fatto altro che portare avanti il suo pensiero, forse trovando il coraggio di chiudere la frase dopo una virgola. Tutto quel che di spaventoso e inimmaginabile troviamo nelle opere lovecraftiane e in Bloodborne forse racchiude la risposta all’ignoto: ovvero che i mostri siamo noi.
E cosa c’è di peggio dello scoprire che tutto ciò che odiamo, disprezziamo, che ci terrorizza, è lì, davanti lo specchio?




Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito

La saga di Mass Effect è probabilmente una delle più riuscite storie a tema sci-fi, non solo per il meta videoludico. L’opera di Bioware, firmata Casey Hudson ha appassionato milioni di videogiocatori, attratti da un contesto fantascientifico ottimamente costruito in cui i background dei personaggi si intersecano a intrighi politici, antiche leggende e perché no, relazioni amorose. Ma oggi non parleremo di questo: a un certo punto infatti, qualcosa si è rotto, ben prima che Mass Effect: Andromeda entrasse in sviluppo. Cerchiamo di capire cosa non ha funzionato e magari, cosa aspettarci da prossimo capitolo, in sviluppo in parallelo assieme al prossimo Dragon Age.

Un finale imperfetto

Per chi non conoscesse la storia, Mass Effect narra di Jonh (o Jane) Shapard, comandante dell’Alleanza terrestre nel 2183. Dopo alcune vicissitudini si scopre che la nostra galassia potrebbe essere ben presto sotto attacco da un’antica forza, in grado di estinguere ogni forma organica. Anche se a livello narrativo non presenta particolari picchi, è la sua profondità a colpire: già il primo capitolo vanta oltre 20.000 linee di dialogo, in cui pesa molto più l’atteggiamento con cui si interagisce piuttosto che il cosa si comunica. Mass Effect è dunque qualcosa in grado di regalare centinaia d’ore di gameplay di alto livello, ricca di mondi da scoprire e storie di interi popoli da approfondire. Ma Bioware non è mai stata immune da critiche: col passaggio a Mass Effect 2, molte delle componenti RPG vennero messe da parte, in favore di una maggiore attenzione sulle fasi di shooting e l’azione in generale. Questo non piacque all’inizio alla maggior parte del pubblico, accusando la software house di essersi in qualche modo “adeguata alla massa”; ma come accade solitamente, ci si concentrò su quel singolo aspetto piuttosto che sull’intero progetto e questo, come vedremo, si è ripetuto più volte. Se è vero che Mass Effect 2 vanta un maggiore focus sull’azione è altrettanto vero che l’intero impianto narrativo e soprattutto il gameplay, è di gran lungo superiore al suo predecessore, trovando il culmine nella Missione Suicida, uno dei picchi più alti della storia videoludica recente: in questo frangente infatti, ogni vostra scelta intrapresa nel corso dell’avventura può decidere la vita o la morte definitiva dei vostri compagni che, di conseguenza, non troveranno posto nel sequel.
Dopo diversi anni, Mass Effect 2 è forse riconosciuto come il migliore della trilogia, nonostante Mass Effect 3 ne abbia migliorato ogni caratteristica. Perché? La risposta risiede in un solo e unico motivo: il finale. Mass Effect è una storia di sacrifici, dove si è disposti a sacrificare un’intera specie pur di avere una possibilità di salvare la galassia. Ogni scelta intrapresa, sin dal primo capitolo, trova culmine in queste immense battaglie per la sopravvivenza e il cui epilogo si suddivide in diversi finali. Benché abbiamo tutti un senso ben preciso, è il modo che non è andato giù ai fan, trovando le conclusioni forse un po’ sbrigative e poco chiare, tanto che le speculazioni su quanto avveniva rivaleggiarono con quelle di Dark Souls (ne parleremo in futuro).
Bioware corse ai ripari, fornendo gratuitamente a tutti i possessori di Mass Effect 3 il DLC Extended Cut, con cutscene più strutturate, ma anche qualche variazione in grado di modificare le reali conclusioni della saga. Se per alcuni, la software house canadese è stata da elogiare per aver ascoltato e ben interpretato il volere dei fan, dall’altro si è palesata una mancanza di personalità, in grado di difendere il proprio lavoro. Perché alla fine – diciamocelo – le variazioni apportate sono dovute a un manipolo di persone che come noi, hanno semplicemente goduto da spettatori l’immensità dell’opera.
Qualcosa dunque cominciava a scricchiolare e, su queste crepe, venne sviluppato Mass Effect: Andromeda.

Un’enorme occasione mancata

Dopo il termine di una trilogia così importante, costruirne un seguito non è affatto semplice. Infatti prima del suo reale annuncio, molte furono le teorie dei fan, di cui alcune vertevano verso “antichi” prequel o futuribili sequel. Andromeda è, a conti fatti, un sequel datato 600 anni dopo gli eventi della prima trilogia ma che trova il suo incipit ben prima del termine di Mass Effect 3, con la galassia che escogita un “piano B” qualora le cose si mettessero male: vennero infatti costruite enormi Arche, che avrebbero portato le specie nella vicina galassia di Andromeda, salvandole dall’estinzione. Incredibilmente, presero il via entrambi i piani. Eppure, tutti questi enormi cambiamenti all’interno del gioco, non sembrano tangibili.
Non parleremo di Scott o Sara Ryder, i protagonisti, ma di come alcune scelte cozzano violentemente con quanto costruito in precedenza; non parliamo di lore o di incongruenze narrative ma piuttosto di scelte di design vere e proprie.
Partiamo con qualcosa di leggermente soggettivo: il nostro lavoro è quello di essere Pionieri e scovare una nuova casa per le specie sopravvissute. Ci capiterà di scandagliare pianeti disabitati, ma c’è un però: il nostro compito di Pionieri è essenzialmente inutile. Questo perché sappiamo già quale pianeta sarà predisposto alla colonizzazione escludendo completamente la scelta del giocatore, compromettendo così non solo il ruolo che ci viene affibbiato ma il senso stesso del gioco. Qual è il senso appunto,  di esplorare nuovi pianeti, decidere se sono adatti o meno alla vita, quando la scelta è del tutto assente? Questo problema è forse uno dei più invisibili, abituati forse a seguire, percorsi prestabiliti; eppure è un Mass Effect e di nuova generazione per giunta.
L’esser Pionieri fa pendant con un’altra scelta ampliamente discutibile: siamo nella galassia di Andromeda, una galassia evolutasi in maniera completamente indipendente dalla Via Lattea. Eppure, una volta reclutato un’Angara, una specie autoctona, avrà gli stessi poteri a disposizione dei nostri. Questa leggerezza mina pesantemente la credibilità del titolo, creato da un team solitamente estremamente puntiglioso con i dettagli.
Ma l’occasione mancata più grande è il non sapere cosa accade alla nostra galassia dopo aver passato tre capitoli a gestire il destino dei suoi abitanti in relazione a un arco temporale di ben 600 anni. Curare o no la Genofagia dei Krogan a cosa ha portato ad esempio? Si sono estinti o hanno ricominciato a dar battaglia a chiunque li ostacoli? In mancanza di una minaccia comune, i popoli della galassia sono ancora in pace? Non lo sapremo mai  e questo non saperlo, è probabilmente il fallimento più grande. La storia di Mass Effect si svolge su più cicli di distruzione della durata complessiva di milioni di anni, con un’attenzione riservata in special modo al tempo in cui giochiamo ovviamente, ma anche a quanto accaduto prima, narrando eventi di migliaia di anni fa.
600 anni in Mass Effect sono un’inezia ma sufficienti per mostrare le conseguenze delle nostre scelte e sacrifici, fulcro centrale della saga. Mancando questo, Mass Effect: Andromeda si è mostrato inadeguato a portare avanti un progetto lungo 10 anni, nonostante il titolo sia valido sotto moltissimi punti di vista.
Complice questi elementi, oltre ad alcuni problemi tecnici e un data di rilascio in mezzo a The Legend of Zelda: Breath to the Wild, NieR: Automata, Horizon Zero Dawn e Nioh, Mass Effect: Andromeda fu un fiasco, non riuscendo a conquistare ne il cuore dei fan ne nuovo pubblico. Non si sa ancora se il prossimo sarà Mass Effect: Andromeda 2, nonostante un finale del primo capitolo che faceva presagire l’inizio di una nuova trilogia. Attendiamo riscontri, magari dal prossimo E3, sperando che le critiche abbiano risollevato uno dei team migliori in circolazione.




Fear the Wolves: un battle royale, un perché

Le mode sono una brutta bestia: da quando il genere battle royale ha cominciato la scalata verso il successo, sembra essere l’unica caratteristica che possa spingere un progetto verso sogni di gloria. Inutile raccontare della diffusione di Fortnite o Playerunknown’s Battlegrounds, o di come persino Electronic Arts e Activision siano sottostate alle spietate leggi di mercato, inserendo questa modalità – forse in ritardo – negli imminenti Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII ma una cosa possiamo dirla: anche i titoli più acclamati non vantano elementi qualitativamente eccelsi; sì, qualche idea di fondo è interessante ma diciamoci la verità: tutto ruota intorno al marketing, spietato e anche “manipolatore”, capace di portare il pubblico da una sponda all’altra in men che non si dica. E gli altri? Si, ci sono altri battle royale e Fear the Wolves è uno di questi, ancora in early access ma che, senza dilungarci tanto, probabilmente è già morto.

C’è nessuno in casa?

Partendo dalla personalizzazione del proprio avatar, con la possibilità di acquistare pacchetti con moneta in game (almeno per ora), i problemi cominciano già dal matchmaking, capace già di segnalare la qualità dell’infrastruttura online ma soprattutto del traffico, ovvero il numero di giocatori presenti sul server desideroso di darsi battaglia. Quando venne annunciato l’early access, lo stato di salute di Fear the Wolves era già preoccupante visto che normalmente la community, solitamente senza freni inibitori, invade l’internet con commenti, immagini, hype e tanto altro ancora ma, per sfortuna di Vostok Games, tutto sembra essere caduto nell’anonimato, facendo sorgere un’annosa domanda se sia meglio in questi casi l’insulto o l’indifferenza.
Nonostante l’influenza di S.T.A.L.K.E.R. si faccia sentire, l’anonimato è il punto dolente del titolo: l’obbiettivo dei 100 giocatori è praticamente impossibile da raggiungere arrivando alla quindicina – se tutto va bene – dopo aver aspettato anche decine di minuti la creazione di una partita. È già chiaro che non si comincia con buoni presupposti.

E quindi?

E quindi si arriva alla partita, paracadutati su una mappa che propone una Chernobyl distrutta dalle radiazioni. Comincia dunque la corsa agli armamenti, per nulla faticosa, visto le tanti abitazioni presenti, insediamenti industriali e così via. La mappa dunque è molto vasta e al suo interno possiamo scovare un paio di differenze quantomeno interessanti: oltre allo scontro con altri giocatori potremmo aver a che fare anche con entità guidate da intelligenza artificiale, dei mostri generati dall’avvelenata terra ucraina. L’aggiunta di meccaniche PvE all’interno di un battle royale è effettivamente una difficoltà in più in quanto gestire le già risicate risorse a nostra disposizione risulterà più difficoltoso. Possiamo dunque utilizzare proiettili per difenderci ma creando l’eventualità di rimanere senza colpi durante lo scontro a fuoco con il nemico, oppure darsela a gambe e pregare di non essere seguiti. Ma tecnicamente ci sarebbe una terza via, solo immaginata visto il risicato numero di giocatori: nel caso in cui potessimo avvistare in tempo questi NPC, potremmo sfruttarli a nostro vantaggio, sfruttando la derivata disattenzione del malcapitato nei nostri confronti ed eliminarlo senza problemi. Oltre a questo, intervengono anche alcuni modificatori ambientali, oltre al ciclo giorno/notte: la componente survival, anche se non molto approfondita, ci costringe a star attenti anche alla temperatura e soprattutto alle radiazioni, che possono diventare letali qualora non riuscissimo ad allontanarci in tempo o curarci. Questi modificatori inoltre fungono anche da restrizione territoriale, sostituendo il cerchio di fuoco convergente verso gli ultimi superstiti.
Ma queste differenze sono ben poca cosa quando di giocatori non ce ne sono. Anche il feeling con le armi è pressoché simile alle altre produzioni, fornendo feedback risicati e per nulla soddisfacenti. Per lo meno una volta defunti potremmo divertirci ancora un po’: come per The Darwin Project, gli spettatori possono decidere alcuni cambiamenti da apportare alla mappa, come una violenta variazione meteo in grado di modificare leggermente il gameplay.
Escludendo dunque questi fattori, di Fear the Wolves rimane molto poco, davvero troppo simile alla concorrenza e, con uscita prevista per il 2019, servirà tanto lavoro per rendere questo titolo appetibile. Da non dimenticare anche la pericolosa concorrenza dei top di gamma come Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII, che con le loro modalità Firestorm e Blackout potrebbero stravolgere il mercato da qui in avanti.

In conclusione

È veramente difficile valutare Fear the Wolves, anche se in versione early access. Almeno finora, il titolo sembra affetto più da problemi che riguarderanno il marketing e chi dovrà lanciarlo sul mercato, non proponendo qualcosa di realmente nuovo. Le poche differenze presenti infatti, non giustificano la migrazione dal vostro battle royale preferito a questo e, se il buongiorno si vede dal mattino, il lavoro di Vostok Games potrebbe arenarsi ben prima di partire. Vedremo come si evolverà la situazione, sperando che questo team sappia convergere i propri sforzi verso un gioco quantomeno autorevole.




P.A.M.E.L.A.

Ogni tanto capita di vedere sviluppatori indipendenti alla ricerca di Eldorado, con quel progetto cominciato dall’unione di tanti piccoli sogni e culminato con uno sviluppo più o meno travagliato ma capace comunque di vedere la luce, uscendo tra i vari store sia fisici che digitali. Nvyve Studios si aggiunge a tale novero dal 2015, anno in cui P.A.M.E.L.A cominciò il suo sviluppo, approdando nel 2017 in early access su Steam. Dopo alcuni aggiornamenti abbiamo deciso di testarlo, e il titolo pare presentarsi abbastanza bene nonostante ci sia ancora un po’ di lavoro da fare.

Tra Rapture e Wellington Wells

Negli anni abbiamo visto come a un certo punto qualcuno decide di lasciare la società in cui vive per fondare la propria città ideale, approfittando di alcuni mutamenti sociali, catastrofi o perché no, semplice voglia di cambiare aria. Questi paradisi però hanno una cosa in comune: hanno tutti fallito nel modo o in un altro. Nel mondo videoludico basta citare Bioshock e la sua Rapture, fallita miseramente nonostante la totale libertà da vincoli etici, morali, religiosi ecc, o la più recente Wellington Wells, protagonista in We Happy Few o qualche Vault in Fallout; tutte sono la rappresentazione dell’ego umano, incapace di gestire se stesso senza che si arrivi all’autodistruzione. E l’Eden, fulcro di P.AM.E.L.A., ha lo stesso destino, durando quanto la lettura delle prime pagine della Bibbia. La città ideale, massima espressione del Transumanesimo, è caduta in rovina sotto una misteriosa epidemia dilagata tra i suoi abitanti a seguito di esperimenti eugenetici non riusciti correttamente. Noi veniamo risvegliati dal sonno criogenico da P.A.M.E.L.A., un I.A. estremamente avanzata, in grado di gestire l’intero complesso urbano. Al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere da HAL 9000 a Skynet, P.A.M.E.L.A. sembra un’entità benevola, che sin da subito ci aiuta, cercando di risolvere i misteri di Eden. Una volta coi piedi per terra, le associazioni con altri titoli saltano subito all’occhio, dal già citato Bioshock, a Prey fino a Dead Space, in un connubio di generi che già da adesso sembra discretamente funzionare. La narrazione del titolo sembra seguire i classici canoni di un souls like in cui, immersi in un mondo di cui siamo totalmente all’oscuro, abbiamo come unica possibilità di capire dove ci troviamo e cosa sta succedendo quella di leggere alcuni documenti o ascoltare diari di P.A.M.E.L.A. sparsi lungo le vie della città. Questo, assieme all’ambientazione a tratti claustrofobica e a tinte horror, riesce a creare un’ottima atmosfera, in cui cercare di sopravvivere con ogni mezzo diventa la nostra prerogativa. Non ci sono – almeno per ora – quest da seguire: ci siamo solo noi e l’Eden in tutto il suo splendore, capace di raccontarci visivamente quanto stia accadendo. Interessante è la presenza, oltre che di nemici di cui parleremo in seguito, di androidi progettati probabilmente per servire i cittadini e che ora senza uno scopo preciso vagano per le vie della città forse alla ricerca di se stessi; altri androidi adibiti alla protezione continuano invece a pattugliare, rimanendo sfruttabili per gli scontri, rendendoli molto più accessibili. La loro presenza pare segnalare una trama molto più articolata di quanto sembri, ma solo al day one potremmo avere un’effettiva risposta. Sulla carta il progetto sembra funzionare, eppure qualche criticità rischia di minare pesantemente i sogni di questo piccolo studio.

L’uomo deve essere superato

P.A.M.E.L.A. mischia tanti generi: un sandbox con elementi survival horror, FPS-RPG (probabilmente bisognerà creare una categoria apposita per questo tipo di titoli, che vada oltre la generica dicitura “action”). Sin da subito possiamo scegliere che tipo di bonus o malus saranno presenti in partita, dalla difficoltà in se sino al permadeath, in cui saremo costretti a ricominciare da capo una volta tirate le cuoia. La sua molteplice natura dunque salta subito fuori: è fondamentale raccogliere il maggior numero di risorse possibili per il crafting e per il potenziamento del proprio equipaggiamento, che consta in una speciale tuta, presente in diverse versioni e gradi di evoluzione, oltre a perk aggiuntivi e armi corpo a corpo e a distanza come del resto l’elemento survival, in cui rischieremo la morte se non si è mangiato o bevuto a sufficienza.
Il titolo sembra abbastanza vario, donando un buon senso di progressione, soprattutto durante le fasi di combattimento, forse il vero punto debole del lavoro Nvyve Studio. Al grido di “ho i pugni nelle mani” saremo costretti a farci strada attraverso combattimenti poco entusiasmanti: tutto sta nella gestione della schivata, poco intuitiva e che gioverebbe davvero di un buon sistema di targeting del nemico, in modo da rendere più semplice girare intorno all’avversario e scoprire eventuali punti deboli. Essendo comunque ancora il titolo in early access, si può chiudere un occhio e si spera vivamente che il combat system venga implementato a dovere. Purtroppo le cose non cambiano una volta ottenute delle armi a distanza, incapaci di restituire un feedback reale. I combattimenti sono dunque una danza in cui è necessario schivare i pochi pattern d’attacco nemici, abbastanza semplici da gestire anche se potrebbe capitare di affrontarne ben più di uno. In questo caso eseguire la “tecnica segreta della fuga” o attirare i nemici verso robot sentinella, potentissimi e in grado di gestire da soli una piccola orda. In generale questo funziona ma purtroppo ci sono da segnalare numerosi bug all’intelligenza artificiale, oltre a quelli tecnici: capiterà infatti di osservare strani comportamenti, come robot impassibili alle aggressioni o nemici capaci di rimanere ostacolati da oggetti insormontabili come una sedia.
Uno dei pochi obbiettivi chiari è quello di riportare Eden a esser quantomeno funzionante, cercando di riparare piccoli guasti all’alimentazione energetica, fondamentale per esplorare adeguatamente le vie della città in quanto, essendoci anche un ciclo giorno/notte, molte zone resteranno al buio, relegandoci all’ausilio della nostra fedele torcia. Insomma, si cerca di rendere il tutto quanto più immersivo possibile, anche grazie alla totale mancanza di HUD e l’utilizzo di menu e interfacce in tempo reale olografiche. Questo, come del resto l’intera struttura tecnica, poggia le sue solide basi sul motore Unity, estremamente versatile e qui sfruttato al suo meglio. Gli ambienti sono ben dettagliati, alcuni estremamente grandi e, nonostante il colpo d’occhio  generale sa di già visto, artisticamente sembra avere una propria, forte identità. A colpire è l’impianto luci, capace di regalare ottimi scorci sia di giorno che di notte fuori, ma anche all’interno, dove si fa uso di elementi olografici e simil-oled. Il risultato dunque è molto buono, anche se la componente audio sembra forse ancora indietro, in cui manca una vera profondità dei vari suoni presenti, ma anche componenti sonore di contorno, stile Alien Isolation o Dead Space, per intercederci: suoni ambientali sinistri, vento, vibrazioni, insomma, un campionario più vario in grado di esaltare quanto vediamo a schermo.

In conclusione

P.A.M.E.L.A. è forse ancora lontano dalla sua release definitiva ma già ora riesce a intrattenere e invogliare il giocatore a scoprire i piccoli segreti di Eden. Le meccaniche presenti sembrano ben studiate e frutto di una buona programmazione, mentre altri elementi, come il combat system, necessitano ancora di molto lavoro. Potenzialmente questo titolo potrebbe diventare davvero interessante e starà alle mani di  Nvyve Studio far si che ciò accada.




Ha ancora senso Assassin’s Creed?

Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è stato capace di dividere il pubblico, anche se per motivi diversi. Se il capitolo originale veniva criticato per l’eccessiva ripetitività o elogiato per le novità apportate ai free roaming e per la narrativa, i successivi hanno cominciato a esser presi di mira per le mancate novità, per la poca incisività della trama, pur comunque mantenendo una buona dose di vendite e di critica in generale. Oggi, con l’avvento di Odyssey, la questione è un’altra: il nuovo capitolo, può essere definito Assassin’s Creed? La mancanza della famosa setta e l’andare così a ritroso nel tempo, ha cominciato a far venire dubbi persino ai fan più accaniti, ma oggi vedremo di analizzare la situazione, concentrandoci prevalentemente sulla narrativa.

Un passato pericoloso

Partiamo con i periodi storici, punti focali nella saga di Assassin’s Creed: siamo passati dalle Crociate all’Italia Rinascimentale a varie rivoluzioni sino a scoprire l’origine della Setta degli Assassini, nell’Egitto Tolemaico. C’è stato un periodo in cui, a seguito dell’avanzare nel tempo da parte di Ubisoft, il cui sviluppo dei titoli della saga sembrava seguire un progressione temporale costante, molti fan hanno cominciato a sospettare che il brand un giorno avrebbe calcato palcoscenici moderni, magari vedendo Desmond come Maestro Assassino del XXI secolo. Ovviamente sappiamo che non è andata così; Desmond ha trovato il suo destino e con lui la specie umana. Ma se c’è una cosa che è finita nel dimenticatoio, anche per colpa degli stessi sceneggiatori, è un piccolo, grande particolare: la storia degli Assassini ha inizio molto prima della creazione della setta. Se, appunto, in Assassin’s Creed: Origins abbiamo visto la creazione “ufficiale” della congregazione, in realtà l’essere Assassini ha risvolti molto più antichi, un ordine sparso, travagliato, ma con radici molto profonde. Ma ne parleremo dopo.
Assassin’s Creed: Odyssey, come sappiamo, è un prequel di Origins e la domanda posta da molti utenti è stata: qual è il senso di un Assassin’s Creed ambientato prima della creazione del Credo? Prima di rispondere con la parola “soldi”, scendiamo un attimo sui particolari: avete notato come, in Origins, Bayek entri in possesso di una Lama Celata? Se ne entra in possesso, quella lama, deve avere qualche origine. Guarda caso Odyssey è ambientato quasi nello stesso periodo in cui la lama fece la sua prima comparsa per opera di Dario, che con quest’arma eliminò Re Serse I. Questo accadde per una ragione semplicissima: Templari e Assassini esistevano già. Il focus non deve andare dunque sul nome, ma sul credo in sé; l’ideologia, così simile eppure così diversa tra le due sette, è antica come il mondo e poco importa il nome a cui fanno riferimento.
Questo dunque ci porta a un altro elemento: andare ancora a ritroso, prima ancora dell’Antica Grecia ha indubbiamente senso e questo potrebbe portare alla prima civiltà umana conosciuta come i Sumeri ad esempio. Eppure non sarebbe ancora abbastanza.
Grazie ai ricordi ricostruiti dal Soggetto 16Clay Kaczmarek, altra cavia dell’Abstergo oltre a Desmond, sappiamo che gli “Assassini” hanno un’origine risalente a più di 75000 anni fa (no, non è un errore di battitura).
Che Ubisoft sotto sotto voglia portarci tra le città della prima civilizzazione? Non è da escludere a priori anche se potrebbe essere un titolo ben diverso da come lo conosciamo, per via della tecnologia estremamente avanzata che renderebbe questo ipotetico Assassin’s Creed praticamente fantascientifico. Potete già immaginare lame laser e qualunque cosa partorisca la vostra immaginazione.
Assassin’s Creed: Odyssey ha dunque senso senza la setta degli Assassini/Occulti? Certo che sì, e la risposta è contenuta già nel titolo: il Credo degli Assassini è il vero punto focale dell’opera e, volendo essere ancor più precisi, è la parola Creed su cui si concentra davvero tutto il franchise.
Cambiare nome del brand è un’altra possibilità ma questo dipende dalle direttive di Ubisoft per il futuro della serie, se si vuole proseguire o meno nella direzione sopracitata o creare titoli prettamente “usa e getta”, con i piccoli collegamenti necessari per giustificare l’utilizzo della proprietà intellettuale.

Adamo ed Eva

Coloro che vennero prima” è il fantomatico nome della prima civilizzazione sul pianeta Terra, antecedente ovviamente alla razza umana. Durante gli eventi della prima trilogia di Assassin’s Creed, ovvero dall’originale, ai capitoli dedicati a Ezio Auditore e al terzo episodio, sappiamo abbastanza di questa civiltà grazie ai vari documenti presenti ma soprattutto grazie al racconto diretto delle coscienze preservate di Minerva, Giunone e Giove, in grado di raccontare a grandi linee quanto è successo. La razza umana venne creata da Coloro che vennero Prima (da adesso CVP, per facilità d’uso), per utilizzare gli umani come schiavi, controllandoli attraverso il potere dei Frutti dell’Eden. Ma a un certo punto la ribellione di due di loro, Adamo ed Eva appunto, segnò l’inizio della guerra tra le due specie, distraendole da quanto stava per avvenire sulla Terra, una sciagura conosciuta come Catastrofe di Toba, che portò alla quasi estinzione di entrambe le razze. Come sappiamo grazie ad Assassin’s Creed II, tutto ha inizio nell’Eden, alle falde del Kilimangiaro (del resto si presuppone che la razza umana abbia avuto inizio proprio in Africa), in cui possiamo osservare due individui (Adamo ed Eva appunto) scappare da qualcosa o qualcuno con in mano un Frutto dell’Eden, rimanendo immuni ai sui effetti. La loro agilità e forza, nonché l’immunità agli effetti della tecnologia “ancestrale” ci dice due cose: la loro natura è molto probabilmente ibrida, data dall’unione di geni umani e di CVP, e poi, cosa ben più importante, gli Assassini iniziano da loro. Ma attenzione: anche i Templari.
Nulla è reale, tutto è lecito” ha inizio molto probabilmente in questo frangente, più di 75000 anni fa: liberati dall’influsso della tecnologia, gli esseri umani per la prima volta conoscono il libero arbitrio, scoprendo la menzogna posta ai loro occhi con la forza. Le differenze tra Assassini e Templari sono ovviamente post-catastrofe, vedendo la pace in modi diametralmente opposti: grazie alla libertà per i primi, imposta con la forza per i secondi.
Come potete aver capito, parlare del “senso” di Assassin’s Creed ha davvero poco significato. Essere Assassini o Templari è qualcosa che va al di là del nome, mettendo l’accento sul Credo e sul suo significato. Kassandra (semplificando) crede nella pace e nella libertà? È un’Assassina, come lo furono Altaïr ed Ezio Auditore. È altresì vero che questo filone narrativo purtroppo è stato un po’ tralasciato nel corso degli ultimi anni, soprattutto dal termine della trilogia. Che Odyssey sia dunque un piccolo segnale? Non ci resta che attendere ma è davvero un peccato che la saga, narrativamente parlando, abbia perso un po’ la rotta, senza concludere o per lo meno ampliare quanto già narrato. Appuntamento dunque al 2020, con un Assassin’s Creed di nuova generazione.




Assassin’s Creed: vita e morte di un credo

Durante lo speciale dedicato alla storia di Tomb Raider  e alla sua eroina Lara Croft, vi fu un piccolo passaggio in cui si misero in parallelo le travagliate vicende del brand Core Design con saghe successive come Call of Duty o Assassin’s Creed. Per la serie “la storia si ripete” e in concomitanza con l’arrivo di Assassin’s Creed: Odyssey, ripercorriamo le gesta e gli alti e bassi di una delle saghe più famose degli ultimi anni. Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, subito riconoscibile e trasposto in innumerevoli modi, tra videogame (ovviamente), romanzi, fumetti, fino al lungometraggio con Michael Fassbender del 2016. Assassin’s Creed è anche il simbolo estremo del cambiamento del mercato videoludico, fatto di serializzazioni, che a lungo andare hanno finito per corrompere la qualità dei titoli, fino al radicale cambiamento avvenuto con Origins e Odyssey, fresco fresco di uscita.

L’inizio è già il futuro?

La crescita di Ubisoft come compagnia accelerò improvvisamente nel 1997, quando a Montréal venne aperto il suo studio più importante, contando all’attivo più di 2100 dipendenti. La svolta reale però, si ebbe con l’acquisizione dei diritti di Prince of Persia, brand storico creato da Jordan Mechner, debuttato nel 1989 e rivoluzionario per l’epoca, creando di fatto gli action moderni e sdoganando l’uso del mo-cap nei videogiochi. La voglia di creare un titolo nuovo di zecca era molta e capo del progetto venne nominato Patrice Désilet che con Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo (2003) cambiò per sempre il genere action, divenendo ispirazione per tutti i suoi simili sino ai giorni nostri. Il successo e la stima acquisita dai numerosi riconoscimenti, convinse Ubisoft a dare carta bianca a Désilet per un nuovo progetto, un Prince of Persia (con successivo sottotitolo Assassins) da far uscire sulle console di nuova generazione: PlayStation 3 e Xbox 360. Al suo fianco entra in scena anche Jade Raymond, che nel frattempo si era fatta un nome soprattutto per il successo di The Sims Online (2002). Nel frattempo Patrice si interessò molto alla storia degli ḥashāshīn, una setta che operava durante la Terza Crociata e che sarebbe stato il punto focale del nuovo gioco. Ben presto si accorsero che con Prince of Persia il nuovo progetto aveva ben poco in comune e decisero così di creare una nuova IP: Assassin’s Creed. C’è da notare sin da subito come questo processo potrebbe di nuovo avverarsi, ma lo vedremo meglio in seguito. Mentre lo sviluppo del nuovo brand andava a gonfie vele, un piccolo team era stato preposto alla realizzazione di un progetto parallelo, un Assassin’s Creed da proporre per PlayStation 2 e Xbox. Di questo progetto non se ne seppe più nulla e, stranamente, non fu l’unica volta.
Benché controverso, con alcuni difetti rilevanti, il primo concept è probabilmente il vero e unico Assassin’s Creed, partendo da un ottimo incipit di trama in cui chiunque ha la possibilità di rivivere i ricordi dei propri antenati memorizzati nel D.N.A. attraverso una macchina denominata Animus. Il protagonista era Desmond Miles, un giovane barista rapito dalla Abstergo Industries, con l’intento di trovare un manufatto prezioso perso in medio oriente. Desmond ha un antenato, vissuto all’incirca nel 1191 che potrebbe sapere dove si trova, Altaïr Ibn La-Ahad.
Quando uscì, nel 2007, questo gioco spaccò la critica: chi lo ritenne un capolavoro, chi mediocre a causa di una certa ripetitività. In ogni caso fece segnare un record di vendite. Tecnicamente eccezionale, con texture dettagliate e tanti personaggi su schermo il perno centrale del progetto era però tutt’altro:

«Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Quando gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda: tutto è lecito. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo Assassini. Nulla è reale, tutto è lecito.»

Ma cosa vuol dire “nulla è reale tutto è lecito”? In poche parole, tutto ciò che viviamo, osserviamo e facciamo è ciò che genera in noi il senso di libertà, facendoci credere che solo noi siamo artefici del nostro destino ma, in realtà, è solo una mera illusione. Ogni nostra azione è controllata, tutto ciò che vediamo è solo ciò che ci è stato posto davanti per nascondere la verità. “Tutto è lecito” deriva da questa consapevolezza, che il mondo che vediamo sia finzione e che dobbiamo fare tutto il possibile per trarcene fuori al fine di riconquistare la libertà, prendendo coscienza delle nostre azioni e accettarle, siano esse positive o negative. Ma, come ogni cosa su questa terra, anche il Credo vive di profonde contraddizioni, dove ad esempio si promuove la pace ma si agisce tramite assassinii. Anche il Credo in sé si scontra con la promulgazione del libero arbitrio e la fede assoluta, dato che i membri seguono un rigido regolamento, dando piena fedeltà alla setta.
Sia ben chiaro, non si tratta di errori o disattenzioni nello stilare la sceneggiatura: l’opera di Désilet è ricca di profonde tematiche, sia filosofiche che umastiche che, sommate a un gameplay che prevede un’accurata ricerca di indizi su come approcciare l’assassinio di turno, è ripreso solo successivamente in Dishonored, forse più Assassin’s Creed di molti titoli della saga Ubisoft. Anche lo scontro con i Templari, fazione nemica del gioco, sia in Terra Santa che ai giorni nostri, non è mai mostrato come un semplice “buoni contro cattivi” presentandosi come uno scontro di filosofie diverse: entrambi vogliono la pace ed entrambi, uccidono per ottenerla. Benché si potesse osare di più narrativamente parlando, la sfida tra le due fazioni rimane uno degli elementi più interessanti, pur risultando standardizzato nei capitoli successivi.
L’importanza dell’entrata in scena di Assassin’s Creed la vediamo tuttora: tutti i free roaming successivi prendono in qualche modo spunto dal lavoro di Ubisoft Montréal che è riuscita a rivoluzionare il genere portando su schermo centinaia di NPC, un mondo vivo e variegato oltre alla possibilità di esplorare l’intera mappa nelle tre dimensioni visto che Altaïr è anche un ottimo scalatore. A tal proposito, AC ha anche il merito di aver sdoganato la moda del parkour, dove tantissimi traceur hanno cercato di emulare le gesta degli assassini tra i tetti e le mura delle città moderne; tutto questo rientra nell’iconicità di un brand divenuto uno dei più importanti videogiochi della storia. Ma a proposito di storia: una delle caratteristiche del brand, visibile sin da subito, è lo sfruttamento delle informazioni storiche al fine di ricreare un contesto autentico. È così che gli ambienti, a cominciare da Gerusalemme, agli avvenimenti e personaggi, sono studiati per dare un senso di autenticità. Certo, alcuni avvenimenti sono “romanzati” e adattati alle esigenze videoludiche ma, in generale, già dal primo capitolo, Assassin’s Creed viene utilizzato come supporto alle lezioni di storia nelle varie università.
Con 8 milioni di copie vendute Ubisoft non poté che spremere il brand fino al midollo, ripetendo la storia di Core Design. Poco dopo, infatti, arrivò per Nintendo DS Assassin’s Creed: Altaïr Chronicles, prequel diretto del titolo originale. E siamo solo all’inizio.

Uno tira l’altro

Si arriva così al secondo capitolo, ritenuto dai più il migliore della saga. Si passa dal Medio Oriente con Altaïr all’Italia rinascimentale di Ezio Auditore, che ci accompagnerà per tanto tempo, forse troppo. Siamo nel 2009 e il gioco, anticipato da ottimi trailer in CGI, viene contornato da tre corti in live action, Assassin’s Creed: Lineage, primo tentativo di sfruttamento del brand al di fuori del meta videoludico. Sviluppato da Ubisoft Digital Arts e Hybride Technologies (300, Sin City), riesce nell’intento di introdurre in maniera quasi perfetta le nuove vicende che affrontiamo all’interno del gioco. Assassin’s Creed II rappresenta anche una grande risposta alle tante critiche ricevute al rilascio dell’opera originale, migliorando tutti gli aspetti possibili, dalla componente tecnica, al gameplay passando alla trama, più ricca e coinvolgente, grazie anche a un team composto da 450 persone, numeri difficilmente raggiungibili da altre produzioni. Le tematiche fondanti del franchise erano ancora visibili, ma si cominciava a delinearsi la standardizzazione delle due fazioni, Assassini e Templari, come un mero scontro tra bene e male, alla stregua di Autobot e Decepticon. Ambientato tra la congiura dei Pazzi nei confronti di Lorenzo il Magnifico e il regno di Rodrigo Borgia, il gioco si dipana tra FirenzeVenezia e altre ambientazioni italiche tra cui Monteriggioni, luogo di nascita di Ezio e hub centrale sia nel passato che nelle vicende contemporanee. A colpire è la caratterizzazione di Ezio Auditore, un uomo che vediamo letteralmente nascere e pian piano crescerà sino a diventare un Maestro Assassino. Le sue convinzioni e motivazioni evolveranno nel corso dell’opera e questo, assieme alle splendide ambientazioni e un gameplay estremamente appagante rendono il secondo capitolo una forte rivincita.
Assassin’s Creed II è ricordato anche per il suo finale, coraggioso e rivelatorio, mostrando uno scopo che nel primo Assassin’s Creed  era appena accennato: conosciamo per la prima volta la funzione di Ezio Auditore e di Desmon Miles, chi realizzò i manufatti chiamati Frutti dell’Eden e soprattutto la consapevolezza che la saga sarebbe durata davvero tanto. Inoltre, elemento che diverrà centrale è il cosiddetto Effetto Osmosi che permette a Desmond (ma effettivamente a chiunque interagisca con l’Animus) di assimilare le abilità dei propri antenati e divenire quindi un Assassino a tutti gli effetti.
Per esser stato il gioco più presente sulle copertine di settore, Assassin’s Creed II è entrato nel Guinness World Record, che si aggiunge ai tantissimi riconoscimenti ricevuti in quel periodo. Anche il compositore danese Jesper Kyd, che si è occupato della colonna sonora del prequel, arrivò alle luci della ribalta per la realizzazione del tema Ezio’s Family e le musiche presenti all’interno del gioco. Questo gli diede l’opportunità di dedicarsi ai futuri Assassin’s Creed sino a Revelations. Il suo tema è divenuto così importante da essere associato immediatamente al brand soltanto ascoltando qualche nota ed è divenuto base sulla quale sviluppare i temi successivi , ri-arrangiati per l’occasione. Quasi contemporaneo al capitolo principale, Assassin’s Creed: Bloodlines è il primo titolo di questo franchise ad approdare su PSP e sequel diretto del capostipite, con protagonista Altaïr, accompagnato anche da Assassin’s Creed: Discovery per Nintendo DS e iPhone.
Anticipato dal corto animato Assassin’s Creed: Ascendance, l’approccio alla serializzazione si materializza nel 2010 con Assassin’s Creed: Brotherhood, che introduce per la prima volta elementi multiplayer, mettendoci nei panni di un Ezio divenuto capo della setta di Roma, comandando un manipolo di sottoposti.
La trama, che segue direttamente gli eventi del secondo capitolo, forse è meno coinvolgente, ma è in grado di dare nuovo peso a Desmond e al destino del mondo, tutto ambientato (tranne nel finale) nella sola città di Roma. La nostra Capitale è stata ricostruita minuziosamente, enorme e percorribile interamente a cavallo, altra novità del franchise. Anche qui il finale è riuscito a far parlare di se, essendo a tutti gli effetti un grosso cliffhanger che a molti utenti non è andato giù. Questo espediente, nel bene e nel male ha reso Assassin’s Creed un’enorme “serie TV” e i risultati di questa scelta si sarebbero visti molto presto. Grazie a questo nuovo sequel, lo sceneggiatore Jeffrey Yohalem, vinse il premio per la migliore sceneggiatura.

Ma il 2010 segna anche un addio importante: Patrice Désilet, autore e mente creativa della serie, si dimette, in cerca di maggiore libertà creativa che troverà in THQ lavorando sull’ormai mitologico 1666 Amsterdam  mentre, Jane Raymond viene promossa e messa a capo della produzione di Sprinter Cell: Blacklist.
Senza un timone definitivo e passato a Ubisoft Sofia, il 2011 è il turno di Assassin’s Creed: Revelations. Forse non tutti sanno che le idee alla base di quest’ultimo capitolo sono ricavate da un titolo previsto per Nintendo 3DS, Assassin’s Creed: Lost Legacy, presentato all’E3 2010 ma senza mai vedere la luce.
In questo capitolo diventa centrale scoprire la vera natura del Credo e del reale scopo di Ezio Auditore. Interessante è la possibilità del protagonista di rivivere i ricordi di Altaïr attraverso un Frutto dell’Eden, una sorta di Animus vecchio stampo. Suddivisi in cinque ricordi, le storie dedicate all’Assassino originale restituiscono un personaggio ben più complesso di quanto fatto intravedere in precedenza, mostrando una forte umanità, rappresentando forse il vero pregio di Revelations.
Sotto la guida del nuovo direttore creativo Alexandre Amancio, pur non vantando una trama molto elaborata, questo capitolo riesce ancora a fare centro, non solo per la ricostruzione della vita di Altaïr ma anche per approfondire ulteriormente Desmond Miles, nel frattempo in coma e tenuto in vita dall’Animus. Finalmente si scopriranno innumerevoli segreti e le ragioni per cui si è arrivati a questo punto, aspettando l’ultimo e ufficiale terzo capitolo.
Gli ultimi giorni di Ezio Auditore sono racchiusi in un corto, Assassin’s Creed: Embers, un ultimo saluto a un uomo che abbiamo visto nascere, crescere e maturare fino a diventare una leggenda.

Il paradosso storico

Nonostante le ottime vendite, il pubblico sentiva l’esigenza di qualcosa di realmente nuovo. Assassin’s Creed III (2012), il titolo più ambizioso di sempre nella storia di Ubisoft era la risposta, con la produzione passata da Alexandre Amacio ad Alex Hutchinson.
Nuova ambientazione e nuova location, all’interno della Rivoluzione Americana, che vede Connor Kenway, il nuovo protagonista, muoversi tra le fila degli schieramenti. Per i nativi americani Ratonhnhaké:ton, figlio del templare Haytham Kenway e di una nativa americana Kanien’kehá:ka, Connor è il figlio di due mondi contrapposti. Dopo la distruzione del villaggio dove cresciuto e la morte della madre, egli cerca vendetta unendosi così alla causa degli Assassini. Purtroppo la sua caratterizzazione è forse quella meno riuscita: di potenziale da vendere ce n’era, vista la sua doppia origine (da un lato nativo americano, dall’altro inglese), che avrebbe potuto portare a conflitti interiori del tutto trascurati, come del resto remore sulle idee del Credo visto che il padre ricopre il ruolo di Gran Maestro dei Templari.  Fortunatamente la parte riservata a Desmond è ben gestita, ed è possibile vederne i miglioramenti da Assassino del terzo millennio.
Impianto tecnico ragguardevole con l’avvento del nuovo motore grafico denominato Anvil Next, che ha permesso l’utilizzo di tantissimi personaggi su schermo, animazioni migliori e miglior definizione in generale più l’introduzione della navigazione a bordo di un piccolo vascello, contornati da cambiamenti meteorologici in grado di influenzare il gameplay. Il finale di Assassin’s Creed III è quello che tutti i fan aspettavano e funziona, fino a un certo punto. La conclusione della saga di Desmond Miles trova compimento, anche se tutto risulta forse un po’ troppo accelerato e senza il giusto pathos ad accompagnarci tra le scene. Purtroppo, il post credit non lascia adito a dubbi: la saga di Assassin’s Creed continuerà, anche senza Desmond.
Un piccolo sospetto poteva già nascere una volta notata l’uscita contemporanea di Assassin’s Creed: Liberation per PlayStation Vita, con protagonista la prima donna Assassina Aveline De Grandpré di origini franco-africane e del tutto contemporaneo al terzo capitolo ufficiale. Passa poco più di un anno e la serializzazione comincia a mostrare i primi segni di cedimento. Assassin’s Creed IV: Black Flag (2013) stravolge totalmente le fondamenta del franchise, proponendosi come un prequel del terzo capitolo in cui abbiamo come protagonista Edward Kenway, padre di Haytham e nonno di Connor. L’ambientazione totalmente piratesca a prima vista sembra rappresentare il classico “salto dello squalo”, con scelte che mal si sposano con quanto visto finora. Eppure funziona, dando focus alle prime vere battaglie navali del franchise, estremamente coreografiche e molto belle a vedersi grazie anche alla splendida realizzazione dell’acqua, da qui vero fiore all’occhiello per tutte le produzioni Ubisoft. Purtroppo si riscontrano alcune semplificazioni narrative dovute principalmente a un accelerato effetto osmosi e al quasi totale abbandono della componente moderna.
La serializzazione raggiunge il picco nel 2014 quando, oltre al capitolo ufficiale Unity, arriva anche Rogue, col senno di poi, il più interessante dei due. Assassin’s Creed: Rogue parte da una premessa interessante: Shay Patrick Cormac è un giovane assassino che pian piano comincia a dubitare del Credo. Dopo una serie di vicissitudini decide di passare all’altra sponda, entrando a tutti gli effetti nell’Ordine dei Templari e da qui purtroppo, le cose cadranno nell’anonimato  sul piano narrativo. Interpretare l’altra faccia della moneta è stata un’ottima idea e forse in qualche modo studiata a suo  tempo: impersonare non solo un Templare, ma un ex Assassino che ha rinnegato la causa, nelle mani giuste sarebbe potuto essere un colpo da maestro, mettendo i giocatori nella difficile e “reale” scelta tra le due fazioni, così come nell’idea originale. Piccola nota: Rogue è a tutti gli effetti un prequel di Unity.

Ma tutte le attenzioni, ovviamente, erano su Assassin’s Creed: Unity, nel bene e soprattutto nel male.
Il primo vero passo falso di Ubisoft avviene paradossalmente quando sembrava aver portato le giuste novità e riavvicinare così il franchise alla sua epoca d’oro, al primo debutto sulle console di nuova generazione, PlayStation 4 e Xbox One. È ricordato per aver introdotto il co-op online, una reale modalità stealth e soprattutto la possibilità di variare approccio durante le missioni principali, sfruttando vari elementi dovuto ai tumultuosi giorni della Rivoluzione FranceseArno Victor Dorian, il protagonista storico, rappresenta un’altra occasione mancata, simile negli aspetti caratteriali sia a Ezio Auditore che Altaïr ma, come avvenuto per i recenti predecessori, perso in un bicchier d’acqua. Anche la nuova ambientazione, chiamata a gran voce dal pubblico, non risulta incisiva dando la spiacevole sensazione che le vicende di Assassin’s Creed: Unity sarebbero potute funzionare anche in altre epoche, senza risentirne. Ma i problemi erano ben altri: il poco tempo a disposizione si fece sentire questa volta, portando un gioco affetto da numerosi glitch e bug che diedero al pubblico e alla critica un buon pretesto per affossare il titolo. Fu una mazzata, con il CEO di Ubisoft Yannis Mallat costretto a scusarsi personalmente, oltre che una forte perdita di valore in borsa.
A questo punto, chiunque avrebbe imparato la lezione. Critica e pubblico si erano fatti più esigenti ma, nonostante questo, l’anno dopo (2015) ci fu tempo per un altro Assassin’s Creed. Inizialmente conosciuto come Victory, questo nuovo capitolo si basa su un piccolo aneddoto interessante. Non è stato accennato in questo testo ma, ogni anno, a un certo punto e come ormai una tradizione, scattava il “toto ambientazione” del nuovo Assassin’s Creed e le proposte erano davvero innumerevoli e forse potrete trovare piccole correlazioni con quanto accaduto: chi urlava alla Rivoluzione Francese, chi a quella Russa, chi all’Antico Egitto, al Giappone Feudale e chi altri ancora alla Londra Vittoriana. Proprio su quest’ultima uno sviluppatore interrogato sulla possibilità di vedere il prossimo titolo ambientato in tale epoca lo escluse, facendo notare come l’epoca vittoriana era già stata fin troppo trasposta nei vari media. Ecco dunque Assassin’s Creed: Syndicate, ambientato – pensate un po’ – nella Londra Vittoriana, portando una grandissima novità, probabilmente figlia del successo di GTA V: i protagonisti questa volta erano due, una coppia di gemelli di nome Jacob e Evie Frye, intercambiabili e con missioni dedicate a ognuno di essi. Le loro caratteristiche così diverse rendono questo titolo uno dei più vari del franchise, potendo contare sulla forza bruta di Jacob o sulla furtività letale di Evie. Nonostante in fin dei conti sia uno dei migliori Assassin’s Creed, le vendite non furono all’altezza: il ricordo di Unity era ancora troppo fresco e quindi, fu presa una forte e drastica decisione. Basta. Stop alla serializzazione annuale e puntare su un nuovo capitolo, con nuove idee e soprattutto, più tempo per svilupparle.
Si arriva così al paradosso. Ubisoft ha creato una serie di titoli basati su fatti storici realmente accaduti eppure dalla propria storia non è riuscita a imparare la lezione più importante: bisogna sapersi fermare.

Il futuro è già accaduto?

Prima di arrivare al cambiamento radicale e probabilmente irreversibile, c’è tempo per Assassin’s Creed: Chronicles, una piccola trilogia composta da avventure nella Cina del XVI secolo, nell’India britannica del XIX secolo e nella Russia del XX secolo. I tre protagonisti,  Shao Jun (presente in Embers), Arbaaz Mir e Nikolai Orelov, sono immersi in ambientazioni 2.5D, un esperimento riuscito e piccolo segnale di cambiamento per il franchise.
Il tempo passava, il 2016 non vide sulla scena alcun titolo fino a quando cominciarono ad apparire in rete alcuni leak riguardanti la nuova ambientazione e nuove modalità di gioco. Origins, questo era il nome del nuovo capitolo, estremamente diverso dai suoi predecessori e che avrebbe permesso di scoprire come la Setta degli Assassini mosse i suoi primi passi. Ambientato quasi interamente nell’Antico Egitto, questo Assassin’s Creed ci metteva nei panni di Bayek di Siwa ma anche di sua moglie Aya (colei che diede davvero il via a tutto) immersi nei classici stilemi di vendetta nei confronti di cospiratori sparsi per le vie egiziane e non solo. Viene rintrodotta una trama parallela contemporanea con protagonista una ricercatrice dell’Abstergo Leyla Hassan che contravvenendo agli ordini di Sophia Rikkin (antagonista nel lungometraggio) si reca in Egitto per trovare uno dei Frutti dell’Eden. In questa fase i collegamenti diretti ad Assassin’s Creed III si fanno più evidenti, dimostrando la voglia di riprendere quanto lasciato in sospeso precedentemente. In questo capitolo viene introdotto un nuovo tipo di Animus, in grado di far rivivere ricordi anche senza l’uso del proprio D.N.A.
Le novità di Assassin’s Creed: Origins sono molteplici, a cominciare dalla maggior enfasi alla componente RPG, integrata quasi alla perfezione, con la presenza di livelli per il protagonista e nemici, livello di rarità per l’equipaggiamento e molto altro. Anche il criticatissimo combat system viene stravolto, avvicinandosi più a un souls like. La rappresentazione dell’Egitto del Medio Regno è poi da mozzare il fiato, con scorci idilliaci, ambienti molto vari e in grado di restituire quella “magia” che si prova stando ai piedi dei giganteschi monumenti egizi. Viene inoltre introdotto il Discovery Tour, una sorta di visita guidata alla storia dell’Antico Egitto, possibile grazie alla collaborazione con storici e archeologi del settore.
Grazie a queste implementazioni, Assassin’s Creed: Origins è riuscito a riportare quasi in auge il valore del brand, venendo valutato molto positivamente da critica e pubblico.
Ma, nel frattempo, le notizie su un nuovo Assassin’s Creed si facevano sempre più concrete, rimettendo ansia ai fan con un possibile capitolo ogni anno. Arriviamo dunque ad Assassin’s Creed: Odyssey, che fin da subito si presenta molto controverso.
Se i fan si aspettavano un sequel di Origins per ovvi motivi narrativi, Odyssey è invece un prequel sviluppato in contemporanea al suo predecessore. Ambientato nell’antica Grecia di 300 anni prima rispetto agli eventi egizi, la prima novità che salta all’occhio è la possibilità di scelta del sesso del personaggio a inizio partita, simil Fallout 4. Nonostante sia stato specificato dalla stessa Ubisoft che Kassandra è la vera protagonista del gioco, avremo la possibilità di impersonare anche Alexios; entrambi mercenari spartani e discendenti di Leonida I, combatteranno nella Guerra del Peloponneso contro l’esercito ateniese. A livello di gameplay non sembrano esserci grosse novità se non per una maggiore presenza di elementi RPG ed elementi sovrannaturali associati agli dèi greci (quasi sicuramente Frutti dell’Eden). Quello che cambia realmente l’intera natura del brand e che ha lasciato interdetti molti fan è la presenza dei dialoghi a scelta multipla, alla stregua di un Mass Effect: la loro presenza si scontra quasi “violentemente” con quanto narrato finora, in cui, chi rivive i ricordi dei propri antenati, non può in alcun modo alterarne gli eventi. Essendo presente anche la possibilità di mentire al proprio interlocutore, crea un problema di continuity e forse giustificabile in un solo modo: più si va a ritroso, più difficile è la ricostruzione degli eventi dal D.N.A. Che i dialoghi a scelta multipla siano un sistema dell’Animus per riempire le falle? Si tratta di pura e semplice speculazione e non ci resta che verificarlo giocando.
Ma, a questo punto, ritorniamo alla prima domanda; del resto non abbiamo fatto altro che notare come la storia in qualche modo si ripeta. Abbiamo parlato di come Assassin’s Creed sia nato da un Prince of Persia molto diverso dai suoi predecessori e proprio per questo si decise di creare questa nuova IP. E se, appunto, la storia si ripetesse? Assassin’s Creed: Odyssey è qualcosa di completamente diverso, non un frutto di una semplice evoluzione come lo furono Unity o Syndicate. Ha quindi ancora senso sfruttare un brand sì famoso, ma forse stantio? Sappiamo già che nel 2019 non uscirà nessun Assassin’s Creed, dandoci probabilmente appuntamento per il 2020 e la nuova generazione di console. Che sia il primo di una nuova stirpe?

E fummo tutti assassini

Come già accennato, l’impatto di Assassin’s Creed nella cultura pop è stato un fulmine a ciel sereno. Sin dalla presentazione di Altaïr, del suo cappuccio bianco, delle sue acrobazie, del Salto della Fede e soprattutto della Lama Celata, tutto è divenuto ben presto elemento d’ispirazione per tanti fan e non solo. Proprio la caratteristica arma, la sua meccanica ed estetica, sono diventati uno dei punti di forza del brand, e uno degli elementi più iconici della storia dei videogame. Anche il Parkour è stata disciplina passata dalla nicchia all’esplosione mediatica, con innumerevoli traceur in cosplay da Assassino, realizzare le stesse evoluzioni tra i tetti e i muri delle città. Assassin’s Creed era ovunque, anche all’interno di altri videogiochi: famoso è l’easter egg dedicato al franchise da The Witcher II, in cui era possibile trovare Altaïr a seguito di un salto della fede mal riuscito, steso morente su un pagliaio. Ma anche Kojima si è divertito in tal senso, sfruttando una partnership tra Konami e Ubisoft e il Pesce d’Aprile: in un trailer presentato da Jade Raymond, era possibile osservare un assassino utilizzare armi da fuoco moderne, facendo presagire un Assassin’s Creed ambientato nel futuro. Ma di lì a poco l’inganno venne svelato, mostrando sotto la famosa tunica, niente meno che Solid Snake. Il costume di Altaïr infatti, era una delle skin sbloccabili in Metal Gear Solid 4: Guns of Patriots.
Non sono mancati nemmeno i classici romanzi, da Assassin’s Creed: Rinascimento, il primo della serie, ad Assassin’s Creed: Forsaken, tutti scritti con la speranza di approfondire e ampliare quanto avveniva all’interno del videogioco, anche se non riuscendoci pienamente mentre, sicuramente più interessanti sono i fumetti, come la serie dedicata a Nikolai Orelov con Assassin’s Creed: The Fall, ambientato negli anni antecedenti alla rivoluzione russa con lo scopo di fermare lo Zar Nicola II. Le serie sono molteplici e tutte di discreto successo, come anche Aquilus, ambientato in epoca romana e sempre oggetto di speculazione da parte dei fan su un possibile nuovo capitolo videoludico.
Il successo del brand venne sfruttato sino allo svilimento e in concomitanza con la diminuzione delle vendite e dei risultati deludenti degli ultimi capitoli come Syndicate, la forza di Assassin’s Creed pian piano cominciò a scemare. A mitigare un po’ la situazione intervennero 20th Century Fox e Michael Fassbender, produttore della trasposizione cinematografica del videogioco. Interpretando Callum Lynch e Aguilar, assassino spagnolo durante il periodo di inquisizione spagnola, Fassbender non è riuscito a far centro nel cuore dei fan e soprattutto ad attirare nuovi “credenti”, per via di una sceneggiatura travagliata e la mancanza di spessore dei protagonisti, pur vantando nel cast  Marion CotillardJeremy Irons. Il tentativo di creare dunque un universo espanso si è spento sul nascere e anche le notizie sui futuri sequel non sembrano suggerire il contrario.

Giunti alla fine del nostro viaggio ci accorgiamo di una cosa: le epoche cambiano ma il concetto di saturazione evidentemente, è faticoso da comprendere. Per chi vi scrive, passando dal racconto di Tomb Raider ad Assassin’s Creed, la sensazione di déja vù è lampante, e sono solo due dei tanti brand presenti sul mercato. Perché dunque si ricade negli stessi errori? Avidità? Potrebbe essere una risposta semplice ma forse è proprio la natura dell’Animus a fornirci la risposta: siamo programmati per fare le stesse scelte, indipendentemente dal contesto; a meno che non giochiate Odyssey, sia chiaro.
C’è da dire però che nonostante Assassin’s Creed goda di amore e odio in egual misura, non si può trascurare la forza mediatica e l’importanza che la sua realizzazione ha portato all’interno del mondo videoludico, non solo all’interno degli ambienti free roaming, ma a tutto il panorama, dando il via definitivo all’aumento di personale, costi e contorno nella realizzazione di un videogioco.
Non ci resta dunque che attendere il nuovo capitolo, cercando di capirne il destino e se mai avrà una fine.

 




Forza Horizon 4: una demo, una sicurezza

Normalmente il 2012 è ricordato per la terribile profezia Maya, che avrebbe annichilito la terra in data 21 dicembre (per la cronaca, siamo ancora qui) o per il centenario della tragedia del Titanic o per il miliardo di visualizzazioni di Gangnam Style su YouTube. I ricordi dei videogiocatori sono abbastanza diversi ma quasi tutti concordi: l’arrivo di Forza Horizon ha segnato in maniera indelebile i racing arcade e, da allora, il titolo di Playground Games non ha fatto altro che migliorare mantenendo incontrastato il proprio posto sul trono. Giunti al quarto capitolo, le novità sono consistenti e possiamo essere già sicuri di una cosa: anche nei prossimi due anni Horizon manterrà con forza lo scettro di miglior racing arcade.

Una quattro stagioni

Come già saprete, il perno centrale su cui ruota tutta la produzione è il cambiamento climatico che, rispetto a Project CARS 2, si espande in maniera più concreta e sull’intero ambiente di gioco. Dalla bellissima sequenza introduttiva possiamo già cogliere le differenze nette tra le varie stagioni, studiate a puntino sopratutto per nel rapporto tra la temperatura dell’asfalto e quella delle gomme. Non stiamo certo parlando di una simulazione certosina, del resto è e rimane un racing arcade, ma sono differenze che si notano, risaltate dalla disattivazione degli aiuti di guida. Il passaggio da estate a inverno è evidente: sia che si tratti di sterrato o asfalto, l’attenzione dedicata alla guida aumenta esponenzialmente alle temperature più basse, dovuta principalmente alla fredda temperatura delle gomme e alla conseguente minore aderenza. L’incidente dunque è sempre dietro l’angolo, ma è anche un’occasione per constatare quanto la fisica sia migliorata e una distruttibilità ambientale più marcata, anche se dovrà essere verificata più nel dettaglio.
Forza Horizon 4 sembra essere – come al suo solito – estremamente vario: abbiamo potuto partecipare ad alcuni eventi partendo con mezzi base come Audi TT o Lancia 037 per lo sterrato, oltre a uno spettacolare evento da stuntman che ci ha posto nelle condizioni di inseguire un jet a bordo di una Bugatti Chiron. La natura sandbox del titolo dunque permane, con la possibilità di sbloccare via via degli “avamposti” che diventeranno il nostro hub e garage, permettendoci anche il viaggio rapido.Tornano anche le personalizzazioni, dall’avatar alla vettura, probabilmente molto più varie e complete rispetto ai precedenti capitoli.
Ma altra novità, passata un po’ sottotraccia, è il cambiamento avvenuto nell’online, trasformando Horizon in un vero e proprio MMO, con 72 giocatori contemporanei: questa volta, potremo far parte del Team Adventure, un PvP in cui due squadre composte da sei utenti possono gareggiare per far parte delle diverse leghe presenti. Ma questa struttura varia in maniera netta il mondo di gioco, avendo a che fare con comportamenti reali e non “semplici” riproposizioni come i Drivetar, che rimarranno a disposizione del single player.

Lo stato dell’arte

Ricordando che il titolo nasce nativamente a 4k per essere sfruttato dall’ammiraglia Microsoft (Xbox One X), Forza Horizon 4 fa sfoggio di sé anche a 1080p, con vetture realizzate minuziosamente sia negli esterni che all’interno e un environment britannico semplicemente superbo, pulito e risaltato da un ottimo impianto luci, capace di rendere alla perfezione il cambiamento di clima. Tutti le texture, gli shader e i poligoni sembrano essere al loro posto, perfetti, e anche i vari filtri riescono a restituire un’immagine priva di difetti evidenti, in tutte le condizioni.
Sul fronte audio siamo anche qui su altissimi livelli. Pur non avendo potuto approfondire le variazioni climatiche, già dall’anteprima si è potuto notare come i cambiamenti non sono solo visivi ma anche sonori: è tutto l’ambiente a “suonare” diversamente, a cominciare dal contatto tra asfalto e gomme. I rombi dei motori, benché non raggiungano le vette toccate da Kunos Simulazioni, si presentano in maniera del tutto similare a quelli del fratello “serioso” Forza Motorsport 7. Ottimi, ma non eccezionali.

In conclusione

Nonostante il poco tempo a disposizione, Forza Horizon 4 ci ha convinti: l’implementazione delle stagioni, i miglioramenti alla fisica e alla struttura ludica sembrano essere ben integrati e in grado di differenziare il titolo in maniera netta dai propri predecessori. Peccato solo che la Gran Bretagna non offra scorci eccezionali come fu per ambientazioni come l’Australia, ma, tralasciando questo aspetto, siamo sicuri che il nuovo lavoro di Playground Games non deluderà nessun amante dei racing game. Appuntamento dunque al 2 Ottobre su Xbox One e PC.




FIFA 19: le impressioni dalla demo

Come ogni anno, l’arrivo del nuovo FIFA sugli scaffali segna l’inizio definitivo della nuova stagione calcistica, correlando gioie e delusioni del calcio reale a quello digitale. FIFA 19 è l’ennesima evoluzione del calcistico canadese cominciata con FIFA 17 e con l’avvento del Frostbite Engine, presentando diverse novità sul piano contenutistico e alcune di gameplay, che hanno un impatto visibile già dalle prime partite di questa demo. In attesa della recensione, dunque, diamo un primo sguardo a queste novità.

Verso il Triplete

L’arrivo in pompa magna della Champion’s League e competizioni tangenti non è certo passata inosservata, tanto che ha avvicinato alcuni utenti dell’altra sponda (PES) al nuovo titolo Electronic Arts. L’integrazione di questa aggiunta sembra totale, a cominciare dalla modalità Kick-Off completamente rivista: abbiamo infatti a disposizione non solo la classica amichevole, ma anche una serie di match da affrontare all’interno di tornei ufficiali e una serie di parametri in grado di modificare pesantemente gli incontri. Pur non presenti nella demo, sappiamo già che sarà possibile affrontare delle amichevoli molto particolari in cui spicca la modalità “Sopravvivenza“, nella quale un giocatore lascerà il campo una volta segnata una rete, fino alla vittoria di chi si ritroverà con meno calciatori sul rettangolo di gioco. Ma sarà possibile giocare amichevoli dove varranno ad esempio soltanto i tiri da fuori area, o quelli al volo e via dicendo, sino a una gara senza regole dunque, senza fuorigioco, falli e tutto l’impianto regolamentare del calcio moderno. Inoltre, potremmo affrontare le varie fasi della Champion’s in totale libertà e, cosa importante, richiesta dagli amatori del single player, tutte le nostre statistiche verranno raccolte in un infografica visibile costantemente nel menu.
Le novità fortunatamente non si fermano ai contenuti: una volta scesi in campo si nota subito l’impatto degli Scontri 50/50, una feature che permette una migliore gestione della fisica, prendendo in considerazione la reale stazza degli atleti. Già dalle prime battute, infatti, assisteremo a contrasti più realistici e battaglie più marcate per il possesso palla. Risaltano anche le differenze tra i vari calciatori in cui – in parole povere – un Verratti farà molta fatica a contrastare un Dembélé del Tottenham. Anche l’Active Touch System presenta delle novità sostanziali: i calciatori che ricevono palla modificano la postura in base al contesto in cui si trovano, se tra attacco o difesa, se pressati o liberi di muoversi. La posizione che assumeranno, dunque, modificherà il tipo di impatto che avrà il corpo sul pallone e viceversa, aggiungendo un tocco in più verso il realismo. Infine, il Timed Finishing, disattivabile dal menu di personalizzazione delle assistenze al gioco, funziona in maniera del tutto simile alla ricarica delle armi in Gears of War. Questa volta per colpire bene il pallone serviranno due tocchi del tasto adibito al tiro, uno per la potenza e uno per l’impatto dove, il tempismo, sarà fondamentale. Effettivamente serve un minimo di pratica per assimilare la nuova meccanica, soprattutto se abituati al vecchio sistema: non è detto infatti che colpendo il pallone con le stesse modalità con cui avveniva nei precedenti episodi l’esito sarà il medesimo.
Ma le novità non si fermano qui. Una piccola grande implementazione è data dalle Tattiche Dinamiche, che vanno ad aggiungersi al menu contestuale dell’atteggiamento della squadra in campo, da difesa a oltranza ad attacco totale. Prima di una partita abbiamo la possibilità di associare a ogni tipo di comportamento uno schema ben preciso, con modulo, posizione in campo dei giocatori e tattiche completamente personalizzate e variabili in tempo reale durante il corso della partita. Facendo un esempio potremmo associare alla difesa a oltranza per difendere un risultato importante un 5-4-1 oppure ad attacco totale un 4-2-4. Una volta cambiato atteggiamento col d-pad vedremo spostarsi dunque i calciatori in tempo reali, assumendo la nuova posizione. C’è un “però”: l’uso indiscriminato di tale pratica può aprire enormi spazi su campo e letali se sfruttati dagli avversari. È bene dunque cambiare tattica una volta tranquilli e con il possesso palla.

La chiamavano Trinità

All’interno della demo è presente anche un piccolo estratto del Viaggio: Campioni, ultimo episodio della serie dedicata ad Alex Hunter. Anche qui le novità sono molteplici, a cominciare dalla possibilità di scegliere già da subito la sorellastra Kim Hunter o l’amico/rivale Dennis Williams, ora nel Manchester United. Hunter invece, è un nuovo giocatore del Real Madrid e questo avrà delle forti ripercussioni sulla sua carriera come del resto sul suo carattere. Il successo, la fama e la gloria potrebbero destabilizzare il giovane calciatore inglese ma questo, lo vedremo in dettaglio sul titolo completo. In questa preview abbiamo avuto solo modo di giocare come Alex, in un match di Champion’s League contro lo United. Le meccaniche sembrano le medesime ma sappiamo già che il protagonista potrà scegliere come “mentori” tre campioni del Real come Modric, Marcelo Kroos, che avranno un impatto importante non solo sull’aspetto ludico, ma anche nella vita privata.
A livello tecnico invece non sono presenti grosse novità. Si può notare una migliore cura delle divise, nuova regia per alcune cutscene e nuova inquadratura alle spalle del portiere al rinvio da fermo, permettendo una migliore visione del campo, soprattutto se si vuol giocare palla corta. Le vere novità probabilmente le vedremo con l’implementazione del ray tracing, magari già dal prossimo anno.

In conclusione

Manca poco ormai all’arrivo di FIFA 19 che si presenta davvero ricco dal punto di vista contenutistico e con alcune implementazioni al gameplay che ne migliorano il feeling. Nonostante alcune piccole criticità sembrano permanere come fisica del pallone non proprio precisa e forse una eccessiva velocità di gioco, il titolo Electronic Arts si appresta a conquistare il mercato, nonostante il suo rivale sia uscito da circa un mese.




Immortal: Unchained – La Sindrome di Stoccolma

Quando sei un piccolo team di sviluppo, appena nato, con poca esperienza ma con grande voglia di fare, non è facile varcare il confine che porta al successo. Questo vale per tutti gli ambiti, incluso ovviamente quello videoludico, nel quale Toadman Interactive si è lanciata nello sviluppo di un titolo ambizioso e che sembra fare tanto il verso ai capisaldi di molti generi. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con un souls in salsa fantascientifica (non ultimo The Surge di Deck13), ma Immortal: Unchained è diverso, e pare già essersi fatto conoscere come il “Dark Souls con i mitra“. Effettivamente, unire meccaniche da TPS a un souls like sembra un’operazione folle e un po’ fuori dal mondo, eppure, seppur con qualche scivolone, sembra funzionare.

Da cosa nasce cosa

Approcciarsi alle vicende scritte da Anna Tole (The Witcher) e Adrian Vershinin (Crysis 3, Battlefield 1), come in ogni buon souls like che si rispetti, non è operazione delle più semplici. Salvo qualche eccezione (vedi Nioh), in più titoli del genere l’insieme si presenta in maniera frammentata, raccogliendo manufatti, sbloccando armi o attivando dei “dispensatori di lore“. Eppure, nonostante qualche palese citazione, tutto funziona, fregiandosi della tanto in voga “profezia da compiersi” ma in salsa del tutto nuova.
Tutto, ma proprio tutto, ha inizio da un Monolite misterioso, che con la sua energia dà vita all’Universo e ai nove mondi protagonisti delle vicende. Come da prassi, si scatenano guerre per il controllo di un simile potere, e da questi conflitti sono i Prime a trarne vantaggio, avviando così un’era prospera. Una volta creato il nostro personaggio attraverso un menù avaro di elementi di personalizzazione, saremo chiamati a risvegliare il potere del Monolite per scongiurare l’apocalisse in arrivo, anche se si avranno un po’ di sorprese lungo il cammino, sino a un finale interessante e per certi versi coraggioso.
All’interno del titolo avremmo a che fare con NPC, pochi a dir la verità, ma ben scritti e preziosi per scoprire lati della storia più intimi ed emotivi, ma anche per instillare qualche piccolo dubbio al giocatore sul proprio percorso e sulle proprie azioni.
Molto dunque viene raccontato attraverso dialoghi e descrizioni, ma non mancano alcune cutscene, narrate attraverso artwork interessanti stilisticamente ma che rischiano di distanziare un po’ il giocatore dal racconto; solo l’ultima cutscene è generata con il motore di gioco, fortunatamente. Non è presente un “new game+”, né multiplayer o altri elementi online, ma Toadman ha precisato che molte feature verranno introdotte in futuro, già a partire dai prossimi mesi.
Per la cronaca, il titolo è stato completando in circa 25 ore di gioco, con qualche portale residuo ancora da aprire e qualche boss opzionale da affrontare.

Tra Chuck Norris e Carla Fracci

Tutto ha inizio nel Nucleo, il nostro hub centrale che somiglia vagamente al Nexus di Demon’s Souls. Da qui potremo interagire con gli NPC, personalizzare il nostro equipaggiamento e livellare. Ma, cosa ancor più importante, potremo teletrasportarci verso i tre mondi che è possibile visitare: Arden, Veridian e Apexion. La parte succosa del titolo è il gameplay, un po’ schizofrenico, capace di passare da buone idee e ottimi spunti a scivoloni grossolani. La caratteristica principale di Immortal è di essere un TPS (Third Person Shooter) abbinato alle classiche meccaniche da souls, comportando un approccio completamente nuovo in entrambi i sensi: in primis, la possibilità di colpire i nemici, ed esser colpiti dalla distanza è alquanto straniante al primo approccio, dovendo schivare i colpi in arrivo a più riprese e al contempo – se possibile – aggirare l’avversario per colpirlo alle spalle o destabilizzarlo, situazione simile a Nioh o probabilmente al futuro Sekiro.
Altra meccanica interessante, ma mitigata rispetto alla versione di prova, è il danno localizzato: possiamo colpire arbitrariamente gli arti, smembrando così i corpi dei nostri poveri nemici. Una volta colpito l’arto dove è impugnata l’arma, si attiveranno anche animazioni uniche dove l’avversario cercherà di colpirci come può. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione a risparmiare proiettili in quanto, una volta terminati, saremo in balia dei nemici, che come noi dovranno fermarsi a ricaricare. Fortunatamente, attraverso consumabili – se in nostro possesso – e una volta sbloccati i restanti slot per le armi, questo problema viene molto mitigato.  Il nostro arsenale si compone di diverse tipologie di armi, tutte con caratteristiche proprie: passiamo da carabine a fucili a pompa, per andare da pistole a SMG, fucili di precisione e lanciagranate. Queste armi si suddividono anche per il tipo danno inflitto, cosa che si sposa benissimo con le diverse resistenze dei vari nemici. Sono presenti anche armi corpo a corpo, consistenti in una coppia di lame, asce o martelli utili soprattutto per infliggere il colpo di grazia agli avversari e risparmiare così qualche proiettile. Queste armi purtroppo risaltano il primo dei grossi limiti del titolo: difatti, non possiedono moveset apposito, non vi è possibilità di effettuare combo o di incatenare colpi in maniera bizzarra tra uno sparo e un colpo melee. In fin dei conti è come se non ci fossero, limitando anche la costruzione di specifiche build o anche diversi approcci al combattimento. Le armi bianche, come quelle da fuoco comunque, sono potenziabili attraverso materiali recuperati e i Bit (la valuta del gioco), ma anche smantellabili, recuperando così oggetti per il crafting. Questo sistema, benché semplice, aumenta a dismisura la voglia di sperimentare l’utilizzo di armi diverse, grazie anche a un costo in Bit molto accessibile. A questo, si accostano anche dei perk (simil anelli di Dark Souls), suddivisi tra attacco, difesa e supporto: il loro utilizzo permette di variare leggermente build durante il gioco e, quando la situazione lo richiede, aumentare magari la salute, la stamina oppure la velocità di ricarica delle armi o il recupero di elementi per il crafting. La loro varietà è sicuramente un punto di forza, così come lo è del resto tutta la struttura su cui si poggia il gioco. Però… c’è un però: è possibile configurare tutto questo soltanto una volta attivato e utilizzato un Obelisco (Falò). Questo significa che, una volta trovata un’arma di nostro interesse, potremmo cambiarla soltanto riposandoci, limitando pesantemente il gameplay. Un altro limite è l’assenza di diverse corazze a disposizione, avendone soltanto una che, trovando gli appositi terminali di potenziamento, andrà via via assemblandosi sino al suo completamento; almeno abbiamo la possibilità di personalizzarla, scegliendo il colore e la livrea da applicare, una volta trovati i componenti necessari. Ma qui finora non abbiamo nemmeno scalfito la schizofrenia dei ragazzi di Toadman.

Pad alla mano le sensazioni sono abbastanza positive, con un impostazione simil-Bloodborne abbastanza intuitiva: nessun tipo di parata o di parry, tutto è riservato alle schivate che possono essere migliorate nei frame delle animazioni attraverso il level-up. Inutile dire quanto siano fondamentali. Il tutto, in generale, funziona: sfruttare l’intelligenza artificiale per dividere i nemici e poi colpirli singolarmente può essere una buona soluzione, anche se non sempre praticabile, vista la presenza di avversari capaci di teletrasportarsi che diventano un vero incubo. I nemici che affronteremo sono discretamente vari e suddivisi per tipologia. Il loro limite di aggro è variabile, per cui potrebbe capitare di essere seguiti fino alla fine dei tempi.
Ma il problema principale è l’equilibrio di gioco, il più grande peccato di Immortal, che consta di situazioni al di fuori delle comprensione umana ma anche di sezioni ben strutturate (Apexion su tutte) capaci di far venire il dubbio se un simile sviluppo sia stato portato avanti dalle stesse persone. Capiterà infatti di assistere a veri errori da principianti, come il posizionamento di Obelischi nel ben mezzo di un’orda di avversari che comporta lo spreco di risorse preziose mettendo semplicemente piede fuori da una zona che, da prassi, dovrebbe essere invece sicura. Questi errori si verificano anche nel level design, costruito ad hoc per far provare il brivido della scomunica a qualunque giocatore, creando una difficoltà accessoria dove magari vi sono già dei problemi da gestire. Eppure, anche qui, il level design riesce a volte a sorprendere, con ambienti molto grandi e ben collegati tra loro, ricordando – con la giusta cautela – i fasti di From Software. Anche il ritmo soffre dei medesimi problemi, con sezioni al cardiopalmo una dietro l’altra e momenti di vuoto assoluto, soprattutto verso il finale.
Ma veniamo alle boss fight, tutte abbastanza differenti fra loro, ma che in qualche modo non riescono a risultare memorabili. Se a volte il loro approccio deve essere “studiato”, facendo attenzione ai movimenti e ai tipi d’attacco, altre volte risultano un po’ troppo semplici, in quanto basta appostarsi alle spalle del nemico per finirlo senza alcuna difficoltà. Alcune di esse sono configurate come opzionali, oppure “segrete” sbloccando alcuni portali (tipo Stargate), in grado di trasferirci da un pianeta all’altro. Tutti questi problemi sono figli probabilmente della poca esperienza del team, ma forse anche frutto di una cattiva interpretazione dell’opera di Miyazaki in certi frangenti. C’è da dire però – per correttezza – che alcuni di questi problemi, anche se in misura molto più limitata, esistono anche nei capolavori di genere. Si sbaglia solo con le dosi, quindi.

Disincanto

Nel nostro vagabondare tra i pianeti, purtroppo, raramente troveremo scorci mozzafiato. Forse questo è uno dei limiti più grandi di Immortal: Unchained: sa fin troppo di già visto, tra il design delle costruzioni e persino dei nemici che, in qualche modo, richiamano personaggi di altri brand. Nonostante questa mancanza di idee e un certo piattume generale, ogni tanto il titolo sembra destarsi, regalando momenti di grande impatto visivo e in qualche modo memorabili, ma avviene così di rado che quasi a un occhio meno attento potrebbe sfuggire. Se il comparto artistico dunque non fa gridare al miracolo, figuriamoci quello tecnico in senso stretto, povero di dettagli e con qualche problema di troppo tra glitch, bug, qualche piccolo errore nelle collisioni, nei geo data, pop-up delle texture e nell’intelligenza artificiale. Quest’ultima, a dire il vero, riesce a sorprendere in molti frangenti, accerchiandoci o stanandoci con granate. Insomma, è un titolo che ha sicuramente bisogno di un’ulteriore rifinitura, con molti problemi risolvibili tramite semplici patch riparatorie.
Sul fronte audio, il titolo può vantare un buon doppiaggio inglese, espressivo al punto giusto e capace di caratterizzare adeguatamente gli NPC. Anche le musiche che accompagnano quasi sempre l’azione sono abbastanza azzeccate, dal tono epico ma soprattutto risultano funzionali. Effetti sonori nella media anche se alcuni in certi frangenti, sembrano quasi una tortura.

In conclusione

Una volta concluso Immortal: Unchained sarete chiamati a un’importante decisione: ricominciare, riscoprendo piccoli risvolti di trama a vostro rischio e pericolo o attendere l’uscita di alcune patch, permettendo un NG+ più equilibrato e tecnicamente più curato? Qualunque sia l’esito, la prima fatica di Toadman Interactive, seppur con tanti difetti, risulta un titolo interessante che, con piccoli accorgimenti, può diventare un ottimo spunto per un eventuale sequel. Sa essere molto cattivo, ma volete mettere la soddisfazione di superare tutte le avversità del fato digitale?

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Lara Croft, storia di un’icona

A volte capita che un brand, una volta creato, sfugga al controllo dei propri creatori, divenendo ben più importante rispetto a quanto preventivato. Questo è il caso di Tomb Raider e della sua eroina Lara Croft, divenuta una dei simboli più importanti della cultura pop degli anni ’90 e prima vera paladina di tutte le donne videoludiche.
In concomitanza con l’uscita di Shadow of the Tomb Raider, ultimo capitolo della nuova trilogia, che ha riportato al pubblico una Lara molto diversa ma sempre in gran forma, e nonostante gli svarioni precedenti, ripercorriamo la storia della prosperosa archeologa, della sua creatrice Core Design sino all’avvento di Square-Enix e l’ultimo lungometraggio con Alicia Vikander. Sarà un viaggio trentennale alla scoperta di aneddoti, scelte sagge e disastrose, in un percorso oggetto di studio in molte università.

Dalla Gran Bretagna con furore

Tutto ebbe inizio a Derby, una piccola cittadina inglese, che nel 1988 vide nascere Core Design, azienda fondata da Chris Shrigley, Andy Green e altri componenti, molti arrivati da Gremlin Graphic, altra software house con sede a Sheffield. Tra i primi lavori del developer spiccò Rick Dangerous, un platform che richiamava in maniera poco velata le gesta di Indiana Jones, riprendendone ambientazioni (I predatori dell’Arca perduta) e nemici, quei Nazisti tanto odiati dagli statunitensi quanto dai britannici. Il gioco ebbe un buon successo, tanto che, l’anno dopo (1990), arrivò il suo sequel diretto: Rick Dangerous II.
Le ambizioni di Core Design erano però molto più grandi e mentre il mondo del 3D cominciava a muovere i suoi primi passi, allo studio venne in mente di replicare quanto realizzato con l’archeologo Rick ma, fortunatamente, il lavoro prese quasi subito un’altra piega.
Nel 1993 i lavori per il nuovo progetto cominciarono a essere abbozzati da un team di sole sei persone, ma solo l’anno dopo si cominciò a entrare nel vivo. Toby Gard stava già lavorando sul protagonista che inizialmente doveva essere di sesso maschile, come da tradizione. È qui che a Core Design e Toby venne in mente un’idea rivoluzionaria e che avrebbe cambiato per sempre il futuro di entrambi. Il nuovo titolo avrebbe avuto per protagonista una donna, lontana dalla classica “principessa da salvare”, forte, indipendente e capace di tenere testa ai vari nemici uomini. Con una caratterizzazione sudamericana, Laura Cruz fu il primo nome scelto per la nuova eroina ma ben presto sostituito con Lara Cruise, più incline a un pubblico americano. Nel frattempo il background della protagonista cominciava a venir fuori e, pian piano, si decise di renderla “british”, una ricca ereditiera con la passione per l’archeologia, nata nel 1968. Dopo aver sfogliato a casaccio un elenco telefonico, il più era fatto. Lara Croft era nata. Ed era nata già… abbondante.
La caratteristica fisica più evidente – è inutile far finta di niente – è indubbiamente il suo seno, divenuto comunque più discreto nel corso degli anni. Tutto nacque da un errore – o almeno è così che ci raccontano – del suo creatore Toby Gard che durante la lavorazione sul modello 3D di Lara, accidentalmente fece scivolare la rotellina del mouse proprio sulla zona incriminata, aumentandone le misure del 150%. Dopo aver ripristinato il tutto, molti si accorsero che quell’abbondanza piaceva e così decisero ben volentieri di mantenere l’errore. La famosa treccia invece, fu rimossa dato che la sua gestione utilizzava fin troppa memoria a discapito della fluidità del gioco. Comparve infatti solo con Tomb Raider II, a seguito anche di una migliore ottimizzazione.
Lara era dunque pronta a farsi conoscere dal grande pubblico, ma non prima di un grande cambiamento per Core Design.

Girl Power

Le cose cominciarono a farsi più interessanti una volta che Eidos Interactive acquisì la compagnia, immettendo nuovi capitali da investire in uno dei progetti videoludici più ambiziosi di sempre. Dopo 18 mesi di lavoro dunque, Tomb Raider fece il suo debutto su Sega Saturn per poi approdare su PlayStation (che inizialmente bocciò la prima versione del progetto) e PC il mese successivo. Fu un successo su vasta scala con un’avventura mozzafiato tra le Ande peruviane e le rovine di Atlantide, fluido e innovativo sotto ogni aspetto, con un eccellente level design e la possibilità di muoversi sott’acqua,  tutto in uno spazio 3D. Ovviamente a colpire sin da subito fu Lara, grazie anche alla doppiatrice Shelley Blond, in grado di caratterizzare un’eroina forte e determinata, capace di conquistare immediatamente il pubblico. L’esplorazione, la risoluzione di enigmi ambientali e le fasi action erano qualcosa di sbalorditivo per l’epoca, e questo non fece altro che aumentare il successo di Lara Croft. Ben presto, infatti, la procace archeologa avrebbe conquistato il mondo, apparendo dappertutto, dalla riviste fino ai concerti degli U2 con il loro PopMart Tour; il suo successo però non piacque al suo papà Toby Gard che non apprezzò l’eccessivo sfruttamento commerciale della sua creatura, decidendo di lasciare di punto in bianco Core Design, cosa che probabilmente lo salvò dalle critiche di qualche anno più tardi.
Nel 1997 infatti, è il turno di Tomb Raider II, titolo nato – per così dire – da una costola del suo predecessore: infatti, il sequel venne realizzato per lo più sfruttando asset mai utilizzati per il primo capitolo, spiegando in parte, la mancanza di novità di rilievo.
L’introduzione di effetti d’illuminazione dinamica e location più ampie, oltre ai veicoli guidabili, bastò a bissare il successo, divenendo vera e propria killer application per PlayStation, essendo divenuta nel frattempo sua esclusiva. Fu tra l’altro il primo a essere doppiato in italiano. In questo episodio, Lara si presentò meno spigolosa e con la treccia, grazie anche al lavoro di Stuart Atkinson, nuovo designer della protagonista. Ma questo successo non poteva durare: solamente un anno dopo arrivò il terzo capitolo, Tomb Raider III che, nonostante un buon successo commerciale, cominciò a far storcere il naso a critica e pubblico, che fecero notare come le caratteristiche del franchise cominciavano a risultare ripetitive. In fin dei conti, si è cercato di spremere il successo di Lara sino allo svilimento, come del resto accaduto – anche se con le dovute proporzioni – per altri brand come Call of Duty e Assassin’s Creed. Evidentemente imparare da quanto avvenuto può risultare complicato, eppure i problemi per Eidos e Core Design dovevano ancora arrivare.

Ferro freddo

Battere il ferro finché è caldo non è sempre una buona strategia. Per una piccola compagnia come Core Design, il successo di Tomb Raider fu qualcosa di eccezionale, ma l’incapacità di gestire l’impatto mediatico di Lara Croft e le vendite esagerate cominciarono a portare la società verso il declino. Il ferro era ancora caldo, ma aveva ancora bisogno di essere battuto?
Solo poco tempo dopo arrivarono in versione speciale i primi due capitoli, una collezione di Tomb Raider e Tomb Raider II denominati Gold, che comprendevano alcune migliorie e nuovi livelli. Ma le vere attenzioni erano tutte rivolte al quarto episodio, Tomb Raider: The Last Revelation, arrivato anche su SEGA Dreamcast e criticato aspramente in quanto, tolta la nuova ambientazione, di novità effettive non ve ne erano. La morte di Lara Croft, avvenuta in questa avventura e festeggiata dal team di sviluppo con un paio di birre avrebbe potuto sancire la fine di questo franchise, ma le cose andarono molto diversamente, con l’uscita di Tomb Raider: Chronicles, avvenuta nel 2000, probabilmente il peggiore titolo della saga sino a quel momento, tecnicamente arretrato e ultimo bagliore di luce prima del spegnersi della fiamma.
Se le avventure di Lara Croft su console erano in pausa, sul grande schermo invece era più viva che mai: Lara Croft: Tomb Raider fu il primo film del franchise ad arrivare al cinema, con protagonista un’Angelina Jolie in piena forma e che seppe interpretare un Lara molto simile alla controparte videoludica, anche se forse con una leggera spinta verso l’esaltazione delle “forme” dell’attrice. Fu un successo e questo diede nuova linfa a Core Design, che, nel frattempo, stava preparando il suo debutto su PlayStation 2 ( purtroppo, vien da dire col senno di poi).
Tomb Raider: The Angel of Darkness fu un vero disastro. L’idea di rinnovare il franchise, portandolo al passo con le tendenze del nuovo millennio non trovò mai la giusta direzione: lo sviluppo, infatti, venne affidato a un team interno, cosa che ne decretò l’insuccesso prima ancora di cominciare. I ritardi si accumularono, il gioco venne rimandato per ben tre anni, e quando finalmente uscì pagò il fio di tutti i disaccordi interni e le scelte errate di Core Design. Numerosi problemi di direzione artistica e narrativa impallidivano di fronte ai molteplici bug e alla mancanza di rifinitura, e chi vi scrive lo sa fin troppo bene. The Angel of Darkness è uno dei titoli che non potei mai completare a causa di un bug che ne impediva il prosieguo, portandolo ogni volta all’inevitabile crash. Era il 2001, niente patch riparatorie. Tra i tagli più evidenti, confessati a Edge nell’Agosto 2006 dal team di sviluppo, vi erano un prologo che collegava Last Revelation a questo e molti livelli tra Parigi, Germania e Praga.
Nonostante le buone vendite iniziali, grazie a una campagna marketing aggressiva, il nuovo Tomb Raider fu il colpo di grazia: uno dei cofondatori diede le dimissioni e metà del personale fu licenziato. Ma non c’è mai limite al peggio. Nel 2003 infatti, uscì anche il secondo capitolo cinematografico, intitolato Tomb Raider: La Culla della Vita, stroncato da critica e pubblico, con Angelina Jolie candidata come peggior attrice protagonista ai Razzie Awards dello stesso anno.
Nonostante questo però, Lara Croft non abbandonò mai il cuore dei giocatori. Serviva una scossa, e fortunatamente, avvenne grazie all’intervento di Crystal Dynamics.

Una Fenice dalla breve vita

Viste le enormi perdite e le grosse difficoltà di Core Design, nel 2003 Eidos decise di passare la responsabilità del progetto a Crystal Dynamics, assieme all’ormai storico creatore di Lara, Toby Gard. A dir la verità, nemmeno la società subentrante godeva di un buono stato di salute ma, ciononostante, Eidos era sicura che per dare la svolta necessaria al franchise il nuovo team fosse la scelta giusta. A molti deve essere sfuggito, ma Tomb Raider Legend fu un vero e proprio reboot, in cui venne riscritto – o aggiunto – un nuovo background narrativo e una revisione completa del modello di Lara, più realistico ma mantenendo sempre un non so che di caricaturale. Legend fu un successo, divenendo il Tomb Raider più velocemente venduto della storia, mostrando finalmente una Lara distante dalle gesta di Steven Seagal, divenendo più umana anche caratterialmente e a cui i giocatori poterono legarsi anche empaticamente. Gli anni intorno al 2006 (anno d’uscita) erano contraddistinta dalla moda dei quick time event, che permisero anche a Toby Gard di sviluppare finalmente il desiderio di realizzare un “film interattivo”, idea che mosse i primi passi dell’originale Tomb Raider ma che per ovvie limitazioni tecniche non venne mai realizzato; almeno sino al nuovo progetto, in concomitanza con i primi 10 anni del brand. Tomb Raider Anniversary fu un vero regalo per tutti i fan: realizzato con il nuovo motore di gioco di Legend, si trattava di un remake del primo capitolo a cui, agli ovvi miglioramenti tecnici, furono aggiunti alcuni cambiamenti di gameplay e narrativi oltre che sonori, con una versione riorchestrata del tema e le musiche originali (Nathan McCree), a cura di Troels Folmann. Toby Gard venne promosso da “semplice” consulente a Capo Designer, apparendo anche nel documentario dedicato alla storia di Tomb Raider, presente all’interno della confezione. Anche Anniversary ebbe un buon successo e questo spinse Eidos a dare il via libera a Crystal Dynamics per un nuovo capitolo, che avrebbe preso vagamente spunto anche dai lungometraggi con Angelina Jolie. Il sequel di Legend, Tomb Raider Underworld, portava Lara Croft ad affrontare gli enigmi della mitologia norrena ma, nonostante Toby Gard alla direzione e alla co-sceneggiatura, quest’ultimo capitolo, purtroppo, non seppe conquistare completamente i fan, creando grossi problemi a Eidos.
La compagnia britannica infatti, si trascinava ormai da molti anni alcune difficoltà economiche, tra investimenti falliti e acquisizioni che non furono indolori. Il fallimento era dietro l’angolo ma, nel 2009, Square-Enix lanciò un salvagente dal valore di 84 milioni di sterline, acquisendo l’intero controllo della software house.

La luce in fondo al tunnel

L’arrivo di Square-Enix cambiò le carte in tavola: serviva un taglio netto col passato, un nuovo Tomb Raider, una nuova Lara contornata da nuove idee. A capo dei nuovi progetti rimase Crystal Dynamics che si mise subito a lavoro su un nuovo titolo, più uno spin-off che un capitolo ufficiale: Lara Croft and the Guardian of Light arrivò solo sul mercato digitale, offrendo ai giocatori una nuova avventura cooperativa e con visuale isometrica. Nonostante il diretto collegamento al brand Tomb Raider mancasse, il nuovo lavoro ebbe un buon successo su tutti i fronti, dando linfa al progetto principale, un reboot totale che avrebbe finalmente portato Lara Croft ai nostri giorni. Scritto da Rhianna Pratchett e con il semplice nome di Tomb Raider, il nuovo capitolo si presentava molto lontano dagli stilemi classici del franchise, presentando una Lara alla prime armi (nata nel 1992) e inesperta, una ragazza costretta ad affrontare mille avversità. Il titolo era più maturo e sopratutto più realistico, non solo nel gameplay ma anche nella costruzione di un personaggio che ormai non era più l’icona pop degli anni ’90. Plasmata sulla modella Megan Falcar, la nuova Lara conquistò i cuori degli appassionati ma anche il gioco in sé seppe sorprendere: ambienti più ampi che favorivano l’esplorazione, una giusta dose d’azione e di sovrannaturale facevano pendant purtroppo con la limitata proposta di tombe ed enigmi che in un gioco dal nome di Tomb Raider esigevano altra cura. Il successo del reboot spinse anche Metro Goldwyn Mayer ad acquisirne i diritti per una trasposizione cinematografica, uscita proprio quest’anno e con protagonista il Premio Oscar Alicia Vikander. Basato proprio su questo reboot, il film non ha avuto però il successo sperato a causa di alcune scelte narrative e di una caratterizzazione di Lara Croft non proprio riuscita.
Il successo del nuovo Tomb Raider (videoludico) fu solo l’inizio: nel 2014 Lara Croft and the Temple of Osiris  continuò quanto realizzato con The Guardian of Light, ma è il 2016 l’anno importante, con un Rise of the Tomb Raider che continuò quanto di buono fatto, elevando la qualità di tutti gli aspetti del gioco su livelli eccellenti. Rise fu un successo su tutta la linea, preparando il pubblico all’imminente Shadow of Tomb Raider che dovrebbe concludere questa nuova trilogia.

L’importanza di Lara

Come detto, Lara Croft è stato un personaggio fondamentale per la scena videoludica, ritornato in auge con i recenti reboot, anche se lontana dai fasti degli anni ’90. Una donna protagonista in un videogioco d’azione sembrava una follia, eppure il ragionamento dietro a tale scelta può portare a delle riflessioni. Ian Livingstone, Creative Director di Eidos e ora Presidente onorario, ha spiegato molto bene come si è arrivati a Lara Croft:

«I giochi avevano sempre avuto personaggi maschili, perché i giocatori erano ragazzi. Ma questi ragazzi non avevano smesso di giocare; erano solo cresciuti e cosa preferirebbero guardare: un riccio, un idraulico o il sedere sodo di Lara Croft? Col senno di poi, la risposta era ovvia.»

Nonostante l’intervento nella scena di Lara e il periodo del “Girl Power” portato avanti dalle Spice Girls, le protagoniste femminili facevano fatica a emergere. Ci volle probabilmente un’evoluzione della società e del pensiero per sdoganare le nuove eroine che ora diamo per scontate, da Aloy di Horizon Zero Dawn alla prorompente Bayonetta. Lara Croft aveva anticipato i tempi: tutti volevano Lara e il merchandising era qualcosa da tenere sotto controllo. Tra le cose più curiose in tal senso, come raccontato nel documentario, un fantino provò a chiamare Lara il suo cavallo da corsa, chiedendo a Eidos di poter pubblicizzare il brand Tomb Raider. La risposta fu no, dettata semplicemente dal rischio che un cavallo con il nome del momento sarebbe potuto cadere alla prima curva, diventando un perdente; l’associazione non era dunque possibile. Al contrario, fu concesso il nome Lara a una variante di Tulipani, del resto sembrava un’idea carina. Ma non finiva quì. Ben presto Lara Croft apparve anche sulla prima pagina di The Face Magazine, famosissima rivista rivolta alla cultura pop dell’epoca e in varie pubblicità, da quelle Visa a Seat. Nel 2006 ricevette anche una stella alla Walk of Fame di San Francisco, una via a Derby, chiamata Lara Croft Way e il Guinness dei Primati per essere l’eroina dei videogame più famosa al mondo. Non mancarono nemmeno i fumetti prodotti da Top Cow per ben cinque anni e alla naturale trasposizione porno (ne abbiamo parlato qui) o “semplicemente” erotica di Lara: Nell McAndrew, modella e testimonial di Tomb Raider III, posò per la nota rivista Playboy, con dicitura “Lara Croft nude“. Questo non piacque a Eidos, che decise di fare causa, imponendo un cambio di copertina. Tralasciando quest’ultimo dettaglio, dunque, fu un successo su tutta la linea, e questo successo non fu solo utile a Core Design ed Eidos, ma all’intera industria videoludica fino a quel momento rinchiusa in un micro cosmo a sé stante e che, grazie a Lara, era all’improvviso al centro della ribalta. Inoltre, uno degli impatti più evidenti fu l’avvicinamento di ulteriore pubblico femminile al mondo videoludico, potendo finalmente contare su un’eroina con la quale identificarsi. Ma era davvero così?
Lara Croft non poteva che aprire dibattiti anche tra le esponenti del femminismo. Ad esempio Jennifer Baumgardner, ex editor della rivista Ms e direttrice e publisher di The Feminist Press, è, ed è tutt’ora, una delle più attive su questo fronte, favorevole alla figura di Lara. L’archeologa rappresentava una donna forte, in grado di competere con i rivali uomini e dunque una figura positiva. Anche l’esaltazione delle forme per Jennifer non fu un problema: «se lo può permettere, perché non farlo. Non credo che le donne si paragonino a un personaggio immaginario di un videogioco».
Di tutt’altro avviso era invece Ismini Roby, all’epoca caporedattrice e fondatrice di WomenGamers.com, un portale dedicato a tutte quelle ragazze che avevo sviluppato la loro passione per i videogame. Secondo Ismini, Lara non era altro che un oggetto sessuale, che sminuiva la figura della donna, cosa che trovò sostegno anche in Germaine Greer, una delle maggiori esponenti del femminismo del XX secolo, considerando l’archeologa come una mera fantasia per adolescenti, un «maresciallo con palloni infilati sotto la maglietta». Inoltre la Greer tornò anche sul fisico, sottolineando come Lara fosse una donna “perfetta”, assolutamente non realistica, cui le donne potevano prendere come modello sbagliato da imitare.

Le polemiche intorno a Lara Croft non cessarono nemmeno con con il reboot del 2013, in cui era presente una scena di tentato stupro su una Lara ferita e spaventata. Immediatamente, riviste, telegiornali, femministe urlarono allo scandalo, scagliandosi su una scena che non era nemmeno esplicita. La risposta di Crystal Dynamics non si fece attendere, raccontando di come Lara, attraverso le difficoltà che comunque una donna affronta oggigiorno, riesce a cavarsela da sola contro le avversità di qualunque natura. Queste polemiche si placarono e non diedero problemi nello sviluppo di Rise of the Tomb Raider ma un altro piccolo “dibattito” si venne a creare, in concomitanza con l’annuncio di Alicia Vikander come attrice protagonista nel film Tomb Raider: “non ha le forme!”, “era meglio Angelina!”, “non somiglia per niente a Lara Croft!”. Risparmiando i commenti più volgari, questa era una buona parte della “voce di internet”, ad avvenuto annuncio. Inutile dire come Alicia Vikander sia una delle migliori attrici attualmente in circolazione, e forse l’insuccesso del film è anche derivato da questi pregiudizi e possibilmente dall’ignoranza sul tema, non essendosi accorti in molti come il film si rifacesse al recente reboot e alla nuova Lara Croft.

Tutto questo è dovuto all’incredibile impatto mediatico dell’eroina, che ha cambiato per sempre la visione dei videogame da parte del pubblico, trasformando il mondo videoludico in un universo di oggetti di culto, ammesso che ci sia della qualità dietro un titolo, sia ben chiaro. Lara Croft rimarrà per sempre un’icona, qualunque sia la sua versione, la sua storia e il suo aspetto. L’esplosione del successo e la sua gestione sono un insegnamento per tutte quelle software house che sognano di fare il grande colpo, ma è incredibile notare come alcuni errori commessi più di vent’anni fa si perpetuino tra problemi di comunicazione, gestione delle critiche, titoli annuali senza reali novità e così via. La storia di Lara, di Core e di Eidos è un esempio di come un’idea che può essere considerata semplice può in realtà rivoluzionare il mondo, e di come, a volte, bisogna anche sapersi fermare prima di combinare qualche guaio di troppo.