Attack on Titan 2 – JÄGER!

Attack on Titan – o Shingeki no Kyojin per i più pignoli – è stato un fulmine a ciel sereno: l’opera di Hajime Isayama ha subito conquistato il Giappone, divendendo vero e proprio cult e piazzandosi nelle zone alte della classifica dei manga più venduti. A dare man forte al successo ci ha poi pensato l’anime, prodotto da Wit Studio, capace di rendere al meglio ed esaltare quanto avvenuto nel manga, restando fedele all’idea originale.
Nonostante il target sia rivolto ai ragazzi (shonen), è un’opera a tutto tondo, volta a esplorare le profonde paure dell’uomo e come questo si pone alle più grandi difficoltà, quelle dalle quali sembra non esserci via di scampo. Lo stile, così come la qualità della narrazione, sono valsi a Isayama numerosi riconoscimenti, elevandolo a uno dei migliori autori degli ultimi anni.
Ovviamente non poteva mancare una trasposizione videoludica: Shingeki no kyojin: Hangeki no tsubasa e altri titoli per Nintendo 3DS, ma soprattutto Attack on Titan: Wings of Freedom, hanno permesso di provare “in prima persona” l’ebbrezza del movimento tridimensionale, prendendo le vesti dei protagonisti della saga.
Attack on Titan 2 non è solo un sequel ma rappresenta la presa di coscienza di Omega Force di avere tra le mani un brand dal grande potenziale. Ecco quindi che tutte le feature del gioco precedente sono state potenziate, trasformando questo titolo quasi in un vero e proprio reboot. Ma vediamo tutto più nel dettaglio.

Io sono Nessuno

Le vicende di Attack on Titan si svolgono in un mondo ormai tenuto sotto assedio dai misteriosi quanto temuti Giganti, esseri divoratori di uomini nonostante non gli servano come nutrimento. Quel che resta dell’umanità è arroccato in un’unica immensa città costituita da tre mura concentriche alte 50 metri (Maria, Rose e Sina) e sostenuta da tre corpi militari atti a proteggere le stesse mura e i cittadini: il Corpo di Guarnigione, il Corpo di Gendarmeria e il protagonista principale di manga e anime, il Corpo di Ricerca. Dopo 100 anni di pace, l’apparizione del Gigante Colossale e del Gigante Corazzato riporteranno scompiglio nell’umanità, ed è da qui che partiranno tutte le vicende. Attack on Titan 2 riprende interamente la narrazione dall’inizio, ma utilizzando un nuovo punto di vista dato dalla creazione di un nostro personaggio che avrà un suo background e interagirà con il cast del manga. Questo espediente mitiga un po’ l’effetto di “già visto” derivante dall’aver giocato gli stessi eventi nel capitolo precedente Wings of Freedom, portando nuova luce ma forzando anche alcuni eventi che invece hanno seguito tutt’altro percorso. Il racconto in generale rimane abbastanza fedele nonostante un’evidente censura, grazie all’utilizzo di buone cutscene che riproducono quasi alla perfezione i momenti salienti dell’anime, fino al termine della seconda stagione. Dunque, niente utilizzo dei nostri beniamini con le loro peculiarità, (come, per esempio, la potentissima trasformazione in Gigante) relegate alla Moldalità Alternativa, in cui potremo scegliere (una volta sbloccati nella campagna principale) ogni personaggio della saga.
Entra in scena anche il Multiplayer Online: dalla semplice co-op quattro giocatori in cui il vincitore sarà chi eliminerà il maggior numero di Giganti, una co-op che interessa in parte la modalità storia, ripercorrendone dunque le vicende e infine, l’interessante Modalità Predatore, dove guideremo un’orda di Giganti con il solo intento di divorare più umani possibili. Queste modalità funzionano abbastanza bene, con pochi elementi di disturbo come lag o disconnessioni improvvise. C’è da dire però, che i giocatori connessi non erano poi così tanti.

Tanta carne al fuoco

La novità più evidente di Attack on Titan 2 è la creazione di un proprio alter ego, personalizzabile in diversi aspetti, da quello fisico al vestiario. La sua creazione consentirà di vivere le vicende da un punto di vista esterno, alla stregua di quanto avvenuto negli ultimi Dragon Ball Xenoverse, interagendo con i protagonisti anche attraverso dialoghi a scelta multipla che possono plasmare non solo il rapporto con i nostri compagni ma anche il nostro carattere. L’interazione e la vita tranquilla in città sono dunque elementi fondamentali in quanto potremo approfondire certi aspetti caratteriali poco sviluppati in manga e anime ma, soprattutto, una volta aumentato il cosiddetto grado di amicizia, verranno sbloccati perk che potremmo inserire nel nostro inventario, migliorando le nostre caratteristiche. I perk variano da un aumento degli attributi fisici all’aumento dell’inventario e il loro utilizzo dipenderà esclusivamente dal nostro livello di esperienza.
Oltre a questo, entra in gioco una maggiore personalizzazione delle armi e degli elementi utili al movimento tridimensionale, molto più varie rispetto al capitolo precedente e potenziabili una volta acquisito le componenti necessarie, che variano in base alla rarità. Sono tanti quindi gli aspetti di cui tener conto, e in questo Attack on Titan 2 si dimostra un gioco estremamente ricco e vario, senza considerare i punti esperienza derivanti dalla cattura e lo studio dei Giganti, le missioni secondarie e tanti altri piccoli aspetti che vi lasciamo il gusto di scoprire. Una volta preparato il tutto, saremo pronti a dare battaglia ai tanto temuti Giganti.
Tutto ruota attorno al movimento tridimensionale, una delle caratteristiche fondanti del brand e veramente spettacolare a vedersi, portando una certa fluidità e teatralità nelle azioni di manga e anime. Renderlo in un videogioco non è un compito semplice in quanto sono tanti gli elementi che devono coincidere per rendere l’esperienza poco frustrante: una buona gestione di fisica e telecamere, risposta dei comandi e via dicendo, sono fondamentali e, fortunatamente, vista anche l’esperienza derivante dal capitolo precedente, l’insieme funziona abbastanza bene.
Il gameplay risulta estremamente dinamico, ci fermeremo solo per sostituire le lame e le bombole di gas consumate durante il corso della battaglia. Grazie ai rampini potremmo arrampicarci dappertutto con estrema facilità e sfruttare l’effetto dondolo, permettendo di muoverci velocemente da un punto a un altro della mappa come un novello Tarzan o Spider-Man, a voi la scelta. Tutto ciò non è ovviamente possibile in campo aperto, dove l’utilizzo del nostro fedele cavallo sostituirà il movimento tridimensionale che sarà nuovamente disponibile non appena avvistato il nostro bersaglio.
Questi movimenti fanno da preludio allo scontro con i Giganti, diversi per altezza e movimenti e quindi capace di variare il giusto i combattimenti, colpendo il loro unico punto debole dietro la nuca. Di altra pasta sono i boss, dal Gigante Femmina a quello Corazzato, terrificanti e davvero difficili da abbattere. Fortunatamente verranno in aiuto i nostri compagni, richiamabili attraverso il dorsale sinistro, e a cui potremmo impartire l’ordine di attaccare, di catturare o di potenziarci, in relazione alle loro caratteristiche base. Formare un team adeguato in base ai loro attributi, aiuterà – e non poco – la nostra sopravvivenza. Un ulteriore aiuto arriva dalla costruzione di determinate edifici, come cannoni automatici e manuali, recupero materiali e tanto altro.

Col tempo migliora

Nonostante il titolo mostri una certa beltà nel restituire al meglio i contenuti dell’anime, migliorando in generale quanto visto nel capitolo precedente, non si può che storcere il naso di fronte ad alcuni deficit tecnici: prima di tutto il framerate, mai stabile, soprattutto nei momenti più concitati. Una volta circondati da Giganti e NPC, i frame saranno fin troppo ballerini, provocando a volte disagio, visto che il movimento tridimensionale esige la massima fluidità per eseguire al meglio manovre fondamentali per l’eliminazione o il mettersi al riparo dai nemici. Ma è un po’ tutto il gioco a risultare poco rifinito, e ciò è visibile anche dall’utilizzo di filtri che faticano a “pulire” quanto vediamo a schermo e l’eccessivo pop-up anche da distanze ridicole, senza parlare di bug e glitch di vario tipo. Anche la gestione della fisica non risulta perfetta, comportando imprecisione nelle movenze e di conseguenza frustrazione del giocatore.
C’è da dire però che la resa generale risulta abbastanza gradevole: tutto, dagli ambienti sino ai Giganti e le loro movenze e fattezze sono ben riprodotti, dando effettivamente la sensazione di trovarci all’interno del manga di Isayama. Da lodare l’enorme varietà dei Giganti, mentre si poteva far qualcosa in più sui modelli dei comprimari e dei cittadini, davvero troppo pochi.
Sul piano audio, spiccano le voci del cast originale dell’anime, che svolgono un ottimo lavoro nonostante il “trasporto” da un medium all’altro, e anche le musiche finalmente rendono giustizia all’opera originale, anche se siamo ben lontani dalle vette toccate dalle puntate animate.
A completare il tutto un comparto sonoro preciso e in grado di riprodurre egregiamente tutti i suoni che ormai siamo abituati a sentire, dalla fuoriuscita dei rampini ai colpi di spada che trafiggono la nostra vittima.

In conclusione

Attack on Titan 2, nonostante qualche difetto, riesce a portare avanti il progetto videoludico del manga di Isayama. L’espediente dell’ater ego del giocatore funziona discretamente bene, fornendo il più delle volte un nuovo punto di vista delle vicende e soprattutto un approfondimento della caratterizzazione dei personaggi. Un gameplay capace di regalare momenti esaltanti, chiudendo un occhio su alcune mancate rifiniture, restituiscono agli appassionati e non, le gesta del Corpo di Ricerca in tutte le sue sfumature, diventando un titolo imprescindibile per i fan dell’opera di Isayama.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Top 5: I migliori videogame dedicati a Dragon Ball

Tra Super e FighterZ, il mondo di Dragon Ball è ritornato di moda. Oltre a manga e serie animate di successo, numerose sono le trasposizioni videoludiche della saga, sin dai tempi del Nintendo NES. Tanto tempo è passato da allora e tanti sono i titoli apparsi su altrettante console. Vediamo dunque quali sono i migliori cinque videogame dedicati alle storie create da Akira Toriyama.

#5 Dragon Ball Z: Burst Limit (2008)

Uno dei titoli più sottovalutati dell’intero franchise, Burst Limit segna il debutto di Dragon Ball nelle console della precedente generazione. Nonostante un roster risicato,  il gioco è riuscito a conquistare una nicchia di pubblico per via delle sue meccaniche di combattimento che purtroppo furono abbandonate con i successivi – e deludenti – Raging Blast. Il titolo fa della teatralità il suo punto di forza, vantando ottime sequenze cinematiche e soprattutto una delle migliori colonne sonore mai apparse in un videogioco della saga.

#4 Dragon Ball Xenoverse 2 (2016)

Tutti abbiamo sognato di far parte delle vicende raccontate in Dragon Ball, magari combattendo al fianco di Goku e Vegeta per salvare il pianeta Terra. Xenoverse riesce a realizzare questo piccolo sogno, permettendo la creazione e la personalizzazione del proprio alter ego come un vero RPG. La scelta intelligente di rendere la narrazione qualcosa di nuovo è un vero colpo da maestro ma purtroppo questo titolo pecca, la maggior parte delle volte, nel restituire le vere emozioni scaturite dal far parte della cerchia dei Guerrieri Z.

#3 Dragon Ball FighterZ (2018)

Ultimo arrivo in casa Bandai, FighterZ ha già conquistato i cuori degli appassionati, portando la migliore esperienza visiva di Dragon Ball fino a ora. Ogni moveset è stato riprodotto alla perfezione e i numerosi easter egg nonché l’approfondimento di alcuni personaggi portano questo titolo a essere una piccola pietra miliare per gli amanti di Goku e Co. Ma oltre alla componente tecnica c’è di più: un combat system accessibile ma stratificato e la ricercatezza della perfezione da parte degli utenti più smaliziati sono un bel biglietto da visita da presentare anche a chi non è amante della saga.

#2 Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi 3

Con oltre 160 personaggi giocabili, Budokai Tenkaichi 3 è essenzialmente il videogioco più vasto dedicato al franchise. Il roster è appunto il primo elemento di forza del titolo, spaziando dalla saga originaria fino alla serie GT, ricoprendo anche gli amati/odiati OAV. Anche le modalità di gioco sono innumerevoli e il combat system è quanto di più bilanciato si sia visto in un picchiaduro della serie. Non arriva al gradino più alto del podio solo per la scelta di riassumere in modo eccessivo la modalità “Storia“, punto focale per ogni fan delle Sfere del Drago.

#1 Dragon Ball Z: Budokai 3 (2004)

Chiedete a qualunque fan di Dragon Ball quale sia il suo gioco preferito: salvo qualche opinione eccentrica, la risposta sarà indubbiamente Budokai 3, capace di portare l’esperienza della saga di Akira Toriyama ai massimi livelli. L’utilizzo delle Capsule ha permesso al gioco di evolversi, espandendosi e migliorarsi, aggiungendo statistiche ai personaggi, arene e modalità. Ma è la passione degli sviluppatori che trasuda da ogni pixel la vera gioia del titolo, con elementi riprodotti alla perfezione come la caratterizzazione del roster fino alle fantastiche fusioni che rappresentano un godimento per ogni giocatore.




Tomb Raider

Diciamoci la verità: appena si ha il sentore che una casa di produzione canematografica stia per lanciare un lungometraggio tratto da un videogioco, comincia a salire qualche brivido lungo la schiena. Di certo non siamo abituati bene: innumerevoli sono ormai i film a tema videoludico che, tra il pessimo e mediocre, ci hanno continuamente delusi, lasciandoci quasi senza speranza. C’è da dire però, che qualche eccezione c’è stata, dal Prince of Persia con Jake Gyllenhaal a Silent Hill sino, perché no, anche al primo Mortal Kombat. Adesso ritocca a Lara Croft, divenuta negli anni ’90 vera icona pop ed eroina con cui tutto il genere femminile ha potuto finalmente interfacciarsi: forte, indipendente e superiore alla maggior parte dei comprimari maschili.
I film che hanno visto come protagonista Angelina Jolie, rispettivamente Lara Croft: Tomb Raider e Tomb Raider: La Culla della Vita, hanno saputo solo dare lustro alla prorompenza fisica dell’archeologa, divenendo veri e propri spot alle “doti” fisiche dell’attrice. Ma con il reboot videoludico del 2013, uscito con il semplice nome di Tomb Raiderle cose erano cambiate: la nuova Lara era figlia dei tempi che viviamo, una ragazza più reale, con un buon background narrativo e con le fragilità di qualunque essere umano. Oltre a questo, sia il primo capitolo che il secondo, Rise of the Tomb Raider, sono anche ottimi videogiochi, dal buon successo di critica e pubblico. Era naturale che prima o poi gli occhi della cinematografia si sarebbero posati ancora una volta su Lara Croft.

Il Tomb Raider videoludico ha segnato profondamente i fan, spostando il focus più su azione e avventura che sulla risoluzione di enigmi e sezioni platform. Queste nuove caratteristiche, oltre a una profonda rivitalizzazione di Lara, ben si sposano con un film da 90 milioni di dollari di budget, che può incentrare tutto sul realismo senza l’impiego di eccessivi – e costosi – effetti speciali. A dir la verità, questo è un punto su cui ci soffermeremo più avanti, ovvero la resa dell’indole del videogioco.
Questo significa anche dire addio alla giunonica Angelina per abbracciare la super atletica e “semplice” Alicia Vikander, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice non protagonista per The Danish Girl. L’attrice svedese ha già fatto parlare di sé per il suo talento – di molto sopra la media – che in Ex Machina ha trovato terreno fertile dal quale sbocciare. La sua Lara è una ragazza che un po’ si discosta dal personaggio che abbiamo avuto modo di conoscere: manca in qualche modo l’estrema passione per l’archeologia trasmessa dal padre, scelta se ci pensate un tantino forte, visto che è un perno fondamentale della sua caratterizzazione. Ma ciò che funziona per il pubblico videoludico non è detto che funzioni al cinema, ed ecco quindi Lara Croft, che cerca di farsi da sola, non accettando di prendere in eredità la fortuna della famiglia. La figura del padre è elemento fondamentale anche se un po’ in contrasto col canone ufficiale, non solo rispetto ai reboot, ma anche ai titoli originali. Scelte quindi azzardate ma che non inficiano su trama e protagonista in maniera drammatica, soprattutto per chi conosce le vicende del videogioco.
La trama dunque si snoda tangendo quella videoludica: la giovane Croft, decisa a sapere quanto accaduto al padre, si recherà su un’isola misteriosa al largo del Giappone, in cerca della verità. Le vicende, scritte a quattro mani da Geneva Robertson-Dworet e da Alastair Siddons, scorrono via senza particolari intoppi nonostante la durata di circa un paio d’ore, risultando a conti fatti Tomb Raider un buon film di intrattenimento ma senza particolari picchi. Tutto poggia sulle incredibili e robuste spalle della Vikander che, seguendo le orme del buon Tom Cruise, ha svolto la maggior parte delle scene d’azione senza l’ausilio di una stuntman. In questo film ne ha subite di ogni, come del resto la iellata controparte videoludica, dalle cadute da altezze proibitive alla lotta a mani nude passando per le arrampicate e chi più ne ha più ne metta; se c’è una cosa da sottolineare è la voglia di Alicia di interpretare questo personaggio al suo meglio, e di questo bisogna dargliene atto. L’irrisolto rapporto padre-figlia sarà al centro della personalità della protagonista così come del comprimario – e molto anche – Lu Ren (Daniel Wu); questo, oltre ovviamente a tutta l’esperienza sull’isola, darà alla giovane Lara motivo di crescita e di accettazione del suo ruolo, facendo quel piccolo passo verso l’eroina che noi tutti conosciamo.

Il regista norvegese Roar Uthaug è riuscito a impacchettare un film senza difetti evidenti, con una classica regia da “mestierante” ma che ben si sposa con l’azione e la location del film. Anche le scene d’azione, seppur non perfettamente coreografate, riescono a intrattenere e sono chiare la maggior parte delle volte. Quello che manca è appunto quel “guizzo” verso l’alto ma, come potete aver capito, è un po’ il problema di tutto il film. Anche la fotografia di George Richmond non fa altro che richiamare i toni del videogioco, un andare sul sicuro che, per come è stato indirizzato il lungometraggio, è anche comprensibile. Siamo stati abituati ad avere, infatti, due scuole di pensiero: una parte di pubblico chiede a gran voce nuove storie basate sui vari brand, altri, invece, vorrebbero un copia e incolla dall’opera videoludica a quella cinematografica. Inutile dire che entrambe le idee abbiano prodotto risultati discutibili.
Tomb Raider è furbo, mettendo in scena sì una storia che lambisce i temi della controparte originale ma anche capace di regalare scene clou precise al millimetro rispetto al videogioco, una via di mezzo che in fin dei conti accontenta tutti: i fan hanno con cosa interfacciarsi e i “casual” posso godere di buone scene d’azione.
Segnalando personaggi completamente assenti, come l’equipaggio dell’Endurance, e personaggi completamente stravolti, come il “cattivo” Vogel, arriviamo al più grande problema del film: la particolarità dei Tomb Raider risiede nel rendere tutte le leggende createsi lungo il corso della storia, mera realtà, portando in scena elementi sovrannaturali e metafisici che ben si sposavano con il contesto del gioco ma anche – incredibilmente – con i lungometraggi con protagonista Angelina Jolie. L‘isola Yamatai è un luogo ricco di misteri e a tratti di angoscia, all’interno del reboot del 2013, con tombe nascoste e ambientazioni mozzafiato. Nel film purtroppo manca tutto questo, in favore di ambienti più semplici ma poco caratterizzati; anche quando si arriva finalmente al tempio della Regina del Sole Himiko, la musica non cambia. Manca completamente quel senso di stupore e meraviglia derivante da una nuova scoperta fuori da ogni logica e che mal si discosta da ciò che rappresenta il brand. La mazzata finale arriva dalla completa assenza di elementi sovrannaturali, derivati in questo contesto dal risveglio e dalla potenza di Himiko e del suo culto, in grado di controllare il destino dell’intera isola. Se da un lato tutto questo è spiegabile da un budget che qualcuno definirebbe basso e la voglia di non strafare, con il rischio di allontanare pubblico, ecco che sorge la domanda fondamentale, alla quale non risponderemo “42“: ma abbiamo veramente visto Tomb Raider?

In fin dei conti questo risulta un film normale per gente normale, che vuol passare un pomeriggio al cinema senza particolari sussulti. Diffidate da chi elogia il film come un capolavoro: la pochezza dei lungometraggi tratti da un videogioco può rendere un film del genere di poco migliore, ancor più importante, solo perché mancano paragoni degni (“effetto Wonder Woman“). È indubbiamente un buon film di intrattenimento e sicuramente la migliore trasposizione cinematografica di un videogioco, grazie soprattutto ad Alicia Vikander che, a dispetto degli infelici paragoni scaturiti alla notizia del suo ruolo, porta una Lara Croft credibile e segna un buon inizio di saga, qualora si prosegua con questo brand.
Il contraltare è una storia che non prende mai realmente il volo e che ha poco a che fare con Tomb Raider. Troppe scelte conservative hanno fatto viaggiare il film con il freno a mano tirato e, al sopraggiungere dei titoli di coda, tirando le somme se ne sente il peso.




Wolfenstein II: Le Gesta del Capitano Wilkins (DLC) – Un’Aggiunta al Tofu

Siamo giunti alla conclusione delle Cronache della Libertà, serie di DLC rilasciati per Wolfenstein II: The New Colossus. Le Gesta del Capitano Wilkins è il terzo e ultimo DLC di questa trilogia, atta a espandere l’universo narrativo principale, ma riuscendo malamente nell’intento. Tutti i capitoli con i loro rispettivi personaggi sono risultati scialbi, senza novità di rilievo e fondamentalmente una grande occasione sprecata. Anche la storia dedicata a Wilkins non è da meno purtroppo, registrandosi forse come il capitolo meno riuscito, il che la dice lunga.

Tutto già visto

Dopo il quaterback Joseph Stallion e l’ex OSS Jessica Valiant tocca a Gerald Wilkins completare il ciclo narrativo. Soldato dell’esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale, il Capitano Wilkins non si è mai arreso, nonostante la sonora sconfitta a base di testate nucleari nelle principali città americane, compresa New York. Per niente intimorito, li lancerà alla ricerca dell’arma definitiva nazista, il Cannone del Sole, con base operativa in Alaska. Se il pretesto di utilizzare un’arma leggendaria di cui i progetti sono probabilmente esistiti può risultare quantomeno interessante, è il solito sviluppo narrativo che non convince. Le ormai classiche cutscene discretamente animate narrano una storia già sentita, con colpi di scena in grado di far rimpiangere le glorie di Beautiful e che, ovviamente, non lasciano il segno. Tutto scorre liscio senza particolari sussulti, fino al climax finale che dà la mazzata a un DLC di poca utilità.

Tutto già giocato

Se il Pistolero Joe aveva a disposizione l’Ariete e Morte Silenziosa il Costrittore, al Capitano non poteva che toccare il terzo dispositivo: un set di trampoli in grado di far raggiungere al protagonista luoghi collocati a una certa altezza ma anche di calpestare i nemici. Dal suo utilizzo ne deriva un level design costruito ad hoc, ma meno aperto di quanto ci si aspetti. Fin troppe volte il Capitano si dimentica di averli addosso e di utilizzarli, salvo quelle poche sezioni in cui saremo costretti a raggiungere il prossimo livello della mappa. Tolto questo piccolo espediente, il gameplay rimane il solito senza novità di alcun tipo: anche qui nessun nuovo nemico, nessuna arma inedita e nessuna nuova abilità. Stiamo sempre parlando di meccaniche di alto livello, ma riprese direttamente dal titolo originale.
Qui l’azione, rispetto all’episodio precedente, ritorna a essere più frenetica e la possibilità di avere una salute del 200% (salvo ritornare pian piano al classico 100 una volta colpiti) permette una migliore gestione delle orde di nazisti in arrivo. Oltre a questo c’è davvero poco da segnalare, cosa che rafforza l’idea di un DLC che si limita a svolgere il solo “compitino”.

In conclusione,

Le Gesta del Capitano Wilkins segna la triste fine di una trilogia partita male e finita peggio. Tralasciando un gunplay che è sempre il fiore all’occhiello della produzione, c’è davvero poco di cui essere soddisfatti da questo episodio, come dalle intere Cronache della Libertà, davvero deludenti sotto tutti i punti di vista. L’unica nota positiva da trarre da questa esperienza è ragionare sull’acquisto del season pass prima ancora che il contenuto sia stato rivelato, una mossa veramente azzardata per chi abbia dato fiducia a questa trilogia nella speranza che questa fosse all’altezza del titolo principale.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Life is Strange: Before The Storm – Episodio Bonus: Addio – See You Space Max

Nel mondo degli Indie, Life is Strange si è già conquistato un posto tra i cult dell’ultimo decennio, riuscendo a tessere una perfetta trama che lega i vari personaggi, prima ancora di essere un teen sci-fi ben strutturato. Il lavoro di Deck Nine è riuscito a interfacciarsi perfettamente ai giocatori, con storie e personaggi credibili e capace di rispondere al pensiero che almeno una volta nella nostra vista abbia fatto, ovvero cambiare una nostra scelta passata qualora ne avessimo la possibilità. Tolta la componente sovrannaturale e persino la protagonista Max, il prequel Before the Storm è riuscito a innalzare ulteriormente il valore del lavoro del team, dimostrando che il titolo può autosostenersi grazie alla sceneggiatura e la messa in scena.
In esclusiva per i possessori della Deluxe Edition dell’ultima fatica di Deck Nine, arriva questo episodio bonus denominato Addio, il cui tutto sarà incentrato sull’ultimo saluto tra Maxine e Chloe, prima del ricongiungimento nella saga originale. Questo ulteriore prequel è un capitolo particolare ma nonostante ciò, riesce ad aggiungere un bellissimo pezzo del puzzle al già stimato Life is Strange.

The Maxine show

Addio è un episodio interamente incentrato sul legame fraterno tra Max e Chloe, prima che tutto venga sconvolto dagli eventi che noi giocatori conosciamo ma che è meglio non divulgare per evitare spoiler. Il giorno peggiore della vita di Chloe viene vissuto dal punto di vista di Max, in un percorso abbastanza guidato rispetto ai precedenti capitoli ma non per questo banale: il valore dei rapporti è e resterà una componente fondamentale delle vicende e, nonostante sia un episodio della durata di circa un’ora e mezza riesce a suscitare fortissime emozioni – a volte contrastanti – in eventi di cui comunque siamo a conoscenza. Si viene a creare così una netta distinzione tra “raccontato” e “vissuto”, una differenza presente costantemente nelle nostre vite ma a cui non facciamo caso, ed è proprio questa la forza di Life is Strange: un punto di vista esterno rispetto a episodi di vita che la maggior parte di noi ha vissuto, riesce a far riflettere sulle nostre scelte, desideri e conseguenze. Un’opera formativa che, sfruttando storie che a un primo sguardo possono risultare banali, permette una crescita personale che ben poche opere videoludiche e non riescono a ottenere. La differenza è data dal come si racconta una storia, non dalla storia stessa.
Ma veniamo al punto focale delle vicende. L’intero episodio è ambientato a casa Price, nell’ultima manciata di ore prima del punto di non ritorno. Il pretesto della “pulizia generale” della stanza di Chloe, ci permette di fare una gita tra i ricordi e aggiungere elementi narrativi precisi che impreziosiscono la caratterizzazione dei personaggi: l’ammissione alla Blackwell da parte di Chloe e i suoi altissimi voti a scuola, la spensieratezza fanciullesca e i tratti distintivi della prima Maxine, insicurezza e amore per la sua seconda famiglia. Fa un certo effetto vedere il duo prima dei profondi cambiamenti che stanno per arrivare, soprattutto in Chloe, solare, giocosa e con l’ottimismo in poppa.
Una volta trovato un vecchio album di disegni, partirà una caccia al tesoro che sarà ben più di un semplice gioco tra due amiche.

Un tesoro per tutti

Questo episodio è un’immensa allegoria: Max e Chloe stanno per dirsi addio ma c’è ancora il tempo di fare un viaggio, approfittando di un gioco iniziato ben cinque anni prima. L’intera caccia al tesoro che ne seguirà non è altro che un pretesto per porre una prima pietra sulle proprie convinzioni personali, in una realtà velocemente mutevole come quella dell’adolescenza. Sul piano del gameplay non si presentano grosse “fatiche”, tutto risulta scorrevole, il focus del gioco si sposta sui pensieri di Maxine e sulle sue titubanze; il tesoro dunque, una volta trovato, avrà tanti significati per il duo, e servirà da perno della discussione principale che si apprestano ad affrontare.
Questa giornata passata assieme a Chloe, come detto, è molto importante: per la prima volta – approfittando delle informazioni già acquisite nella pentalogia originale – possiamo assistere alle prime “rotture” nella vita della Price, che per sua sfortuna avvengono quasi tutte nello stesso momento. Se fino a oggi abbiamo solo potuto immaginare e speculare riguardo le ragioni della sua indole e delle sue azioni e reazioni, vivere questi momenti fa nuova luce sulla sua caratterizzazione, completando il quadro sulla sua psiche. Come ci ha abituati Deck Nine, in Life is Strange, abbiamo a che fare con personaggi plausibili e reali, con problemi e pensieri che hanno il tratto della quotidianità. Questo “tornare indietro” nella vita di qualcuno è ben più di un semplice flashback: in questo capitolo bonus possiamo sentire il peso non solo delle nostre azioni ma anche quelle degli altri personaggi, rendendo tutto tangibile e drammaticamente vero.
Unendo tutte le tessere del puzzle, dunque, avremo una visione più chiara delle due opere principali precedenti e questo, senza dubbio, spinge a rigiocare entrambi, magari riscoprendo il valore di piccoli gesti a cui, forse, non abbiamo dato il giusto peso.

In conclusione

Questo episodio conferma la qualità e soprattutto la passione che Deck Nine ha mostra nell’intero progetto di Life is Strange. Anche se le vicende raccontante in Addio erano già di nostra conoscenza, lo spaccato della vita di Max e Chloe prima degli eventi tragici, fa una bella luce sul loro passato: vedere Chloe leggiadra e sorridente è un momento unico, lieto ma, al contempo, un po’ triste quando pensiamo a lei come co-protagonista nell’originale Life is Strange. Addio è dunque un bel regalo per tutti i fan e chiude il cerchio su un lavoro che aspetta la sua prosecuzione con l’attesissimo secondo capitolo.




Mulaka – Una Finestra su un Vecchio Mondo

Il mondo degli indie è in forte crescita, e gode spesso di una maggior libertà creativa rispetto ai grossi team di sviluppo, incatenati la maggior parte delle volte a logiche di mercato che talvolta risultano castranti. L’ultimo arrivato nell’universo videoludico indipendente è Mulaka, titolo sviluppato dal team Lienzo e interamente basato sulla mitologia Tarahumara, antica popolazione messicana che, stando alle leggende, avrebbe dato i natali a guerrieri formidabili ed eccezionali corridori. Le loro credenze, usi e costumi sono tutti racchiusi in questo action-adventure che vede come protagonista un Sukurùame, sciamano in grado di sconfiggere il male che sta infestando la sua terra natìa.
Nonostante il popolo Tarahumara si sia ormai abituato alle usanze del ventunesimo secolo, si tratta di una tribù che ha subito, e continua a subire nella realtà odierna, discriminazioni e atti di violenza: proprio per questo, parte del ricavato di Mulaka sarà destinato a una ONG che si occupa della sua tutela.

Il Sole e l’altre stelle

Come detto, l’intero Mulaka si basa sulla mitologia Tarahumara, sia dal punto di vista visivo che nella narrazione: il mondo è in pericolo e l’influenza di Teregori, il Signore del Male, sta avendo la meglio. Solo colui che sarà in grado di far confluire in lui la forza degli esseri celestiali potrà riportare la serenità.
Sebbene questo classico scontro tra bene e male possa risultare una premessa banale, è il modo in cui viene raccontato a fare la differenza. Il team di sviluppo ha studiato a fondo la cultura della tribù, attraverso testi antichi e l’ausilio di antropologi e leader Tarahumara. La mole di informazioni ricavata ha permesso a Lienzo di imbastire una lore prima di tutto, attraverso molti dialoghi di richiamo “zeldiano” e testi atti alla descrizione dei nemici. Ognuno di quest’ultimi infatti è parte integrante della cultura Tarahumara, come per esempio i Seelò, mantidi antropomorfe che un tempo dominarono il mondo, per passare a semi-divinità come Ganoko fino a Teregori, il male assoluto. La loro rappresentazione è ricca di simbolismo e invoglia ad approfondire le basi della mitologia in questione. Alcune cutscene, realizzate in stile acquarello, faranno da trait d’union tra le vicende, con suggestivi dialoghi  con le entità celestiali che ci aiuteranno lungo il viaggio. Le lingue disponibili sono soltanto inglese e spagnolo, ma risultano intendibili e di non complessa fruizione.
La conoscenza di una cultura dimenticata è l’elemento di forza di Mulaka: abbiamo visto svariate opere su mitologie a noi vicine come quella greca, egizia e norrena eppure il mondo è così ricco di storie e spunti che sarebbe un peccato non poterne godere. Il team di Lienzo è stato in grado di portarci in un mondo così diverso dal nostro, eppure animato dalle stesse paure e dalle stesse speranze che hanno accompagnato noi occidentali.

Uno è Tutto e Tutto è Uno

Mulaka si presenta come un action/adventure dai marcati caratteri platform. Durante l’esplorazione delle mini mappe, non interconnesse tra loro, ci muoveremo principalmente a piedi, sfruttando le grandi doti atletiche del Sukurùame e, soprattutto, la sua grande maestria nel combattimento. Armati soltanto di una lancia, si verrà alle mani con decine di nemici diversi, ognuno con punti di forze e debolezza specifici. Lo studio del moveset delle creature sarà fondamentale e cambiare approccio al nostro stile di lotta sarà fondamentale per sopravvivere. Gli attacchi si suddividono in pesanti e leggeri senza possibilità di parare i colpi avversari; al suo posto, una schivata “bloodborniana” diventa fondamentale in certi frangenti, soprattutto quando saremo circondati da tanti nemici diversi. Non si tratta di un titolo particolarmente impegnativo, ma bastano una manciata di distrazioni per finire al Creatore.
Uno degli elementi tratti dallo studio della tribù è l’utilizzo di alcune erbe a uso esclusivo del Sukurùame, l’unico in grado di di trarre beneficio dai vegetali messi a disposizione dalle divinità. Proprio in Mulaka, la raccolta di quattro diversi tipi di piante forniranno altrettanti boost al nostro personaggio: si va dal classico recupero della salute, alla creazione di uno scudo temporaneo, fino all’aumento della potenza d’attacco e alla creazione di piccoli esplosivi. Il loro utilizzo favorisce l’attraversamento delle zone più impervie e contribuisce ad aggiungere interessanti elementi strategici, soprattutto negli scontri contro i boss.
Altro aspetto fondamentale per uno sciamano è il diretto contatto con le entità celestiali che, nel videogioco, si traduce nella possibilità di giovare di brevi ma efficaci trasformazioni: alcune di esse, come la metamorfosi in uccello o giaguaro, saranno fondamentali per alcune sezioni platform mentre altre, oltre a risultare utili in combattimento con un po’ di creatività, daranno accesso a luoghi altrimenti inaccessibili. I dungeon a disposizione sono completamente diversi gli uni dagli altri, sia per contenuto che per conformazione: la loro esplorazione, a volte risolvendo piccoli enigmi, permette di accumulare Kòrima, la moneta di gioco, con la quale è possibile potenziare il personaggio, aumentandone alcune abilità.
Ma il vero fiore all’occhiello del titolo sono le boss fight: dopo aver varcato il classico cancello di fine dungeon, avremo l’opportunità di affrontare i capisaldi della mitologia Tarahumara, in cui sarà fondamentale un buono spirito d’osservazione. Chi ha giocato i Souls sa bene che una buona varietà di nemici è necessaria per poter essere messi costantemente alla prova e Mulaka assolve a questo compito, dando a ogni boss fight caratteristiche unica, in cui non solo bisognerà fare attenzione al moveset del nemico ma anche all’ambiente circostante. Frequenti sono i richiami ad altre opere, come i lavori From Software o, in alcuni frangenti, a Shadow of the Colossus; eppure tutto risulta originale, grazie all’attento studio degli sviluppatori nel citare senza risultare pedissequi. Proprio le boss fight ci invogliano a spingerci avanti solo per il gusto di affrontare il successivo, temibile nemico.

Un quadro poligonale

Il motore Unity è alla base di molti indie, è un engine scalabile, di facile utilizzo e che permette di sostenere tutte le idee degli sviluppatori. Il mondo ricreato da Lienzo si presenta visivamente suggestivo, sfruttando le peculiarità del low-poly, una tecnica poco usuale nei videogiochi moderni. Se di fronte a uno screenshot del titolo non gridereste al miracolo, vederlo in movimento restituisce invece un’ottima esperienza visiva, in grado di riprodurre ambienti idilliaci ispirati alla cultura nord-messicana. Ogni ambiente infatti è frutto di un attento studio, così come la realizzazione dei costumi e di elementi di decoro degli abitanti, e ovviamente dei nemici. Il tutto gira senza intoppi a 1080p e 60fps, salvo qualche rallentamento nei menù di gioco e sporadici bug e glitch, sui quali il team di sviluppo pare essere già al lavoro.
Anche l’accompagnamento sonoro vanta un’attenzione particolare: tutti gli effetti audio sono stati registrati direttamente nella terra dei Tarahumara, dallo scorrere dei fiumi al fruscio del vento. Anche le splendide musiche – poche, a dir la verità – sono state interamente realizzate grazie all’ausilio degli strumenti locali. Il risultato è un’opera totale in grado di restituire a 360 gradi una cultura che quasi certamente i più non avranno mai sentito nominare.

In conclusione

Mulaka è letteralmente una finestra su un mondo inedito, ed è più di un semplice videogioco. Il  team di Lienzo è stato in grado di restituire l’anima di una terra dimenticata con ottime scelte artistiche, contornate da boss fight di buona fattura, capaci di restare impresse nella memoria. Tralasciando qualche piccolo difetto tecnico, Mulaka può diventare ispirazione per altri titoli, unendo il divertimento e la sfida alla ricerca di culture e storie che noi tutti ignoriamo.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Annunciato Assetto Corsa Competizione

Assetto Corsa è ormai un titolo con un’immensa fanbase, capace di apprezzarne le qualità da simulatore di guida e per certi aspetti “idolatrato” dai veri puristi dei racing game. Se è vero che sull’aspetto puramente dinamico e costruzione dei modelli delle vetture Kunos è assolutamente esente da critiche, Assetto Corsa ha peccato in numerosi elementi essenziali per un racing game moderno, come la campagna single player, accessibilità al multiplayer ed elementi di contorno un po’ raffazzonati, che lasciavano trasparire alcune limitazioni del team di sviluppo, enfatizzate anche dal debutto su console. Ma ciò nonostante, il potenziale di Assetto Corsa era palese e probabilmente l’unico titolo in grado di fregiarsi della dicitura “The real driving simulator“.
Mentre molti attendevano l’annuncio di Assetto Corsa 2, Kunos ha deciso di sorprendere tutti, portandoci in pista ancora una volta con Assetto Corsa Competizione, la naturale evoluzione del progetto di Massarutto e Co., fragiandonsi della licenza ufficiale del Campionato FIA Blackpain GT Series (l’ex FIA GT3). Questa partnership consentirà al titolo di replicare l’intero campionato, le sue 18 vetture e i tracciati, sempre riprodotti alla perfezione con la tecnologia laser scan.
Tutto ruota attorno all’utilizzo dell’Unreal Engine 4, che ha permesso l’implementazione di numerose feature come il meteo dinamico e ciclo giorno/notte: gravi mancanze di Assetto Corsa, sono elementi ormai imprescindibili per un racing game. Fortunatamente, l’utilizzo del nuovo motore grafico, garantirà la riproduzione degli effetti meteo, dal caldo torrido alla tanto agoniata pioggia. Le variazioni di temperatura e le condizioni dell’asfalto influenzeranno in modo sostanziale l’andamento dinamico della vettura, regalando sensazioni del tutto nuove per un gioco di guida. Certo, bisognerà verificarne gli effetti sul campo, ma Kunos ha saputo abituarci bene nella restituzione dei feedback dalla pista. Sarà possibile dunque effettuare gare di durata come la celebre 24 Ore di Spa, assistendo a cambiamenti di luce, temperatura e meteorologici in tempo reale, restituendo un evento credibile.
L’utilizzo del nuovo engine permetterà anche un boost sulla componente tecnica, sia puramente grafica che audio con inoltre, l’utilizzo della motion capture per rilevare e riprodurre i perfetti movimenti di piloti, meccanici e staff di un team di corse.

Assetto Corsa Competizione saprà portare probabilmente i racing game su un nuovo livello ma bisognerà testare attentamente queste novità. Meteo dinamico, il risicato numero di vetture e le modalità di gioco saranno punti fondamentali da sviscerare non appena il titolo sarà disponibile. Non dovremo nemmeno aspettare tanto: Assetto Corsa Competizione sarà disponibile in early access a partire da questa estate, su Steam.




The Darwin Project (Beta)

Viviamo in un periodo particolare, dove l’online sta gradualmente sovrastando titoli single player che, una volta conclusi, trovano spazio solo tra gli scaffali di casa. Le battle royale sono in voga in ambito videoludico, dove fanno la voce grossa IP del calibro di PlayerUnknown’s Battlegrounds e Fortnite ma, nonostante questo tipo di mercato veda come massimi esponenti i titoli di Bluehole ed Epic Games, si sente ancora la mancanza di qualcosa, di quel “pepe” che potrebbe portare le battaglie su un altro livello. La risposta arriva da dove non la si aspetta, ovvero da Microsoft: nonostante non si vedano nemmeno con il cannocchiale titoli esclusivi di livello sulla propria console, la casa di Redmond ha dato fiducia a Scavengers Studio e al loro The Darwin Project, passato per la verità un po’ in sordina durante la presentazione allo scorso E3. La domanda è: questo ennesimo titolo “battle royale”, può veramente dire la sua di fronte ai mostri sacri del genere? La versione da noi testata era ancora in fase preliminare ma abbiamo voluto analizzare con calma tutti gli aspetti di un titolo che non andrebbe sottovalutato.

Canada, una terra violenta

Non è passato tanto tempo dall’uscita nelle sale di Hunger Games, omonimo film tratto da una serie di opere letterarie ambientate in un mondo distopico, in cui un gruppo di giovani ragazzi viene scaraventato in una specifica location con l’unico scopo di eliminarsi a vicenda. Se siete fan della saga o – ancora meglio – del celebre manga di Koushun Takami, Battle Royale, troverete di vostro gusto The Darwin Project, che promette molta più profondità di quanto visto finora. Il tutto ha anche un contesto narrativo: un famoso show televisivo canadese crea il The Darwin Project, trasmissione dove dieci detenuti sono costretti a uccidersi a vicenda pur di sopravvivere.
Elemento che balza subito all’occhio è il discostarsi sapientemente dalla concorrenza, proponendo qualcosa di nuovo e probabilmente di più complesso. Tutto parte proprio dal numero: scordatevi il dare la caccia e l’esser cacciati da decine e decine di altri giocatori; qui, più che in ogni altro titolo di questo tipo, a far la differenza tra la sopravvivenza o meno è la capacità d’adattamento, elemento che Charles Darwin ritenne fondamentale per la sopravvivenze delle specie viventi. Avremo a che fare dunque, non solo con altri nove contendenti ma soprattutto con le rigide temperature canadesi e quindi con difficili condizioni ambientali che possono rendere ancor più difficoltoso e stratificato il gameplay del titolo.
Buttati nella mischia con addosso una semplice tuta, un arco e un’ascia, sarà fondamentale sin da subito “craftare” e ottenere qualcosa che possa proteggerci dalle intemperie. Qui entra in scena uno dei tanti elementi fondamentali: l’esplorazione. L’unica mappa a disposizione è abbastanza grande da permettere la ricerca di alcuni elementi essenziali senza incrociare lo sguardo di qualcuno. Disseminati qua e là, sono disponibili zone in cui reperire risorse importanti, utili per aumentare il livello del nostro alter ego attraverso il suo equipaggiamento. La mappa è suddivisa in sette zone distinte ma collegate tra loro e che via via verranno distrutte per favorire un maggiore accentramento dei giocatori nelle fasi finali. Questo elemento non è nuovo ovviamente ma è ben studiato ed evita che alcuni utenti possano venire isolati dalla partita.
Il modo di affrontare la situazione dipende da molti fattori ma soprattutto dalla nostra strategia e forza d’animo: può risultare utile restare in disparte, cercando di potenziare il proprio equipaggiamento oppure diventare dei cacciatori, seguendo le orme della vostra ignara preda e colpirla alle spalle. I diversi approcci portano a pro e contro che variano di partita in partita; essenzialmente, dipende da che tipo di contendenti avrete di fronte e adattarvi di conseguenza.

Come detto, ogni angolo può nascondere nemici e prima o poi, vi toccherà combattere. Tastiera o pad alla mano, il combat system risulta assai semplice: il buon utilizzo dell’arco dipende solo dai vostri riflessi e mira e il corpo a corpo da come siete attrezzati. Il vero nemico è l’ambiente stesso e il freddo influenzerà letteralmente la vostra resistenza. L’unico modo per difendersi dalle rigide temperature è ripararsi creando un vestiario adatto o, soluzione più rapida ma anche più rischiosa, accendere un fuoco per scaldarsi; il fuoco acceso ha però un effetto non trascurabile, quello di segnalare ai nemici la vostra posizione. Se da un lato risulta essere dunque un grosso svantaggio, dall’altro The Darwin Project vi permette di vedere ogni cosa da un altro punto di vista come, in questo caso, attirare gli avversari in una trappola grazie all’accensione del falò.
Anche nel titolo Scavengers non mancano i rifornimenti che, una volta raccolti, permettono di sfruttare alcuni potenziamenti passivi, in grado di cambiare le sorti del match: resistenza, velocità o una migliore visione dell’ambiente e dei nemici sono perk essenziali per aumentare le proprie chance di sopravvivenza.

Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte

The Darwin Project, prima di essere un videogioco e un fittizio programma televisivo, è un titolo che riesce a portare anche quella giusta dose di innovazione. La sua duplice natura di Battle Royale e Truman Show viene espressa in maniera diretta sulle principali piattaforme streaming come Twitch: il pubblico reale potrà decidere il suo favorito, mettendo a disposizione del giocatore risorse in grado di aumentare le sue possibilità di vittoria. Facendo un paragone motoristico, il tutto sembrerebbe simile al Fan Boost presente in Formula-e dove il pilota votato dal pubblico riceve un surplus di potenza extra. È una meccanica davvero interessante e che ben si sposa alle logiche degli e-sports: ogni giocatore potrà essere un gladiatore del XXI secolo, con il vantaggio di non essere ucciso realmente in battaglia.
Interessante è anche la possibilità di prendere le veci del (Mega) Direttore (Galattico) che, da spettatore interessato (grazie a un drone indistruttibile) potrà seguire le gesta del manipolo di uomini decidendo – non direttamente però – il corso del match: potrà scegliere quale settore della mappa distruggere, elargire perk a piacimento e anche curare uno dei partecipanti. Questo giocare a fare Dio è forse uno degli elementi più difficili da gestire, presentandosi come una lama a doppio taglio. Questa meccanica andrà approfondita  non appena verranno rilasciate altre release pre-lancio.
Dal punto di vista tecnico, il titolo sembra già ben ottimizzato, garantendo i 60fps in ogni situazione. Certo, non è un gioco che si perde in dettagli “soulsiani”, preferendo uno stile molto vicino a Fortnite, volutamente cartoonesco, forse per sdrammatizzare il più possibile l’evento su cui poggia il titolo.

In conclusione

Nonostante sia ancora in fase Beta, The Darwin Project riesce a introdurre una serie di idee innovative sfruttando la propria natura di show televisivo. Una battle royale dalle molte facce, in cui il nostro istinto di sopravvivenza può davvero fare la differenza. Andranno valutate più attentamente le meccaniche social, che rischiano di minare l’equilibrio del titolo ma, in ogni caso, il lavoro Scavengers Studio è davvero da tenere in considerazione.




Wolfenstein II: I diari dell’Agente Morte Silenziosa (DLC) – Ma che Veramente?

Il secondo racconto delle Cronache della Libertà, serie di DLC rilasciati per Wolfenstein II: The New Colossus, ci permette di conoscere l‘Agente Morte Silenziosa (a.k.a. Jessica Valiant), ex OSS che durante la Seconda Guerra Mondiale fu artefice di numerose perdite umane del fronte nazista e che, dopo il tradimento e l’uccisione del suo collega e amato, si è gettata tra le braccia dell’alcool. Ma, un giorno, l’opportunità di trovare vendetta bussa alla sua porta.

Tra nazisti e Martini

Dopo la blanda narrativa dedicata a Joseph Stalion, purtroppo questo secondo capitolo dei contenuti aggiuntivi non migliora la situazione. La sceneggiatura che fa da sfondo alle vicende di Jessica Valiant risulta addirittura meno coinvolgente rispetto al contenuto precedente, portando di fatto una storia che non racconta nulla nuovo e un personaggio ancora una volta mal sfruttato: i suoi trascorsi annegati nell’alcool non trovano approfondimento, diventando una piccola bozza di caratterizzazione. Non vi è alcuna spinta interessante su alcuna tematica, né traccia degli elementi “sopra le righe” che hanno caratterizzato la stupenda narrativa di Wolfenstein II, rendendo di fatto questo DLC soltanto una discreta occasione per saggiarne ancora una volta le ottime meccaniche sparatutto del titolo.
Anche qui tornano le cutscene “animate” che  – purtroppo – abbiamo imparato a conoscere ne Il Pistolero Joe, e che non riescono a rendere giustizia a quanto di buono realizzato nel titolo principale. È come se questi contenuti fossero stati immessi senza prendere in considerazione le scelte narrative di The New Colossus: i contenuti sembrano fin troppo distaccati e con pochi elementi in comune con  le storie di Blazkowicz e soci. La durata, inoltre, continua a non aiutare: è possibile terminare I Diari dell’Agente Morte Silenziosa in circa un’ora.

Non sono Splinter Cell!

Come detto nella recensione del precedente DLC, peculiarità dei nuovi personaggi è lo sfruttamento di alcuni elementi tecnologici che in Wolfenstein II aumentavano di molto la varietà nel gameplay. Se il Pistolero Joe aveva a disposizione “il potere dell’Ariete”, Jessica Valiant può contare sul costrittore, che non è un elemento da 50 Sfumature di Grigio, bensì un mezzo in grado di restringere la cassa toracica della protagonista permettendole di sgusciare via tra gli stretti cunicoli presenti nella mappa. Questo elemento ben si sposa con le peculiarità dell’agente, chiamata appunto Morte Silenziosa per la sua efficacia nell’eliminare i nemici senza esser mai scoperta.
Il secondo DLC, dunque, sposta l’intero focus sulle dinamiche stealth, o almeno ci prova: Wolfenstein II è uno sparattutto che certamente permette eliminazioni silenziose, ma il suo meglio è  espresso tramite caotiche – ma ben messe in scena – sparatorie, il che ha fatto sì che The New Colossus sia stato tra i più apprezzati esponenti del genere negli ultimi anni. Incentrare tutte le dinamiche di un gioco di questo tipo su meccaniche stealth mette alla berlina soprattutto un’IA incapace di integrarsi al meglio con le avventure dell’ex agente OSS: basterà infatti restare all’interno di un cunicolo, aspettando che il malcapitato nazista incroci il nostro percorso, per assassinarlo in totale sicurezza. Anche nel caso in cui commettessimo un errore – e quindi facessimo scattare il tanto odioso allarme – basterà ripetere la procedura. Eppure ci sarebbe voluto poco: stanarci attraverso granate, costringendoci a cambiare postazione avrebbe messo un po’ di quel “pepe” al gameplay che purtroppo in questo caso manca. Fortunatamente ci vengono in soccorso alcune peculiarità di Jessica, come un bullet time attivato passivamente non appena veniamo scoperti, permettendoci di sparare un colpo prima di metterci al riparo. Ma è troppo poco per rendere il tutto “esaltante”. Terminata la storia, infatti, resterà quasi nulla dell’esperienza, che potrete comunque completare al 100% cercando i vari collezionabili sparsi per le mappe. Su questo fronte, forse, è stato fatto qualcosa in più, portandoci anche al di fuori del nostro pianeta, ma continua ad avvertirsi il riutilizzo (ridondante) di alcuni asset del gioco principale.
Anche sul fronte tecnico non sono presenti novità rilevanti, potendo rimandare l’analisi di questi aspetti alla recensione di Wolfenstein II: The New Colossus.

In conclusione

Anche questo DLC purtroppo lascia l’amaro in bocca. Dopo il Pistolero Joe, Morte Silenziosa non riesce a regalare momenti memorabili, nonostante lo sfruttamento di alcune meccaniche che avrebbero senza dubbio valorizzato l’altra faccia della medaglia del frenetico gameplay di Wolfenstein II. La durata risicata e una IA non all’altezza rendono questo contenuto aggiuntivo un semplice passatempo per chi ha già acquistato il season pass. Per chi ancora non l’avesse fatto, anche in questo caso, il prezzo probabilmente non vale il biglietto.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Dragon Ball FighterZ – Più Coerente dell’Opera Originale

Siamo ormai alle battute finali del Torneo del Potere, ultimo arco narrativo – finalmente – di Dragon Ball Super, midquel del celeberrimo Dragon Ball Z, che ha sconquassato – e non poco – molti elementi della mitologia creata da Akira Toriyama. In questi ultimi anni, quindi, la voglia di rivivere le emozioni di uno dei più famosi battle shonen di sempre è tornata più viva che mai, anche in ambito videoludico, dove Dragon Ball Xenoverse – ancora in auge con il suo secondo capitolo – è riuscito in qualche modo a intrattenere gli amanti della saga, nonostante il mancato sfruttamento di meccaniche picchiaduro di livello. Serviva quindi qualcosa di potente, un vero fighting game, che manca dai tempi della serie Budokai e Tenkaichi: tutto questo è Dragon Ball FighterZ. Fin dalla sua presentazione all’E3 2017, Fighterz è riuscito sin da subito ad attrarre gli sguardi dei fan, portando in tutto e per tutto lo spirito della saga, visivamente e, soprattutto, coi contenuti.

Chi sei? Goku non lo sai

Dragon Ball Fighterz riesce a offrire una buona varietà di contenuti, racchiusi in un hub centrale che funge anche da stanza per il multiplayer. L’evento principale è ovviamente la Modalità Storia presente in tre differenti versioni, unite da un unico filo conduttore. Tutto ruota intorno all’Androide N° 21, personaggio ideato dallo stesso Akira Toriyama. Divenuta capo dell’esercito del Red Ribbon – di quello che ne rimane, almeno – è spinta dal solo obiettivo di acquisire nuova forza, mangiando letteralmente i più forti combattenti del mondo di Dragon Ball. La sua fame insaziabile, dovuta essenzialmente alle cellule di Majin Bu innestate nel suo corpo, procurerà grossi grattacapi ai nostri eroi ma anche – e questo è interessante – ai temuti nemici quali Cell e Freezer. Saremo noi stessi a cambiare il loro destino, prendendo – di fatto – in prestito i loro corpi e la loro forza. Benché non si tratti di una sceneggiatura da premio Oscar, le tre trame distinte offrono l’opportunità di approfondire le origini dell’Androide e i vari retroscena che hanno portato alle vicende iniziali. La narrazione si fregia di numerosi momenti da fan service, ben studiati e che riescono ad aggiungere ancora più dettagli alla caratterizzazione dei personaggi ideati da Toriyama San. Quest’arco narrativo può essere effettivamente considerato come una saga filler di Dragon Ball Super, trovando perfetto inserimento tra il reclutamento di Gohan nel top team dell’Universo 7 e il Torneo del Potere, battle royale in cui i combattenti di otto universi si danno battaglia per scampare all’annientamento totale. Prendendo come assodato questo elemento, Dragon FighterZ riesce a non sfigurare rispetto alla contemporanea serie animata, diventando in tutto e per tutto qualcosa che potrebbe definirsi “canonico”. Trovano spazio anche alcune “chicche” come l’abbattimento della quarta parete durante la narrazione o attraverso eventi dedicati, in cui ci troveremo faccia a faccia con il nostro alter ego “dragonballiano”.

Purtroppo il rovescio della medaglia è sempre dietro l’angolo: se è vero che la narrazione risulta interessante, è la sua conduzione a non convincere a pieno. Tra un capitolo e l’altro, sono presenti alcune mappe in cui, attraverso un percorso libero, affronteremo diversi scontri prima di arrivare al “boss di fine livello”. Se da un lato questi scontri risultano utili per accumulare punti esperienza, perk passivi, in grado di aiutarci nel cambiare l’esito di un combattimento e, aggiungere alcuni personaggi al proprio team, dall’altro risultano ripetitivi e soprattutto privi di gratificazione, in quanto la loro difficoltà è tutt’altro che proibitiva. È vero, qualche “siparietto” ed easter egg tra i personaggi scelti è sicuramente interessante, ma questi non sono così frequenti da controbilanciare adeguatamente. Il risultato è, alla lunga, quello di rendere prolissa una narrazione che, senza questo problema, risulterebbe leggera e a tratti divertente.

Le altre modalità di gioco non sono meno importanti. Da non sottovalutare la sezione Tutorial – anche se poco approfondita – e la Modalità Allenamento, in cui potremo imparare le basi del combattimento e migliorare di volta in volta; presenti anche battaglie in locale, dove sfidare gli amici, creando anche dei tornei appositi. È presente una corposa Modalità Arcade, costituita da diversi percorsi casuali in cui affronteremo combattimenti sempre più difficili, in base al punteggio ottenuto negli scontri precedenti. I vari duelli presenti risultano appaganti e spingono il giocatore a una continua sfida, non solo contro la CPU ma soprattutto contro se stessi.
Le varie modalità offline non sono altro che una prova generale per il Multiplayer Online, dove guerrieri di tutto il mondo competono per diventare i numeri uno della classifica mondiale. Fortunatamente il matchmaking ci viene in soccorso fin da subito, facendoci destreggiare con giocatori di pari livello, anche se non mancherà di affrontare utenti sensibilmente più abili di noi. Buona la stabilità del netcode e, trovata molto utile, è l’aggiunta di un contatore per i frame persi dovuti ai lag, che ci permette di monitorare in tempo reale la situazione. Unica nota dolente è la mancata penalizzazione agli utenti che decidono di abbandonare lo scontro poco prima di essere sconfitti, annullando di fatto la partita appena svolta.
Il roster può effettivamente risultare povero se confrontato con altri titoli dedicati al franchise di Dragon Ball, anche considerando che si tratta di un picchiaduro tre vs tre: solo 25 i personaggi giocabili, di cui tre sbloccabili (le versioni SSGSS di Goku e Vegeta e Androide N° 21).

Una nuova realtà, con le sue verità

Ma veniamo alla reale “ciccia” del titolo, quel gameplay che ha esaltato un po’ tutti sin dal suo esordio. Nonostante siano limitati a 25, tutti i personaggi di FighterZ sono unici, con proprie caratteristiche, punti di forza e debolezza. Questo aspetto è da tenere in seria considerazione, in quanto trovare l’alter ego perfetto per noi richiederà un minimo di sperimentazione. Se, a prima vista, le meccaniche picchiaduro risultano basilari – à la Naruto per così dire – con combo eseguibili con la sola pressione di un tasto, basta poco per accorgersi di quanto tali meccaniche abbiano componenti nascoste ai gamer di primo pelo. Presto ci si accorge di come le combo automatiche siano essenzialmente inutili e bisognerà approfondire praticamente tutto per aprire un intero mondo costituito da giusti tempismi, conteggio dei frame delle animazioni e il giocar d’astuzia con le assistenze degli altri personaggi. Non dimenticando dunque le combo automatiche (Combo Z per gli amici), in ogni caso sempre utili, sarà l’utilizzo di colpi più avanzati uniti ad altri elementi di gameplay a fare la differenza. Con rimbalzi à la Tekken ridotti al minimo, sarà fondamentale l’utilizzo dell’Impeto del Drago, un avvio di combo in grado di mandare in aria il nostro avversario per continuare a concatenare altre serie di colpi. Tutto si gioca sul giusto tempismo, memoria e riflessi, cosa che alza nettamente il livello del titolo rispetto alla diretta concorrenza.
Come detto, si tratta di un picchiaduro tre contro tre, in cui sarà fondamentale eseguire i cambi come, del resto, decidere il supporto all’azione; questo perché potremo concatenare le combo e i colpi energetici tramite l’utilizzo dei diversi personaggi, divenendo quasi inarrestabili. Il contatore della barra dell’aura è un altro elemento da tenere in conto in quanto più sarà carica, maggiore sarà l’effetto dei nostri attacchi, permettendo inoltre l’utilizzo del teletrasporto alle spalle del nostro avversario e soprattutto, segnerà il passo ai devastanti e spettacolari colpi finali. Il tempismo è la chiave ma anche la strategia non scherza: infatti, il personaggio sostituito vedrà ricaricata lentamente la propria energia. Fortunatamente nulla è lasciato al caso: i “change” possiedono un cooldown proprio per evitare lo spam eccessivo della meccanica, che altrimenti diventerebbe frustrante per chi la subisce. Altra caratteristica fondamentale è l’utilizzo dello Sparking Blast, un boost temporaneo in grado di ricaricare la nostra energia e soprattutto aumentare la potenza d’attacco.
Una caratteristica interessante di alcuni membri del roster è il supporto di un proprio compagno, proprio come una qualsiasi abilità: esempio su tutti è C-18 (Lazuli) che fregiandosi dell’aiuto di suo fratello gemello C-17 (Lapis), è in grado di replicare le movenze che hanno eliminato Gohan nell’orribile futuro di Trunks. Oppure Black Goku e Zamasu, uniti da un legame particolare ma in grado di rivelare la loro natura di malvagi a tutti i malcapitati. Tutti i personaggi possiedo comunque delle raffinatezze degne di nota: basti pensare ai dischi energetici di Freezer che dopo un po’ tornano indietro rischiando di colpire noi stessi, o Crilin e i suoi senzu o ancora, l’utilizzo del moveset di Cell durante la creazione del proprio ring per colpire i nemici.
Elemento, che forse risulta un po’ posticcio a dire il vero, è l’utilizzo delle Sfere del Drago durante il match: una volta raccolte tutte e sette le sfere – ed è difficile che accada – non appena il contatore d’aura segnerà lo stesso numero, ecco che apparirà il possente Drago Shenron che esaudirà un desiderio tra i tre a disposizione; far tornare in vita un compagno caduto o ricare l’energia potrà cambiare le sorti dell’incontro. Questa meccanica, benché interessante, risulta poco utile e soprattutto poco sfuttabile; sembra quasi ridondante ai fini del gameplay ma fortunatamente non al punto da rovinare l’esperienza.
Una meccanica, purtroppo assente e che avrebbe ulteriormente aumentato la profondità di FighterZ, è l’assenza del volo, elemento usuale in Dragon Ball già dalla prima serie. Probabilmente ciò è dovuto a scelte precise di Arc System ma è davvero un peccato che non si sia spinto l’acceleratore su qualcosa che ormai è parte integrante del franchise.
In Dragon Ball FighterZ sono presenti le tanto famigerate loot box, ma niente paura: tutto è acquistabile solo ed esclusivamente attraverso la moneta di gioco, ovvero gli Zeni. Le loot box, una volta aperte, permetteranno di acquisire elementi atti alla personalizzazione del proprio avatar e della scheda del giocatore.

Il tuo cuore saprà ritrovare Dragon Ball

Il 2.5D di Arc System è quanto di più bello offerto da un gioco in cel-shading finora, scalzando dalla testa del podio Naruto Ultimate Ninja Storm 4.  Non solo il character design, ma anche le movenze dei vari personaggi sono riprodotte alla perfezione, restituendo, a conti fatti, una puntata dell’anime interattiva. Nulla è lasciato al caso, sia per le ambientazioni, che risentono dei nostri attacchi, che per i colpi energetici, in grado di restituire la giusta e poderosa potenza d’attacco. Tutto risulta molto pulito con ottimi filtri e particellari che trovano la massima espressione nelle Dramatic Finish, cutscene speciali che riproducono fedelmente avvenimenti fondamentali della saga di Dragon Ball. Tutto questo ben di Kaio risulta incredibilmente ottimizzato e gestibile al massimo della forma (1080p, 60fps) anche da macchine non più performanti.
Anche l’audio non è da meno, a cominciare dal doppiaggio che si fregia delle voci originali giapponesi e statunitensi, cosa che rende ancor di più esaltante l’utilizzo di determinate mosse e la visione delle scene d’intermezzo. Gli effetti sonori sono la ciliegina sulla torta, anch’essi riprodotti alla perfezione, dalle onde energetiche all'”urto” dei colpi fisici. Anche le musiche danno sfoggio di sè, esaltando tutti i momenti iconici e le battaglie come si deve.

In conclusione

Dragon Ball FighterZ è una gioia per gli occhi: quello che a prima vista può sembrare solo un esercizio stilistico è, a conti fatti, un egregio esponente dei picchiaduro, potendo vantare un gameplay accessibile e al contempo stratificato, in grado di dare grosse soddisfazioni agli hardcore gamer. È un titolo che non ha problemi evidenti ma alcune piccole “deficienze” che, sommate, costano la perfezione: un roster limitato ma comunque ben caratterizzato, la “diluita” Modalità Storia e quel mancato sfruttamento del volo non inficiano comunque un titolo che ha dimostrato quanto ci sia ancora bisogno di Goku e compagni nella nostra vita, nonostante siano passati 30 anni dalla sua prima apparizione.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.