Koji Igarashi è stato l’innovatore di Castlevania, saga che dopo Castlevania: Dracula X/Rondo of Blood per Super Nintendo e Nec PC Engine, si mostrava datata al cospetto delle nuove generazioni di console a 32-bit. Grazie a lui la serie si è potuta catapultare verso il nuovo millennio senza perdere la propria identità utilizzando un innovativo sistema di overworld ispirato a Super Metroid (è proprio in ragione del mash-up degli elementi delle due saghe espresso per la prima volta proprio in un Castlevania che abbiamo il termine “metroidvania“); a lui dobbiamo tutti i migliori titoli della serie come Castlevania: Aria of Sorrow, Portrait of Ruin, il multiplayer Harmony of Despair ma soprattutto il rivoluzionario Symphony of the Night, a oggi l’unico di questi titoli a essere stato sviluppato per una console casalinga (purtroppo). Con l’inizio della nuova decade Koji Igarashi, conosciuto soprattutto come Iga, fu distolto da Konami dalla sua amata serie e messo dietro allo sviluppo di progetti a cui non voleva prendere parte come alcuni giochi mobile o addirittura quelli per il fallimentare Kinect di Xbox 360; nel frattempo Castlevania si avviava verso una nuova era di giochi, quelli del reboot Lords of Shadow sviluppato da MercurySteam, accolti positivamente da molti ma stroncati pesantemente dagli appassionati di vecchia data.
Iga abbandonò Konami nel 2014 e, ispirato da Keiji Inafune e dal suo kickstarter di successo per Mighty No. 9, aprì il suo progetto indipendente per gli appassionati di tutto il mondo: Bloodstained: Ritual of the Night venne finanziato in pochissimo tempo, superando il record posto precedentemente dal suo ispiratore, e da allora i fan della saga di Castlevania pregano affinché il tempo scorra più velocemente per arrivare a quel “tardo 2018”, periodo previsto per l’uscita di questo titolo. Il progetto poneva un obiettivo a 4.500.000$ per un titolo prequel in stile retrò per PC e console ed è stato rilasciato da pochissimo a un prezzo eccezionale: stiamo parlando di Bloodstained: Curse of the Moon, gioco della Inti Creates con le fattezze di un titolo per NES, sia nella forma che nella sostanza. Finalmente, a partire da questo gioco, i fan della saga avranno finalmente ciò che chiedevano a Konami da almeno otto anni, con lo stile inimitabile di Iga e sfide impervie da affrontare; la scelta di partire con un gioco simil-8-bit non sembrerebbe la più saggia delle idee (giusto per non sfruttare i binari della nostalgia) ma in fondo stiamo parlando di un sideproject e, in ogni caso, anche se non si tratta del prodotto principale, il risultato è più che positivo. È possibile reperire questo titolo sia su PC che per tutte le console; noi oggi prenderemo in esame la versione per Nintendo Switch.
Praise the moon!
La maledizione della luna scese su Zangetsu per mano dei demoni; passò la sua vita a vagando in lungo e in largo per sterminarli tutti e liberarsi di tale fardello. Una sera, però, sentì la presenza di un demonio superiore e così Zangetsu partì alla volta di quest’ultimo per eradicare questa terribile dannazione una volta e per tutte. Nella sua via incontrò altri che, come lui, furono corrotti dalla maledizione della luna: Miriam (che sarà la protagonista del gioco principale), Alfred e Gebel e insieme collaborarono per mettere fine alla maledizione utilizzando i poteri della stessa. Diversamente dal titolo principale che si pone come un metroidvania, questo è strutturato come un Castlevania tradizionale, ovvero stage by stage, e dunque con livelli chiusi con inizio e fine senza alcuna componente di backtracking; il gameplay generale ricorda principalmente Castlevania III: Dracula’s Curse, per l’intercambiabilità dei personaggi durante l’azione, e Rondo of Blood per via dei tragitti ramificati che possono nascondere, talvolta, delle belle sorprese. I personaggi, come ci si aspetterebbe da un gioco che pone delle simili premesse, hanno caratteristiche comuni ma anche pregi e difetti, e chi è fan della saga Konami può ricollegare immediatamente ognuno dei personaggi ad altri di Castlevania: in Zangetsu è possibile riconoscere le qualità dell’Alucard di Symphony of the Night dal momento che, come lui, usa una spada ed è supportato da un buon assetto di armi secondarie (ed altre abilità, sempre molto simili alla controparte Konami, se faremo “determinate scelte”); Miriam è la classica Belmont e perciò usa una frusta, la cui lunghezza permette di mantenere una buona distanza coi nemici, e un bel assetto di armi secondarie, ha il salto più alto del team ed è l’unica che può fare delle scivolate verso il basso (premendo giù e salto); Alfred è un mago e, esattamente come Sypha Belnades, può contare sul suo utilissimo assortimento di magie (utilizzabili con i punti magia, comuni anche agli altri per ciò che riguarda l’utilizzo delle loro armi secondari) anche se il suo attacco principale è molto lento e perciò può rimanere indifeso di fronte agli attacchi nemici per non poco tempo; infine, Gebel ha le stesse caratteristiche dell’Alucard di Castlevania III, dunque ha un colpo che spara 3 proiettili, che non possono sfondare i muri, e la sua unica abilità secondaria è la trasformazione in pipistrello che gli permette di esplorare certe sezioni in lungo e in largo.
What a horrible night to have a curse.
In questo scenario pressoché familiare torna anche la “fisica” classica della serie Konami (come il salto non orientabile in aria o il balzo all’indietro quando si viene colpiti). Questi elementi potrebbero essere senz’altro positivi per dei veterani ma i nuovi giocatori, specialmente quelli che di recente si avvicinano al retrogaming, potrebbero identificare queste caratteristiche come difetti, soprattutto se congiunti alla difficoltà generale del titolo; pertanto, prima di cominciare l’avventura, il gioco permette uno “style” per veterani, con le caratteristiche sopraelencate, e uno per casual in cui le vite sono illimitate e l’essere colpito non fa sobbalzare all’indietro (non c’è alcuna penalità nella scelta di questa modalità). La concezione di vita è ben diversa da quella proposta in Castlevania III in cui, come in questo titolo, si avanzava in team: ogni personaggio ha una sua barra della vita e dunque la vita può ritenersi persa quando a tutti i personaggi vengono abbattuti; ciò significa che più saranno i personaggi nel nostro team, più lunga sarà la singola vita. La sfida che ci viene posta nei livelli, molto bilanciata grazie all’assortimento dei character disponibili, è idilliacamente quella di una volta e tutto ciò rappresenta un paradiso per gli appassionati della saga Konami: nessun passo o nessun salto può essere fatto se non dopo un’analisi più o meno accurata dell’ambiente e ogni nostro avanzamento potrà rivelarsi un successo o un fallimento; saranno tante le volte in cui, a volte persino a carambola, perderemo tutti i personaggi ma, da buon titolo retrò, la difficoltà riesce a farci arrabbiare quel tanto che basta per farci riprovare quel livello ancora una volta con più dedizione e caparbietà per poi, alla fine, superarlo, senza mai gettarci nell’abisso della frustrazione.
In Bloodstained: Curse of the Moon, come abbiamo accennato, il percorso è ramificato ma non sempre la strada più astrusa si rivela quella con più sorprese; nel 95% dei casi, gli oggetti speciali per aumentare la vita massima, i punti magia massimi, l’attacco e la difesa si trovano sempre in punti comunicanti della mappa e perciò lo scegliere un percorso anziché un altro dipende, per lo più, dalle abilità dei personaggi del team. Il consiglio stesso del gioco è quello di seguire il percorso più rapido, segnalatoci sempre da uno scheletrino che lo indica al giocatore negli incroci, ma seguirlo non è sempre possibile; potrebbe servirci una scivolata di Miriam o un passaggio in volo con Gebel e quando loro non ci sono, in realtà, siamo costretti a prendere il percorso più lungo. Ad ogni modo non è sempre detto che questo sia il più cattivo poiché magari ci sono meno nemici o abbiamo la possibilità di racimolare qualche punto in più per racimolare vite extra o qualche cuoricino per riempire la barra della vita. Inoltre, soprattutto nei primi tre livelli, il nostro team si andrà formando livello dopo livello e perciò non sempre ci ritroviamo con le abilità adatte per passare attraverso certi punti.
Il gioco base non è lunghissimo, nove livelli in tutto (come ogni tostissimo gioco per NES è possibile completarlo in una sola seduta), ma grazie a i finali alternativi, la modalità boss rush e alle campagne principali differenti verrà incentivata di non poco la rigiocabilità: c’è la modalità normale, che è il gioco base, la nightmare, che continua letteralmente la storia della prima campagna (passando, comunque, dagli stessi nove livelli), e la ultimate che è uguale alla prima ma con Zangetsu a pieni poteri (chi giocherà, ovviamente, capirà). Completare gli stessi nove livelli più volte potrebbe sembrare ripetitivo ma il gioco sorprende così tanto che saremo, inevitabilmente spinti a completare il gioco nei modi più diversi possibili; al di là della semplice scelta di prendere un percorso alternativo, ci sono altre decisioni da compiere come se portare con noi o meno un determinato personaggio a bordo del team oppure, in fase di reclutamento, uccidere quest’ultimi a sangue freddo!
Un capolavoro vintage moderno
Visivamente abbiamo un bellissimo capolavoro che ricorda un gioco per NES ma, come avviene per Shovel Knight o Axiom Verge, nulla di ciò che vediamo potrebbe girare originariamente per una macchina 8-bit in quanto le loro palette di colori, livelli di scorrimento e la memoria generale (che permettono livelli vasti e dettagli grafici, per l’epoca, impossibili) non consentivano simili stravaganze.
Azzeccatissime le ambientazioni, che richiamano sempre i più classici film horror e l’immaginario dei romanzi gotici inglesi, bellissimi gli sprite dei nemici ma soprattutto spettacolari quelli dei personaggi principali che richiamano in tutto e per tutto lo stile di quelli Castlevania; i contorni rossi di Zangetsu, blu di Miriam, gialli di Alfred e grigi di Gebel servono a dare un’aura di personalità ai (non-parlanti) personaggi di questo gioco e, per noi, ritocchi del genere sono veramente dei tocchi di classe, in puro stile Konami. Gli artwork usciti col gioco sono curati da Ayami Kojima, che ha curato le illustrazioni di moltissimi altri titoli della saga di Castlevania, e da Yoshitaka Amano, illustratore che ha collaborato più volte con Square-Enix per diversi progetti, e ovviamente richiamano quello stile tipico della saga madre che prende sia dall’anime che dagli stili di pittura più classici.
La colonna sonora, composta da Michiru Yamane, compositrice storica della saga, Ippo Yamada (Mega Man X2, Azure Strker Gunvolt, Mighty No. 9) e Jake Kaufman (Shantae and the Pirate’s curse, The Legend of Kay, Shovel Knight) è un pieno ritorno alle sonorità rock/metal/neoclassiche tipiche della saga storica e, come ci si può aspettare da una tale line-up, il risultato è semplicemente strabiliante. Un deciso passo avanti rispetto alle colonne sonore scialbe e inutilmente atmosferiche messe nei giochi del reboot Lords of Shadow. Insieme a degli effetti sonori di qualità, fra cui alcuni campionamenti vocali usati quando verremo colpiti, possiamo sentire con chiarezza un massiccio uso dei chip sonori più comuni nelle macchine 8-bit come quello del NES, del Game Boy e forse anche del VRC6, chip sonoro montato all’interno della cartuccia di Castlevania III per Famicom.
Duole dire però che il gioco, momentaneamente (visto che nella title screen si legge “ver 1.1”), non è in italiano, e l’inglese inserito nel gioco è molto artistico e delicato e dunque, molte volte, le didascalie e i dialoghi non risultano direttamente fruibili a chi non abbia una buona conoscenza della lingua inglese; siamo a un livello molto classico, non arcaico ma comunque non vicino a quello moderno, adatto a chi abbia un background nella letteratura inglese classica (dal Frankenstein di Mary Shelley all’Heart of Darkness di Joseph Conrad, per intenderci). Comunque sia, gli elementi della trama, al di là della barriera linguistica, sono molto criptici e con buona probabilità, anche se c’è ben poco storytelling, questo titolo ci prepara semplicemente a ciò che sarà il futuro Bloodstained: Ritual of the Night; magari adesso la storia non ci è chiara ma con la release del gioco principale probabilmente tutto prenderà forma.
Castleplagio?
È inutile sottolineare ancora quanto siamo rimasti soddisfatti da Bloodstained: Curse of the Moon che con un prezzo di lancio di 9.99€ risulta quasi regalato; tuttavia c’è un problema non da poco. Col conteggio Word di questo articolo il termine “Castlevania” (prima di questo) appare ben 14 volte, mentre “Bloodstained” solamente 4: e questo pare sintomatico dell’anima poco originale del titolo. È vero che il progetto nasce principalmente per dare ai fan della famosa saga Konami ciò che per circa 8 anni non è stato ancora consegnato però forse Koji Igarashi sta semplicemente sviluppando un “Castlevania con un altro titolo”. Questo gioco ha senz’altro un forte carattere e una personalità ben definita, però ogni tanto sembra essere ai limiti dell’autoplagio, portando un carico di innovazione prossimo allo zero; da qui si nota forse troppo l’intento di questo titolo (e, si presagisce, anche del prossimo Bloodstained: Ritual of the Night) a soddisfare più un bisogno nostalgico piuttosto che quello di portare qualcosa di nuovo sul tavolo. A ogni modo, parliamo di un sideproject di un progetto più grande: ciò che è stato presentato qui si attesta comunque a livelli altissimi e la presentazione retrò generale può anche giustificare, in qualche modo, l’assenza di particolari innovazioni; dunque, amanti di Castlevania e non, lasciatevi consumare l’anima da questo fantastico gioco e date un sostanzioso assaggio a ciò che sarà il prossimo Bloodstained: Ritual of the Night. Curse of the Moon è un titolo solidissimo e Konami dovrà fare più di un Castlevania Grimoire of Souls per contrastare questo fenomeno imminente, che si rivela in conclusione davvero spettacolare!