Star Wars: Episodio VIII – Gli Ultimi Jedi

L‘annuncio di una nuova trilogia per una delle saghe più famose di sempre, Star Wars, ha lasciato interdetti molti, probabilmente perché Episodio VI riusciva già a chiudere perfettamente il cerchio su tutte le vicende, riportando equilibrio nella Forza.
Cosa si poteva raccontare, quindi, cosa approfondire? Inizialmente la risposta – saggia – è stata “prequel”: sia in ambito videoludico che cinematografico si è cercato di approfondire tematiche e motivazioni che avrebbero portato agli eventi che tanto bene conosciamo, oppure lo studio di capitoli di intermezzo, capaci di fare da collante tra i vari episodi. Il successo di Rogue One è probabilmente dovuto a questo. Adesso, Episodio VII ed Episodio VIII, tuttavia, pur essendo buoni film se presi singolarmente, forse faticano a giustificare le nuove storie e il prossimo Episodio IX, ma soprattutto, il rispetto della continuity.

Dunque, Episodio VIII: Gli Ultimi Jedi, si presenta come un film d’intermezzo che, come L’Impero Colpisce Ancora, segue la tradizione, avvalorandosi di toni più cupi rispetto al predecessore. Se questa situazione era ampiamente prevedibile, meno lo è stato l’inserirsi nel contesto creato con Il Risveglio della Forza e men che meno con il resto della saga. È un film difficile da collocare: è un buon film di intrattenimento, capace di regalare scorci memorabili, ma anche di affossare quanto di buono iniziato col prequel e fin troppo conclusivo per essere un episodio che sta nel mezzo.
J.J. Abrams resta come produttore, passando la regia nelle mani di Rian Johnson, che non vanta grandissima esperienza, avendo diretto soltanto una manciata di film, tra cui Looper. Nonostante ciò, riesce a fare un buon lavoro, riuscendo a far trasparire i conflitti interiori dei personaggi interessati con lenti primi piani, in cerca di dettagli significativi, con cui lo spettatore può facilmente interfacciarsi. Non mancano i momenti davvero spettacolari, presenti soprattutto nella seconda parte del film, con ottime trovate stilistiche in grado di farvi esaltare come nei migliori momenti della saga. La CGI, ormai parte integrante di qualsiasi film di fantascienza, riveste un ruolo chiave in diverse situazioni risultando davvero ben messa in scena nella maggior parte delle situazioni, siano esse battaglie o singoli personaggi, anche se con quest’ultimi con alti e bassi. Si cerca sempre il dettaglio, non solo poligonale, ma soprattutto cromatico: The Last Jedi, probabilmente, è il film con la migliore fotografia della saga. A cura di Steve Yedlin, le scene a più ampio respiro saranno una vera gioia per gli occhi, non solo sui paesaggi e vari ambienti, come potreste aspettarvi, ma anche nello spazio aperto, con momenti davvero suggestivi e che sicuramente entreranno con forza nella memoria degli appassionati.
Quindi visivamente il film funziona. Purtroppo però, un lungometraggio è costituito anche da altre cose che hanno una “discreta” rilevanza, come la sceneggiatura e di conseguenza l’utilizzo dei personaggi.
La gestione dei ritmi è il problema più grande del film: Episodio VIII è il titolo dalla maggiore durata dell’intera saga (quasi due ore e mezza) e in alcuni frangenti, si sente. Il film sembra essere diviso a metà, di cui la prima parte povera di eventi veramente rilevanti, dando la sensazione di far veramente fatica a carburare. La seconda parte invece è pura azione, a tratti forse un po’ troppo frenetica, ma che riesce nel suo intento, ovvero intrattenere. C’è da segnale che anche all’interno delle menzionate due parti si avvertono questi “su e giù” senza una vera amalgama.

Ma cosa racconta questa nuova trilogia? A questo punto è una bella domanda. I pochi spunti interessanti di Episodio VII, come le origini di Rey, la fine di Luke e il rinnovato Impero del Primo Ordine, in questo episodio vengono tutti risolti in maniera fin troppo sbrigativa, lasciando lo spettatore – che nel frattempo aveva cominciato a farsi delle idee – con un pugno di mosche. Tutto il pathos e le dietrologie pensate fino a questo momento risultano pura fantasia, elaborazioni contorte scaturite dalla base dei vari episodi della saga. L’ultimo capitolo, a dir la verità, lancia alcune frecce dal suo arco come la visione della guerra da un altro punto di vista e il conflitto interiore che uno Jedi o un Sith devono sopportare. Se c’è un merito – narrativamente parlando – di questo titolo, è l’aver portato lo spettatore nella cosiddetta “zona grigia della Forza”, un limbo nel quale i protagonisti sono costretti vivere, ma che purtroppo viene solo abbozzato. Se i temi precedenti sono stati risolti con facilità estrema e quelli nuovi sono appunto solamente abbozzati, è la mancanza  di risposte alle tante domande – che nel frattempo ci eravamo posti – che lascia di più l’amaro in bocca: cos’è il Primo Ordine? Chi è il Leader Supremo Snoke (l’unico e il solo Andy Serkis)? probabilmente nessuno lo saprà mai.
Ma veniamo ai nostri cari personaggi, partendo dal dualismo labile che si presenta per tutto il film: Rey (Daisy Ridley) e Ben Solo, in arte Kylo Ren (Adam Driver). Uno degli elementi riusciti del film è la loro evoluzione – forse un po’ troppo frettolosa – ma capace di instillare dubbi sulla loro natura negli spettatori. Buone prove attoriali poi, riesco a farci empatizzare con i due protagonisti, regalandoci due tra i personaggi più complessi dell’intera saga.
Punto centrale della narrazione non poteva che essere Luke Skywalker (Mark Hamill) – incredibilmente somigliante a Tyrion Lannister – terribilmente combattuto e che si evolverà, sino al climax finale. Il personaggio di Luke risulta controverso: lontano da quanto visto sul finire di Episodio VI, lo Jedi risulta un personaggio che sotto certi aspetti aspetti delude sia i protagonisti che il pubblico. Veniamo a conoscenza anche delle motivazioni, ma probabilmente si poteva, anzi, si doveva fare di più. Le note positive sui personaggi di concludono con il personaggio interpretato da Benicio del Toro, DJ, che fa la sua ottima figura ma che risulta, purtroppo, uno dei nuovi personaggi peggio sfruttati. Ha il merito di portare una ventata di realtà alla decennale guerra che continuiamo a vedere ma, ad un certo punto sembra soffrire di schizofrenia: soffre di questa patologia evidentemente anche  Amilyn Holdo (Laura Dern) e alcuni personaggi secondari mentre altri, tra cui Finn (John Boyega), vengono completamente dimenticati, o per lo meno immersi in storyline dalla dubbia utilità. La scrittura, dunque, è un altro elemento altalenante del film: se da un lato riesce a piazzare colpi di scena ben gestiti, dall’altro lascia perplessi, a cominciare dalla gestione mal curata di alcuni personaggi.
Concludiamo con Carrie Fisher: ha fatto uno strano effetto sapere che questa è la sua ultima apparizione. Non ha mai vantato grandi doti recitative ed Episodio VIII di certo non è il film che ci farà cambiare idea, ma la sua assenza si farà sentire, soprattutto in prospettiva per Episodio IX.

Che cosa racconta Star Wars? Dopo aver visto Gli Ultimi Jedi, si fa un po’ di fatica a capirlo. Nonostante i buoni spunti e il cercare di portare una ventata di aria fresca alla saga, si sente la reale mancanza di giustificazioni narrative a vantaggio di quelle commerciali. Alla fine ci si ritrova sempre al punto di partenza, con la strana sensazione di non aver imparato nulla di nuovo dal finale di Episodio VI, concludendo molte storyline che potrebbe rendere questo episodio addirittura conclusivo. Non stiamo parlando di un brutto film, tutt’altro, ma forse, a questo punto, ci si aspetterebbe qualcosa in più.




Seven Sisters

Arriva nelle sale italiane Seven Sisters, un fantastico film dalle influenze cyberpunk e dagli scenari futuristici che richiamano opere come Brazil, Il Quinto ElementoBlade Runner. La sceneggiatura di questa pellicola ha una storia abbastanza travagliata: scritta da Max Botkin nel 2001, Seven Sister, che ai tempi vedeva in realtà dei protagonisti uomini, non arrivò mai a trovare un produttore e finì per diventare una delle sceneggiature più belle mai scritte ma al contempo per molto tempo mai arrivate su grande schermo. In anni recenti, Tommy Wirkola, regista di alcuni film bizzarri come Hansel e Gretel: Cacciatori di Streghe, Dead Snow e Dead Snow: Red vs. Dead, ha ripescato la sceneggiatura e ne ha traslato la storia al femminile; la protagonista Noomi Rapace – che abbiamo visto in Sherlock Holmes: A Game of Shadows e in Prometheus di Ridley Scott – fu chiamata per il ruolo e ha dato vita, insieme ad altri attori di altissimo calibro come Willem Dafoe e Glenn Close, a questa bellissima storia futuristica affascinante, distopica e a tratti claustrofobica.

Anni di catastrofi e disastri naturali provocano disordine e carestie in tutto il mondo, ma la scienza arriva in soccorso alle crisi alimentari e, grazie a sofisticate tecniche scientifiche, gli scaffali dei supermercati tornano riforniti e colmi per venire incontro alle domande dei consumatori. Tuttavia l’alterazione della natura provoca negli umani alterazioni di DNA e, come conseguenza, si assiste a una crescita di malformazioni ma soprattutto dei parti plurigemellari. La popolazione aumenta a dismisura e, per non cadere ancora una volta nelle recenti crisi, viene applicata la legge del figlio unico; dal 2043 tutti i nascituri saranno figli unici, le nascite tracciate con un braccialetto elettronico e, nel caso di gravidanze indesiderate o parti gemellari, i secondi nati, intorno al loro settimo anno d’età, prenderanno parte al programma di crio-sonno, programma che li indurrà in uno stato onirico per anni per essere poi reimmessi nella società appena la demografia lo consentirà, godendo se non altro di una società più avanzata, tecnologica e migliorata. Intorno a questo periodo, una donna che risponde al nome di Karen Settman, dà alla luce sette gemelle, tutte identiche fra loro come delle gocce d’acqua, morendo durante il parto. Terrence Settman, il padre interpretato da Willem Dafoe, decide di adottare le sette bambine, visto che la donna non era più in buoni rapporti col marito, e di chiamarle come i giorni della settimana. Più in là scopriremo che Terrence aveva deciso di non rivelare le nascite al Child Allocation Bureau e così, con particolare ingegno, riuscì a mascherare le sette ragazze dietro adun’unica identità, ovvero quella di Karen Settman, la loro madre, facendole uscire di casa una alla volta a seconda del nome corrispondente al giorno della settimana. Le sette sorelle Settman (chissà che non sia un caso che si chiamino proprio Sett-man) hanno vissuto per anni dietro l’identità di Karen Settman ma sono a un punto in cui le loro personalità cominciano a emergere e la vita dietro a un’unica identità comincia a pesare ad alcune di loro; la maschera di Karen regge, ma è fragile, un’identità composta da sette personalità ma senza che una prevalga o abbia una volontà vera e propria, una vita di regole, precauzioni, prevenzioni, continui voltarsi le spalle e report a fine giornata per far sì che il resto delle sorelle apprenda ciò che la “sorella del giorno” ha vissuto per poter dare credibilità all’identità di Karen Settman. Per quanto queste si lamentino e condannino il sistema che le costringe a questa vita, non possono far molto, se non continuare a far finta di essere la Karen Settman che il governo conosce; in fondo Karen lavora in una banca e tecnicamente non le manca niente ma la sua vita è finta e ciò è sentito in maniera particolare da Giovedì, la più irrequieta ed eversiva delle sette sorelle, probabilmente la più diversa e che non vuole più accettare compromessi (se non altro nominata secondo il giorno dedicato a Giove, irrequieto e funesto Dio della guerra). Non è certamente per nulla facile fare quello che ha fatto Noomi Rapace che ha interpretato tutte e sette le sorelle Settman, grazie a un ingegnoso uso dei green screen, controfigure e a una recitazione profonda per ognuna delle protagoniste. L’attrice svedese, a detta sua, si è divertita un sacco nei ruoli delle sorelle Settman, si è preparata per cinque mesi per le parti parlando un sacco di volte sia allo specchio che rispondendo a battute immaginarie nella quotidianità; l’impegno dell’attrice è evidente e i suoi sette ruoli sono restituiti con classe, distintamente e senza alcuna sbavatura. Ci sono tratti distintivi che spiccano per ogni ragazza, come la noncuranza di Sabato, la particolare bontà di Domenica e l’insicurezza di Martedì e Venerdì, ma ci sono anche tratti comuni a tutte le ragazze, come la compassione, la bontà d’animo e l’aiutarsi a vicenda l’un l’altra. Decisivo invece è stato l’utilizzo del green screen che ha permesso la realizzazione di scene così delicate, in cui la protagonista non doveva solamente rispondere alle sue stesse battute ma farlo con precisione e cura, guardando ad esempio nella direzione giusta o attendere il momento esatto per rispondere alla battuta di una sorella che aveva interpretato precedentemente. Non dimentichiamo inoltre la prestanza fisica dell’attrice che, parallelamente alle sue doti recitative, ha dovuto prepararsi fisicamente a delle scene d’azione infuocate, che per fortuna non scadono mai nell’assurdo per fini di mera spettacolarità.

Il film, sia tramite i dialoghi che con le scene d’azione, riesce molto bene a restituire quel senso di claustrofobia e persecuzione di un regime totalitario pronto a sopprimere qualsiasi cosa vada contro le loro regole: i cattivi sembrano agire per il meglio ma ciò che può sembrare il bene di tutti è in realtà una maschera per nascondere ciò che si cela veramente dietro “la sicurezza” e “l’ordine” che il Governo in carica propaganda. Nicolette Caymam, il capo del C.A.B. interpretata da Gleen Close, è infatti una persona costretta a essere gelida, pronta a tenere in mano la situazione e a tenere nascosta tutta la verità sulla propria candidatura ma che, in fondo, è dispiaciuta di non trovare altra alternativa per il bene dell’umanità, e, per quanto la legge del figlio unico possa sembrare anche a lei una barbarie, sa che questa è l’unica soluzione per tenere a freno quell’ondata demografica che non sembra fermarsi.
La fotografia è molto curata, in grado di restituire quel senso di grandezza che di fa sentire piccolo di fronte una città immensa, fra strade affollate e caotiche che quasi non fanno respirare. Tuttavia le ambientazioni, seppur molto belle e ben curate, sono un po’ noiose, già viste, nulla che ci faccia restare a bocca aperta o ci entusiasmi come in Blade Runner 2049. Le scenografie sono piene di strumentazioni ipertecnologiche che si fondono perfettamente agli ambienti e regalano alle scene della luce propria che accentua ancora di più il rapporto tecnologia-uomo ma, anche qui, nulla che non abbiamo già visto in recenti film. La colonna di Christian Wibe non è niente male, si adatta bene a ogni scena, non sfora mai oltre il rappresentato ed è sempre in tono con ciò che vediamo, anche se anche qui, come già per il comparto grafico, non riusciamo a gridare al capolavoro, per quanto belle le melodie che fanno da sfondo alla storia non offrono alcuna sonorità originale: si tenta, come in molti altri film, di travolgere lo spettatore con suoni forti e pomposi, ma alle musiche di questo film manca un timbro che possa conferir loro unicità e distinzione e questo stampo sonoro, comincia a stancare.

Insomma, Seven Sisters – il cui titolo al di fuori di Italia e Francia è What happened to Monday – sembra a primo acchito un film atto ad attrarre i fan dei superhero movie pieni di azione e di effetti speciali all’avanguardia ma in realtà è così: nonostante la grande produzione possa metterlo accanto ai film più frenetici di oggi, Seven Sisters regala una visione profonda allo spettatore, un’opera che va vista e commentata, una storia che può essere letta e vissuta da più punti di vista e che, attraverso ognuno di questi, può fornire una visione diversa di ogni situazione rappresentata. Seven Sisters è sicuramente un film per gli amanti del cyberpunk, e dunque di film come Blade Runner, Brazil, Strange DaysIl Quinto Elemento ma anche I Figli degli Uomini; è un film con un contenuto molto solido che offre solide riflessioni, tante prospettive e che pone questioni su diversi temi quali l’amore per la vita, la libertà d’opinione, la vita in tempi critici e se e in che misura anche in questi casi il fine possa davvero giustificare i mezzi. Le visual e le musiche di questo film sono molto belle ma, come già ribadito, non raggiungono particolari picchi emozionali né si stagliano nell’immaginario dello spettatore; il film risulta vagamente approssimativo in questi aspetti e anche un po’ piatto. Tanti, troppi elementi già visti, possibilmente fatti anche meglio, ma triti. In compenso, il film offre una storia veramente bella da godere e tanti spunti per un bel dibattito post visione con gli amici, ed è certamente un’opera da vedere perché non lascerà alcuno indifferente alla sua visione.




Justice League

Ci siamo. Il progetto Justice League è completo. O almeno è così che dovrebbe essere. Finalmente abbiamo l’opportunità di vedere la Lega della Giustizia in tutto il suo splendore e, – diciamocela tutta – non vedevamo l’ora. Come accaduto per Avengers, anche qui, sin da piccoli, non abbiamo fatto altro che immaginare come sarebbe stato un lungometraggio con protagonisti gli eroi DC, immaginando quale delle tante storie sarebbe stata scelta, chi il villain e così via. Purtroppo negli ultimi anni questo hype ha cominciato a venir meno, vuoi per un discreto Men of Steel, o un imbarazzante Batman Vs. Superman, un mediocre Suicide Squad e un’accettabile Wonder Woman, finendo con l’arrivare di un Justice League che si presenta come un cinecomic dalle fragili basi e con due facce della stessa medaglia.

Il progetto Justice League ha incontrato una serie di difficoltà, la principale delle quali fu l’abbandono di Zack Snyder nel bel mezzo delle riprese per un grave lutto. La palla è dunque passata a Joss Whedon, regista dei due Avengers di casa Marvel. Non c’è bisogno che vi dica come le visioni dei due registi siano praticamente in antitesi: se Snyder predilige una fotografia desaturata e toni cupi e drammatici, Whedon si lancia in pellicole che per certi aspetti tendono alla commedia, preferendo colori sgargianti. In un modo o nell’altro, entrambi sanno fare il loro mestiere, sanno certo tenere in mano una cinepresa e hanno idee chiare sul progetto. Ma i problemi di Justice League partono proprio da qui: visioni, così diverse, di intendere in cinefumetto, rendono questo film letteralmente “lunatico”, passando a fasi alterne da momenti puramente drammatici a momenti goliardici in cui nessuno sembra prendersi sul serio. Il risultato è una concreta difficoltà a entrare nel mood del film, rimasto in un limbo che, invece di portare a una profondità di trama e personaggi, finisce per essere dimenticabile. Questa dualità si percepisce anche nella caratterizzazione dei personaggi, con scene completamente riscritte da zero, e adattate per l’occasione, e per le soundtrack composte da Junkie XL, dopo che Hans Zimmer decise – forse saggiamente – di lasciare il progetto. Proprio con l’ingresso di Whedon, anche Junkie venne sostituito con  Danny Elfman, storico compositore che, nel 1989, si occupò di realizzare la colonna sonora del Batman di Tim Burton. Questo triplo passaggio di consegne non ha fatto altro che gettare altra confusione sul comparto sonoro, con musiche che a volte, seguendo i toni diversi del film, vanno in contrasto tra loro. Non stiamo certo parlando di pessime musiche, ma è l’amalgama che proprio non funziona.
Non manca nemmeno l’infatuazione amorosa di turno: se state pensando qualcosa legata a Wonder Woman e qualche eroe del gruppo vi sbagliate di grosso. Bruce Wayne e Clark Kent divengono veri rivali di Ennis Del Mar e Jack Twist ne I segreti di Brokeback Mountain.
Ovviamente l’ormai famosa dualità si può intravedere anche per la regia, buona in generale nei diversi frangenti, tranne per alcune scene d’azione, in cui si fatica davvero a capire cosa stia succedendo. Non mancano scene di forte impatto e alcune buone idee ma è troppo poco per avvicinare questo film alla sufficienza, anche perché, i problemi (gravi) sono altri.

Abbiamo dunque detto che il film soffre di parecchi problemi, ma non sono nemmeno paragonabili a quello della caratterizzazione dei personaggi. Al contrario per quanto avvenuto con il primo Avengers, in cui ogni protagonista ha avuto il suo film stand alone (per Iron Man addirittura due), in Justice League troviamo un gruppo in cui solo Wonder Woman e Superman hanno avuto il loro momento di gloria. La bellissima Gal Gadot, pur non vantando grandi doti recitative, riesce a fare il suo, portando un personaggio con cui è facile interfacciarsi, rimanendo ancorata alla caratterizzazione figlia del suo lungometraggio. Il kryptoniano (Henry Cavill) invece è il superman che abbiamo desiderato subito dopo l’adattamento di Snyder: un personaggio solare, così come abbiamo imparato a conoscerlo in questi anni. Le note positive sui personaggi ci concludono con Cyborg (Ray Fisher), qui nella sua prima apparizione, e che riesce a ritagliarsi il suo spazio, con un discreto background narrativo ed elemento centrale della narrazione. Le perplessità scaturite dai primi trailer sulla realizzazione grafica del suo corpo cibernetico fortunatamente vengono cancellate, presentandosi come un personaggio con una buona presenza scenica e incuriosendo il pubblico per un eventuale film a lui dedicato.
Tutto il contrario invece per Steppenwolf, il villain del film. Forse era più lecito aspettarsi Darkseid, uno dei cattivi principali delle serie DC ma evidentemente gli sceneggiatori hanno optato per un nemico meno ingombrante dal punto di vista narrativo. Il risultato è un antagonista assolutamente privo di carisma e non aiuta di certo la sua realizzazione completamente in CGI: veramente brutto a vedersi, lasciando perplessi sul perché di questa scelta. Steppenwolf (Ciarán Hinds) è di natura umanoide per cui utilizzare un attore reale, con la sua bella armatura e un po’ di make-up, non vedo personalmente come avrebbe potuto essere peggio di un personaggio digitale.
Ma nemmeno lui riesce a toccare le vette della mal caratterizzazione. Partiamo da Barry Allen, in arte Flash. Anche per lui è la prima apparizione e il suo ruolo è chiaro fin da subito: il comic relief. Traendo probabilmente ispirazione dal Peter Parker di Spider-Man Homecoming,  Ezra Miller ne diventa parodia, un ragazzino con battute fuori luogo e a tratti fastidioso. Poi c’è anche la questione grafica: sappiamo tutti – tranne chi ha realizzato il film evidentemente – che il simbolo del corridore più veloce al mondo è un lampo giallo. Qui i suoi lampi sono blu.
Anche Aquaman fa la stessa fine.  Jason Momoa interpreta un misto tra Jason Momoa e Khal Drogo de Il Trono di Spade, con in mano un forchettone. Pur essendo la sua prima apparizione non sappiamo nulla di più rispetto a quanto già sapevamo sulle sue origini, anche se, la sua presenza scenica e sicuramente d’impatto. Del resto è Khal Drogo.
Dulcis in fundo, Batman. Probabilmente la peggior trasposizione cinematografica del Cavaliere Oscuro finora, il personaggio di Ben Affleck è letteralmente inutile. Un uomo che, a detta sua, ha come unico potere quello della ricchezza, finisce col diventare un Tony Stark mal riuscito, trovandosi in continua difficoltà per tutta la durata del film. Conosciamo tutti Batman, il più grande detective al mondo, dotato di grande intelligenza e tra i migliori combattenti dell’universo DC. Qui non c’è nulla di tutto questo. Bruce Wayne è semplicemente qualcuno che, in mancanza di armi (provate voi ad associare Batman e armi), è preso in contropiede, lasciandosi in balia degli eventi. E questo porta a un’altro problema del film. La Justice League dovrebbe essere un’amalgama perfetta, in cui ognuno può sfruttare le sue doti uniche per risolvere diverse situazioni e vincendo battaglie con il gioco di squadra. La Justice League cinematografica è “Supermancentrica”: tutto ruota attorno al kryptoniano, l’unico in grado di far realmente qualcosa, assieme a Cyborg, ovviamente.
La mazzata finale la danno il montaggio, realizzato in maniera discutibile e che lascia intravedere le difficoltà di un progetto partito male e finito peggio, e la CGi, davvero pessima per la maggior parte del film, col la chicca dei baffi di Henry Cavill (nel frattempo impegnato a girare un’altra pellicola) coperti digitalmente.

Cosa resta quindi? Poco, davvero poco. Justice League paga per tutte le scelte sbagliate intraprese finora e per una gestione difficoltosa. Tralasciando qualche buona idea e un paio di scene davvero niente male, il resto è solo un’accozzaglia di scene prive di amalgama e riempite da personaggi che faticano ad uscire dallo schermo, almeno per i giusti motivi. Probabilmente l’unico modo di salvare il progetto è fare un reset totale, così come avvenne nel 1985 per mettere ordine tra le infinite storie parallele dell’universo DC. Una Crisi delle Terre Infinite in salsa cinematografica, per dare un colpo di spugna, e far finta di aver visto delle storie di un mondo parallelo che non ci appartiene.
Nel frattempo, potrete rifarvi gli occhi grazie al mondo videoludico: la serie Arkham dedicata a Batman e gli Injustice, firmati NetherRealm Studios, vi faranno scoprire come una buona scrittura possa valorizzare le già ottime storie del DC Universe.




It (2017)

Per anni i clown sono stati considerati tra le figure più spaventose e inquietanti in assoluto, soprattutto nell’immaginario dei bambini. Apparentemente senza ragione: in fondo, i clown, specialmente nei più tranquilli quartieri americani, erano quelli chiamati a rallegrare le feste di compleanno dei più piccoli. Nonostante la fiducia e i bei momenti passati in compagnia dei pagliacci, c’era sempre qualche bimbo che si allontanava o si metteva a piangere alla vista di queste persone truccate intente a intrattenere il pubblico con scenette comiche e semplici trucchetti atti a strappar qualche risata.
La miniserie televisiva It del 1990, tratta dall’omonimo romanzo di Steven King, giocava in parte su questo aspetto: la paura del clown. Ovviamente, It è un pagliaccio che appare per portarti con sé, una figura che vuole la tua pelle e che, prima di farlo, ti spaventa a morte. Queste le basi per il personaggio del clown ma cosa intendiamo per “spaventare a morte”? It è un personaggio che uccide: i più ingenui soprattutto, attratti nella sua sfera di fiducia, una volta regalata qualche risata, come una mosca che si avvicini alla pianta carnivora per i suoi feromoni.
È proprio questa la particolarità di Pennywise, nome del clown di kinghiana memoria: il fatto di mettere una paura proporzionata alla fiducia che gli daresti. A oggi questa miniserie viene considerata da alcuni come un prodotto invecchiato male, frutto del suo tempo, ma che ebbe un impatto culturale senza precedenti; It, riconfezionato successivamente come un film, è diventato qualcosa di sacro, uno dei film più terrificanti di sempre colpevole anche per aver alimentato ancora di più la paura dei clown nei bimbi di tutto il mondo. It è apparso nelle classifiche dei film più spaventosi di tutti i tempi e, a oggi, ha lasciato un ricordo molto vivo nelle persone che videro la serie (anche se in Italia uscì con un ritardo di tre anni). L’It del secolo scorso, nonostante diverse critiche su internet, ha mantenuto quest’aura fino a oggi, con l’uscita del nuovo film di Andrés Muschetti. Chi da bambino abbia visto It ha atteso con impazienza questo remake che oggi permette anche ai nuovi appassionati di conoscere la storia di Pennywise, il clown ballerino, e dei ragazzi di Derry, raccontata con mezzi più attuali e uno storytelling più moderno. Inoltre, il nuovo film si può permettere di essere più fedele al libro e mostrare alcune scene che ai tempi, per via dei controlli sui contenuti televisivi nelle TV americane, vennero smorzate per la troppa violenza presente nel romanzo.

Il film ci racconta della storia del club dei perdenti, composto da Bill, Mike, Ben, Beverly, Eddie, Richie e Stan, combriccola di reietti intenta a scoprire cosa c’è dietro alle sparizioni dei bambini di Derry. L’evento che scatena l’indagine è però la scomparsa di Georgie, fratellino di Bill, uscito durante una giornata piovosa per giocare con la barchetta di carta che il fratello maggiore aveva realizzato appositamente per lui. I ragazzi si imbattono in strani incontri in cui le loro paure più profonde prendono vita e fanno la scoperta di certi eventi tragici avvenuti a Derry, il tutto con intervalli ciclici di 27 anni. Di tutte queste vicende avremo sempre un’ottima visione d’insieme, tutto ci viene raccontato con un pacing costante che restituisce sia il background dei membri del club sia i tasselli principali della storia senza interruzioni particolari. Un chiaro punto a favore di questo remake è quello di riuscire a presentare le storie dei protagonisti senza scadere negli odiosissimi flashback della miniserie tv e senza che la narrazione si interrompa. I ragazzi sono tutti degli ottimi attori e sanno esattamente come accentuare le personalità dei personaggi del romanzo, personalità che in fondo dovranno pesare poi ai fini della trama: il lutto di Bill, di cui veste i panni Jaeden Lieberher, l’istinto di sopravvivenza di Mike (Chosen Jacobs), il disagio di Beverly e Ben interpretati rispettivamente da Sophia Lillis e Jeremy Ray Taylor: per tutti It è la prima produzione importante. Discorso che non può applicarsi per Finn Wolfhard che semplicemente sfonda lo schermo interpretando Richie, il ragazzo con gli occhiali: complice anche l’esperienza fatta sul set di Stranger Things, risulta il migliore dei ragazzi, simpatico, inadeguatamente volgare, sempre presente anche se con fare goffo e adorabilmente codardo. È impossibile non innamorarsi della sua interpretazione. Questa nuova trasposizione sul grande schermo, visto che lo abbiamo citato, prende sicuramente molto dalla succitata serie tv Netflix, che l’anno scorso è letteralmente esplosa (e la cui seconda serie è stata lanciata lo scorso 27 Ottobre) lanciando un revival anni ’80 di grande successo; la sceneggiatura è intrisa dello stesso  spirito di collaborazione dei personaggi e di quell’atmosfera vintage e gli scenografi non hanno certamente perso tempo a riempire i set con oggetti tipici di quei anni tra merendine, poster, musicassette e persino il cabinato di Street Fighter (il primo) che appare nella sala giochi locale. La scenografia è inoltre accompagnata da una eccellente fotografia che trae il meglio degli ambienti film: dalle scuole affollate, ai laghi soleggiati, dalle fetide fognature alla bizzarra casa andata in fiamme. Il film di Muschietti, insomma, come Stranger Things, ci porta indietro di qualche decennio avvalendosi di mezzi moderni, di una fotografia ben curata e di effetti speciali niente male, anche se a volte la computer grafica risulta un po’ troppo invasiva e, al solito, facilmente individuabile. Il nuovo clown, interpretato da Bill Skarsgård, purtroppo si pone in maniera troppo paurosa senza un vero comportamento da clown, distruggendo in un certo senso la vera e propria particolarità di It, ovvero quel ricevere l’attenzione dal bambino-vittima per poi ucciderlo brutalmente. La magia che Tim Curry donava alla miniserie originale era proprio quella di avere quel fare goffo tipico di un clown, essere inadeguato e mettere paura quando meno lo si aspettava; questo nuovo It invece risulta decisamente scontato. Il suo unico obbiettivo è quello di mettere paura, uccidere ed essere sconfinatamente cattivo, senza che ci sia alcuna sfumatura che possa dare un tratto originale al personaggio del pagliaccio assassino. È un clown deteriormente figlio di questi tempi, e lo si può notare da vari jumpscare poco convincenti, molti disturbati da una colonna sonora che si intromette violentemente, smontando lentamente il build-up che dovrebbe portarci alla fine a sobbalzare dalla poltrona o a volte talmente forte da distruggere qualsiasi effetto sorpresa. In poche parole, capiremo sempre che qualcosa di orrendo sta per accadere. È un vero peccato perché la soundtrack di Benjamin Wallfisch è veramente deliziosa: delicata e leggera nei momenti più introspettivi che riguardano i ragazzi, brutale quando il clown è in azione. Il vero problema è – strano a dirsi – semplicemente il volume, e il modo con cui spesso la musica arriva a “invadere” certe scene, colpa da non attribuire al compositore. Inoltre, sempre per ricordare che siamo negli anni ’80, alcune volte sembra che il film voglia mostrare di essere “così figo” da non riuscire a contenersi: onestamente, anche se possono strappare qualche sorriso, ci è difficile capire il perché delle urla in slow motion durante la scena della battaglia di sassi, o di quei forzati primi piani sul poster dei New Kids on the Block nella camera di Ben Hanscom. È normale che un film come It debba dare un attimo di tregua agli spettatori ma non sembra questo essere il metodo migliore.

La nuova trasposizione cinematografica di It è dunque certamente ben riuscita: la storia fila e non annoia, gli effetti speciali sono molto belli, la fotografia è ben curata e la colonna sonora ben composta. Ha tutti gli elementi per renderlo un bel film, pur tuttavia non essendo esente da difetti che non possono essere messi da tralasciati. Il film manca purtroppo di carattere e, se oggi giudichiamo la miniserie un prodotto figlio del suo tempo, con tutti i limiti che ciò comporta, il destino di questo film potrebbe non essere tanto diverso. Ha certamente delle caratteristiche che oggi lo rendono un ottimo prodotto ma, col passare del tempo, probabilmente, le stesse cose che oggi sono punti di forza saranno le stesse che lo faranno sembrare un film datato. Oggi, e sicuramente per il futuro, questa pellicola rappresenta certamente la migliore alternativa di fronte alla tediosa miniserie, anche per la maggiore fedeltà al romanzo, ma la presenza di Tim Curry nell’originale era un valore aggiunto di cui il film di oggi non gode, ed è un elemento non da poco che ha contribuito a imprimere nella mente dei più l’immagine di It fino ad oggi, ed è quella che probabilmente resterà anche in futuro; questa pellicola non farà certo dimenticare una miniserie che ci ha regalato dei bellissimi momenti (o meglio, spaventi) che meritano di essere ricordati ma, se siete alla ricerca di qualcosa di più moderno e più fruibile, apprezzerete questo film. Se siete pronti per un nuovo incubo, addentratevi pure in sala.




Mother!

Confesso di essermi recato al cinema un po’ prevenuto: da un lato il recente Noah non aveva offerto il meglio di Darren Aronofsky dal punto di vista narrativo; di Mother!, inoltre, si parlava come di un’opera dal forte carattere simbolico, e questo mi ricordava l’operazione di The Fountain, piena di buone idee e basata su ottime premesse, ma che metteva insieme un quadro non privo di falle che ne indeboliva il messaggio. I fischi di Venezia, infine, erano stati così clamorosi da farmi temere il peggio. Ma si tratta di Aronofsky, appunto, vedere Mother! è quasi un dovere culturale, lo stesso che si ha verso tutti i registi rilevanti del nostro tempo.
Ed ecco che allora mi ritrovo al cinema Anteo di Milano, locus amenus in cui è possibile godersi la versione in lingua originale, che anche in questo caso risulta particolarmente importante per valutare la recitazione degli attori.

Home Invasion

Fin dai primi minuti si intuisce che non sarà una passeggiata: l’oscurità che avvolge ogni cosa si dirada dando luce alle pareti, al mobilio, agli ambienti della casa in cui è interamente ambientato il film. Un’ombra minaccia lo stato di quiete di quel piccolo Eden abitato dai nostri protagonisti, ma non sappiamo ancora di cosa si tratti.
Capiamo ben presto che Javier Bardem è uno scrittore che sta attraversando un momento di crisi creativa, e che Jennifer Lawrence è la sua amorevole e devota compagna, pronta a servirlo e ad accontentarlo il più possibile pur di garantirne l’equilibrio umorale e di agevolare il ritorno della sua vena creativa. E per questo accetta senza batter ciglio che il marito voglia ospitare per la notte uno sconosciuto (impersonato da Ed Harris) che sbuca improvvisamente una sera in casa loro, al quale dal giorno dopo si unirà la moglie, una straordinaria e cinica Michelle Pfeiffer (qui probabilmente in una delle sue migliori prove attoriali).
È l’ingresso di un corpo estraneo, l’apertura di una falla che causerà un’irrimediabile emorragia: gli eventi precipitano, la gente in casa aumenta, dando vita a un home invasion di proporzioni colossali.

Parabole Bibliche

Il film è studiato per generare costante fastidio: vedere la Lawrence accettare impotente la noncuranza del compagno nei confronti della furia distruttrice della folla che a poco a poco invade la sua casa è irritante, e questa sensazione si acuisce con l’avanzare del film, in un climax di frame caotici ed eccessivi che rendono la visione un’esperienza davvero disturbante.
Il messaggio alla fine emerge davvero potente: e questo anche prescindendo dalla morale che Aronofsky ha inteso instillare. Per abitudine non leggo quasi nulla su un film, preferisco accogliere quel che il regista decide di rappresentare: nel caso di Mother!, avevo dato una mia interpretazione, più orientata a puntare il dito verso il narcisismo e il solipsismo dell’artista, talmente compreso nella propria vocazione creativa da distruggere e fagocitare indirettamente chi gli sta accanto, il tutto condito da evidenti parabole bibliche.

Dopo il settimo giorno

Dopo aver letto la spiegazione di Aronofsky, ritengo che la mia interpretazione rimanga comunque coerente, ma è meglio soffermarsi qui su quel che effettivamente intendeva rappresentare il regista.
Eviterò gli spoiler ma, chi abbia intenzione di vedere il film senza alcuna anticipazione e voglia provare a comprendere da sé, è meglio che salti questa parte.
Il film è un’allegoria del rapporto uomo-natura: la casa è un Eden, dicevo, rappresentazione di un Mondo in cui una Lawrence-Madre Natura (Mother, appunto) mette costantemente in ordine ogni cosa per regalare bellezza alla propria dimora. Bardem è chiaramente Dio, creatore, padre e soprattutto anima aperta a ogni essere vivente che bussi alla propria porta: un’apertura che, unita a un infinito narcisismo e al bisogno di essere adorato dalle folle, dà il via libera a un’umanità rappresentata in questo film peggio che in qualunque film bellico.
La simbologia e i riferimenti a certi passi della Bibbia (dalla Genesi ad Adamo ed Eva, qui rappresentati da Harris e Pfeiffer, passando per Caino e Abele fino al Diluvio Universale e al sacrificio del corpo di Cristo) sono invece palesi, come chiaro è l’attacco nei confronti di un’umanità vorace, sorda e inarrestabile, la cui violenza viene rappresentata in una straordinaria sequenza di 5 minuti convulsi e veementi che vanno dritti in faccia allo spettatore.

Maschere nude

Buona parte delle critiche sul film fanno sorridere: alcuni rimarcano una recitazione che risulterebbe artefatta, quando questa è invece per scelta smodatamente teatrale; non si è davanti a un’opera cinematografica ma a una rappresentazione da Teatro dell’Assurdo, e gli attori (straordinari, in verità) ne osservano rispettosamente i dettami in un film parossistico ed estremamente corporeo sul piano recitativo. Questo viene confermato dai titoli di coda, nei quali i personaggi non sono richiamati per nome, ma semplicemente come “Him”, “Mother”, “Man”, “Epicureus” e così via, rivelandoci un proscenio di maschere antiche in preda a un feroce baccanale.

Caotica palingenesi

Mother! di Aronofsky è un film pazzesco, girato con coraggio come un’opera teatrale, capace di coniugare Artaud e Buñuel in un simbolismo esasperato ma ferreo, in una critica feroce all’umanità, un attacco surrealista all’egotismo e al divismo dell’intera specie. Una bibbia moderna su pellicola (si fa per dire) che è compendio degli eccessi dell’intera storia umana, un film che mischia Roman Polanski (e non soltanto Rosemary’s Baby, ma soprattutto Repulsione Cul-de-sac) e le dinamiche più estreme degli home invasion in un’allegoria dalla straordinaria potenza visiva. Il richiamo più diretto è proprio Buñuel con il suo L’Angelo Sterminatore, ma qui siamo davanti a un’operazione molto più cruenta, in un’escalation di caos e violenza famelica in cui nessuno ha scampo, sino alla palingenesi finale.
La domanda che rimane dopo la visione di Mother! è: ma, a Venezia, cosa hanno visto?




Blade Runner 2049

Era il 1982 quando il capolavoro di Ridley Scott uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo; Blade Runner non solo fu un pioniere dell’effettistica sempre più presente nei film di Hollywood ma ebbe un impatto culturale senza precedenti. Blade Runner divenne un punto di riferimento per la cultura cyberpunk, stile i cui tratti caratterizzanti sono la fantascienza, il post-modernismo nonché la psichedelia e il romanticismo; mondi utopici in cui gli uomini, anche se serviti in tutto e per tutto dalla tecnologia, perdono il contatto con sé stessi e l’individuo diventa piccolo, insignificante, isolato in una società il cui rapporto fra essere umano e tecnologia si intreccia così tanto da non esserci più un confine fra questi ultimi. L’uomo diventa macchina e la macchina diventa umana. Blade Runner divenne presto un film di culto, uno dei film più protetti di Hollywood e che ben presto acquisì un aurea di intoccabilità e perfezione che oggi gli permettono lo status di leggenda. La pellicola, come è normale che succeda, ha influenzato diverse opere cinematografiche successive come Terminator del 1984, Brazil del 1985, il Quinto Elemento del 1997, e in oriente la sua ispirazione è chiara in manga e anime come Akira del 1988 e la serie di Ghost in the Shell che ha visto quest’anno una nuova reiterazione cinematografica. Gli elementi del film sono anche ben visibili in diversi videogiochi come Flashback: the quest for identity del 1993, Beneath a Steel Sky del 1994 e l’acclamato Snatcher del 1989, gioco creato dal celebre Hideo Kojima e la cui similitudine con la pellicola è palese. L’idea di un sequel fu considerata dal regista Ridley Scott per molti anni finché in anni recenti questo progetto si andò a concretizzare pian piano: l’acquisizione dei diritti da parte della Alcon Entertainment nel 2011, il coinvolgimento del regista e di Harrison Ford nel 2012, fino alla conferma del sequel avvenuta nel 2015 con il titolo Blade Runner 2049 e con Denis Villeneuve come regista. L’annuncio di questo film divise i fan più devoti del regista e della pellicola: ci furono (e ci sono ancora) quelli che videro in Blade Runner 2049 la solita mossa commerciale hollywoodiana, l’ennesimo revival nostalgico per attirare nuovi fan o il reboot mascherato da sequel innecessario, e quelli che non vedevano l’ora di riimmergersi in quella Los Angeles futuristica e rivedere il caro vecchio agente Deckard alle prese con un nuovo caso da risolvere. I nuovi trailer, usciti per il lancio nelle sale cinematografiche, hanno forse allontanato ancora di più gli scettici con ancora un briciolo di speranza per il film, mostrando diverse scene d’azione e montate come un qualsiasi film hollywoodiano. Ma Blade Runner 2049 è davvero un film come gli altri?

Piccola nota: gli eventi del film sono preceduti da tre corti, commissionati da Villeneuve stesso, che raccontano di alcuni eventi avvenuti fra Blade Runner e Blade Runner 2049. La visione di questi non è fondamentale per la comprensione del film, tuttavia sono un bellissimo extra da godere prima o dopo la visione del nuovo film al cinema, specialmente il corto animato 2022: Black Out diretto da Shinichiro Watanabe, creatore della serie anime Cowboy Bebop. Il film si apre con una nota che ci spiega che, dopo gli eventi di Blade Runner, la Tyrell Corporation, che produceva i replicanti Nexus-6, è fallita ma che questa è stata assorbita dalla Wallace Corporation che promise alla gente dei replicanti più obbedienti e sicuri. La storia poi si sposta al 2049, anno in cui il nostro protagonista K, un replicante di ultima serie interpretato da Ryan Gosling, è alle prese con un “ritiro” di un vecchio replicante, tale Sapper Morton interpretato dall’ex pluri-campione WWE Dave Bautista. Da questo evento partirà successivamente l’indagine di K dopo che egli, nel luogo della missione, avrà fatto una scoperta molto particolare. Da qui parte il vero film il cui pacing è degno dell’originale; Blade Runner 2049 è un film che si sviluppa lentamente esattamente come un film noir, senza annoiare o confondere le idee dello spettatore. Come il suo predecessore –  ma questo lo si poteva benissimo immaginare – non è un film semplice da seguire, la pellicola chiede allo spettatore un po’ più del minimo dello sforzo mentale, giusto quel po’ per renderci parte dell’indagine del protagonista rendendo noi stessi spettatori protagonisti della pellicola. Da protagonisti ci sentiremo veramente immersi in quelle atmosfere mastodontiche del film, volando sulla nostra Spinner fra i palazzi giganteschi della Los Angeles del 2049 e camminando fra le affollatissime strade piene di gente di ogni tipo e stuzzicherie che producono fortissimi odori. Da questi scenari dispersivi si passa anche alla sede  della Wallace che, al contrario degli stereotipati laboratori futuristici, vengono rappresentati ambienti minimali dalla scenografia povera. Qui gli ambienti hanno un che di templare un po’ come a sottolineare il fatto che dai laboratori Wallace nasca la vita e dunque si ha proprio l’impressione di trovarsi in un luogo sacro dove hanno luogo i miracoli della scienza; set dunque ideali per gli ambiziosi personaggi Luv e il proprietario Niander Wallace, rispettivamente interpretati dagli eccezionali Sylvia Hoeks e Jared Leto. Questa maestosità nelle scenografie è accompagnata dall’altrettanto maestosa colonna sonora composta da Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch; i temi classici di Vangelis fanno ritorno in questo nuovo film ma, ovviamente, la pellicola include nuovi bellissimi brani composti appositamente per essa. Come si sa le musiche di Hans Zimmer sono sempre molto epiche e solenni come lo si può evincere dalle colonne sonore delle serie di film Pirati dei Caraibi, la trilogia di Batman di Christopher Nolan e il recente Dunkirk; tuttavia, nonostante il compositore del film emuli perfettamente lo stile tipico della soundtrack del primo capitolo, l’assenza del tocco dolce di Vangelis si sente e la classica pomposità tipica di Zimmer potrebbe risultare a tratti un po’ fastidiosa in un film del genere. C’è un’alchimia evidente fra film e colonna sonora, però probabilmente non c’è quel tocco misterioso e introspettivo della musica del primo capitolo e che dunque portava un film come Blade Runner fuori dagli schemi. Purtroppo film moderni necessitano di colonne sonore moderne e, comunque sia, Hans Zimmer consegna una colonna sonora ben fatta e ben ispirata anche se manca di leggerezza. Parlando dunque di modernità è giusto volgere uno sguardo al cast del film e all’obbiettivo che questo film si pone: Blade Runner 2049, un po’ come è avvenuto in Star Wars Ep 7: tTe Force Awakens, è un film che, sì, porta ad oggi un’eredità passata, un revival di un qualcosa di tanti anni fa, ma lo fa utilizzando principalmente attori recenti. Siete in grado di contare quante volte abbiamo citato il nome di Harrison Ford in questo articolo? Giusto una volta! I più nostalgici che hanno in mente di guardare un film in cui l’agente Rick Deckard è al centro delle vicende del film rimarranno abbastanza delusi, ma in senso buono: se la storia dovesse continuare questo film è un vero e proprio passaggio di testimone, dal cast storico al cast nuovo pronto ad emozionare in una maniera nuova ma sempre fedele ai temi originali del film. Il cast è stato veramente azzeccato, gli attori lavorano insieme perfettamente e con Blade Runner 2049 hanno sicuramente confermato ancora una volta le loro grandi capacità recitative e che sono in grado di portare la serie verso nuovi orizzonti per il futuro. Harrison Ford, e con lui del cast originale giusto Edward James Olmos e Sean Young, non è veramente al centro di questo film ma questo è decisamente un bene; Ford dimostra (ed ha già dimostrato in Star Wars Ep. 7) che è in grado di mettersi da parte, lasciare spazio ad attori più giovani e talentuosi ma soprattutto catalizzare la storia ed essere di supporto al protagonista che si dimostra decisamente all’altezza del ruolo, così come tutto il cast. Portare avanti il nome di Blade Runner comporta una grossa responsabilità ma il cast è stato decisamente all’altezza delle aspettative.

Blade Runner 2049 ha decisamente sofferto di dubbie scelte di marketing: in fase di promozione si è deciso di mostrare un lato del film poco interessante, un lato pieno di azione intento solo a stupire. Come già detto, Blade Runner 2049 – come del resto il primo Blade Runner – è un film lento e le scene d’azione che imbottiscono i trailer sono veramente poche, o meglio, poche in relazione alla durata del film (ben 2 ore e 43 minuti). Purtroppo in un epoca in cui i revival funzionano bene o falliscono miseramente Blade Runner 2049 si è decisamente posto male allontanando principalmente chi aveva adorato il film originale; questo nuovo film è veramente degno del precedente ma purtroppo, per avvicinare nuovo pubblico, hanno montato dei trailer pomposi che non hanno ben poco a che vedere con la pellicola. Questo è un film in grado di convincere specialmente i più scettici, un film che ha dimostrato di proiettarsi verso il futuro senza dimenticarsi della formula originale; Blade Runner 2049 è un film che spezza la monotonia e che in uno scenario in cui i revival sono all’ordine del giorno, si distingue con classe e si pone ad una spanna sopra gli altri. Per una migliore visione del film inoltre consigliamo di vederlo in 2D poiché Blade Runner 2049 è un film molto visuale, molto iconico, e probabilmente lo sforzo mentale richiesto per la fruizione del film permette un’immersione ancora più reale e viva, l’effetto stupore possibilmente è meno immediato ma più soddisfacente; gli occhiali 3D sicuramente faranno la loro bella figura ma un’immediata immersione con gli occhiali 3D è forse sconsigliabile per un film lento e che necessita molta attenzione. Blade Runner 2049 è certamente uno dei titoli più caldi del mese di Ottobre e che merita assolutamente di essere visto.




Death Note

Negli ultimi anni, Hollywood ha cominciato a prestare attenzione al mondo di manga e anime, “prodotti tipici” della creatività giapponese. Mancanze di idee, probabilmente, ma sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre avuto la curiosità di vedere dei live action, magari sui nostri eroi preferiti. Non è facile però, vuoi perché la narrazione si sviluppa su decine di volumi, vuoi per lo stile, forse troppo orientale e unico per essere concepito dagli studi di Los Angeles. Del resto ricordiamo tutti il primo – e fortunatamente unico – adattamento cinematografico di un certo Dragon Ball, denominato per l’occasione Evolution: tralasciando qualche nome preso dal manga originale, il film rovescia i canoni su cui si poggia la storia, snaturando (volontariamente?) i personaggi, costruendo una trama dalle fragilissime basi. Un po’ meglio è andata a Ghost in the Shell, pellicola con protagonista Scarlett Johansson, uscita proprio quest’anno: il film, pur subendo molte – ma molte – semplificazioni, è comunque riuscito a ritagliarsi una propria identità, dando senso alla parola adattamento. Nulla di trascendentale, per carità, ma sicuramente un passo avanti verso una costruzione più accurata rispetto l’opera originale.
Ora è il turno di Death Note: targato Netflix, questo film è un interessante esperimento di produrre qualcosa di diverso, magari un po’ di nicchia, ma sicuramente con un grande bacino di appassionati.
Per quei pochi che non lo sapessero, Death Note è un manga del 2003, scritto da Tsugumi Ōba e disegnato da  Takeshi Obata, che riscosse molto successo, non solo in Giappone ma nel mondo intero, divenendo in breve tempo un vero e proprio cult. Le vicende si svolgono attorno a Light Yagami il quale, venuto in possesso del Death Note – un quaderno speciale dove, se scritto il nome di una persona, questa stessa morirà entro breve tempo – decide di ergersi a paladino della giustizia. Andando avanti nella storia non tutto andrà per il verso giusto e, personalmente, vi consiglio di recuperare se non il manga, almeno l’anime.
Cos’è la giustizia? Cos’è la fede? E soprattutto, cosa vuol dire adattamento? Scopriamolo insieme in questa recensione.

Partiamo proprio dall’ultima domanda: che cos’è un adattamento? In generale è la capacità di sceneggiatori e registi di saper produrre contesti cinematografici, quanto meno simili a opere esistenti, come libri, opere teatrali, fumetti, videogiochi e in questo caso, manga; praticamente il 70% di tutto ciò che vediamo al cinema ultimamente. Ovviamente non tutto quello che è scritto su carta stampata è fruibile sul grande schermo: adattare alcune situazioni, alcuni contesti e personaggi, per fare in modo che tutto rientri nelle classiche due ore di pellicola è ormai una prassi, ma soprattutto una necessità. È normale che ci siano differenze e un esempio su tutti, visto che siamo in un portale di videogiochi, può essere considerato l’Animus di Assassin’s Creed: vedere Michael Fassbender per un paio d’ore steso su un lettino non avrebbe fatto lo stesso effetto, ovviamente. Ma l’adattamento, alle volte, diventa una scusa, un dito dietro al quale nascondersi quando i pareri della critica cominciano a non essere così favorevoli; e  questo pare proprio il caso di Death Note.
È inutile girarci in torno: il Death Note di Netflix è una delusione sotto tutti i punti di vista. Ma andiamo con ordine.
Il progetto è stato affidato ad Adam Wingard, regista emergente che ha cercato di fare il possibile per salvare quanto meno la faccia. Sì, perché la regia è tra gli elementi meno agghiaccianti presenti nel film, una regia da mestierante, con qualche piccolo guizzo di tanto in tanto. Il problema vero arriva da tutto il resto, dalla sceneggiatura alle prove attoriali, fino al casting. Adattamento significa, in questo caso, traslare le vicende dal Giappone agli Stati Uniti: niente quindi Light Yagami ma Light Turner, Misa che da Idol diviene una cheerleader di nome Mia e i soliti problemi da liceo che abbiamo imparato a conoscere in centinaia di serie americane. Fin qui nulla di strano. I veri problemi sorgono quando i personaggi principali diventano mere parodie vuote in un contesto che risulta sin da subito sbagliato. Nella sceneggiatura scritta a tre mani, Light Turner (Nat Wolff) si presenta come uno dei tanti ragazzi disagiati e isolati dal contesto socio-scolastico, ma dotato di grande intelligenza. Già si può evincere come ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò, segnalato anche da un netto distacco dall’atmosfera aulica del manga/anime e l’interpretazione che di certo, non aiuta. Nat Wolff è fin troppo sopra le righe, mai convincente e soprattutto privo di carisma. Non riusciamo a empatizzare con lui e capire il suo punto di vista contorto, probabilmente per un errato – ammesso che ci sia stato – studio del personaggio di Light Yagami. Senza soffermarci su Mia (Margaret Qualley), pressoché inutile e fastidiosa, sia come personaggio che come recitazione, da segnalare è la prova del vero antagonista di Light, o Kira se preferite: Elle. È vero; cambiare etnia a un personaggio che fa della sua caratterizzazione esteriore uno dei sui pregi è sicuramente una mossa al dir poco azzardata. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Keith Stanfield, nei panni di uno degli investigatori migliori al mondo, ne rappresenta discretamente i comportamenti, almeno fino a quando pensa di essere diventato qualcun altro e comportarsi nella maniera più sbagliata possibile. Questo forse è in sintesi una delle caratteristiche del film: ci prova, ma pur provandoci non riesce, mettendosi il bastone tra le ruote da solo.
Se le interpretazioni a dir poco scadenti non lasciano il segno e una scrittura confusionaria che cerca di prendere qualcosa dall’opera originale si perde nei meandri del nonsense, cosa resta? Probabilmente la voce di Ryuk (caratterizzazione pessima, sia esteriore che psicologica) prestata da Willem Defoe, è l’unica nota positiva del film. In lingua originale si può apprezzare lo sforzo di un attore che ci ha creduto, riuscendo, almeno in parte, a rendere meno ridicolo lo Shinigami.
Inutile dire che le tematiche sono state completamente travisate: quello che per Light Yagami è un compito offerto dal destino, per Light Turner e Mia diventa quasi un gioco di coppia, immerso in un teen drama di cui si poteva fare volentieri a meno.

Il Death Note di Netflix è un fallimento su tutta la linea: scelte di sceneggiatori, casting e  attori, non rendono giustizia a un’opera che ha segnato una generazione, aprendo dibattiti su cosa sia giusto e sbagliato o la funzione di Dio. In questo caso la parola adattamento viene utilizzato come scusa, divenendo un Dragon Ball Evolution 2 dimenticabile, con così tante pecche che si fa fatica a trovare qualcosa da salvare. Nulla dell’opera originale, se non qualche nome, è stato utilizzato e questo forse è il male minore: anche se immaginiamo un mondo dove Death Note non sia mai stato creato, questo film non si salverebbe nemmeno.
«Questo mondo fa schifo». E Light Turner, a suo modo, ce lo ha ricordato.




IT: rilasciati due nuovi trailer in VR

 

In attesa dell’uscita del nuovo remake di IT, vecchio capolavoro di Stephen King, la Warner Bros. ha rilasciato due nuovi trailer in VR della durata di quattro minuti circa. I video ci catapultano per le strade e le fogne di Derry, piccola cittadina del Maine dove è ambientata la storia di Pennywise, il clown assassino che terrorizzerà a morte un gruppo di ragazzini, I Perdenti, che dapprima lasceranno Derry convinti di aver ucciso Pennywise, ma 30 anni dopo si accorgeranno che le cose non erano andate esattamente come avevano pensato. Sotto riportiamo il trailer.

 




The War – Il Pianeta delle Scimmie

Quando venne annunciato un reboot della saga de Il pianeta delle scimmie in molti – compreso me – storsero il naso; del resto ci aveva già provato Tim Burton nel 2001 fallendo miseramente: quello che ne venne fuori fu un film senza né capo né coda e con un finale sicuramente sorprendente, ma con accezione negativa. Il film originale, targato 1968, con protagonista Charlton Heston, nel frattempo è divenuto un cult di fantascienza che, con le sue ampie tematiche, colpì il pubblico con uno dei migliori finali della storia del cinema. A esso seguirono numerosi sequel che cercarono di approfondire le origini delle scimmie e la scomparsa dell’uomo così come lo conosciamo, definendo una vera e propria mitologia.
Nonostante il titolo originale sia godibilissimo ancora tutt’oggi e i numerosi film ne completano la storyline, perché impegnarsi a creare questa nuova trilogia? Fortunatamente la risposta non si trova soltanto nel denaro.

Dopo L’alba del pianeta delle scimmie, in cui abbiamo visto come i primati, guidati da Cesare, abbiano cominciato a prendere coscienza di sé, e Apes Revolution, dove sono state posizionate le basi di questa nuova civiltà, in The War – Il Pianeta delle Scimmie, assisteremo a un vero e proprio punto di collegamento tra la battaglia finale tra primati ed esseri umani e il mondo governato dalle scimmie del 1968.
Tutti e tre i film si presentano come dei blockbuster ben realizzati e soprattutto uno dei pochi tentativi di reboot veramente riusciti.
The War è diretto da Matt Reeves che, dopo aver guidato molto bene il secondo capitolo, ha usato al meglio tutte le sue competenze per impacchettare un finale perfetto per questa trilogia. Uno dei tanti punti forti del film è appunto la regia, ricca di spunti interessanti e che soprattutto riesce a focalizzare lo spettatore sui momenti importanti della pellicola così come sui personaggi, con tanti primi piani atti a valorizzare l’espressività degli attori, sia umani che digitali, entrando nella loro intimità. L’utilizzo di grandi panoramiche enfatizza le location, dando l’impressione che nulla sia stato lasciato al caso, le scene di battaglia vera e propria sono girate con maestria, non si perde un fotogramma di quello che succede e con una messa in scena che strizza l’occhio ai grandi capisaldi del genere. Anche la fotografia, a cura di Michael Seresin valorizza tutti i momenti della pellicola, dando risalto a colori freddi e cupi, a segnalare anche una resa dei conti finale e lontana da lieti fini.
Proprio una delle caratteristiche di questa nuova trilogia è l’utilizzo della CGI per la realizzazione delle scimmie, di ottima fattura – al punto che potreste dimenticare di star guardando un film invece di un documentario su National Geographic – sono reali, in tutti i loro aspetti, e così come le abbiamo immaginate prima della conquista del pianeta a tutti gli effetti: non sono ancora le scimmie con modi di fare umani, evolute, conservano ancora molte tracce del mondo selvaggio dal quale provengono e solo una manciata riesce a comunicare utilizzando la nostra lingua. La cosa che sorprende è la loro caratterizzazione, più sfaccettata e complessa rispetto alla controparte umana, che vede nel Colonnello McCullough (Woody Harrelson) una guida quasi spirituale più che un leader militare. Il Colonnello rappresenta in tutto un’umanità in difficoltà ma che vuole darsi per vinta, piena di paura e angosce di una razza ormai in via d’estinzione. Il dare maggiore spazio alle scimmie risulta una scelta azzeccata dagli sceneggiatori, non solo perché siamo più propensi ad empatizzare con esse, ma soprattutto – ed è una cosa molto interessante – capire come una civiltà scaturita quasi dal caso possa prendere possesso dell’intero pianeta. The War ci racconta questo in maniera egregia, collegandosi in maniera perfetta agli avvenimenti del lungometraggio del 1968: tutto ha una sua logica consequenziale e quell’elemento che ha dato il via a tutto segnerà in modo inesorabile il sorgere di una e il cadere dell’altra specie.
C’è spazio anche per le tante citazioni, evidenti o meno, ai film precedenti (una su tutte Nova) e anche a un comic relief mai invasivo come Scimmia Cattiva, che riesce a spezzare sapientemente la tensione quando serve.
Menzione d’onore anche alle musiche, create per l’occasione da Michael Giacchino (vincitore del premio Oscar nel 2010 per Up), figura ormai di spicco nel mondo del cinema e TV. Tutte le musiche sono arrangiate in modo da ricordare quelle dei film originali, quasi tribali, e accompagnano perfettamente tutti gli eventi, da quelli introspettivi a quelli più concitati.

Ma veniamo al cuore della trilogia. Nei film ancestrali si è andato sempre più ad approfondire la figura di un leader, quasi una divinità, che secoli prima aveva liberato il popolo delle scimmie dalle mani dell’uomo, regalando sapienza e l’uso della parola: il suo nome era Cesare. Nella nuova trilogia vediamo letteralmente nascere questo futuro leader e, tutte le sue vicende saranno in stretta correlazione con il destino dei suoi simili. Nel terzo capitolo di questa saga, vediamo un Cesare molto più consapevole del suo ruolo, un leader politico, uno stratega militare, guida spirituale, quasi un Mosè del XXI secolo che, come per gli ebrei, traghetterà il suo popolo alla tanta sospirata terra promessa. Ma c’è di più: gli eventi precedenti, soprattutto quelli inerenti ad Apes Revolution, lo hanno segnato profondamente e i suoi dubbi, paure, tormenti ma anche speranze, sono tutti racchiusi nei suoi occhi e nella capacità di esprimere qualsiasi emozione con un solo sguardo. Cesare risulta essere uno dei personaggi meglio scritti negli ultimi anni ma non sarebbe stato così reale se a dargli le fattezze non fosse intervenuto Andy Serkis: il Gollum de Il signore degli anelli (ma anche Ulysses Klaue nel Marvel Cinematic Universe) è infatti riuscito a dare un interpretazione quanto meno da candidatura agli Oscar. Nella realizzazione di Cesare, Serkis,circondato quasi sempre da green screen e ricoperto da sensori per poi esser ricreato in computer grafica, ha creato movenze, piccoli gesti e soprattutto una voce adatta a un primate evoluto, dando vita a un personaggio reale e credibile. Il suo percorso si concluderà con quest’ultimo film, con un finale semplicemente perfetto.

The War: il pianeta delle scimmie è la dimostrazione di come un blockbuster adatto a un vasto pubblico possa riservarsi una certa autorialità, presentando elementi di alta spettacolarità e intrattenimento senza rinunciare a elementi di grande qualità visiva e di scrittura. Il Cesare di Andy Serkis, nonostante le fattezze digitali, è uno dei personaggi migliori apparsi negli ultimi anni nella cinematografia mondiale, risultando complesso, carismatico e dalla forte impronta visiva.
Quel che ci regala questo film, nonché l’intera trilogia, è un mondo realizzato con coscienza di causa, non solo creato per accaparrarsi i soldi di fan e curiosi, ma per completare ancora di più la storia «di questa civiltà alla rovescia», come descritto da George Taylor, protagonista della pellicola originale nel 1968.




Top 5: I 5 migliori film tratti dai videogames

Il videogioco è una delle poche arti che il cinema non ha ancora saputo interpretare e trasporre al meglio, risultando gli adattamenti tratti da titoli videoludici spesso poco convincenti. Ciò nonostante si contano anche vari esempi positivi e qui di seguito abbiamo selezionato i 5 migliori film tratti dai videogames.

Al quinto posto troviamo Warcraft – L’inizio: film decisamente imperfetto sul piano contenutistico, gode però di un comparto tecnico assolutamente di rango, con effetti digitali ben realizzati che offrono risultati di grande espressività. È un film che si ricorda più sul piano visivo e sonoro, con ambientazioni straordinarie e una colonna sonora molto ben curata, ma si spera che possa essere davvero l’inizio di una saga ben realizzata anche sul piano della sceneggiatura.Al quarto posto abbiamo invece Angry Birds, pellicola nata come palese operazione commerciale per sfruttare il successo dei famosissimi pennuti del mondo videoludico mobile e che ha prodotto un film d’animazione brillante, farcito di gag, citazioni divertenti e personaggi molto spassosi. Un risultato inaspettato per una serie che non gode di una solida storia alle spalle.Al terzo posto troviamo Final Fantasy:  se The Spirits Within narra una storia autonoma, che vede al centro la scienziata Aki Ross nel tentativo di salvare l’anima del pianeta Gaia, Advent Children, è invece il sequel di Final Fantasy VII mentre Kingsglaive è il capitolo che introduce a Final Fantasy XV. Film che sono sì un buon complemento della serie videoludica, ma che restano ampiamente godibili anche per chi non abbia giocato la nota saga giapponese.Al secondo posto abbiamo Resident Evil, da cui sono stati prodotti una serie di film non sempre felici, ma nella quale il primo rimane comunque un buon risultato. Inizialmente affidato a George Romero e poi passato nelle mani di Paul Anderson, è un film nel quale viene introdotto il personaggio di Alice, interpretata da Milla Jovovich, che si muove bene in un film claustrofobico che non lesina i momenti splatter, e che si imprezionisce della colonna sonora di Marylin Manson. Anche qui la sceneggiatura non è il massimo, ma resta comunque un film godibile in una saga cinematografica che ha offerto vari punti bassi.E in cima alla nostra lista troviamo forse il risultato di trasposizione più riuscito, Silent Hill. Tratto dal primo capitolo dell’omonimo videogame, il film si differenzia per svariati elementi ma riesce a restituire l’atmosfera della nebbiosa cittadina, grazie a una sceneggiatura molto ben curata da Roger Avary e una messa in scena di tutto rispetto, che mette lo spettatore in uno stato di inquietudine ancor prima di incontrare il tanto temuto Pyramid Head. Un film che apprezzeranno tutti gli amanti dell’horror e che ha avuto anche un seguito non al livello.