Il cross-play interessa veramente ai videogiocatori?

Secondo quanto riportato da Gamesindustry.biz, il cross-play, potrebbe non essere così importante per i giocatori come molti nel settore credono. Ad avvalorare questa ipotesi, sono i dati raccolti dal sondaggio effettuato nel quarto trimestre del 2017 da GameTrack, che mostra una generale indifferenza a interazioni tra la varie console.
I rumor che vedrebbero PlayStation, Xbox e PC permettere agli utenti di “giocare sulla stessa spiaggia, partendo da oceani diversi” sono stati molteplici negli ultimi 12 mesi: Microsoft, come sappiamo, ha fatto del cross-play tra console e PC una delle caratteristiche fondamentali nella sua strategia aziendale, mentre Sony, al contrario, è stata più volte ampiamente criticata per la sua apparente riluttanza a consentire un eventuale “condivisione” tra i consumatori PlayStation e quelli Xbox.
Tuttavia, all’interno del sondaggio, il 58% degli intervistati ha ammesso di essere totalmente indifferenti a tale questione. Essendo una percentuale così elevata possono entrare in scena anche altri fattori, come la reale conoscenza del cross-play ed eventuali implicazioni derivanti, oppure una certa soddisfazione nell’attuale modus operandi dell’attuale sistema – che non è da cosiderare per forza “malvagio”–.
Minecraft, Rocket League, Ark: Survival Evolved e Fortnite, tra gli altri, sono stati al centro di un lungo dibattito proprio riguardo il cross-play nell’ultimo anno e spesso, a causa della netta mancanza di interesse da parte di Sony nel permettere ai suoi utenti di condividere l’esperienza anche con i giocatori di Microsoft.

A quanto pare inoltre, il cross-play non è nella maniera più assoluta un fattore decisivo per il quale i giocatori possano essere più propensi o meno all’acquisto di una console: solo una piccolissima percentuale (13%) ha dichiarato di potersi lasciar influenzare da questo fattore durante l’acquisto.
Allo stesso modo, sempre e solo il 13% del campione è d’accordo che, avendo la possibilità di giocare in cross-play, possano essere più propensi alla sottoscrizione di un eventuale abbonamento per giocare online su console o PC.

La stessa tendenza era evidente tra i partecipanti al test, nelle domande inerenti al software: il 48% degli intervistati è in disaccordo che questa caratteristica possa influire sull’acquisto di uno specifico titolo, contro il 17% che si lascerebbe influenzare da questo fattore; inoltre il 49% degli intervistati, non è d’accordo che tale funzionalità li renderebbe più propensi a giocare online più di quanto facciano normalmente.

Phil Spencer, noto vicepresidente della sezione gaming di Microsoft, è stato molto franco riguardo il suo enorme desiderio di unire le comunità Xbox e PlayStation, commentando anche la riluttanza incessante di Sony in diverse occasioni:

«So che esiste questo genere di visione: “se i miei amici hanno questa console, non potranno giocare con persone che ne acquistano una diversa, e questo è il motivo per cui acquistano la mia console”.»

Che il cross-play abbia o meno il potenziale di influenzare le decisioni di acquisto tra i consumatori, non cambia il fatto che all’interno del settore, vi sia una visione generale che l’abbattimento delle barriere tra le piattaforme avverrà presto. Come potete leggere nel nostro precedente focusTim Sweeney di Epic Games, ha parlato di Fortnite e dei livelli di interazione cross-play senza precedenti, che consentiranno  agli utenti di giocare allo stesso gioco su console, PC e dispositivi mobile. Le uniche piattaforme che non lo consentono tuttora sono Xbox e PlayStation, ma Sweeney è convinto che sia solo una questione di tempo:

«Affinché Sony e Microsoft supportino completamente i loro utenti, devono aprire le porte anche ai loro amici del mondo reale, altrimenti staranno solamente disgregando dei gruppi realmente esistenti.»



Culturalizzazione: migliorare i contenuti nel rispetto di tutti

Il rosso in Cina è il colore della fortuna e della prosperità, dunque un colore positivo, ma in termini di gaming questo colore è spesso associato ai danni o a un qualcosa di negativo; il lutto, in Asia, è rappresento dal bianco anziché dal nero ed è inoltre inappropriato avere degli scheletri come nemici in un gioco perché ciò è visto come inappropriato verso i defunti. Questi sono solo alcuni esempi di come il contesto di un videogioco possa cambiare a seconda della popolazione che lo gioca; non si può consegnare un gioco, che possa soddisfare tutti, senza considerare le diverse credenze religiose, tradizioni e diversi punti di vista ed è per questo che le uscite passano sempre attraverso il processo di localizzazione.

Questo non prevede la sola traduzione del comparto testuale o dei dialoghi ma serve per far si che la cultura di arrivo possa comprendere, anche con termini propri, la cultura d’origine. Vi facciamo un esempio più chiaro: ricordate il buon vecchio anime Rocky Joe? Quando lui e il caro Nishi volevano un qualcosa di gustoso mangiavano un bel piatto di “spaghetti” e non di “udon”; se è per questo il nome “Rocky Joe” non è proprio un nome così giapponese. Questo perché i traduttori che lavorarono all’opera avevano bisogno di trovare dei corrispettivi culturali italiani che il pubblico avrebbe potuto comprendere e accettare senza, necessariamente, dar troppa importanza agli elementi che apparivano nelle scene del cartone (anche perché all’epoca gli anime e la cultura giapponese non erano così popolari); gli spaghetti sono simili agli udon ma non sono la stessa cosa, così come “Joe Yabuki”, in Italia, non ha la stessa carica di “Rocky Joe”, il cui termine sfruttava la popolarità sia del pugile italiano Rocky Marciano che l’allora nuovissima saga di Rocky. Umberto Eco, quando parlò della sua esperienza come traduttore, parlò appunto di “Dire quasi la stessa cosa”, poiché, in termini brevi, non esistono corrispettivi identici da una cultura “A” a una “B”.

Localizzazione e culturalizzazione

Kate Edwards, l’ex direttrice esecutiva della International Game Developers Association (IGDA), spinge gli attuali sviluppatori a puntare di più sui processi di culturalizzazione, un processo un po’ diverso dalla localizzazione che abbiamo imparato a conoscere. A tal proposito spiega:

«La culturalizzazione serve a tutto quel contenuto che potrebbe influenzare negativamente un determinato pubblico. Possono essere simboli, gesti, colori, character design – può essere persino la storia stessa se al suo interno sono presenti determinate allegorie storiche, alla quale la gente potrebbe reagire negativamente. […] Il linguaggio è essenziale per la leggibilità di base, ma ciò che io spesso suggerisco è la culturalizzazione, perché rende il contenuto più fruibile. Si possono ricercare elementi all’interno di una cultura affinché il contenuto sia più interessante, per evocare un senso di cultura che non può essere gestito dal solo linguaggio. […] Io voglio che [i giochi] possano piacere a più gente possibile nel mondo e per fare ciò la lingua non è sufficiente. È possibile fare ogni tipo di traduzione ma se il contenuto presenta un qualcosa di potenzialmente problematico per la cultura d’arrivo, questo non sarà compatibile con i loro valori culturali».

Gli obiettivi della culturalizzazione sono molteplici ma il principale è quello di “migliorare il contenuto affinché possa raggiungere più fruitori possibili” eliminando elementi che possano interferire con l’immersione del giocatore o, peggio ancora, possano offenderlo; Edwards ricorda che se un qualcosa non è in sintonia con la cultura d’arrivo questo potrebbe “rovinare l’esperienza”:

«In alcuni casi un “elemento discutibile” potrebbe estendersi ai governi locali e potrebbero anche bandire un gioco per quel qualcosa di “offensivo”[…]».

Censura o essere politicamente corretti?

Edwards ci tiene a ricordare che il processo di culturalizzazione non ha nulla a che fare con la censura, ma bensì con l’essere politicamente corretto: Kate spiega che gli sviluppatori sono liberi di fare ciò che volgliono, in quanto crede fortemente che i giochi siano una forma d’arte, una forma d’espressione personale e di libertà di parola. Tuttavia, se gli sviluppatori concepiranno un gioco violentissimo o irrispettoso, il 99% del pubblico non lo giocherà e dunque si faranno una pessima reputazione anche se hanno tutto il diritto di pubblicarlo. Se invece vogliono fare soldi con la loro visione creativa allora dovranno essere messi di fronte a delle scelte di mercato.
La culturalizzazione, agli occhi della Edwards, ha due facce: la culturalizzazione reattiva, che comprende l’individuare (e dunque l’eliminare) le cose che possono provocare una reazione negativa, e la culturalizzazione proattiva. Quest’ultimo è un po’ il processo inverso in quanto coinvolge l’arricchire il contenuto con elementi che possano migliorare l’esperienza e che i giocatori, di una certa cultura, possano individuare; se i developer americani o europei vogliono aprirsi di più al mercato cinese o mediorientale allora è meglio – per loro – mostrare interesse verso le loro culture inserendo elementi che possano attrarli come un semplice personaggio della loro nazionalità in un gioco o persino dalle loro sembianze in un titolo ambientato in un mondo fantastico (senza scadere però in stereotipi scontati). Ciò non viene circoscritto solamente per questi nuovi mercati ma è una pratica che coinvolge la sensibilità delle culture occidentali; ne è un esempio il recente ban di Omega Labyrint Z nel Regno Unito, un gioco che poteva essere tollerato in Giappone ma non in molte parti d’Europa (poiché il gioco presentava delle quattordicenni spesso in contesti “troppo piccanti”. In Giappone, per legge, l’età del consenso è di 14 anni). Detto ciò, nonostante il “duro aspetto” degli  Stati Uniti d’America, la Edwards ci tiene a ricordare che il mercato USA molto attento su certi aspetti:

«[…] è uno stato molto sensibile a questioni come il sesso, la nudità e il razzismo. I developer non possono pensare che tutto può filar liscio negli Stati Uniti perché non è vero. L’unica differenza è che negli Stati Uniti, come in molti paesi liberi, non controlliamo il contenuto da un punto di vista governativo; noi ci affidiamo semplicemente ai venditori. Il motivo per cui non abbiamo tutti i giochi provenienti da oltremare negli Stati Uniti è perché Wallmart e Target si rifiutano di venderli, tutto qui! È il modello di vendita che blocca i contenuti, non il governo.».

Katrina, di Snatcher di Hideo Kojima, vide cambiata la sua età da 14 a 18 nel mercato occidentale.

La rivincita dell’impero Joseon

La culturalizzazione è un processo che andrebbe avviato il prima possibile, a differenza della più comune localizzazione che si avvia soltato verso la fine della produzione del prodotto, ovvero quando è pronto per essere trattato dai localizzatori; con la culturalizzazione si anticipano questi processi parlando con produttori, scrittori, artisti affinché possano consegnare un titolo che tutto il mondo, benomale, possa godere senza problemi.
Tuttavia ci saranno sempre da fare alcune eccezioni e la Edwards, lavorando come specialista della culturalizzazione da oltre una decade, lo sa bene; ricorda ciò che avvenne per il rilascio di Age of Empire, nel 1997, in Corea del Sud. Il gioco in questione conteneva uno scenario che riproduceva l’invasione della penisola coreana da parte della dinastia Yamato che mise l’impero dei Joseon sotto assedio. Il ministro dell’informazione coreano disse che quell’evento non avvenne mai, nonostante i documenti storici a supporto dell’invasione avvenuta (ricordiamo che la penisola coreana non ha – o per lo meno aveva – una relazione serenissima, specialmente per gli eventi accaduti nel ‘900, con il Giappone); Microsoft aveva in atto una strategia a lungo termine per inserirsi nel loro mercato e i sondaggi mostravano che i giochi di strategia in tempo reale erano molto popolari in Corea, e questo prima ancora del successo StarCraft. Fu così che la Edwards e Microsoft finirono per appoggiare le dichiarazioni del ministro rilasciando una patch, esclusiva al mercato sudcoreano, in cui accadeva l’(in)esatto contrario, ovvero che l’impero dei Joseon invadeva il Giappone. Edwards ricorda:

«Abbiamo preso una decisione che potesse far bene al nostro busines. […] La gente dibatte ancora: Microsoft ha oltrepassato il limite? Quale limite è stato oltrepassato? Se il limite era adattarsi alle aspettative locali allora hanno decisamente fatto la scelta giusta. Il loro obiettivo non era riportare i fatti storici; Age of Empire nasce per questa ragione? Io dico di no, visto che in altre versioni del gioco gli aztechi hanno i carri armati, e ovviamente non li hanno mai avuti. Non serve un background storico accurato per rendere un gioco divertente.».

In caso di emergenza

Edwards ricorda che la culturalizzazione, in fondo, permette ciò che è gusto per il gioco, gli sviluppatori e la loro visione del gioco; serve per far sì che il business non prenda scosse che possano rovinare la sua reputazione. Se dovessero presentarsi altri eventi simili allora si deve esser pronti a fare cambi del genere. Se Microsoft fosse andato contro il ministro (pur agendo in virtù dei fatti storici) allora avrebbero perso per sempre quel mercato. A detta sua, i governi si ricordano di ogni fatto relativo a censure e divieti di questo tipo perciò è bene per i game designers ne prendano nota; bisogna considerare sempre la sensibilità di un popolo altrimenti potrebbe chiudersi il mercato di una determinata area non solo per loro ma anche per l’industria in generale. Ricorda tutta via, che alcuni stati perdonano certi comportamenti, altri, come la Cina (che a oggi è un colosso della scena videoludica) semplicemente no.
Dunque cosa bisogna fare se un gioco, al suo rilascio, provoca caos in un determinato paese? Per prima cosa è bene mantenere la calma e non agire frettolosamente. Quando in un paese succedono cose simili è giusto anche non cambiare immediatamente il contenuto perché è possibile, invece, ottenere l’effetto contrario e dunque, peggiorare ancora di più la situazione; la vera domanda da porsi è: quali sono gli obiettivi del prodotto lanciato e qual è la strategia di mercato a lungo termine del developer in quel determinato paese? Se l’oggetto delle controversie riguardano il design, la narrazione, o altri aspetti dovrebbero essere invece pronti a difenderlo. La Edward designa delle linee guida per non perdere il controllo in situazioni simili:

«Bisogna avere una risposta pronta che non sia “l’abbiamo fatto perché pensavamo fosse figo”. […] L’ho visto accadere un sacco di volte e dunque incoraggio i developer a scrivere una o due pagine di spiegazione del perché di determinate scelte, con delle parole che possano meglio appellarsi a questi particolari casi. All’occorrenza è bene spiegare loro (governi, comunità religiose, etc…) i procedimenti che hanno portato a scelte simili e dire cose come: “guardate, noi abbiamo fatto questo procedimento logico, abbiamo parlato con questi accademici, parlato con queste persone, fatto le nostre ricerche di mercato e capito che non fosse questo gran problema… In poche parole abbiamo fatto i nostri compiti”.».

Così facendo si riguadagna un po’ di terreno nella lotta; la controversia non sarà conclusa ma almeno si dimostrerà il non aver agito con ignoranza da parte dei game developer. Questo è molto importante perché in molti pensano che queste ricerche non vengano fatte; tanta gente pensa che queste offese nascano per ignoranza oppure per offendere volutamente qualcuno ma in realtà il 99% delle volte gli sviluppatori agiscono in buona fiducia, senza alcuna intenzione di offendere qualcuno, ed è vero.
Tuttavia Kate Edwards ha sentito più volte molti developer, in situazioni del genere, dire cose come: «questa non è ottima pubblicità per il mio gioco? Che male c’è ho fatto qualcosa di offensivo e tutti ne parlano? Non è forse buono?». La verità è che tutto questo non si traduce tanto in “cattiva pubblicità” ma tanto che così facendo si finirà per diventare “la compagnia che fa arrabbiare la gente” o “quelli che se ne fregano” e il loro brand avrà sempre una connotazione negativa in determinati paesi; dunque tener conto delle differenze culturali fra paese è paese è importantissimo per far si non solo che il prodotto raggiunga più persone possibili ma anche per far sì che le loro strategie di mercato a lungo termine possano funzionare in una determinata area.




La gestione economica nello sviluppo degli indie game

È ormai noto a tutti che il business dei videogiochi fattura miliardi di dollari in tutto il mondo, tutti gli anni; ma è altrettanto vero che la maggior parte dei game designer o developer che intraprendono la strada della produzione videoludica non sanno come amministrare i propri fondi.
A evidenziare questo problema è Jason Della Rocca, cofondatore di Execution Labs, un incubatore che aiuta i developer indipendenti a poter portare avanti il loro progetto.
Della Rocca ha fatto notare come uno studio indie sia avviato principalmente da chi sviluppa giochi e come la maggior parte di essi sottovaluti l’importanza di avere una figura atta alla gestione economica, in modo da riuscire a ricoprire tutte le spese e investire i soldi per la crescita dell’attività. Molte volte è uno stesso programmatore o un grafico a preoccuparsi delle casse dell’azienda, mettendosi a capo dello studio, ma si tratta spesso di un soggetto non avvezzo al mondo della strategia aziendale e con poca esperienza nel procacciare fondi e nel pitching (banalmente, promuovere l’idea di business per ottenere finanziamenti).
Molti studi indie vedono i finanziamenti come una soluzione a tutti i loro problemi, e non pensano invece a come gli stessi soldi possano servire per creare delle opportunità al loro progetto. Gli sviluppatori non pensano che quei soldi potrebbero servire per dare vita a una fanbase più  vasta o per investirli e, in futuro, ricavare un maggiore guadagno.

Molte volte i programmatori in vesti di amministratori del business si ritrovano a dover pagare una squadra di programmatori e tutti i costi relativi al progetto, e per riuscire a mantenere viva la società dovranno ricercare fondi o da investitori VC (Venture Capital) o dai publisher. Proprio per questo Della Rocca sottolinea come sia importante distinguere fra le due forme di finanziamento.
Della Rocca sconsiglia ai piccoli studi di rivolgersi agli investitori VC se vogliono risolvere dei problemi impellenti, perché i Venture capitalist puntano a un guadagno alto, accettando anche di investire in dei progetti fin dalla loro nascita, e avranno molta difficoltà a investire su un prodotto che presenta dei problemi; la migliore opzione in questi casi è quella di rivolgersi sempre di più ai publisher o a raccolte fondi su Kickstarter o crowdfunding, semplicemente perché è più sicuro e meno difficile che richiedere un finanziamento da un investitore VC, che ha come unico obbiettivo quello di guadagnare il più possibile.
Gli investitori degli equity, invece, puntano di solito a un guadagno più basso, correndo meno rischi, e forniscono il capitale in cambio di una forma di piccola partecipazione, e a loro è possibile rivolgersi nel caso in cui i soldi servano per una migliore gestione ordinaria o per qualche spesa di gestione straordinaria non eccessivamente gravosa.
Al Games Capital Summit, che si terrà il 22 maggio (occasione per gli sviluppatori indie di farsi conoscere e ricevere qualche finanziamento) Della Rocca ha dichiarato che la sua società farà da “pre-filtro”, indirizzando gli sviluppatori sotto l’egida di Execution Labs verso i Venture Capitalist o verso gli investitori equity in relazione ai singoli progetti.




Alla conquista del podio: la guerra dei Battle Royale

Cos’è una Battle Royale? È questa la prima domanda da porre. Il genere “Battle Royale” è stato sdoganato dall’omonimo film giapponese (tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Koushun Takami) uscito nel 2000,  realizzato da Kinji Fukasaku, ultima sua opera prima della morte, avvenuta nel 2003. Il film narrava la storia di una classe di adolescenti bloccati su un’isola remota e costretti a combattere fino alla morte, che avrebbe lasciato soltanto un sopravvissuto. Questo genere è stato adattato successivamente in produzioni cinematografiche di ampio rilievo come Hunger Games (a sua volte tratta dalla trilogia letteraria di Suzanne Collins)
Un simile concetto non ha tardato a essere inserito all’interno di una struttura videoludica che oggi è di grande successo, vedendo come attuali campioni del genere titoli come PlayerUnknown’s Battlegrounds e Fortnite, i quali al momento si battono a colpi d’aggiornamenti per la “corona” del re dei Battle Royale.
Al momento il genere è molto in voga tra i giocatori di tutto il mondo e, di conseguenza, tutte le software house che vogliono garantirsi un posto di rilievo tra i “big” del settore (e soprattutto sul mercato) stanno cercando di sfruttare il trend a proprio favore. Non pare lontana l’ipotesi di un “bagno di sangue” tra le varie aziende, visto che, al momento, ci sono circa una dozzina di concorrenti che inseguono il successo di Pugb e Fortnite, nella speranza di usurpare il trono o com,unque di ritagliarsi una fetta di rilievo sul mercato. Ogni volta che un genere vede un boom, non poche software house si gettano alla cieca in progetti di emulazione nella speranza di spuntarla, in una Battle Royale nella quale solamente una uscirà vincitrice. I titoli che al momento comandano il genere sono in realtà delle “copie”: beninteso, non parliamo di plagio, ma del fatto che il titolo che attualmente registra i numeri più alti, PUBG, è in realtà nato da una mod di Arma II, DayZ: Battle Royale, a sua volta variante della mod DayZ ispirata al film omonimo.
Fino a pochissimi anni fa era il genere MOBA a farla da padrone e, anche allora, tutto partì da una mod, più precisamente da alcune mappe: quella di Aeon of Strifetratta da Starcraft, fu la prima, anche se ancor più celebre fu quella sviluppata per Warcraft III, quella di Defense of the Ancients (DotA). Seguirono una miriade di esponenti del genere, da giochi in flash come Minions, sviluppato da The Casual Collective nel 2008, sino ad arrivare al notissimo League of Legends, a oggi probabilmente il MOBA più giocato al mondo, passando per il secondo capitolo di DotA.
Durante gli anni, quindi, l’universo videoludico ha visto l’evolversi di varie tendenze, dal boom degli MMO, come World of Warcraft, per poi passare agli FPS come Call of Duty, fino ai MOBA e ai titoli Battle Royale.

Esistono vari fattori che possono determinare il successo di un videogioco: primo tra tutti è il costo del titolo poiché, se un giocatore ha acquistato H1Z1, ovviamente sarà meno propenso a comprare PUBG, visto che dovrà spendere altri soldi per giocare a un titolo che potenzialmente presenta le medesime caratteristiche. Il secondo problema è il fattore “compagnia“, in virtù del quale un giocatore sarà più o meno propenso ad acquistare un titolo posseduto dagli amici, effettuando battaglie in co-op e non. Ultimo, ma non meno importante, è il fattore accessibilità: essere un free-to-play può avere dei vantaggi, da questo punto di vista, rispetto a un titolo a prezzo pieno, permettendo a più persone di provarlo ed eventualmente effettuare ulteriori acquisti in-game. Per esempio Fortnite ha chiaramente questo target, fornendo a tutti gli utenti la possibilità di giocare gratuitamente la modalità battle royale.
Durante queste variazioni di tendenza della domanda da parte degli utenti, le software house minori, osservando l’andamento sul mercato di titoli massivi come PUBG, ritengono di riuscire a replicare simili successi, addirittura migliorando il prodotto. Ma gli eventuali upgrade apportati difficilmente riescono a spostare una grande fetta d’utenza dal titolo preferito dai più a quello dei più piccoli: semplicemente perché, a parità di caratteristiche e struttura, il gioco non vale la candela.
Per poter creare qualcosa di nuovo e coinvolgente, in grado di smuovere il mercato, bisogna analizzare e capire cosa sia possibile aggiungere e migliorare, così da poter rendere il proprio lavoro unico e interessante agli occhi del pubblico, al fine di essere promotori di una nuova tendenza.




Ritirarsi dagli eSport a 24 anni

Come citato da Engadget, dopo 11 anni di attività, Matthew “Burns” Potthoff si è ritirato da player professionista di Call of Duty ad appena 24 anni. Oggi, due anni dopo il ritiro, lavora dietro le scene per eUnited, una squadra di eSport con giocatori professionisti di Call of Duty, Counter-Strike: Global Offensive, Gears of War, Smite e Playerunknown’s Battleground.

Fa strano sentire di un player professionista che si ritira a questa giovane età: negli sport tradizionali, come il calcio, siamo abituati a sentire di ritiri dal professionismo dopo i 35, o 40 anni. Eppure negli eSport, settore nato da poco, ma in grandissima espansione, tanto da ricevere grossi investimenti e apprezzamenti da figure storiche del gaming, come John Romero, e addirittura da parte del CIO, il comitato olimpico internazionale, il ritiro di Potthoff fa notizia. Com’è possibile ritirarsi dalle competizioni in giovane età? Ce lo spiega proprio lui, raccontando la sua storia.

Gli inizi di Matthew sono umili: il padre lo accompagna al suo primo torneo nel 2005, in una piccola esibizione per giocatori di Halo e Call of Duty. Burns ha partecipato a entrambi i tornei, riuscendo a vincere pure un premio, ma di entità inferiore a quanto pubblicizzato, e quindi il genitore sentenziò che gli eSport erano una truffa.

Tredici anni fa, la situazione del professionismo videoludico era molto diversa rispetto a quella che conosciamo adesso: nonostante piccoli tornei già attivi sul suolo americano, mancava la scintilla che avrebbe acceso la miccia degli eSport. Ci toccherà attendere quattro anni per l’exploit mondiale di League of Legends, e addirittura sei anni per il primo torneo milionario di Dota 2. Sei anni che ci separano pure dalla nascita di Twitch, fattore fondamentale per la crescita di questo settore.

Ma Potthoff aveva fiutato il potenziale del pro gaming, e cominciò a partecipare sempre a più tornei possibili, fino a vincere un free-for-all nazionale di Modern Warfare 3, portando a casa ben 25.000 dollari.
A proposito del suo iniziale approccio al professionismo, Burns ha dichiarato:

«Penso che molti giocatori possano capirmi: ai tempi usavo i videogiochi come uno strumento per sfuggire dalla dura realtà. I miei genitori si erano appena separati, e vivevo tra la casa di mia madre e quella di mio padre, e l’unico modo che avevo per non perdere i contatti con i miei amici era quello di giocare online insieme. Dopo qualche anno ho notato che avevo del talento, e che a scuola parlavano tutti di quanto fossi forte. Ma nonostante la creazione di DeathWisH, il mio team, ho deciso che era meglio accantonare il mondo degli eSport e concentrarmi sul college: solamente dopo essermi laureato in economia dell’intrattenimento ho deciso di ritornare a tempo pieno nel campo del gaming professionistico.»

Anche qui, sembra che il destino abbia compiuto un cattivo scherzo al ragazzo: solamente nel 2014, due anni dopo aver preso la laurea, è stata introdotta la prima borsa di studio dedicata agli eSport, a cura della Robert Morris University. Solamente due anni dopo sarebbe nata la National Association of Collegiate eSports, un ente che riconosce e gestisce programmi di eSport in più di 60 college americani e che punta a diventare l’equivalente videoludico dell’NCAA, la lega collegiale americana di sport come basket e football.

«Cos’avrei fatto se la scena professionistica di allora fosse come quella odierna? Probabilmente avrei lasciato il college per dedicarmi agli eSport al 100%. Dico così perché allora i salari erano molto inferiori rispetto a quelli odierni: quando avevo 21 anni guadagnavo circa 500 dollari al mese ed ero costretto a vincere tornei per portare il cibo in tavola. Adesso ci sono ragazzi di 16 o 17 anni che guadagnano quanto guadagnavo a 21 anni, e hanno tutto il tempo per migliorare le loro abilità.»

La questione dei salari merita un approfondimento: l’industria degli eSport è in crescita e si sta stabilizzando, con giochi di prima fascia come League of Legends oppure Overwatch dove sono stati istituiti i salari minimi per i giocatori professionisti, rispettivamente a 75.000 dollari per il MOBA di Riot Games e 50.000 dollari per il titolo di Blizzard. Però non sono tutte rose e fiori, e anche un sistema in rapida crescita presenta delle discrepanze: infatti Call of Duty non garantisce un salario minimo e non ha le stesse regole dei due giochi citati in precedenza.

All’epoca anche la CWL Pro League, il campionato mondiale di Call of Duty, era strutturato in un modo diverso: veniva usato un sistema simile ai campionati calcistici europei, con promozioni e retrocessioni, dove la squadra con più punti partecipava ai mondiali, dove il premio consiste in 1,4 milioni di dollari. Era lo stesso sistema usato da League of Legends e Overwatch, almeno fino allo scorso anno, dove sono stati introdotti i salari minimi – come citato prima – ma soprattutto, il passaggio dai team a veri e propri franchise, adottando quindi un modello simile a quello che si vede sui parquet dell’NBA o negli stadi della NFL.
Anche a causa del sistema non al passo con i tempi della CWL, Potthoff, ha deciso di ritirarsi, dopo la sconfitta decisiva per 4-3 in un’entusiasmante duello tra gli H2K e il suo team, i Liquid.

«Vincere quella serie avrebbe rilanciato la mia carriera, oltre che aumentato il mio stipendio. Avrei potuto vivere tranquillamente per 8-9 mesi, ma è andata male, e non c’era un torneo da disputare per 4-5 mesi. Avevo pure smesso di giocare, perché la ferita era troppo profonda. Ho riprovato a tornare in carreggiata con un paio di tornei dove sono arrivato tra i primi 24 e i primi 16, ma lì ho capito che non c’era più niente da fare, e quindi ho appeso il pad al chiodo.»

Burns aveva deciso di mollare la vita da pro-player, ma non quella del mondo che ha amato per anni: a 26 anni, nel 2016, entra in eUnited prima come head coach e adesso ricopre la carica di general manager, dove si occupa dello sviluppo e del recruiting di molti giocatori giovani.
A proposito di quest’incarico, Potthoff dichiara:

«Abbiamo anche reclutato quattro giocatori minorenni, ma non metterò mai gli impegni del team prima dei loro obblighi, come scuola e famiglia. Ma ci stiamo impegnando per renderli dei veri professionisti: personalmente penso che siano già a un buon livello, e la loro giovane età li mette in un’ottima posizione, visto che sono gli unici giocatori minorenni della comunità professionista di Call of Duty, e vogliamo dare il giusto input per far partire la loro carriera da pro-players, così come loro vogliono mettercela tutta per riuscirci.»



Come sopravvivere nell’indie game development

Dopo aver lavorato con Insomniac e con RWS, Nathan Fouts si è dato al mondo indie, sfornando, giochi con la sua casa Mommy’s Best Games. Al momento sta lavorando a Pig Eat Ball, un arcade tra Super Mario Galaxy e Pac Man con componenti da puzzle game e, proprio alcuni giorni fa, è stato interpellato da GamesIndustry.biz e ha fornito le sue 22 “regole” per sopravvivere nel mondo dell’indie games.
A capo di Mommy’s Best Games dal 2007, Fouts premette di essere l’unico sviluppatore impiegato full-time in azienda e di avvalersi (dietro compenso) di vari amici per varie programmazioni, per musica, level-design e story-writing, in relazione al singolo progetto, per poi raccontare punto per punto la ricetta del suo successo:

1. Ho lavorato su titoli tripla A per 10 anni. Ho messo da parte dei soldi, con i quali abbiamo iniziato.
2. Mia moglie lavora a tempo pieno. Questo aiuta immensamente.
3. Vivo in Indiana. Il costo della vita è basso; la qualità della vita è alta. È meraviglioso. Vivere in un posto dove si vive bene ed è economico aiuta tantissimo.
4. Il nostro primo gioco, Weapon of Choice, è andato abbastanza bene. Ci ha fatto vincere dei soldi in un contest. Applico per circa una dozzina di contest ogni anno.
5. Ho lanciato Weapon of Choice sulla piattaforma XBLIG. Microsoft ha apprezzato il nostro gioco e l’ha appoggiato. Questo ha aiutato.
6. In alternativa ho provato a lanciare un gioco su Ouya. Non è andata bene, ho sprecato soldi. Mi piace quindi cercare settori di gioco meno battuti, li vedo come luoghi di crescita.
7. Ho insegnato “Introduzione al Game Development” in un corso per  il doposcuola nella scuola dei miei figli per fare dei soldi extra. Ho accresciuto il mio curriculum. Agli studenti è piaciuto. Ho usato Construct 2 per ragazzi di 8-14 anni.
8. Insegno Unity 3D in alcuni campi estivi. Ci sono ragazzi un po ‘più grandi, ma che ancora non conoscono la programmazione, quindi affrontiamo C # in punta di piedi. Anche lì guadagno dei soldi.
9. Nei cinque anni in cui ho lavorato per realizzare il nostro gioco di prossima uscita, mi sono fermato ogni tanto per realizzare piccoli giochi mobile più piccoli. Giochi come Finger Derpy nel 2015 e Emoji Scream nel 2016. Questo ha ricaricato il mio entusiasmo per il gioco principale. Tuttavia, quei giochi più piccoli non hanno guadagnato abbastanza denaro per coprire il loro tempo di sviluppo. Non lasciate che i “progetti di ricarica” vi ​​sfuggano di mano.
10. I giochi le cui vendite sono abbastanza morte, li ho messi in bundle. Fai un po ‘di soldi anche così. Ma mai Shoot 1UP. è il gioco più prezioso. Assicuratevi di capire dove risiede il vostro valore.
11. Ho pubblicato otto giochi commerciali in 11 anni. La maggior parte sono andati bene, alcuni no. Rilasciare un gioco ogni 10 anni e vendere milioni di copie può essere un metodo alternativo.
12. Mi sforzo di fornire un ottimo customer servicce. Ho giochi su Steam che sono vecchi di anni ma continuo a far parte della community, entro ogni tanto per controllare. Rispondo a tutte le email dei clienti che mi arrivano. Ho visto molti giochi lasciati a morire senza supporto agli utenti, e questo mi rattrista.
13. Supporto la rimappatura dei comandi e l’accessibilità nei giochi. Questo amplia il pubblico e consente a più persone di apprezzare il proprio lavoro.
14. Mi piace bypassare le grandi vendite di Steam e gestire le nostre vendite su Steam. Con i nostri giochi più piccoli a volte loro lo fanno meglio, questo ci permette di non perderci.
15. Ho fatto accordi con negozi cinesi online. Non sembra influire sulle vendite di Steam. Ho fatto un po ‘di soldi così, forse era un azzardo.
16. Ho fatto un lavoro a contratto per studi tripla A nel frattempo. Sono bei soldi, se ottenieni una commessa simile. Tieni occhi e orecchie aperte.
17. Ho un debole per il merchandise. Ho realizzato t-shirt per molti dei miei giochi. Palline soffici, frisbee, pick-picker. L’ho annotata come voce di marketing. Probabilmente è stato uno spreco di denaro, ma è divertente.
18. Ho lavorato su cinque educational game nel corso degli anni. Soldi in parallelo al lavoro principale, anche lì. Alcuni di quei progetti però sono andati oltre il tempo dovuto, e l’impegno non è valso l’introito.
19. Il mio motto è «tieniti sempre in agitazione».
20. E anche «Fai delle pause per preparare torte».
21. E ancora «Le lunghe passeggiate fanno parlare il tuo cervello»
22. Quest’ultimo [punto] è strano, ma probabilmente lo capirai.



Lo squilibrio tra uomo e donna nell’industry videoludica

La disuguaglianza di genere nel mondo del lavoro non è certo una novità e purtroppo l’industria dei videogiochi non fa eccezione. È stato da poco reso noto da Gamesindustry.biz, che ha stilato una serie di grafici che mostrano la situazione lavorativa delle donne in alcune delle software house più importanti presenti nel Regno Unito come EA, Rockstar, Namco, King, Sumo Digital e molte altre.
Secondo i dati, in media in UK un uomo guadagna il 9,7% in più di una donna, tasso che raggiunge il 17,85% nel mondo dei videogiochi.

Da questo punto di vista, il podio è occupato da Sumo Digital, Rockstar e Codemasters, raggiungendo rispettivamente 34,5%, 31,8% e 27,9% e superando anche più del triplo la media nazionale. La situazione si capovolge con PlayNation (5,9%), Namco e Game, che sono le uniche aziende a pagare in modo equo indipendentemente dal sesso. Un caso sicuramente unico è quello di Inspired Gaming, che retribuisce le donne l’1% in più rispetto alla controparte.

Parliamo ora dei quartili: in media nelle aziende del Regno Unito solo il 38,9% delle lavoratrici rientra in quello principale, nel nostro campo si scende addirittura al 13,9%, il che dimostra quanto il “sesso debole” sia sottorappresentato.

Normalmente, il quartile più basso è composto per il 46,4% da uomini e per il 53,5% da donne contro il 72,7% e 27,3% dell’industry videoludica; nel medio-basso la presenza maschile e femminile è rispettivamente del 50,6% e 49.3% paragonata con una percentuale pari a  77,8% e  22,1%. Nel quartile medio-alto invece la differenza è ancor più marcata: se generalmente vi è quasi una parità tra uomo e donna (54% e 45%), nel mondo dei giochi c’è praticamente un abisso che li divide (83% e 16,9%).

La compagnia dove è presente il maggior numero di donne nei quartili più alti è King, seguita da Namco, EA e Microsoft. Per la seconda volta invece, Sumo Digital risulta la peggiore, avendo in ognuno dei suoi quartili non più del 2,5% composto da donne.

Per quanto concerne la presenza di individui di sesso femminile nel quartile più basso, la situazione sembra essere leggermente migliore: infatti sia King che Namco superano sia la media del loro settore (oltrepassata da altre sei compagnie) che quella nazionale, raggiungendo un buon 55%.

I guadagni bonus ricoprono un ruolo importante nella “videogames industry“, essendo molto più facile riceverne in questo settore piuttosto che in altri, ma nonostante ciò le lavoratrici non sono quasi mai messe in pari. Infatti, nonostante buona parte delle software house prese in esame superi di gran lunga la media nazionale  dei guadagni bonus, solo in tre di queste (Sumo Digital, Microsoft e Gaming Technology) sono ottenuti in numero maggiore da donne.

L’ultima statistica su cui Gamesindustry si è concentrata riguarda il quanto guadagni in bonus una donna per ogni sterlina ricavata da un uomo.

Mediamente la paga per ogni sterlina è di 66 centesimi, terribilmente abbassati da Rockstar, che ne paga solo 16. Fortunatamente non sono pochissime le compagnie che superano la media, come Gamesys e Microsoft che sfiorano le 0,90 sterline.
Sembra proprio che la strada verso l’uguaglianza di stipendio tra i due sessi sia ancora lunga, e il fatto che la presenza femminile nel mondo del lavoro videoludico sia molto bassa non aiuta quelle aziende che cercano come possono di valorizzarla.




Ratchet & Clank: 15 anni e non sentirli

Sono trascorse un paio di settimane dalla GDC (Game Developers Conference), quando il team Insomniac, salì sul palco per parlare dei 15 anni di storia, di una delle loro IP più conosciute: Ratchet & Clank. Ma gli interventi dello stesso team di sviluppo, sono stati tutt’altro che celebrativi per quanto riguarda la famosa saga.

Il regista Brian Allgier dice:

«Protagonista del gioco, in principio, sarebbe dovuto essere una ragazza con un bastone, una sorta di mash-up tra Zelda e Tomb Raider, ma quest’idea purtroppo non era ben vista dal team, che avrebbe dovuto lavorare poi sul gioco. A quel punto Ted Price (Presidente di Insomniac) decise di troncare quel concept che era stato intitolato appunto “Ragazza col bastone”. Era il 2001, Insomniac aveva 35 dipendenti che stavano lavorando al progetto e avevano bisogno di una nuova idea vincente. Il capo-ufficiale creativo, Brian Hasting, annotò una frase molto generica sulla lavagna degli appunti “un alieno, che gira tra i pianeti raccogliendo armi e gadget”, il team accolse positivamente da subito la nuova proposta, era un idea semplice ma aveva funzionato.»

Dopo aver cestinato un paio di concept, il team riesce a concretizzare finalmente i primi progetti di Ratchet, soprannominato “Lombax” da Ted Price, e del suo aiutante Clank. Inizialmente la squadra aveva pensato di metterne uno a capo dell’altro ma poi optarono per porli allo stesso livello. L’intenzione sin da subito, fù quella di creare qualcosa che fosse un mix tra il poliziesco Arma Letale e i cartoni animati del sabato mattina.
Durante la stesura del prototipo, il team non riuscì a far sì che la tecnologia PS2 iniziale gestisse correttamente il gioco, per questo motivo quindi lavorò fianco a fianco con Mark Cerny per ottimizzare la tecnologia della console Sony, che una volta migliorata, permise finalmente a Ratchet & Clank di vedere la luce.

«Il primo gioco era innovativo e fatto bene – dice insomniac alla GDC –  Ma era più un gioco di ruolo e le armi sembravano quasi opzionali. I due personaggi Ratchet e Clank non avevano moltà profondità, anche Ratchet stesso risultava essere borioso, sarcastico e non eccessivamente simpatico».

Insomniac, decise di concentrarsi sul contorno, personaggi, armi e humor, a partire dal secondo capitolo, Fuoco a Volontà (2003). Quando successivamente arrivò anche il terzo, Up your arsenal (2004), fu un vero e proprio successo per il franchise. Finalmente Ratchet & Clank aveva una propria personalità ben definita: era un gioco in perfetto equilibrio tra un platform e uno shooter, che raccontava una vera storia d’amicizia, con un contorno di armi fantasiose e gadget intelligenti, arricchito dalla possibilità di esplorare i pianeti. Un gioco pieno di colori vivaci e umorismo.

Nel corso del GDC, Insomniac ha voluto sottolineare solamente dove e perché, il team ha deluso le aspettative dei propri fan. Dal terzo capitolo in poi, lo studio aveva evoluto con successo la serie da un “platform con un carattere da sparatutto”, a uno “sparatutto con un carattere da platform”.
Eppure, nonostante tutto, Insomniac stava iniziando a preoccuparsi sempre di più che i giorni del “personaggio mascotte” stavano per finire. Sentiva che era necessario cambiare qualcosa per mantenere la serie sull’onda del successo, il tutto racchiuso nelle parole di Brian Allgeier:.

«Adattati o muori, ascolta ciò che i giocatori vogliono, osserva le tendenze e amplifica ciò che contraddistingue il tuo gioco».

Lo studio sentiva di aver raggiunto il vero successo con Up Your Arsenal, ma la filosofia “adattati o muori” applicata da quel momento, avrebbe inevitabilmente portato a un “crollo”. Per evitare che il franchise stancasse i fan infatti, il team di Insomniac, ispirato dalla serie Halo, produsse, nel 2005 sempre per PS2, Ratchet: Deadlocked (conosciuto anche come Gladiator). Era stato rimosso Clank dal nome («non è stato bello», ammette lo studio, che era pesantemente combattuto) e il gioco non includeva il popolare Qwark. Insomma, il titolo non aveva più tutte quelle caratteristiche che avevano reso un successo Ratchet & Clank e il risultato fu infatti, che ai fan non piacque, tanto che sia Allgeier che TJ Fixman (lo scrittore della serie), ammisero di aver commesso un grande errore allontanandosi da quella che era l’idea originale della serie, nello sviluppo di questa nuova veste di gioco non proprio azzeccata.

Insomniac, a quel punto, sapeva che in futuro avrebbe dovuto attenersi il più possibile al DNA del gioco originale, cosa che fece quando nel 2007, sviluppò il quinto capitolo della serie: Ratchet & Clank: Armi di Distruzione, sui sistemi PS3. Fu una sfida ardua per il team, quella di effettuare un restyling completo passando da una generazione a un’altra, ma alla fine riuscì nel proprio intento, creando nuovamente quello che era per i fan il vero Ratchet & Clank di un tempo, ma questa volta con una veste del tutto rinnovata. Praticamente un successo, o quasi, poiché a molti fan non piacque il finale, che vide Clank rapito dal misterioso Zoni. Così il team decise di dare qualcosa ai giocatori per rimediare, sviluppando un anno dopo un breve DLC, chiamato Alla ricerca del tesoro, che mise una pezza al buco creato dalla precedente storia, introducendo anche diverse novità al gioco, come i dialoghi, i puzzle-game e altro.

Proprio perché non era un vero e proprio capitolo di Ratchet & Clank, Alla Ricerca del Tesoro, permise al team di osare sotto alcuni punti di vista tecnici, ma anche di dare un filo logico a quello che poi sarebbe stato il successivo, e ultimo capitolo, della serie, che arrivò poi nel 2009 con A Spasso nel Tempo: un successo indiscusso sotto ogni punto di vista che vide, nel finale, anche l’annientamento del super-cattivo Nefarious in una delle basi spaziali.

L’epilogo della serie andò talmente bene che Sony pretese da Insomniac che si rimettesse a lavoro su un ulteriore capitolo della serie. Inizialmente cercarono di evitare questa forzatura narrativa che aveva visto il suo capolinea nell’ultimo gioco, ma alla fine i fan e Sony ebbero la meglio, convincendo Insomniac a rimettersi in carreggiata e pubblicare nel 2011, Ratchet & Clank: Tutti per Uno, che costrinse anche TJ Fixman a modificare il finale della serie trovando un modo per non far sfuggire Nefarious al suo destino che sembrava essere stato già designato, e che, per volere di Sony, doveva essere presente nel nuovo titolo. Alla fine, Tutti per Uno risultò essere uno dei migliori spin-off della serie, ma purtroppo non ebbe il successo sperato. Successo che arrivò invece due anni dopo, nel 2013, con Nexus, ultimo capitolo della serie, una storia breve ma ben sviluppata.

Da quel momento Insomniac e Sony avevano deciso di comune accordo di mettere da parte il franchise.

Almeno finché, nel 2016, non venne nuovamente tirato fuori da Kevin Munroe e Jericca Cleland che diressero per il grande schermo, Ratchet & Clank: film d’animazione basato sul gioco, ma che si allontanò troppo dalla mitologia originale dell’IP per l’adattamento cinematografico.
Allgeier decise così di sfruttare la corrente e creare al contempo anche un nuovo titolo, per PS4 questa volta: «Un gioco basato sul film basato sul gioco», dice scherzando. Proprio per aggirare il problema creatosi con il filo narrativo della pellicola cinematografica, TJ Fixman decise di affidare la narrazione a un personaggio improbabile e poco raccomandabile,  il capitano Qwark, giustificando così alcune eventuali incongruenze narrative.
Il remake di Ratchet & Clank fù un vero e proprio successo, con numeri che non si vedevano dai tempi dei vecchi titoli su PS2.

Allgeier conclude:

«Dove la serie andrà a parare in futuro non è certo, ma una cosa lo è, “adattarsi o morire” è una opzione, ma allontanarsi da quello che è il DNA del gioco, è un errore. Abbiamo imparato tutto ciò che potevamo sulla chiave del successo di Ratchet & Clank, lo abbiamo migliorato e aggiornato. Adesso ci spingeremo verso l’ignoto!».



I disturbi mentali derivanti dallo sviluppo degli Indie

Lo stress causato dallo sviluppo di videogiochi indipendenti si fa sempre più concreto: l’ansia si accumula durante le fasi finali del rilascio di un nuovo titolo, portando alle volte a depressione e mancanza di comunicazione all’interno del team.
Questi disturbi sono da anni studiati dall’organizzazione Take This, fondata nel 2013 dai giornalisti Russ Pitts e Susan Arendt, insieme allo psicologo Dr. Mark Kline. I giornalisti sono rimasti scioccati dopo aver saputo del suicidio di un loro collega nel 2012, aprendo un blog (chiamato appunto Take This) per discutere di tutte le malattie mentali scaturite nel settore dei videogiochi. Successivamente, il blog sbocciò in una organizzazione no-profit che fornisce risorse e aiuti ai dipendenti che riscontrano tali difficoltà. Inoltre, ospita l’AFK Room durante le principali fiere di tutto il paese, offrendo spazi tranquilli, gestiti da medici autorizzati, per chiunque si senta sopraffatto dallo stress, derivante oltre che dalle brevi scadenze lavorative, anche da rumori assillanti nello spazio di lavoro o le continue vibrazioni dovute agli impianti Hi-Fi presenti.

Kate Edwards e Mike Wilson, rispettivamente il Direttore Esecutivo di Take This e co-fondatore di Devolver Digital e Good Shepherd Entertainment (due tra le più importanti agenzie nel campo dell’editoria indipendente) stanno cercando di trasmettere a chi colpito da disturbi come ansia cronica e depressione, attraverso una campagna si sensibilizzazione, mandando un messaggio semplice ma d’impatto, su come combattere tutto questo: nessuna persona in queste condizioni è sola; tutti sono pronti ad aiutarle. Normalmente i medici definiscono questi problemi come stigmatizzazione, ovvero etichettare qualcuno, spesso con atteggiamenti negativi, rifiutando di capire la vera natura del problema. Lo stigma che accompagna la malattia mentale crea un circolo vizioso di alienazione e discriminazione, intesa come privazione di diritti (in casi estremi) o lo sfruttamento di tale situazione al fine di trarne qualche beneficio, a tal punto da far diventare anche la famiglia e gli amici dell’interessato parte integrante del problema. Un’altra causa è l’avanzamento della tecnologia, che ha permesso a sempre più persone di lavorare da casa; ma questa evoluzione può essere un’arma a doppio taglio, impedendo agli sviluppatori di interagire con la natura, gli amici, gli estranei e il mondo non digitale in generale.
Paradossalmente, è stato proprio un indie a parlare apertamente di tali problematiche: Ninja Theory, con Hellblade: Senua’s Sacrifice, ha portato avanti uno studio approfondito – e necessario – su pazienti che, anche se non del settore, hanno sofferto e soffrono tuttora di diversi disturbi di questo tipo.
Lo sviluppo di un videogioco può risultare esaltante da un punto di vista esterno, ma leggendo tra le righe delle varie interviste, presentazioni e annunci, è possibile scorgere un mondo nascosto e talvolta, costruito su mille difficoltà.




Un nuovo Banjo Kazooie potrebbe arrivare su Nintendo Switch

Il genere platform è stato da sempre uno di quelli che si è meglio adattato al 3D; c’è stato un periodo, esattamente nel passaggio dalla generazione 16-bit alla 32/64-bit, in cui tutti giochi sarebbero dovuti diventare tridimensionali, indipendente dal loro genere, ma questa decisione non giovò per molti titoli (basti pensare a Castlevania su N64, Contra: Legacy of War su Sony Playstation e Sega Saturn o l’orrendo Bubsy 3D). Super Mario 64 dimostrò al mondo come il platform poteva funzionare, ma soprattutto evolversi, nelle console di nuova generazione; in uno scenario in cui in molti tentavano di dare la miglior definizione di platform 3D, come la Sony Computer Entertainment con Spyro the Dragon, uscì un platform che riscrisse le regole di un genere quasi ancora agli albori: stiamo parlando di Banjo-Kazooie, titolo di Rare uscito esclusivamente su Nintendo 64 nel 1998. Lo studio inglese non solo andava d’accordo con Nintendo ma lo era ancora di più con l’innovazione: già ai tempi dello SNES tirarono fuori Donkey Kong Country, titolo che utilizzava l’allora innovativa grafica 3D pre-renderizzata, e su Nintendo 64, Rare finì per gettare le basi per gli FPS moderni con Goldeneye 007.
Banjo-Kazooie prese i concetti di Super Mario 64, gioco già innovativo di suo, e li espanse: il titolo, che vedeva un orso campagnolo e un picchio rosso chiacchierone (o meglio, chiacchierona… sì, Kazooie è femmina) al salvataggio della sorella del primo, presentava un overworld e livelli più espansi, una storyline e dei personaggi più definiti, mosse e meccaniche sempre nuove ma soprattutto tantissimi oggetti da collezionare (tanto che fu coniato il termine  “Collectathon” per descrivere giochi simili a questo). Rare utilizzò più in là lo stesso motore grafico per produrre Donkey Kong 64, Conker’s Bad Fur Day ma soprattutto l’ancora più espanso sequel Banjo-Tooie, rilasciato verso la fine del ciclo vitale del Nintendo 64.

Il passaggio a Microsoft

Le relazioni fra Nintendo e lo studio inglese sembravano solide, ma nel 2002 Rare terminò i rapporti con la compagnia di Kyoto e diventò sviluppatore esclusivo Microsoft; alcuni diedero la colpa alla vicenda relativa a Dinosaur Planet, che nelle ultime fasi dello sviluppo diventò Star Fox Advetures per volere di Nintendo (sconvolgendo anni di sviluppo con risultati non esaltanti), ma Tim Stamper, co-fondatore della compagnia insieme al fratello Chris, in un intervista al Develop Awards 2015 dichiarò di «non avere idea del perché Nintendo non comprò mai gli interi asset da Rare». Molti fan concordano nel dire che l’acquisto da parte di Microsoft non fu la cosa migliore per Rare e ciò è dimostrato dai titoli poco convincenti usciti nel tempo per Xbox e Xbox 360, come Grabbed by the Ghoulies e Kameo: Elements of Power; tuttavia il mondo tremò quando su internet apparve il trailer di un nuovo gioco della saga di Banjo-Kazooie.
Questo nuovo titolo sembrava essere un platformer come i due giochi precedenti ma quello che ne venne fuori, più in là, fu Banjo-Kazooie: Nuts & Bolts, un titolo che aggiunse meccaniche superflue e che stravolse (in negativo) la formula classica. Sebbene i fan distrussero quel gioco (gli stessi che gli fecero ottenere l’etichetta “Platinum Hits”, il che significa che il gioco vendette almeno 400.000 copie nei primi nove mesi dall’uscita) Microsoft ha dimostrato di aver creduto nel progetto, sia prima che dopo il rilascio di questo gioco; Banjo e Kazooie apparvero successivamente in Sega All-Star Racing come DLC esclusivo per Xbox 360 e Nuts & Bolts è apparso di recente all’interno della collezione Rare Replay insieme ai primi due titoli per Nintendo 64, ricordando ai fan che questo discusso titolo non è semplicemente una parentesi (e anche che non è così brutto come lo si dipinge). Con queste recenti uscite Microsoft ha forse dichiarato di non aver intenzione di terminare la saga e che conosce il valore di Banjo-Kazooie nella storia dei videogiochi; sicuramente aspettano il momento ideale per lanciare un nuovo titolo della saga, che è in stallo dal 2008, e forse adesso è arrivato il momento di tornare a sperare.

Una nuova speranza

Oggi il landscape videoludico è ben diverso da quell’ormai lontano 2008: Microsoft non è più in testa nella console war ma accedere al catalogo della Xbox One è molto semplice per via del fatto che il suo catalogo è in condivisione con gli utenti PC. Phil Spencer, leader del brand Xbox, ha già dichiarato di essere propenso nel portare alcuni dei loro titoli di punta sulle altre console; ancora più interessante fu la sua risposta positiva a un utente che, su Twitter, gli chiedeva se gli fosse piaciuto vedere Banjo e Kazooie nell’appena annunciato Super Smash Bros per Nintendo Switch.

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Contemporaneamente, Craig Duncan, CEO di Rare, ha anche dichiarato di essere disposto a concedere le loro IP per lo sviluppo a terze parti quindi, in realtà, l’idea di vedere questa strana coppia nel fantastico picchiaduro crossover non è necessariamente campata in aria. Se è per questo Rare, ai tempi dell’acquisto da parte di Microsoft, rimase in buoni rapporti con Nintendo poiché l’esclusività, in realtà, si limitava alle sole console casalinghe: lo studio inglese ha infatti sviluppato diversi titoli per Gameboy Advance, come Sabre Wulf, i porting di Donkey Kong Country e addirittura Banjo-Kazooie: Grunty’s Revenge e Banjo Pilot, ben due titoli relativi al franchise.
Tuttavia, molti dei developer chiave che lavorarono per i titoli del Nintendo 64 non sono più in Rare e hanno fondato Playtonic Games, lo studio che di recente ci ha portato Yooka-Laylee, titolo posto come il sequel spirituale di Banjo-Kazooie; il progetto fu un successo istantaneo su Kickstarter ma alla consegna del gioco i fan trovarono sì un buon gioco ma non all’altezza dei titoli di cui si poneva come sequel spirituale. Adesso, con Microsoft disposta a portare alcuni dei suoi più grandi titoli al di fuori del suo “campo”, Rare disposta a cedere le sue IP per lo sviluppo e anche Playtonic coinvolta con tutte le compagnie in questione (in quanto lo studio, come già ribadito, è formato da ex dipendenti Rare e Yooka-Laylee è presente sia su Xbox One che su Nintendo Switch) le possibilità di rivedere un nuovo titolo di Banjo-Kazooie in una console Nintendo, dove nacque il fenomeno Rare, esistono; Playtonic potrebbe tranquillamente essere tirata in ballo per lo sviluppo di una IP di cui ne conoscono le meccaniche e la filosofia generale e, una volta completato il processo di produzione, potrebbe apparire sia su Xbox One che su Nintendo Switch, console la cui utenza potrebbe meglio valorizzare un titolo come Banjo-Kazooie. Se Mega Man 11, dopo l’esperienza di Mighty No. 9, sta per rilanciare una saga in stallo da anni lo stesso potrebbe accadere per il noto platformer della Rare e, visto che le possibilità ci sono tutte, a noi non resta che incrociare le dita e sperare di ricevere un nuovo titolo di Banjo-Kazooie per Switch in futuro, o magari di vedere i due bizzarri personaggi nel picchiaduro crossover che uscirà in questo 2018!