Duke: la storia di un pad che ha rivoluzionato il mercato console

Se siete videogiocatori conoscerete sicuramente il pad Xbox e le sue particolarità, ma non tutti sanno che prima di avere un prodotto super compatto ed ergonomico, come quello della One, ci sono voluti anni e anni di continui test e ricerche mirate che, in precedenza, hanno portato alla creazione di uno dei controller più criticati e discussi della storia delle console. Stiamo parlando del Duke, un pad quasi il triplo più grande del DualShock PlayStation e quindi molto più pesante e ingombrante.
Non tutti conoscono la storia della creazione di questo controller e della fatica di  Microsoft nel realizzarlo.

La principale ideatrice fu Denise Chaudhari, prima donna a entrare nel team Xbox ed esperta di design industriale ed ergonomia. Chaudhari però, non aveva mai avuto a che fare con controller ma questo, l’ha aiutata a entrare nel team, visto che la sua idea non era condizionata da scelte di design e funzionalità di terzi.
Chaudhari non cominciò la progettazione del controller da zero, ma è stata aiutata dal direttore creativo di Xbox Horace Luke, fornendole alcuni schizzi e dei prototipi dei circuiti di base. Questi circuiti, però, erano grandi, ingombranti e soprattutto erano stati stampati su un’unica pista che di certo non facilitava la creazione di un prodotto maneggevole e delle dimensioni ridotte, al contrario del Dualshock di PlayStation che prevedeva un circuito stampato su due piste differenti e poi sovrapposte per salvare spazio, creando di conseuenza un pad più piccolo.
La stessa Chaudhari cercò di replicare il progetto di Sony, ma trovò moltissima difficoltà nel lavorare con il produttore degli stessi circuiti Mitsumi, che ha rifiutato di lavorare con Microsoft, forse perché non giapponese ma americana. Questo episodio non scoraggiò il team Xbox che continuò a lavorare al progetto, creando le caratteristiche che ancora oggi ritroviamo nei moderni pad (stick analogici non paralleli, la disposizione dei tasti A, B, X e Y e molto altro).

Ma il problema non fu tanto il dover implementare delle sostanziali novità nel mondo dei pad per console, ma la dimensione: molti potranno sostenere che le dimensioni non contano, ma il popolo orientale la pensa diversamente. Infatti la divisione Microsoft Japan, al contrario del resto del mondo, disprezzava univocamente il controller; si pensa che abbiano anche consigliato ad alcuni sviluppatori giapponesi di non creare titoli per quella console se prima le dimensioni del controller non fossero state modificate, creando non pochi problemi alla casa di Redmond. Per questo, Chaudhari fu inviata, insieme a parte del suo team, nella terra del sol levante per riuscire a studiare e progettare le modifiche in base alle esigenze del mercato nipponico.
Al suo ritorno in America, però, non fu soddisfatta dei test effettuati, anche perché l’interprete giapponese era totalmente contrario al Duke, odiandolo con tutto il cuore e, secondo Chaudhari, aveva sicuramente omesso alcuni particolari per la realizzazione di un pad migliore; inoltre, la maggior parte delle lamentele erano rivolte alla grandezza del controller, cosa che ovviamente il team Xbox non si aspettava minimamente.
Ma anche se i risultati del test diedero esisto negativo: il 15 novembre 2001, in America, uscì l’Xbox e il pad contenuto nella confezione era proprio il Duke, senza alcuna sostanziale modifica nella forma. In Giappone, però, visti i risultati totalmente negativi, i progettisti industriali di Microsoft, crearono un Controller S, esclusivo per il mercato nipponico che uscì qualche mese dopo insieme alla console. Questo nuovo joypad era molto più piccolo rispetto al Duke originale (circa i due terzi) e apportava alcune modifiche, come la distanza e la disposizione di alcuni tasti o il loro colore.
Il lancio di questo nuovo controller ha avuto moltissimo successo rispetto al Duke, visto che la maggior parte degli utenti si lamentò della grandezza e della scomodità, e fu per questo motivo che ben presto il Duke, che si trovava all’interno delle confezioni delle console, furono rimpiazzati da questo nuovo modello.
Chaudhari è comunque orgogliosa del lavoro fatto, anche se nel giro di pochi mesi il suo controller, dopo moltissimi test e ricerche, è stato “cestinato” da Microsoft per fare spazio al Controller S. Questo perché ha lasciato un segno indelebile sullo stile e sull’ergonomia dei pad Xbox: basti pensare agli stick analogici che oggi come oggi sono un segno distintivo dei controller Xbox.




Il real time strategy in VR alla portata di tutti

La realtà virtuale si è ritagliata il suo piccolo spazio di nicchia nel mondo videoludico, tutto questo nonostante i prezzi non ancora accessibili a tutti e le esose richieste hardware. Ma, a dispetto di queste barriere iniziali, il settore riceve costanti investimenti di denaro da parte delle aziende, come Facebook con Oculus.
Nella scena VR, gli sviluppatori cercano di programmare giochi in grado di attirare i cosiddetti giocatori “hardcore”, così da convincerli a provare l’esperienza virtuale: è il caso di Brass Tactics, strategico in tempo reale disponibile per Oculus Rift e ideato dal creatore di uno degli RTS più celebri della storia, ovvero Age of Empires II.
Gli RTS sono forse il genere più complicato da portare in VR, visto l’intricato sistema di gestione delle unità e della mappa, ma Jeff Pobst, CEO di Hidden Path Entertainment, studio di sviluppo a lavoro sul gioco, commenta così:

«Gli strategici in tempo reale hanno un’interfaccia complicata così come tante caratteristiche e menu di gioco. Abbiamo passato sei mesi a sperimentare sul layout della mappa e sull’interfaccia. Essendo un gioco in realtà virtuale, abbiamo scelto di non affidarci a due degli stilemi classici degli RTS, come i menu e l’UI su schermo e, avendo una visibilità limitata dal visore, abbiamo deciso di dare tutte le informazioni delle proprie unità direttamente sulla mappa. Come se si stesse giocando a un gioco da tavolo, ma con la complessità e la varietà di uno strategico in tempo reale.»

Il gioco è stato costruito attorno ai controller Oculus Touch, che offrono non solo le classiche levette analogiche e tasti a cui i giocatori sono abituati da sempre, ma anche i motion control che tendono a essere più intuitivi per i neofiti. L’interfaccia 3D è basata su una versione simile dell’Unreal Editor usata da Epic Games, che si riflette sul risultato di molti mesi di lavoro sulla creazione, lo sviluppo e, soprattutto, la direzione delle proprie unità militari.
Pobst ne parla a proposito:

«Abbiamo provato diversi modi per dirigere le unità, come puntatori laser e via dicendo, ma alla fine abbiamo deciso di implementare delle frecce direzionali, così da far vedere al giocatore la direzione delle proprie unità o l’azione, come un attacco alle unità nemiche. Abbiamo anche aggiunto dei modificatori alle levette analogiche, che permettono di dare degli ordini di attesa o di ritiro ai propri soldati. E abbiamo costruito un sistema chiamato SmartMove, dove viene analizzata l’area intorno alle proprie unità e quella dove ci si dirige, così il gioco cerca di compiere la scelta più intelligente per il giocatore: per esempio, se si è deciso di andare in ritirata, il gioco cercherà di non ingaggiare le unità nemiche.»

La navigazione nella mappa si effettua “afferrando” e “facendo scivolare” il tavolo di gioco. È un sistema di controllo atipico per quanto riguarda il genere, dove solitamente si usa il mouse e qualche hotkey della tastiera. Ma Pobst assicura che il sistema di controllo è stato pensato per essere comodo nelle mani del giocatore, oltre che intuitivo. Infatti, dichiara:

«Nonostante i controlli e la meccanica dietro di essi possono risultare complicati a una prima occhiata, dopo qualche minuto di gioco si può notare che i movimenti compiuti sono in realtà dei normali movimenti giornalieri. È una meccanica semplice e che non stanca il giocatore, quest’ultimo è un elemento per noi fondamentale: abbiamo ricevuto dei commenti entusiasti da parte di giocatori che volevano affrontare lunghe sessioni di gioco!»

A proposito delle lunghe partite, una delle discrepanze tra il VR e il gaming tradizionale è proprio legato alla durata: la realtà virtuale è basata su sessioni di gioco corte, che cozzano con le partite di durata superiore all’ora dei tradizionali RTS, e Pobst discute di essi come di un elemento molto importante nell’ottica di Brass Tactics:

«Abbiamo voluto prendere tutti quegli elementi tradizionali degli strategici e ridurre la durata delle partite ad almeno mezz’ora: per fare un esempio, abbiamo semplificato l’economia di gioco, come si vede poco dopo la conquista di una regione, le unità civili cominceranno a costruire strutture e sfruttare le miniere. Vogliamo concentrarci di più sulla tattica e sull’esperienza di gioco, rispetto alla produzione e allo sfruttamento delle risorse della mappa. Abbiamo rimosso anche la fog of war, quindi si vedrà tutta la mappa già a inizio partita.»

Brass Tactics è uscito lo scorso ottobre sullo store di Oculus, insieme a Brass Tactics Arena, una versione free to play del titolo completa di tutorial, campagna in single-player, multiplayer online e co-op, e, inclusa nel titolo vi è anche la possibilità di giocare contro i possessori del gioco completo.




Nuove idee contro la motion sickness dei visori VR

La cosiddetta Motion Sickness è una sensazione di nausea e malessere generale, provocata, per esempio, dai visori per la realtà aumentata. A oggi non si è ancora riusciti a risolvere questo problema, ma potremmo essere molto vicini alla soluzione grazie a delle idee davvero ingegnose e innovative. Eccone alcune:

Body Nav

Cos’è Body Nav? Body Nav è un congegno creato da un piccolo team di ricercatori del Texas, MonkeyMedia. Esso consiste nel impartire i comandi di movimento del player in game attraverso il movimento del corpo del giocatore stesso, eliminando così l’uso dei classici controller. Infatti, la principale, se non l’unica causa, di questo fenomeno è legata proprio al movimento o, per meglio dire, dall’assenza di movimento fisico da parte del corpo. I nostri occhi “capiscono” attraverso il visore che noi ci stiamo muovendo, creando confusione nel sistema nervoso.

Reliefband 

Quattro anni fa, Reliefband Technologies ha rilasciato un dispositivo indossabile per curare la nausea. Piuttosto che una soluzione per il solo settore VR, la band si rivolge a chi soffre di malattie croniche, dai classici malesseri dovuti ai mezzi di trasporto alle vertigini. La Reliefband funziona utilizzando la neuromodulazione, pungendo il nervo mediano sul lato inferiore del polso, stimolando e regolando i percorsi neurali del corpo, neutralizzando così questi disturbi.

Qualcom

Infine, la vera soluzione sarebbe quella di implementare migliorie direttamente nei visori, per avere una minima spesa ma un’ottima resa. E proprio questa soluzione sembra arrivare da Qualcom, nota azienda nel mondo delle CPU per dispositivi mobile, la quale ha annunciato alla GDC, un kit che promette un motion tracking completo degli occhi, e di ciò che ci circonda. Questo potrebbe essere quel qualcosa che potrebbe colmare il divario tra ciò che accade nel mondo virtuale e i dati che i sensi mandano al cervello.

Lente di Fresnel

La lente Fresnel permette la costruzione di ottiche di grande dimensione con una distanza focale ridotta. I nuovi studi aiuterebbero le lenti a gestire le transizioni dei frame in maniera continuativa e senza “scatti” eccessivi, che sarebbero alla base del disturbo, oltre alle cause già elencate. Il problema più grande con gli attuali visori di VR è che la risoluzione degli schermi non è abbastanza nitida  per la tipologia di immagini che il visore trasmette. Gli oggetti si confondono, con una cattiva transizione, creando delle difficoltà sia agli occhi che all’udito, dato che i visori constano anche di un audio 3D che viene riportato in cuffia. Quindi l’impiego di cuffie adatte e di qualità superiore e l’uso di queste lenti direttamente integrate nei visori potrebbe risolvere quasi del tutto il problema.

Dobbiamo dire però che non sono solo questi i problemi legati ai visori VR; in questo campo esistono ancora molte più domande che risposte. Uno di questa è la completa assenza di una concreta percezione del tempo passato all’interno della realtà virtuale. Vedendo però l’impegno nel riuscire a risolvere il problema del malessere, siamo abbastanza speranzosi nel fatto che un giorno riusciremo a godere di una realta virtuale davvero fruibile e senza complicazioni.




Dal 3DS allo Switch: l’evoluzione di Circle Entertainment

Circle Entertainment è un nome che sarà immediatamente familiare ai giocatori dei dispositivi marchiati Nintendo, grazie alla sua gamma di eccellenti titoli scaricabili su 3DS e Switch. Con IP del calibro di Mercenary Saga e World Conqueror alle sue spalle, la software house si sta preparando a rilasciare un nuovo titolo. Il team di Nintendo Life ha intervistato Thomas Whitehead, Product Manager, per conoscere il passato, presente e futuro della società giapponese. Circle Entertainment è sul mercato da oltre un decennio, quindi ha una lunga storia alle sue spalle. Whitehead, ha scoperto la società per cui lavora tramite il DSiWare (un gioco per DSi che può essere acquistato solo nel canale DSishop) e all’interno del 3DS eShop, dove la software house si presentava con un numero prolifico di pubblicazioni in Occidente, con giochi  dai temi bizzarri e con prezzi convenienti. Oltre 170 giochi di Circle sono stati pubblicati in varie forme, territori e piattaforme in oltre 12 anni.

Whitehead, ha affermato che la Circle Entertainment è vicina a un’altra software house, Flyhigh Works, descrivendole come un “duo editoriale”. A rafforzare la sua tesi ha aggiunto che il suo biglietto da visita è a doppia faccia: da un lato la Circle e Flyhigh sull’altro.
Il productive manager ha imparato molto dal suo periodo da editore di Nintendo Life, arrivando all’idea che i giocatori sono molto interessati i giochi in formato digitale. L’input principale, glielo ha fornito il Nintendo Wii, e il suo WiiWare, studiandone il funzionamento come poi fatto successivamente con DSi, 3DS, Wii U e Switch. Parte del loro successo, secondo Whitehead, potrebbe essere dovuto al fatto che i sistemi Nintendo non vengono inondati da tutti i principali giochi AAA, dando quindi più spazio a realtà minori che altrimenti non avrebbero modo di farsi notare. Tutto questo, è sospinto anche degli ottimi rapporti tra Circle e Nintendo, elogiando l’ottima disponibilità del colosso nipponico.
WhiteHead, è rimasto inoltre sopreso dallo strepitoso successo di Nintendo Switch. Nintendo è stata intelligente, creando un prodotto versatile e soprattutto curando la line-up nei suoi primi mesi di vita così da poter garantire almeno 3 giochi a settimana nel suo E-Shop. Il futuro è ancora incerto ma pare che il producer  abbia le idee chiare: si aspetta un arrivo di diverse tipologie di videogiochi come, per esempio, un mix di giochi per console e per PC in uscita su Switch.
Circle ha appena rilasciato World Conqueror X, mentre l’arrivo di OPUS: Rocket of Whispers Shelter Generations è imminente. La software house ha una lunghissima lista di videogiochi che verranno rilasciati strategicamente a seconda delle tendenze d’interesse globale, asiatico e occidentale.




La realtà virtuale secondo Chris Milk

Con l’uscita di Ready Player One nei cinema, l’argomento della realtà virtuale si fa sempre più diffuso e comprende molte più diramazioni. Oggi analizzeremo una di queste, quella della realtà virtuale in campo cinematografico, di cui uno dei pioneri è Chris Milk. Famoso regista e fotografo statunitense, Milk si è specializzato nella realizzazione di video musicali, che ha girato per molti nomi internazionali come Kayne West, U2Audioslave e molti altri ancora. Ultimamente ha intrapreso un progetto interessante, in grado di unire il mondo cinematografico con quello della realtà virtuale che, da un paio di anni a oggi, ha visto una vertiginosa scalata nel mercato in campo videoludico. Il suo primo progetto è stato un video musicale girato in VR, che riprendeva una cover di Beck Hansen, di un vecchio brano di David BowieSound and Vision. Ai tempi di questo primo progetto, la realtà virtuale era ancora agli albori e molto costosa, e quindi non tutti avevano la possibilità di creare questi video. Milk racconta che in precedenza si attaccavano digitalmente fra di loro molteplici filmati ripresi con le microcamere GoPro, per ottenere un effetto simile.  Secondo Milk la VR, ha molto più potenziale rispetto ai film, alle canzoni o ai libri, in quanto si potrebbero collegare molte esperienze più profonde, cosa che un normale libro difficilmente riesce a fare. In proposito Chris Milk dichiara:

«Un esempio semplice è che una canzone che è o è stata la tua canzone preferita quell’estate. Quella canzone e l’esperienza di quell’estate sono collegate insieme, e quando senti quella canzone ti riporta indietro a quel tempo. La VR ha il potenziale non solo di ricreare ciò che quella canzone significa per quell’estate, ma può farci ricordare l’intera esperienza. E se potessi tornare indietro e vivere quell’estate di nuovo attraverso la memoria scatenata da quella canzone? Come formato artistico è molto interessante: se è la tua tela, puoi dipingere un sacco di immagini interessanti su di essa.»

Infatti la VR è passata da semplice oggetto di curiosità tecnologica, a essere presente nelle conferenze cinematografiche più importanti tra cui Tribeca, Sundance, Toronto e Cinequest, fino a quando nel 2017 un progetto in VR, Pearl, fu persino nominato agli Oscar. Al Festival di Cannes del 2017, il progetto in VR di Alejandro G. Iñárritu, ha portato alla luce un’argomento molto scottante, quello dell’immigrazione clandestina tra USAMessico. Oggi la VR è molto diffusa anche grazie ai visori come PSVRHTC Vive Lenovo Mirage Solo e il nuovo visore di FacebookOculus Go, che verrà lanciato entro l’anno.

«Penso, e la maggior parte delle persone fa lo stesso, che avere un dispositivo indipendente che è solo per VR sia la soluzione migliore. I dispositivi attuali, legati a un computer, che si appoggiano su basi di ricarica, che si indossano e viceversa, sono barriere di accesso, ostacoli che devi attraversare per poter entrare in un’altra realtà. »

I filmati registrati in VR si fanno sempre più diffusi e la società acquisisce sempre più esperienza in questo campo, stimolando le case cinematografiche a investire in questa nuova tecnologia, producendo delle pellicole in VR che potrebbero avere molto successo. Ci vorranno ancora molti anni per avere il modello di VR definitivo e numerose innovazioni, ma il futuro corre verso la realtà virtuale.




PUBG: costruire hype a costo zero

Per molte persone, il successo di PlayerUnknown’s Battlegrounds è arrivato dal nulla. Ma come spiega Sammie Kang, community manager di PUBG, il risultato che possiamo apprezzare oggi, deriva da un progetto ben preciso e pianificato. Nel 2016, PUBG Corporation era ancora conosciuta come Bluehole, con un team di 25 persone che hanno lavorato insieme per circa 10 anni su Devilian, mmorpg fantasy. Queste le parole di Kang:

«Dovevamo avere un successo minimo, per promuovere il nostro videogioco a costo 0 su Twitch e sapevamo che questa, poteva essere la nostra prima strategia di marketing fin dall’inizio.»

La Bluehole non aveva la possibilità economica di pagare gli streamer di high-tier allo scopo di sponsorizzare il videogioco, dunque si rivolsero agli streamers mid-tier; quest’ultimi avevano l’unico interesse di portare qualcosa di nuovo sul loro canale creando qualcosa di unico. Purtroppo molti di questi streamer non disponevano di hardware e connessioni adatte per un contenuto esclusivo tripla A. Gli sviluppatori allora decisero che quella era un’occasione per offrire hardware e contenuti esclusivi agli streamer che ne necessitavano e in cambio, quest’ultimi avrebbero fatto del loro meglio per promuovere e sponsorizzare il gioco sul loro canale.

Dopo quattro mesi di sviluppo, il gioco era pronto per una closed pre-alpha, che ospitò 1100 tester e proseguì per 6 ore distribuite nel corso dei giorni a seguire.

Per capire meglio cosa desiderassero streamer e spettatori, Kang ha seguito su Twitch uno svariato numero di streamer e con alcuni di loro contribuito a creare uno speciale feeling tra sviluppatore e streamer. Kang, interessato molto dunque al parere delle persone allo scopo di migliorare il suo videogioco, si mette a disposizione di tutti, insieme al suo team, per rispondere a tutte le richieste ricevute, a tutte le ore del giorno.

Kang continua

«I content creators e gli streamer non sono strumenti di Marketing, molte case di produzione li pagano per giocare un videogioco, ma non saranno in grado in questo modo di creare una relazione di amicizia duratura. Gli streamer devono essere coinvolti emotivamente e per fare questo, abbiamo creato una situazione vantaggiosa per entrambi i lati.»



Siamo tutti utenti Microsoft

Da quando è nata la console war, è solito etichettare i vari giocatori in base alla piattaforma di gioco preferita: abbiamo i “sonari“, “nintendari“, “boxari“, “master race” e chi più ne ha più ne metta. Ma quello che il più della gente dimentica è che due dei grandi colossi dell’industria videoludica non si limitano, e sopratutto, non sono nati con lo scopo di produrre console di gioco (in realtà anche Nintendo aveva altri scopi, ne abbiamo parlato qui), dunque il far parte di una determinata categoria di utenti si dovrebbe estendere a tutti i prodotti che la suddetta “fazione di appartenenza” offre.

Prendiamo Microsoft: è nata come software house nel 1975 e la prima Xbox sarebbe arrivata solo 25 anni più tardi, ma è anche grazie a lei che abbiamo Windows, il pacchetto Office, Internet Explorer (che non sarà stato il top dei browser ma grazie lo stesso, zio Bill) e tantissimi altri prodotti, anche hardware, come i recenti Microsoft Surface e innumerevoli altri device come telefoni cordless, cuffie e webcam; per non parlare dell’acquisizione di Nokia. Per quanto riguarda il nostro campo, MS ha creato, oltre alle sue console, la saga di HaloFableAge of  Empires, Microsoft Flight SimulatorZoo Tycoon e inglobato la Mojang, diventando di fatto la proprietaria di uno dei giochi più diffusi di sempre, ovvero Minecraft.
Chiunque di noi ha usato o usa attualmente un videogioco, una componente, un cellulare, un computer, un software o qualsiasi altra cosa proveniente dall’azienda di Bill Gates, e questo ci rende di fatto dei boxari, o comunque, degli utenti Microsoft, il che ormai viene visto come un insulto – e non lo è – ma allo stesso tempo non decide le sorti della console war.
Giochi su un pc con Windows 10 e sfrutti Xbox Play Anywhere? Sei un boxaro.
Hai un computer che sfrutta un altro sistema operativo ma nella tua libreria di giochi ne hai almeno uno tra quelli sopracitati o usi un controller Xbox al posto della tastiera? Sei un boxaro.
Hai Minecraft sulla tua console Sony o Nintendo? Anche qui, sei un boxaro.

Quindi pensateci due volte la prossima volta che vorrete insultare il vostro amico che ha da poco comprato la sua Xbox One X, mentre a casa avete un computer con Windows 10, collegato a un indirizzo email su Outlook, rimpiangete l’ormai andato MSN e siete iscritti a molteplici canali Youtube che trattano Minecraft o uno qualsiasi di questi giochi.




Super Mario è comunista?

Ah, il buon vecchio Mario! Esiste un nome più di questo in grado di richiamare il videogioco? L’adorabile idraulico italiano è apparso in un’infinità di titoli Nintendo, per la gioia di milioni e milioni di giocatori con il suo spirito e il suo bel faccione baffuto. Tuttavia, nel tempo, è stata mossa l’ipotesi che Mario possa appoggiare strane tendenze politiche, una particolarmente opposta al mondo occidentale dov’è nato; stiamo proprio di quell’ideale tipicamente russo, quello più composto da lavoratori come lui, ovvero il Comunismo. Le idee, secondo alcuni, sono molto evidenti ed estraibili specialmente da Super Mario Bros., il titolo di lancio del NES che cambiò il landscape videoludico. Che dietro quel sorrisone, quegli «yahoo, mamma mia» ci sia un animo rosso fuoco in cerca di rivoluzione? Vi ricordiamo inoltre che questo sito parla di videogiochi, non di politica, e che queste sono in fondo teorie e/o segnali alla quale non è mai stata data una conferma dagli sviluppatori (né, quasi sicuramente, mai l’avranno); perciò prendete questo articolo con la giusta leggerezza, divertitevi e semplicemente immaginiamo il nostro Mario mettere una “X” sul simbolo del Partito Comunista del Regno dei Funghi – ci sarà nel suo Universo, no? Diamo uno sguardo a quegli elementi che, diciamo, meritano una seconda occhiata, ma prima torniamo un attimo a scuola!

Comunismo in 3, 2, 1…

Per capire questi elementi vi daremo velocemente un’infarinatura sul Comunismo e la sua storia, senza soffermarci troppo in nessun punto in particolare. Siamo nel bel pieno della Prima Guerra Mondiale, nel 1917, e la Russia, per far fronte alle spese belliche, decise di battere più moneta del solito; questo causò un’inflazione terribile, i prezzi del cibo salirono alle stelle (serviva un carretto di soldi solo per comprare un pezzo di pane) e la classe operaia, che lavorava in condizioni povere ed era sostenuta da una sanità carente, non vide alcun aumento nel loro salario. Il popolo non era affatto contento e la figura responsabile di tale povertà era solo una: lo Zar Nicola II. Fu da queste basi che partì la Rivoluzione di Febbraio, evento che portò all’abdicazione della famiglia reale. Si instaurò subito un governo provvisorio ma il popolo era ancora alla ricerca di un volto. Ecco che si fece avanti il Comunismo, un ideale, ispirato fra gli altri dalle idee di Karl Marx, che vedeva una società senza classi sociali in cui tutti, dai più poveri ai più ricchi, avrebbero beneficiato della ricchezza del paese; fu così che il Partito Bolscevico, con un colpo di stato, si insediò nel governo e diventò il nuovo scheletro della Russia nella cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre. Infine, ricordiamo le tre figure chiave della rivoluzione russa: il primo è Vladimir Lenin che guidò il partito nella Rivoluzione d’Ottobre e tentò di trasformare la Russia in uno stato socialista; egli, però, ebbe vita breve alla guida del partito, morendo nel 21 Gennaio 1924 per via di una forma di sifilide che gli causò, in precedenza, ben tre ictus. Durante i suoi ultimi anni, Lenin designò Lev Trotsky come suo successore, ma il Generale Iosif Stalin finì per accaparrarsi il potere tutto per sé, esiliando e facendo eliminare il vero erede della rivoluzione. Per una bella e breve rappresentazione allegorica di queste vicende, leggete Animal Farm del buon vecchio George Orwell.

It’s a me, il proletariato! Yahoo!

Torniamo adesso nel coloratissimo Regno dei Funghi; diamo subito un’occhiata e vediamo quali miceti dominano la scena. È possibile notare, se diamo uno sguardo attento a tutti gli sprite del primo gioco, che il rosso domina particolarmente il design ed è, se non altro, il colore che da sempre ha contraddistinto Mario. Inutile dire che è lo stesso colore associato al pensiero comunista (il partito rosso, i rossi, le armate rosse, le brigate rosse, la stessa bandiera dell’Unione Sovietica era rossa) ma la storia ci dice che il caro idraulico italiano è rosso per contrastare il cielo azzurro del regno dei funghi; una storia credibile se solo non fosse che il rosso non è davvero opposto al blu. Nel disco dei colori primari e secondari (più precisamente conosciuto come disco di Itten) si più notare che è il vero opposto di quest’ultimo è l’arancione, uno di quelli che nella palette di colori del NES ha un sacco sfumature, addirittura più del rosso. Uno dei simboli più presenti nella saga è il Super Fungo, che presenta un cappello rosso con dei puntini bianchi; il suo corrispettivo reale è l’Amanita Muscaria, fungo velenoso che, al di là del provocare allucinazioni, si trova specificatamente in Siberia, la parte est della Madre Russia. Le ipotesi si fanno sempre più forti specialmente quando Mario prende il Fiore del Fuoco; i tipici colori dell’idraulico, il rosso e il blu (o marrone nel primo gioco), muteranno in rosso e bianco, i colori della bandiera del Partito Bolscevico di Lenin. Una strana scelta di colori, ma le ipotesi non si fermano qua.
Il cappello di Mario sembrerebbe abbastanza innocente se non fosse per la strana somiglianza con quello indossato spesso da Stalin; entrambi hanno un design molto simile, la visiera più o meno della stessa lunghezza e un emblema circolare al centro. Ogni buon Compagno, inoltre, vi dirà che un bel baffo è praticamente “parte dell’uniforme”; cos’altro contraddistingue il bel faccione del mangia-spaghetti? Lo scopettino sotto il nasone Mario sembra proprio strappato dalla faccia di Stalin! E se tutto questo ancora non vi convince: ricordate i suoi lavori? In Donkey Kong e Wrecking Crew era un carpentiere e con Mario Bros diventa ufficialmente idraulico, entrambi lavori che coinvolgono lavoro manuale, mestieri che compongono la classe operaia designata nella rivoluzione proletaria.

Mario il liberatore

E ora entriamo un po’ di più nel simbolismo della saga. Prima di prendere in esame le storie che coinvolgono in prima persona l’icona Nintendo, diamo uno sguardo alla sua nemesi: Wario potrebbe rappresentare, in un certo senso, l’idea stessa del capitalismo. L’antagonista di Mario è caratterizzato da una grossissima stazza e una spiccatissima avidità; tutti i suoi giochi si concentrano sul collezionare tesori e accumulare ricchezza (che permettono addirittura in alcuni giochi di ottenere un finale migliore), tipico comportamento di un avido capitalista senza scrupoli.
Tornando alla saga principale, al termine di ogni livello del primo titolo Mario abbassa una bandiera nemica per alzarne una sua in un fortino. La prima somiglia (visto che stiamo parlando di un gioco 8-bit) a un simbolo di pace verde su uno sfondo bianco mentre quella sua è una più chiara stella rossa a cinque punte. Questa, nell’iconografia comunista, è uno dei simboli più usati insieme alla “falce e martello“, rappresenta proprio la mano del lavoratore (cinque le punte, cinque le dita) ed è il simbolo dell’armata rossa, la stessa che prese il potere durante la Rivoluzione di Ottobre; dunque ricordate ancora l’obiettivo di Super Mario Bros.? Rovesciare il tiranno Bowser, come nella Rivoluzione di Febbraio, ribellarsi alla dittatura che porta scompiglio nel Regno dei Funghi e farlo tramite l’esercito rosso. Inoltre, come ribadito da Mao Zedong nei Discorsi alla conferenza di Yenan sulla letteratura e l’arte (dai, infiliamo anche lui nel mix): «non potrà esistere un amore universale finché la società sarà divisa in classi». Perciò, abbasso la (bandiera della) pace e viva il popolo!

Seriamente?

Quello di cui abbiamo parlato è ovviamente bizzarro, vi stiamo forse facendo credere che Nintendo abbia stretto strani accordi con l’ex Unione Sovietica; ci sentiamo di asserire che Mario non è comunista e che molti elementi sono delle divertenti coincidenze. Ricordiamoci che lo scopo del gioco è, sì, rovesciare Bowser ma è anche, e soprattutto, salvare la Principessa Peach per instaurare la sua più mite ed equa monarchia. Inoltre, quello che sembrerebbe un simbolo di pace al termine di un livello è in realtà un teschio; se fosse stato tale allora ci sarebbe stato qualche spazietto vuoto in più nella parte bassa dell’icona. Le tante coincidenze, specialmente nel primo gioco, ci hanno fatto pensare che Mario, vista anche la sua estrazione sociale, potesse essere comunista ma il gioco (come è giusto che sia) non fa alcuna propaganda politica e in fondo la storia parla semplicemente di un idraulico innamorato alla ricerca della sua amata principessa. Tuttavia c’è ancora un ultimo elemento di cui dobbiamo ancora parlare ma che non ha nulla a che vedere con Mario, bensì col Giappone. Il Partito Comunista Giapponese, dopo gli anni 50, ha avuto una buona influenza nella società giapponese e il suo periodo più prolifero è stato proprio negli anni ’80, esattamente gli anni in cui Super Mario Bros. venne sviluppato; durante le elezioni di quel periodo il partito prese il 10%, che corrispondono a ben 5 milioni di voti, perciò può esistere dunque la possibilità che una o più persone coinvolte nello sviluppo del gioco possano aver fatto trapelare in qualche modo le loro idee politiche. A ogni modo queste rimarranno sempre delle supposizioni e dubitiamo che Nintendo possa, un giorno, confermare o meno tutte queste teorie del web. E poi, alla fine della fiera, dove Mario metta la “X” durante le elezioni è solamente affar suo!

Bandiera del Partito Comunista Giapponese




Lenovo Mirage Solo, il primo visore Daydream autosufficiente

Nel 2016, Google ha presentato Daydream View, un visore portatile alimentabile da uno smartphone. Ciò significava affrontare dei limiti intrinseci: la batteria si scaricava rapidamente ed era possibile usarlo in modalità VR solo per un’ora o due prima che si surriscaldasse del tutto, con conseguente calo delle prestazioni. Adesso tutti questi problemi sono stati risolti con l’invenzione del primo visore Daydream autosufficiente, creato in collaborazione con Lenovo: il Lenovo Mirage Solo.

Design

Il Mirage Solo somiglia esteticamente al PlayStation VR e, a causa della forma, con le due telecamere sulla parte frontale, chi lo indossa appare con sembianze “robotiche”.
Il visore è supportato da una fascia, con un quadrante ruotabile sul retro che permette di stringerla per ottenere una vestibilità perfetta. Il dispositivo si appoggia sul naso, con archetto abbastanza comodo, grazie all’imbottitura presente, ma con gli occhiali da vista sotto potrebbe risultare stretto. Buona parte del peso viene scaricata sul naso, pertanto risulta faticoso usarlo per più di qualche ora.
È presente un pulsante sul lato che permette di spostare il visore più vicino o più lontano dalla testa. Sul lato sinistro dell’auricolare invece, vi è uno slot per MicroSD e una porta USB Type-C per caricare il dispositivo, insieme a un tag Lenovo in tessuto. Sul lato destro, vi sono i pulsanti per l’accensione e volume e un jack per le cuffie. Esso offre una buona vestibilità e ha abbastanza imbottitura intorno agli occhi per bloccare efficacemente tutta la luce esterna, il che aiuta con l’immersione nella realtà virtuale.

Specifiche tecniche

La configurazione hardware del Mirage Solo ha tutti i componenti soliti di uno smartphone: il processore Snapdragon 835 di Qualcomm elabora le informazioni grazie anche ai 4 GB di RAM. Sono presenti 64 GB di spazio di archiviazione disponibili con supporto per una scheda MicroSD; il display da 5,5 pollici ha una risoluzione di 2560 x 1440 pixel e una batteria da 4.000 mAh che permette una buona durata di utilizzo.
Lo schermo ad alta risoluzione è nitido e offre molti dettagli, ma sorprendentemente non è un pannello OLED. Lenovo ha dichiarato a Digital Trends che il Mirage Solo ha uno schermo LCD, uno dei pochi a esser stato approvato.

Tre ore di autonomia

La parte migliore del Mirage Solo è che usare una tecnologia per realtà virtuale non è mai stato così facile. Con un visore autosufficiente, non esiste nessun cellulare di cui ci si debba preoccupare. Basta indossarlo e l’utente verrà accolto dalla schermata iniziale di Daydream. L’interfaccia del software è più o meno simile al Daydream View, così come il telecomando connesso con connessione bluetooth.
La batteria da 4.000 mAh e la mancanza di vincoli termici permettono di giocare con il Mirage Solo per circa tre ore, secondo Lenovo. Potrebbe non essere comodo e causare come tutti gli altri visori motion sickness, ma è positivo sapere che la batteria possa durare abbastanza senza incidere sulle prestazioni.

Prezzo e disponibilità

Lenovo ha impiegato un po’ di tempo per decidere il prezzo del suo Mirage, optando infine per una cifra di 400 $, mentre l’HTC Vive è al momento disponibile su Amazon a $600 (circa 700 € sullo store italiano). Il Solo non metterà a disposizione solo giochi, ma potrebbe beneficiare di un prezzo ancora più basso.
Il visore è pronto per il pre-ordine da B&HPhoto, con una data di spedizione fissata per l’11 maggio.




L’industria videoludica verso un modello di (quasi) completo outsourcing

Negli ultimi anni la TV e il cinema si sono evoluti e hanno subito moltissime variazioni per poter essere al passo con la tecnologia che è sempre in continua crescita; hanno cominciato a utilizzare nuovi strumenti, come le apparecchiature VFX (Visual Effect) e nuovi tipi di telecamere. Ma uno dei cambiamenti più radicali non è sul piano tecnologico, quanto su quello dell’organizzazione del lavoro, dove si vede far ricorso sempre più all’esternalizzazione delle risorse (outsourcing), che pare coinvolga quasi il 95% della produzione. Ma cos’è esattamente?
La parola outsourcing viene utilizzata in economia e in ambiente aziendale per indicare l’utilizzo, da parte di un’impresa, di altre aziende più piccole che avranno l’incarico di svolgere un compito a loro assegnato, così da poter abbattere i costi di produzione.
Il mondo dei videogiochi sta vivendo lo stesso cambiamento, anche se meno marcato. Alcune delle grandi aziende hanno la possibilità di acquistare e acquisire altri studios per poter avere più uomini al lavoro su uno stesso progetto, mentre le case sviluppatrici più piccole o che non vogliono spendere migliaia e migliaia di dollari si affidano a delle  società in outsourcing per aver fornito il giusto supporto per tutte le varie esigenze; una di queste è Keywords Studios.  Keywords non è l’unica a svolgere questo lavoro: altre società fanno lo stesso, ognuna è specializzata in singoli ambiti e le software house richiedono assistenza a più società per avere un supporto completo, ma frammentando il mercato. Quello che Keywords sta tentando di fare negli ultimi 10 anni è di creare una figura di rilievo e sicura, che accentri la maggior parte delle funzioni, per tutte quelle aziende che richiedono assistenza di questo genere. Rispetto alle altre società, Keywords si è impegnata nell’offrire sette diversi servizi: comparto artistico, engineering, audio, test funzionali, localizzazione, test di localizzazione e assistenza clienti.
Tutti questi servizi servono a creare una realtà molto più completa e aperta che permette di lavorare con molte più aziende, sia piccole che grandi, eliminando l’eventualità di creare una sorta di “chimera” del lavoro: i dipendenti che lavorano per queste società non sanno qual è l’idea principale per la creazione di quel determinato progetto e sarà necessario spiegare approfonditamente tutte le varie fasi e le specifiche del lavoro che poi svolgeranno. Questa attività, però, potrebbe essere ripetuta più e più volte durante lo sviluppo di un gioco, e di certo non è un bene, contando che si potrebbero incontrare problemi di sviluppo.
È per questo che il CEO di Keywords Studios ha intenzione di consolidare in un’unica società più offerte e servizi per l’outsourcing: non solo questo è importante per i clienti, ma anche per i posti di lavoro, che diventeranno più stabili e sicuri. Se questo consolidamento avverrà, il mondo dei videogiochi potrebbe muoversi verso un modello di completo (o quasi) outsourcing, già adottato da molti altri settori, come quello automobilistico ed editoriale.