Ninja Theory e il “pericolo” Microsoft

Come abbiamo appreso durante l’ultima conferenza E3 di casa Microsoft, l’azienda americana ha voluto ampliare la propria potenza di fuoco, acquisendo e mettendo sotto la propria egida diverse software house che non avevano ancora grossi finanziatori alle spalle. Inutile dire che il più rilevante, il nome più chiacchierato, sia Ninja Theory, che recentemente è riuscita a raccogliere enormi apprezzamenti grazie al suo ultimo capolavoro Hellblade: Senua’s Sacrifice, un gioco sconvolgente, vincitore di diversi premi e straordinariamente sviluppato da poco più di 20 persone. Ninja Theory è dell’idea che giochi come questo sarebbero classificabili come “indie AAA” – o tripla A in gergo – Hellblade: SS è la prova che non è sempre necessaria una grossa casa alle spalle e che questa sia la direzione giusta per essere competitivi.

Non è difficile capire perché Ninja Theory sia stata abbracciata da Microsoft: per far fronte alla enorme quantità di titoli first party della controparte Sony, il colosso americano doveva necessariamente allargare i propri orizzonti, e quale miglior modo se non quello di acquistare una delle software house più promettenti del momento? Il developer inglese è stato scelto in base a diversi parametri, quali l’ottimo settore narrativo, lo sviluppatissimo sistema mocap (motion capture) e un lavoro globale di grande qualità, fra un ottimo team interno e collaboratori come Andy Serkis e Alex Garland che hanno impreziosito il piano narrativo dei lavori di Ninja Theory, titoli che hanno lasciato il segno nella old generation come Heavenly Sword, Enslave: Odyssey to the West, DmC: Devil May Cry.

Anche dopo l’acquisizione, la software house ha manifestato l’intenzione di difendere strenuamente il proprio team, e in un’intervista rilasciata a Kotaku, il creative director Tameem Antoniades non risparmia una dichiarazione d’intenti sul futuro:

«Vogliamo essere liberi dalla trappola dei tripla A, vogliamo sviluppare titoli che siano incentrati sull’esperienza di gioco e non sulla monetizzazione. Vogliamo correre dei grandi “rischi creativi” per sviluppare giochi che possano definire un nuovo genere. Il nostro intento è quello di fare dei nostri giochi a modo nostro, non vogliamo che qualcuno ci dica cosa o come dobbiamo fare. Soprattutto  vogliamo continuare a fare quello che vogliamo, è un modo di proteggere il nostro team, la nostra cultura e la nostra identità perché, finora, tutto ciò ha costituito l’essenza di Ninja Theory. In parole povere, stiamo chiedendo la completa indipendenza creativa.»

A questo punto il direttore commerciale, Dominic Matthews, aggiunge:

«La risposta di Microsoft è stata, a tal proposito, che possiamo fare quello che vogliamo, ma che se lo desideriamo potremo appoggiarci al loro reparto commerciale o avere un team di supporto, o ancora utilizzare il reparto di R&D Technology e avere un completo supporto per fare più di quello che vogliamo e come noi lo vogliamo.»

Proprio per questo motivo, in ragione della promessa di Microsoft di garantir loro la libertà creativa combinata a una maggiore stabilità economica, il team di Antoniades è stato ben felice di entrare a far parte del gigante di Redmond.
A questo punto la domanda è se Microsoft, investendo denaro sulla software house britannica, lascerà davvero a Ninja Theory tutta la libertà promessa, o se le esigenze di mercato costringeranno a paletti e limitazioni.

A diverse promettenti software house non è andata benissimo una volta entrate nell’organico di Microsoft. Neanche a dirlo, Rare era una pietra preziosa tra le case di sviluppo britanniche, ma dopo l’acquisizione da parte della casa di Redmond non sono andate per il meglio, fino a essere relegata per anni nello sviluppo di avatar e di giochi per Kinect, tornando solo di recente con Sea of Thieves. Di certo in molti ricorderanno un’altra perla britannica, quella Lionhead Studios che diede alla luce a uno dei migliori RPG di sempre, Fable. Quando nel 2006 lo studio venne acquisito da Microsoft, per i successivi 10 anni fu impegnato nello sviluppo dei sequel di Fable, fino a che non gli venne imposto di lavorare anche a un ulteriore gioco per Kinect, Fable Legends. A quanto pare Microsoft pretese che lo studio lavorasse al progetto nonostante questi obiettassero di non avere alcuna esperienza su questo tipo di sviluppo, seguendo la tendenza del fornire necessariamente i “giochi come servizio”. Ne scaturì che, dopo anni di sviluppo, ovviamente problematici, nel 2016 Microsoft decise di chiudere lo studio e annullare di conseguenza anche il progetto Fable Legends.

Questo trend è stato la principale causa della chiusura di Lionhead, una delle software house più promettenti della storia videoludica. Alla luce dei fatti odierni e di come Kinect si sia man mano defilato dalla scena, possiamo dire che sia stata una delle sviste più grandi di sempre. È giusto notificare che le nuove console della casa, Xbox One S e Xbox One X, hanno “sacrificato” la porta per la periferica Kinect, per una questione stilistica di spazi ridotti, costringendo i già pochi possessori dell’accessorio, a dover spendere altro denaro per l’acquisto di un adattatore esterno. Al momento i giochi new-generation compatibili con la periferica si contano sulle dita di una mano.

Probabilmente è proprio alla luce di questi avvenimenti che i fan di Ninja Theory si sono tanto preoccupati per la loro scelta. Ovviamente speriamo davvero che Microsoft manterrà le sue promesse e che valorizzi i creatori di Hellblade, ma c’è da chiedersi per quanto tempo. Cosa succederebbe se il prossimo titolo della casa non riuscisse a vendere quanto sperato? Microsoft lascerebbe comunque lo spazio creativo promesso, oppure intercederebbe prendendo le redini dello sviluppo futuro?

Ninja Theory adesso ha accesso a una fonte ingentissima di investimenti ma , come scrive Orson Welles, «l’assenza di limitazioni è nemica dell’arte». E a ben vedere, parole simili le usò anche Antoniades per Hellblade:

«Io credo sia stata la forte mancanza di fondi e forza lavoro a rendere questo gioco innovativo, questo, ha reso anche il team innovativo.»

C’è da sperare che l’abbondanza non sia quindi controproducente per i ragazzi di Ninja Theory e che possa essere solo un apporto positivo per i loro progetti futuri, augurando loro di sfatare anche quella che in parte sembra essere una maledizione di Microsoft di cui sono state vittima promettenti software house.




Dusty Rooms: il Pippin e gli anni bui di Apple

Da tempo si discute riguardo la fisionomia della prossima generazione di console, su chi entrerà nello scenario videoludico e su chi invece potrebbe addirittura essere propenso a lasciare il mercato hardware in favore dello sviluppo software. Come abbiamo letto altrove, si starebbe concretizzando il progetto di una console da parte del colosso Google, fra i nomi più accreditati. In molti si chiedono come mai la Apple, rivale per antonomasia per quel che riguarda il mercato degli smartphone, non voglia gettarsi nella mischia; come accade dall’epoca in Steve Jobs rilanciò la compagnia da lui stesso co-fondata nel 1976, ogni prodotto della Mela, ancora oggi, riscuote sempre un grosso successo fra chi segue la compagnia dagli albori e i semplici curiosi e perciò una console da gioco sembrerebbe un passo logico. Apple, a quanto pare, non avrebbe la benché minima intenzione di buttarsi nel mercato del gaming e le ragioni sono due: la prima perché l’App Store abbonda già di giochi che, specialmente nel caso in cui ci sia dietro un grosso developer, girano molto bene su grossa parte dei dispositivi Apple, ovvero la linea di computer Macintosh, gli iPhone e gli iPad (nonchè i semi-dimenticati iPod); la seconda è semplicemente perché la nota compagnia californiana… ha già avuto la sua (pessima) esperienza nel gaming! Oggi, qui in questa nuova puntata di Dusty Rooms, vi porteremo nella epoca buia di Apple, gli anni di una compagnia confusa e senza il suo visionario leader. Che cosa è andato storto per il Pippin e come mai nessuno si ricorda di questa console?

Apple in alto mare

Già all’inizio degli anni ’90 era già possibile vedere le prime conseguenze dell’uscita di Steve Jobs con il valore sempre in calo delle azioni Apple. Quegli anni si aprirono con i rilasci delle linee di computer Quadra, Centris e Performa che, per via delle loro caratteristiche tra loro fin troppo simili, finirono per alienare consumatori e persino rivenditori (in quanto non sapevano quali “tasti” spingere per vendere questi prodotti) in favore dei più semplici computer IBM con i sistemi operativi Windows. Cominciò così una fase che potremo definire a oggi sperimentale: Apple non solo permise a terze parti di produrre sia software che cloni hardware su licenza ma, insieme ai computer, la compagnia californiana si concentrò su molti prodotti come il Newton, il fallimentare PDA touch screen pesantemente stroncato per via del suo pessimo riconoscimento calligrafico, macchine fotografiche digitali, lettori CD e, ben presto, anche console da gioco.

Il vero scopo del Pippin, la cui parola rimanda a una particolare tipologia di mela, era offrire un hardware computeristico in forma di console in grado sia di navigare in internet che di leggere software interattivi come videogiochi o enciclopedie multimediali. Così come accadeva per i loro PC durante quel periodo, Apple avrebbe permesso a chiunque volesse produrre la loro console di differenziare la propria versione con caratteristiche uniche (sempre rispettando gli standard della scheda madre e del look da loro forniti). La prima forma di questa console apparve nel 1994 come Pippin Power Player, che non fu mai venduta al pubblico; questo modello venne usato solamente per attrarre gli investitori nelle fiere e nelle conferenze coi media. Ben presto la Bandai si interessò al progetto e fu normale aspettarsi una sua buona riuscita; non solo erano responsabili della produzione delle linee di giocattoli di Sailor Moon, Gundam, Dragon Ball e Power Rangers che spopolavano in tutto il mondo, ma avevano già un’ottima esperienza nel mondo videoludico grazie alla distribuzione dell’Emerson Arcadia 2001 negli anni ’80, alla produzione delle loro pong console, il controller Family Fun Fitness per il NES (che fu in seguito comprato da Nintendo e riconfezionato come Power Pad) e ovviamente dei diversi software per questa console. Bandai usciva dalla disastrosa esperienza del Playdia (che probabilmente tratteremo più in là) e Yamashina Makoto, l’allora presidente e figlio del fondatore Yamashina Naoharu, vide nel Pippin un buon progetto per potersi rilanciare nel mondo dei videogiochi; avrebbero fornito ai consumatori sia una buona console di gioco e una versione low cost di un computer Apple. Gli accordi erano i seguenti: Apple si sarebbe occupata di progettare il look, la scheda madre e i software mentre a Bandai erano affidate la produzione, la distribuzione, il marketing e qualsiasi altra cosa al di fuori delle mansioni affidate alla compagnia americana. Tuttavia Bandai, fiutando un fallimento semi-assicurato viste le presentazioni di Sony PlayStation, Sega Saturn e Nintendo 64 che sarebbero uscite a breve, decise di spartirsi il fardello della produzione fisica della console con Mitsubishi e ciò fece decollare i prezzi di lancio; il Pippin Atworld uscì nel 1996 con il folle prezzo di 599 $ negli Stati Uniti (che includeva un abbonamento ad internet con PSINet per 6 mesi, per un valore totale di 150 $) e 64.800 Yen in Giappone (dove si chiamava Bandai Pippin Atmark), escludendo automaticamente sia quella fascia di mercato che già aveva preso in considerazione l’acquisto di una delle tre console 32-bit e sia quelli che volevano semplicemente comprare un computer Apple, la cui domanda era già scarsa di suo. Nonostante il prezzo spropositato, Bandai sperava che il Pippin Atmark vendesse almeno 200.000 unità in Giappone e 300.000 negli Stati Uniti ma, per via del successo spropositato di PlayStation, riuscì a vedere solamente 42.000 unità totali. Ad ogni modo, sempre nel 1996, Apple riuscì a concludere un nuovo accordo con la compagnia norvegese Katz Media, che avrebbe prodotto il Pippin per il mercato canadese ed europeo; al progetto si unì anche Bandai che avrebbe prodotto l’hardware e il Pippin KMP2000 fu venduto principalmente agli hotel, per permettere l’accesso a internet ai turisti nelle camere d’albergo, e alle catene di negozi Redwall per la creazioni di dei chioschi interattivi. L’esperienza di Katz Media, rispetto a Bandai, andò molto meglio ma il ritorno di Steve Jobs alla Apple nel 1997 decretò definitivamente la fine del Pippin e il supporto per i cloni Apple; nel 1998 i rimanenti Pippin furono venduti alla Daystar Digital che li vendettero a quei pochi interessati fino a esaurimento scorte.

Navighiamo nell’internetto!

Bisogna riconoscere che la console Apple era molto solida e all’avanguardia per i tempi: il Pippin, costruito intorno al processore PowerPC 603 di 66 MHz, includeva un lettore floppy, modem ed era possibile connettere una tastiera con un tablet da disegno, le stampanti Color Style Writer 2400 e 2500 ed era possibile attaccarlo a un computer Apple tramite un apposito cavo. Il retro della console ci mostra che era possibile collegarlo alla tv tramite i normali cavi RCA, S-Video e persino tramite VGA, all’epoca il massimo della risoluzione; inoltre, sempre dal retro – e questa è una feature che i collezionisti desidererebbero in ogni console retro – era possibile cambiare la codifica del video da 60 a 50Hz rendendola dunque una console region-free a tutti gli effetti. Il controller aveva una strana forma a banana (molto simile, se ci pensate, al controller presentato con la PlayStation 3) ma i consumatori non lo trovarono scomodissimo: insieme alla croce direzionale c’erano quattro tasti frontali, due dorsali, tre tasti per richiamare i menù e un controller a sfera (più propriamente una trackball) che avrebbe letteralmente sostituito il mouse. Ogni gioco per Pippin includeva al suo interno una versione del sistema operativo Mac e questo sarebbe servito sia a proteggere la console dalla pirateria che per fornire agli utenti una versione di Mac Os sempre più aggiornata; questo significava che Apple avrebbe potuto aggiornare il sistema operativo senza necessariamente dover ritirare l’hardware ma questo significava anche che, una volta terminata la produzione software, non sarebbe più stato possibile aggiornarlo.
Ad ogni modo, con un solo anno di attività, il sistema operativo non arrivò oltre la versione 7.5.2 e, inutile a dirlo, i giochi rilasciati furono veramente pochi (circa 80). Purtroppo non esistono dei grandi giochi su Pippin e, così come per 3DO, quei pochi titoli validi sono presenti altrove. Tuttavia, vale ricordare che una delle poche compagnie che credette fortemente nel progetto fu Bungie, la stessa che ha regalato al mondo la serie di Halo e Destiny 2; è possibile infatti trovare su Pippin delle ottime versioni di Marathon e Marathon 2 ma giocarli lì è un impresa ardua in quanto le console Bandai e Katz Media sono molto rare e perciò costano moltissimo su Ebay. A quanto pare non esiste neppure un emulatore per le console Pippin, dunque comprare l’hardware fisico è l’unico modo per godere del poco interessante parco titoli di questa console. A ogni modo, sul sito ufficiale Apple esiste ancora una pagina FAQ dedicata al Pippin in cui si trova tutto ciò che c’è da sapere sulla console! Questo sì che si chiama supporto!

(Un video dell’utente YouTube Applemctom che mostra una buona manciata di titoli Pippin)



La caduta di Nintendo

Siamo a ormai quasi un anno e mezzo dall’uscita di Nintendo Switch: la risposta del mercato ci autorizza a definirla senza remore un successo, fin dal lancio la console ha registrato numeri di vendita ragguardevoli, un ottimo indice di gradimento degli utenti e anche delle prestazioni medie riguardo i giochi terze parti che hanno smentito le meno ottimistiche previsioni dei detrattori. Tutto bene, dunque, direte. E invece no, perché da marzo le azioni Nintendo hanno cominciato a perdere inesorabilmente valore. Non si tratta di un calo da poco: la grande N ha perso quasi un quarto del suo valore alla Borsa di Tokyo da fine maggio ad adesso. Miliardi su miliardi di Yen.
Attenzione, le vendite di Nintendo Switch continuano ad andare bene, gli ultimi dati – proprio di fine marzo – riportano circa 18 milioni di unità vendute. Perché allora il titolo in borsa cala? Da questo punto di vista la finanza non lascia spazio a equivoci: se il valore è in calo, significa che molti hanno messo in vendita le proprie azioni, perché viene meno la fiducia nella tenuta del prezzo. Non di rado, in simili casi, i grossi produttori pagano lo scotto di scelte avventate: il rilascio di un’update che comporta problemi al software, un’inadeguata (in eccesso o in difetto) fornitura di hardware sul mercato (Nintendo ha corso questo rischio poco dopo il lancio, ma ha tempestivamente provveduto), problemi con il servizio online che oggi possono avere pesanti ripercussioni… le cause di solito riguardano qualche problema legato all’andamento del proprio lavoro.

Ciò che è curioso, nel caso in questione, è che Nintendo pare non essere incappata in alcuno di questi problemi – quantomeno non in maniera così drastica da comportare una simile inflessione – e che i consumatori sembrano continuare a dar fiducia alla casa di Kyoto. Quale problema hanno sentito allora gli investitori, quelli che hanno dapprima comprato il titolo e l’hanno recentemente messo in vendita? C’è da notare come il valore sia sceso di circa il 32% (circa un terzo, mica roba da poco) dopo la fallimentare presentazione all’E3, nella quale si è scelto di dar molto – troppo – spazio a Super Smash Bros. Ultimate a scapito di altri contenuti, con il risultato che gli annunci che non pochi fan attendevano con ansia non sono mai arrivati.
Alcuni analisti hanno puntato il dito proprio sulla mancanza di un chiaro orizzonte d’attesa: a differenza di Sony e Microsoft, che, pur non fornendo release date, hanno dato agli utenti la possibilità di uno sguardo sui titoli in lavorazione, giocando su un facile marketing, cultura dell’hype e spettacolarizzazione, Nintendo ha puntato su una scelta “specialistica”, probabilmente più concreta, con un deep dive dedicato a un’IP forte, in cui ha mostrato di credere molto. Scelta non apprezzata dal pubblico, e anche da buona parte dei fan. Inoltre, come può anche essere normale in certi momenti del ciclo di vita di una console, le vendite di Switch hanno subito una contrazione, portando alcuni analisti a pensare che il combinarsi dei due fattori sia stato determinante nel crollo del titolo in Borsa:

«-5,27%. Le azioni Nintendo nuovamente massacrate nella borsa di Tokyo. Il Nikkei ritiene che la causa siano l’assenza di informazioni sulla produzione di videogame e le fiacche vendite di Switch, fattori che hanno indotto gli azionisti esteri a disfarsi delle azioni.»

Tatsumi Kimishima, ex presidente di Nintendo, ha dichiarato qualche settimana fa che la grande N ha ancora dei titoli da annunciare entro la fine dell’anno, ma questa rimane allo stato di fatto una dichiarazione di intenti: l’utenza videoludica è molto pragmatica, spesso impaziente e dalla memoria corta, e non pare che una simile prospettiva abbia avuto alcun influsso positivo sul titolo già in discesa.
Parte del problema è dunque da ricondursi alla cattiva gestione della conferenza dell’E3, sul punto pochi dubbi, ma non bisogna dimenticare che il titolo è in calo già dal mese di marzo, i miliardi si perdono già da più di un trimestre. Il mercato di riferimento (la Borsa di Tokyo) gode strutturalmente di buona salute, e questo ci porta a escludere le cause siano congiunturali, legate a una generica sfiducia o alla fiacchezza del mercato: il problema è direttamente legato all’azienda. Il ritmo del ribasso è rallentato nelle ultime settimane, ma la situazione è ancora lungi dall’essere sotto controllo.

I fattori in gioco sono certamente svariati. Diamo per buoni i due che abbiamo già citato sopra, lasciamoli tra le concause e guardiamo agli investitori: alcuni dubbi da parte di quest’ultimi sono certamente legati all’ambizioso obiettivo di vendita per l’anno 2018, alla fine del quale Nintendo ha prospettato di arrivare a 20 milioni di unità, senza però apportare variazioni di rilievo nel prezzo di mercato né introdurre killer app. I più preoccupati riguardo queste previsioni sembrano essere soprattutto gli investitori non nipponici: mentre in Giappone la fiducia nella compagnia pare sostanzialmente invariata, fuori dal paese del Sol Levante molti temono il non ancora consolidato sostegno da parte dei grossi publisher. Un problema in realtà ultradecennale per Nintendo, che restituisce un’idea di un aspetto rilevante del mercato videoludico: la grande N avrà certamente svariati assi nella manica, è certo che Kimishima non menta quando parla di titoli ancora da annunciare. Le IP ancora da sfruttare non sono poche ma, in attesa di un domani in cui queste vengano annunciate, la mancanza di importanti terze parti di rilievo non fa stare tranquilli oggi gli investitori.

Il supporto delle third parties è da tempo un indicatore chiave non da poco per il mercato, e l’incertezza riguardo la presenza di titoli di peso su Switch è un fattore che potrebbe aver inciso sulla fiducia degli azionisti: arriveranno mai titoli come Far Cry 5 Kingdom Hearts III? O il tanto atteso Anthem? E Red Dead Redemption 2?  Se certe assenze pesano relativamente sull’utente che colloca Nintendo Switch in una dimensione ben precisa nel mondo videoludico, vedendola come console alternativa o complementare nell’utilizzo, nella fruibilità e quindi anche nella line-up rispetto alle due rivali principali, lo stesso non si può dire che il mercato più ampio, quello dei casual gamer, quello dove si muovono i grandi numeri, sia della stessa idea.
In un articolo pubblicato alla fine dello scorso anno su IGN, Mattia Ravanelli sosteneva che questo non fosse un problema: ricordo che, se da utente e fruitore mi trovavo completamente d’accordo con questa visione, nutrivo i miei dubbi dal punto di vista del mercato. E non perché Nintendo Switch possa non farcela senza l’ampio parco titoli delle rivali, ma perché senza terze parti cresce la necessità di offrire un differenziale che permetta di tenere una stabilità di medio-lungo periodo. Al primo anno si poteva puntare sul fattore novità e su due killer app come Breath of The Wild Super Mario Odissey: adesso bisogna inventarsi qualcosa. E la risposta non è purtroppo Nintendo Labo che, pur ricevendo numerosi apprezzamenti dalla critica e dai fruitori, non sta restituendo numeri rilevanti in termini di vendite. E anche a questi risultati gli investitori risultano sensibili.

Ovviamente anche le terze parti e un Labo non del tutto incisivo sul mercato sono concause da sommare alle precedenti. Ce n’è anche un’altra da non sottovalutare, direttamente legata al mercato, alla brand reputation e al mindset dell’investitore di Borsa medio.
Quello finanziario è infatti un mercato che si costruisce momento per momento attraverso stime e previsioni, e che subisce smottamenti di ogni natura, anche quelle legate a cause dei natura “storica”. Nintendo proveniva da numeri passati altalenanti, generati soprattutto dai pessimi risultati di WiiU in termini di vendite. Questo gli investitori non lo dimenticano di certo. Dopo aver assistito a un rialzo del titolo conseguente al successo di Pokémon Go, seguito dall’ottimo lancio di Switch l’anno successivo che ha comportato un’ulteriore crescita, molti hanno certamente cominciato a chiedersi quando una simile ascesa si sarebbe fermata, proprio per prevedere il momento migliore e vendere al massimo prezzo. Alcuni analisti hanno previsto un cambio di passo a maggio, e molti hanno semplicemente visto questo trimestre come il momento migliore per una exit strategy.
Nintendo avrebbe potuto farci qualcosa? Probabilmente sì: l’annuncio di un nuovo titolo della serie Yoshi (abbiamo avuto un trailer, ma non abbiamo una release date, né tantomeno un titolo definitivo) o di un Animal Crossing, ma anche l’uscita di Fire Emblem: Tree Houses entro l’anno avrebbero certamente aiutato. Il 2018 potrebbe chiudersi con Labo come unico prodotto inedito degli studi di Nintendo Entertainment Planning & Development, senza alcun nuovo videogame su Nintendo Switch. Probabilmente a Kyoto prenderanno contromisure, organizzandosi per evitarlo.
La chiusura di trimestre fra circa una settimana sarà inevitabilmente deludente per Nintendo, la quale vedrà probabilmente un ulteriore (seppur non drammatico) calo del titolo entro la fine del mese, con vari investitori pronti anche oggi al bail out.

Ma attenzione: quel che abbiamo scritto finora non deve affatto portarci a concludere che Nintendo sia in crisi o o che il suo business sia traballante. I fattori che abbiamo analizzato hanno contribuito a un calo drastico del titolo in un dato frangente, sì, ma certi momenti nell’andamento azionario di una grande compagnia sono in parte fisiologici e vanno messi in conto, specie se si tratta di un’azienda che opera scelte di mercato non canoniche come la casa di Kyoto: le scelte degli shareholder si basano sulle informazioni disponibili nel momento storico di riferimento, e basterebbero delle contromosse strategiche a risollevare in breve tempo la situazione e compensare alle perdite.
Ci sono tutti i motivi per ritenere la strategia della grande N ancora solida, il potenziale in termini di IP è ancora consistente, ribadiamo, e il gradimento del pubblico nei confronti di Switch è ancora alto. Super Smash Bros. Ultimate deve ancora dispiegare i propri effetti sul mercato (sarà il titolo da trovare sotto l’albero di Natale), come del resto i due Pokémon Let’s Go che usciranno a novembre: tutto porta a puntare gli occhi sull’ultimo trimestre del 2018, insomma. Pur rallentate, le vendite della console continuano a un buon passo, e la fine dell’anno potrebbe riservare ancora qualche sorpresa in termini di IP. Anche in assenza di queste ultime, gli ultimi mesi del 2018 saranno certamente quelli con i migliori risultati.
Seppur non indolore, il calo del titolo Nintendo in Borsa è quindi da considerarsi figlio di piccoli errori e varie concause ma anche il frutto di una congiuntura fisiologica, che poteva essere in qualche modo messa in conto nel ciclo economico aziendale, e che sarà certamente gestibile con adeguate contromisure strategiche.
Finché l’andamento a ribasso sarà contenuto entro una determinata finestra temporale, la strategia Nintendo nell’era Switch potrà ancora considerarsi un successo, dato che già adesso, a 21 mesi dall’uscita, il buio periodo di mercato dell’epoca WiiU sembra essere ormai un brutto ricordo.




Più personaggi queer nei videogiochi

Il tema della comunità LGBTQ e di come questa venga vista, tollerata e più o meno integrata all’interno della società è ormai un argomento portante da anni, e che non cessa di creare fronti opposti in termini d’opinione. Qualunque sia la vostra posizione in merito, il mondo sta di fatto accettando (lentamente, molto lentamente se guardiamo il quadro globale: fino all’anno scorso solo 23 paesi nel mondo accettavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso) una realtà che è stata sempre presente ma che solo adesso trova libera espressione. I Gay Pride, come le leggi su unioni civili, adozioni, pari opportunità, matrimonio fanno fronte alle oltre 70 nazioni che ancora considerano l’omosessualità un reato punibile con sanzioni che vanno dalla galera alla pena di morte.
Parallelamente, anche nell’universo dei videogiochi l’omosessualità va trovando espressione come forma di normalità, allontanandosi dallo stereotipo che, nei secoli, ha visto dominare in arti e vari aspetti della creatività soltanto un modello eterosessuale; anche in questo caso il processo non è stato indolore: non si assiste a forte odio o discriminazione, ma ancora un bacio omosessuale come quello visto nell’ultimo trailer di The Last of Us Part II riesce a far discutere la rete. Dopo quasi mezzo secolo di storia del medium, la figura del personaggio queer ha ancora una presenza marginale. I videogame dove è possibile trovare personaggi che si discostino da un modello etero sono davvero pochi se paragonati alla gigantesca mole di titoli disponibili, e questo fornisce il metro di come ancora la cultura popolare affronti in punta di piedi un simile tema.
Nella mia esperienza da giovane videogiocatrice, il mio primo incontro con un character queer è stato circa all’età di cinque anni, quando giocando a Super Mario Advance incontrai Strutzi (Birdo, in originale).

A quell’età non avevo la minima idea di cosa fosse un trans, e quando da più grande scoprii che Strutzi lo era, rimasi piacevolmente colpita di come Nintendo (già alla fine degli anni ’80, in Super Mario Bros. 2, dove se ne registra la prima presenza) avesse integrato un personaggio del genere nei suoi giochi.
Oggi, più informata e consapevole, non posso non fare caso al fatto che moltissimi dei personaggi apertamente gay, lesbiche, bisessuali o trans non vadano incontro a un destino felice. Basti guardare giochi come le saghe di Mass Effect  e Dragon AgeThe Last of Us Life is Strange: nei titoli di Bioware è possibile avere relazioni omosessuali: molti NPC sono apertamente gay, lesbiche, bi o trans, e chi ci ha giocato sa come tanti di questi, o i loro partner, siano destinati a un epilogo tragico. La solfa non cambia con Life is Strange dove il rapporto tra Max e Chloe (o prima ancora Chloe e Rachel) sembra destinato a non essere mai felice. Se le forme creative sono figlie della propria epoca ed espressione del proprio tempo, anche questo sembra essere sintomo della condizione attuale di chi vive l’omosessualità nella nostra epoca, dove l’accettazione è maggiore rispetto ai secoli passati, ma ancora la strada da fare è molta.
I videogame in questo senso mostrano coraggio: sempre a fine anni ’80 in Final Fight viene introdotto il personaggio di Poison, in questi anni saghe come Shin Megami Tensei e Dragon Ageper non parlare di avventure come Fable The Longest Journey. Naughty Dog ha introdotto il tema in maniera forte e senza mezzi termini già in Left Behind, DLC del primo capitolo di The Last of Us dove Ellie vive con naturalezza l’amore verso la sua compagna già alla sua giovanissima età. Nel secondo capitolo la vediamo alle prese con una nuova relazione, e si spera che, nonostante vivano ancora in un mondo dai contorni apocalittici, il loro futuro non sia così nefasto. Naughty Dog ha una grande responsabilità sulle sue spalle.
La comunità dei gamer LGBTQ richiede a gran voce personaggi rappresentativi, magari con finali più felici, con uno spazio che consenta loro le stesse esperienze ed emozioni di un qualsiasi altro videogiocatore.
La strada, tutto sommato, è quella giusta.




L’importanza di Steam Spy e dei suoi numeri

Steam Spy è un servizio ideato da Sergey Galyonkin, Director of Publishing Strategy (DPS) di Epic Games, che ha voluto raccogliere e rendere pubblici tutti i possibili dati delle vendite di Steam che possano servire ad aziende e a privati. Ovviamente, non essendo un servizio proprietario di Valve, i dati che forniva Steam Spy non erano precisi, ma si avvicinavano moltissimo alla realtà. Con i suoi dati e i suoi numeri (circa 50 mila persone ogni giorno visitano il sito) Steam Spy ha rappresentato, dal 2015 a poco tempo fa, un punto di riferimento sia per gli utenti sia per molte software house indie, aiutandole a scegliere con precisione le mosse da compiere nel mercato mondiale.
Purtroppo ad aprile di quest’anno, Valve, per ostacolare questo servizio, ha cambiato la policy della privacy della sua piattaforma, stroncando quasi del tutto il lavoro di Steam Spy. Questo aggiornamento ha reso tutte le librerie degli utenti private di default, rendendo molto più difficile e molto meno preciso l’algoritmo di Galyonkin.
La mossa di Valve però, non ha colpito solamente Galyonkin, ma ha intaccato il lavoro di migliaia di giovani software house che basavano il loro lavoro sui dati forniti dalla stessa piattaforma.
Galyonkin ha creato Steam Spy proprio per questo tipo di utenti, per aiutare quelle software house che non hanno molte risorse e che non possono andare a richiedere questi dati a pagamento. Nel 2012 una situazione molto simile ha visto protagonista Lars Doucet che ha vissuto in prima persona quello che sta passando Galyonkin in questo periodo. Doucet, nel 2012, quando ancora Steam Spy non esisteva, aveva condiviso sul proprio blog una serie di dati del suo ultimo gioco. Lo scopo di Doucet era quello di mostrare i passi avanti che Defender’s Quest aveva fatto e non si immaginava che poco dopo avrebbe ricevuto centinaia di ringraziamenti da parte di piccole software house che hanno utilizzato i dati forniti dallo sviluppatore come punto di riferimento. Purtroppo, come è successo a Galyonkin, Valve ha deciso di cambiare i termini di servizio per gli sviluppatori, vietando la pubblicazione e la condivisione di dati inerenti alle vendite dei propri giochi su Steam.

Un altro esempio può essere quello di Octosoft, che dopo aver concluso un primo Kickstarter per lo sviluppo di Renaine, ha quasi rischiato di fallire, ma grazie a Steam Spy è riuscito a dimostrare che il progetto era promettente e che avrebbe venduto bene, ottenendo dei fondi che hanno permesso di assumere più membri nel team di sviluppo e di aumentare la qualità del prodotto finale.
Molte altre software house hanno sfruttato i dati offerti gratuitamente da Steam Spy per crescere o per poter ricevere delle donazioni o dei fondi da privati e aziende.
Alcune si sono servite dei dati per spiegare in maniera semplice, ma dettagliata il pubblico e l’ipotetico guadagno di un determinato videogioco. Questo è il caso di Samuel Cohen di Altered Matter, che ha dovuto presentare il suo progetto a un comitato che non aveva dimestichezza con i dati del mercato videoludico, ma con l’aiuto di Steam Spy è riuscito a mostrare le potenzialità del gioco e quindi ricevere i finanziamenti che hanno portato alla conclusione dello sviluppo di Etherborn.
La scelta di Valve non solo ha colpito Galyonkin e il suo lavoro, ma ha anche privato moltissimi sviluppatori di dati essenziali per la loro crescita e soprattutto per il loro futuro.
Galyonkin è fiducioso sul futuro di Steam Spy e spera di ricevere direttamente da Valve il via libera per utilizzare tutti i dati relativi alla vendite per metterli a disposizione delle aziende e delle piccole software house che ne hanno bisogno.
Ma probabilmente Valve sta già pensando di creare una propria piattaforma che possa fare lo stesso lavoro, ma in maniera più completa e approfondita.




Dusty Rooms: le celebrità nei videogiochi

Super Mario, Link, Lara Croft, Master Chief, Nathan Drake, Crash Bandicoot, tutti personaggi in grado di venderti una console, persino con uno spin-off… Puzzle! Tuttavia, vi era un tempo in cui non a tutti piacevano i personaggi fittizi, in cui si diceva: «Interessante… Ma a questo gioco manca qualcosa». Per compensare queste mancanze nei videogiochi, alcuni imprenditori poco laboriosi pensavano che pagare qualcuno per farlo apparire nel proprio gioco garantisse delle entrate e perciò, a oggi, abbiamo una marea di titoli sponsorizzati dalle celebrità che trasudano di tempi andati e persi per sempre (in alcuni casi, meglio così). Partendo dagli albori, daremo uno sguardo ad alcuni di questi “interessanti” giochi; è difficile mapparli con precisione (tanto quanto tracciarne l’inizio) per cui faremo del nostro meglio per risultare esaustivi. Se ce ne dimentichiamo qualcuno fatecelo presente – con garbo – nei commenti! I titoli che prenderemo in considerazione sono quelli in cui un personaggio celebre sia presente all’interno del gioco interpretando se stesso e non personaggi fittizi per cui potrebbe essere famoso (esempio: un gioco della serie Indiana Jones non è un gioco che include Harrison Ford, neanche nel caso in cui l’attore originale doppi il personaggio da lui interpretato).

Gli anni ’80

Che ci crediate o no, la pratica di schiaffare un personaggio famoso in un software esiste sin dagli albori dei videogiochi. Stando a qualche ricerca, si potrebbe tracciare un inizio con Pelé’s Soccer del 1980 per Atari 2600. Già chiarissimo l’intento dei programmatori a far più soldi possibili con un software non fantastico ma sponsorizzato da un leggendario calciatore; è vero che su Atari 2600 bisogna attivare un po’ l’immaginazione e, il gameplay di molti giochi, soprattutto gli sportivi, era in uno stadio particolarmente primitivo. Nessuno, ha ancora capito quale sia Pelé in quel gioco. C’erano due squadre, composte da tre giocatori ciascuno, e perciò è difficile credere che tutti i giocatori siano la celebrità che sponsorizza il gioco; è per questo che alcuni, a oggi, dicono scherzosamente che Pelé sia la palla! È giusto dire che solitamente i giochi sportivi sponsorizzati erano per lo più buoni come le serie di Tony Hawk’s Pro Skater e Colin McRae Rally (ancora viva sotto il rebranding Dirt), il particolare Mike Tyson’s Punch Out!! e i diversi titoli arrivati su Sega Mega Drive al lancio. A ogni modo, lasciamo perdere lo sport, visto che è un argomento fin troppo vasto, e torniamo di nuovo ai tempi di Pele’s Soccer per parlare di un altro tipo di celebrità.

Prima del popolare Michael Jackson’s Moonwalker, i Journey, popolarissima band degli anni ’70-’80, finirono su un gioco per Atari 2600 chiamato Journey Escape basato sul loro più recente album, intitolato, appunto, Escape. Lo scopo del gioco era portare i membri della band e il loro cachet della serata a bordo del loro tour-bus, che era in realtà un’astronave a forma di scarafaggio, evitando fotografi, promoter senza scrupoli e groupies, facendoli aiutare dai roadie a forma di Kool-aid (qualcuno non ci stava con la testa quando hanno programmato questo gioco, eh si…); il loro brano Don’t Stop Believin era reso col primitivo chip sonoro dell’Atari 2600 ma fortunatamente i Journey poterono riproporre i loro brani col nuovo gioco arcade del 1983 (intitolato semplicemente Journey) che mostrava più chiaramente i membri della band che dovevano andare alla ricerca dei loro strumenti (e non di certo evitare le groupies, cosa a cui nessuna band avrà mai rinunciato!).

Un’altra band diventò iper-popolare negli anni ’80 e, come i Journey, ebbero il loro videogioco su licenza. Frankie Goes to Hollywood, nome del gioco per i principali computer degli anni ’80 che promuoveva l’omonima band dance rock, era una sorta di avventura grafica con una distinta componente puzzle; l’obiettivo del gioco era raggiungere il tanto discusso “Pleasuredome” raccogliendo dei punti amore, sesso, guerra e fede ma consegnando prima un assassino alla giustizia. Insomma, un gioco veramente strano ma che incarnava quasi perfettamente l’eccentricità della band. Spettacolari inoltre le versioni Syd, ascoltabili dunque nel Commodore 64, dei loro successi Welcome to the Pleasuredome, Relax, Two Tribes e l’intro The World is my Oyster. Direi imperativo se siete fan di questa band!

Ma lasciamo perdere la musica per un momento e concentriamoci su Chuck Norris Superkick, gioco per Atari 2600, Colecovision, Commodore 64 e Vic-20. Questo fantastico titolo della Xonox vi mette nei panni dell’uomo più virile al mondo per far sì che gli sciagurati che osano attaccare Chuck Norris capiscano chi è che comanda anche nel mondo dei videogiochi! Il titolo non è ispirato a nessun film, ma il fatto che si giochi nei panni del glorioso Chuck basta già da sé; procuratevelo altrimenti Chuck Norris verrà a casa vostra sfondando il muro con un calcio volante!

Gli anni ’90

La strategia di Sega, con la sua nuova console 16-bit, era quella di appellarsi a un target più maturo, e chi incarnava quello spirito di ribellione tipica degli anni ’90 meglio dell’iconico cantante Michael JacksonMichael Jackson’s Moonwalker uscì per prima in versione arcade ma fu con il rivisitato porting su Mega Drive che divenne un titolo leggendario (a modo suo). I controlli erano buoni, l’atmosfera si ricollegava direttamente all’omonimo film e il gameplay era tanto semplice da poter essere giocato persino da coloro che non avevano mai toccato un videogioco prima d’ora, anche vostra sorella che vi chiedeva in prestito i vinili di Michael Jackson e ve li restituiva graffiati. Era possibile colpire e far fuori intere orde di nemici con calci e pugni (con una sfumatura prettamente “Jacksoniana”), col cappello, con le piroette ma soprattutto coinvolgendo gli sgherri di Mr. Big a danzare fino alla morte a suon di Smooth Criminal, Beat it, Bad e Billy Jean! L’obiettivo di ogni livello era ripulire ogni schermata dai nemici e andare alla ricerca di un certo numero di bambini ma, per quanto semplice, era un gioco abbastanza avvincente e divertente… E no, nessuna battuta su The King of Pop e i bambini!

Anche se alcuni dicono che la faida fra Michael Jackson e Prince sia infondata, qualche anno dopo il rilascio di Moonwalker l’autore dell’iconica Purple Rain rilasciò, puta caso, il suo personalissimo gioco su Windows e Mac. Prince Interactive era un punta e clicca alla Myst in cui il giocatore doveva collezionare i cinque frammenti del simbolo di Prince (chi conosce l’artista sa di cosa stiamo parlando) fra le diverse stanze dei suoi personalissimi Paisley Park Studios risolvendo dei puzzle più o meno completi; un gioco abbastanza semplice e che a oggi è solo uno dei tanti strani giochi in Full Motion Video che spopolavano su PC, 3DO e Sega CD. Nel caso in cui la sua autopromozione tramite questo videogioco non fosse abbastanza, all’interno in una delle stanze era possibile fare partire delle clip in cui musicisti del calibro di Eric Clapton, Little Richard e Miles Davis parlavano della loro esperienza con Prince; una vera e propria agiografia videoludica!

Ad ogni modo, i giochi dei rispettivi Michael Jackson e Prince coinvolgevano, in un certo senso, il loro animo musicale nel gameplay; fu così che la Midway pensò di inserire gli iconici Aerosmith in un contesto che rispecchiava quella voglia di casino tipica dei loro pezzi, ma che con la loro musica centrava ben poco! Un governo corrotto, nel futuristico anno 1996, mette al bando la cultura giovanile, inclusi musica, televisione, riviste e videogiochi; toccherà a noi dunque salvare gli Aerosmith (la missione più importante a cui pensare in tempi di crisi del genere) a colpi di mitragliatrice e CD esplosivi (avete capito bene) in Revolution X! Il gioco era uno shooter in stile Virtua Cop o Time Crisis, con una forte componente FMV, uscito originariamente in versione arcade prima che alcuni programmatori avessero la rivoluzionaria idea di togliere la compatibilità con le light gun casalinghe su Super Nintendo, Sega Mega Drive, Saturn e Sony PlayStation; e menomale che gli Aerosmith cantavano “I don’t want to miss a thing“!

Il peggiore

Ci sono ancora una marea di giochi sponsorizzati dalle celebrità come Bad Day on the Midway dei Residents, la misteriosissima band Avant-Rock, Spice World delle Spice Girls, il first person shooter Psycho Circus: the Nightmare Child dei Kiss, Ed Hunter degli Iron Maiden e molti altri. Tuttavia, vorremo finire questa carrellata anni ’90 con il più iconico in termini di bruttezza: abbiamo visto che i giochi finora discussi avevano sempre qualcosa di pertinente con la celebrità o la band proposta nel gioco; il gioco di cui parliamo invece è un puro volo pindarico, impossibile immaginare come si possa aver collegato il giocatore di basket Shaquille O’Neal con il Kung Fu. Ovviamente stiamo parlando dell’infimo Shaq Fu, un picchiaduro che include dei personaggi fittizi in un mondo di fantasia… e Shaquille O’Neal! Il gioco non solo è una delle peggiori trovate commerciali mai concepite nella storia dell’umanità, ma anche uno dei peggiori giochi mai creati in termini di gameplay e controlli. Pensate che esiste un apposito sito creato appositamente per distruggere ogni singola copia di Shaq Fu, sia per SNES che per Sega Mega Drive. Tuttavia, il culto di questo gioco su internet ha permesso nel 2014 di lanciare il Kickstarter per Shaq Fu: a Legend Reborn, progetto che è stato finanziato con successo e che ha visto il suo rilascio proprio pochi giorni fa. Evidentemente, le cose alla fine sono girate per il verso giusto per Shaquille O’Neal!

E oggi?

Oggi i giocatori sono fin troppo svegli e un gioco del genere, buono o cattivo che sia, non sopravviverebbe alle ire degli utenti di Reddit, Twitter e Facebook. A ogni modo, non troppo tempo fa abbiamo comunque visto dei bei party game che si sono saputi distinguere e hanno offerto ai giocatori tante belle ore di gioco: parliamo ovviamente dei titoli tematici di Guitar Hero direttamente pubblicizzati dalle band (vedi Guitar Hero: Aerosmith, Guitar Hero: Metallica, etc…), Beatles & Green Day: Rock band e Singstar che ha visto persino la promozione dell’italianissimo Vasco Rossi.
La storia di Shaq Fu: a Legend Reborn ci insegna che tutto è possibile e perciò, chissà, magari presto vederemo giochi assurdi come Al Bano in Wonderland, Sgarbi Fu oppure un Leisure Suit Silvio!




I migliori board game tratti dai videogame

Si avvicinano le vostre vacanze estive e non potete portare con voi la vostra console con i vostri giochi preferiti? Non c’è problema! Potreste sempre acquistare un gioco da tavolo.
Ormai come sappiamo dagli elementi di un videogame è possibile trarne fuori quasi ogni tipo di genere per l’intrattenimento, dai film a serie tv, giocattoli e persino board game. Negli ultimi tempi parecchi franchise famosi si stanno tuffando nel settore, ma solo alcuni riescono a portare qualcosa di davvero nuovo e coinvolgente.

Prendiamo come esempio lampante, tutti quei brand, come Zelda, Super Mario, Skyrim o Fallout e fidatevi, tanti, tanti altri, che anziché studiare qualcosa che sia in linea con il gioco in modo da offrire un prodotto originale, si affidano semplicemente alla semplice trasposizione, di alcuni degli elementi che li caratterizzano, in giochi come il Monopoli, Risiko!, o semplicemente in un gioco di carte, come per esempio Resident Evil Deck Building Game, in cui ci si limiterà a sfidarsi in un testa a testa utilizzando carte pescate dal deck.

In questo modo non offrono nulla di davvero significativo all’utenza: l’amante dei videogiochi, vuole qualcosa che duri nel tempo, un’esperienza di gioco che offra avventure durature e sempre nuove, in cui astuzia, ingegno e strategia siano il pane quotidiano.
Fortunatamente non tutti i brand si lasciano trasportare dalla corrente e spesso riescono anche a creare qualcosa di veramente eccezionale. Come Dark Souls: The Board Game, un dungeon crawler con tabellone modulare che ha mandato in solluchero i fan, con avventure degne del brand e miniature tanto belle e dettagliate da far girar la testa anche ai giocatori più esigenti.

Altri titoli sono in lizza come This War of Mine: The Board Game, un progetto nato tramite Kickstarter e quasi interamente fedele alla controparte digitale. Un gioco cooperativo in cui i partecipanti dovranno fare delle scelte morali, raccogliere informazioni e beni per la sopravvivenza e combattere con gli altri sopravvissuti se necessario. Il gioco prevede oltre 1900 tipologie di eventi differenti in cui i giocatori potrebbero trovarsi coinvolti e, nonostante comprenda centinaia di carte e token vari, come potete notare dalla foto, nasce in realtà per essere un “open & play” quindi ci vuole veramente pochissimo tempo per impostare una partita.

Ci sono inoltre giochi altrettanto belli ma più strategici: è il caso di The Witcher: The Adventure Game., con un tabellone un po’ più “classico” rispetto a quelli visti fino a ora. Ma non dimentichiamo le trasposizioni da tavolo di Doom e Gears of War: anche per questi due, le miniature catturano completamente la scena lasciando il resto quasi in secondo piano. Può essere davvero complesso riportare su tavolo un gioco come Doom, con le sue caratteristiche orde di demoni furiosi, sparatorie al cardiopalmo e glory kills ma, fidatevi di me, Doom: The Board Game, ha davvero tutto, anche le glory kills! In questo gioco co-op da 2 a 5 giocatori possono scegliere di schierarsi con i soldati della UAC oppure con i demoni e giocare in una serie di scenari differenti grazie alla board modulare a tessere. Meccaniche molto simili a quelle di Gears of War, che prevede un full immersion nel mondo delle locuste, con meccaniche, armi, abilità e compagni con i quali si dovrà pianificare la strategia giusta per eliminare gli alieni. Anche qui le dinamiche richiamano a gran voce quelle che troviamo nel videogioco.

Insomma, il mondo dei board game è davvero sconfinato, i succitati sono solo alcuni dei titoli disponibili tra quelli tratti dai videogame e, considerando che questa categoria di giochi coinvolge sempre più appassionati, speriamo possa esserci sempre più ragione di parlarne con titoli sempre nuovi e originali.




Genitori consapevoli per un’esperienza di gioco migliore

Per molti genitori, i videogiochi online, o il videogioco in generale, possono rappresentare un mondo sconosciuto e/o pericoloso per il proprio figlio, che potrebbe addirittura danneggiarlo mentalmente. A volte il gioco è solo una parte di un problema ben più grande, altre volte il problema si trova all’interno del gioco stesso e, quando accade qualcosa di effettivamente spiacevole, non c’è scusa che tenga, la soluzione universale sembra essere quella di allontanare il ragazzo dalla “fonte”, in modo che il fatto non si possa più ripetere e invitare gli altri a fare altrettanto.
Qualcosa di analogo è accaduta recentemente all’interno di Roblox, un multiplayer online creato ad hoc per bambini o ragazzi molto giovani, che conta 64 milioni di giocatori e dove la fantasia degli utenti fa da padrona indiscussa. Il problema arriva quando si fa uso improprio della libertà data per creare situazioni totalmente contrastanti con l’ambiente di gioco, in questo caso un ambiente volto a far socializzare e divertirsi: l’avatar di una bambina di sette anni è stato “stuprato” da altri tre giocatori che avevano creato degli strumenti a forma di pene. Chiaramente la scena non era esplicita, ma sfruttando e usando impropriamente determinate azioni che è possibile fare è stato possibile arrivare a una rappresentazione fortemente allusiva, che ha comunque cambiato in negativo l’esperienza di gioco della vittima. La madre è venuta a conoscenza dell’accaduto e ha raccontato tutto su un post su Facebook, dicendo di essersi sentita traumatizzata e violata, invogliando altri genitori a disinstallare il gioco dai device dei loro figli, per impedire che potesse accadere lo stesso anche a loro. Ovviamente i colpevoli sono stati segnalati agli sviluppatori e bannati in modo permanente.
Per molti la reazione della madre potrà risultare naturale ma, pur risultando comprensibilissima l’istintiva reazione di un genitore, quella di invogliare i giocatori ad abbandonare la piattaforma è la soluzione migliore?

Voler allontanare un pubblico sensibile da ambienti dove avvengono fatti del genere è un atto di difesa istintiva, ma mette in atto un’ulteriore, piccola ingiustizia nei confronti di chi ne ha già subita una. Di certo a subirne le conseguenze dovrebbe essere chi causa il problema, senza negare il divertimento videoludico a chi segue le regole e la netiquette.
Gli sviluppatori di Roblox hanno allora creato una guida per i genitori, in modo che entrambe le parti possano collaborare per dare agli utenti finali, cioè i ragazzi, quello che tutti vogliono: un’esperienza di gioco divertente e priva di pericoli.
Le soluzioni prospettabili sono due: la prima è di difficile attuazione, e consiste nel controllare qualsiasi cosa venga creata dagli utenti e assicurarsi che sia qualcosa di innocente e che non possa essere usata in modo improprio; ma i moderatori non potrebbero mai gestire agevolmente 64 milioni di utenti, né rilevarne violazioni come quella sopra raccontata. La seconda opzione è quella del dialogo, cioè creare un rapporto di collaborazione e sicurezza tra giocatori, genitori e moderatori per allontanare il prima possibile tutti quegli elementi che rovinano l’esperienza di gioco: se il ragazzo trova qualcuno del genere deve parlarne subito con la famiglia o, meglio ancora, direttamente con lo staff del gioco, il tutto in modo genuino e senza vergogna.
La nostra è un’epoca dove questi aspetti sono difficili da gestire, ci si sta affacciando adesso al medium videoludico in maniera più approfondita e non è facile interpretare i problemi e individuare le forme di protezione più efficace. Un’etica del giocatore è ancora in divenire, le regole si costruiscono giorno per giorno, i pericoli non sono pochi, soprattutto per i minori. Ma il gioco ha anche fini formativi, i vantaggi apportati dal videogame sono stati anche studiati dalla scienza: scappare non è la soluzione.
Quindi, cari genitori, se mai dovesse succedere ai vostri figli qualcosa come quanto raccontato sopra, non disinstallate, non sequestrate: informatevi sul da farsi, cercate delle guide, contattate gli sviluppatori e collaborate affinché si possano approntare rimedi e vi sia il minor impatto possibile sulla futura esperienza da giocatori dei vostri ragazzi, che hanno diritto di continuare a vivere esperienze virtuali. Se li indirizzerete anche verso le migliori esperienze videoludiche, se passerete loro un messaggio di equilibrio riguardo quanto e come fruire del mezzo, contribuirete alla loro crescita, e creerete allo stesso tempo un ambiante di gioco migliore per tutti.
Giocare dovrebbe essere anche un momento di edificazione umana, atto a farci dimenticare tutto il male intorno a noi: quel di cui potremmo essere vittime nel mondo virtuale, è grave, ma, sfruttando una safe-zone che è quella davanti al monitor, può insegnarci a essere più guardinghi nella realtà di tutti i giorni. E queste esperienze, questi insegnamenti, sono quelli che più di ogni altra cosa dobbiamo imparare a difendere.




Il pessimismo di Keita Takahashi

Se avete vissuto appieno la sesta e la settima generazione PlayStation (gli anni di PlayStation 2 e 3), quello di Keita Takahashi è un nome che sicuramente non può esservi sfuggito. Un tempo parte di Namco Bandai e ora sviluppatore in proprio, il game designer giapponese ha ottenuto una certa fama grazie ai suoi titoli particolari e fuori dagli schemi per quanto i temi trattati siano semplici e talvolta persino bambineschi: dall’inglobare all’interno di una palla oggetti, persone e continenti per farla diventare talmente grande da diventare una stella nella serie di Katamari all’essere una sorta di verme quadrupede in Noby Noby Boy che deve allungarsi sempre di più per raggiungere, a partire dalla Terra, pianeti sempre più lontani.
Nel 2010 Takahashi ha lasciato Namco a causa della non buona esperienza avuta in azienda e per qualche tempo si è dedicato alla creazione di un parco giochi a Nottingham, progetto che però non è mai stato concluso.

Buona parte delle sue creazioni ha riscosso un buon successo tra il pubblico, e anche il suo ultimo titolo, Wattam, attualmente in cantiere e atteso entro la fine di quest’anno per PS4 e PC, sembra stia già riscontrando un feedback positivo. Questa volta non si dovrà diventare fisicamente grandi o lunghi, ma l’unica cosa che si dovrà ingrandire sarà la nostra cerchia di amici. Sì, l’obbiettivo principale di Wattam è quello di creare legami con ogni sorta di personaggio che si incontrerà durante la nostra avventura.
Come già detto, sono tutti tutti giochi molto vivaci che ispirano felicità e spensieratezza, ma paradossalmente ciò che prova l’autore riguardo la sua carriera è tutt’altro che felice. Nonostante i numeri parlino chiaro, Takahashi non crede che i suoi giochi siano stati dei veri successi, non al pari dei tripla A, e pensa che non sia riuscito a fare davvero la differenza all’interno dell’industry videoludica. Si sente pessimista persino sul titolo a cui sta attualmente lavorando, nonostante voglia veramente andare controcorrente e cambiare la visione standard del videogioco. Proprio come accadde con Katamari e Nobi Nobi, teme che la sua opera non possa piacere proprio per il suo essere diversa dai giochi più amati dal grande pubblico.
È vero che molti dei videogiochi più famosi hanno tante cose in comune che aiutano a renderli, appunto, famosi, ma è anche capitato, sopratutto nel mondo indie, di assistere a dei veri e propri boom di notorietà che hanno portato giochi di generi discostanti da quelli che attirano di più a diventare delle vere e proprie pietre miliari. Sarà la stessa sorte che toccherà a Wattan o avrà ragione il suo creatore?




Shuhei Yoshida racconta gli alti e bassi di PlayStation

PlayStation è da sempre stata uno dei migliori brand di console al mondo, vivendo anch’essa di alti e bassi, lanciando sul mercato console di successo come PlayStation 4 Pro ma anche PlayStation Vita, di cui noi tutti conosciamo storia ed esiti. Il presidente di Sony Interactive Entertainment Worldwide Studios, Shuhei Yoshida, ha fatto luce su cosa è andato bene e cosa no nella storia di PlayStation.
Ricordando il successo di PlayStation 2, Yoshida ha dichiarato:

«A causa della rapida transizione tra PlayStation e PlayStation 2, non avevamo idea di come l’industria avrebbe reagito»

Yoshida ha scherzato sul fatto che quando è stata lanciata PlayStation 2 non c’erano molti titoli disponibili, ma ha notato che i prezzi delle console erano sconvolgenti, soprattutto quando gareggiavano per emergere anche sul mercato dei lettori DVD. A tal proposito:

«È stato davvero un successo fin dall’inizio; PS2 è stata venduta oltre le aspettative. Ma quando è stata lanciata in Giappone, il software più venduto era in realtà il DVD Matrix. Il DVD stava ancora prendendo piede, ma era un sistema molto costoso ma PS2 uscì con la stessa capacità di lettore DVD di alta qualità con prezzi molto più bassi e dirompenti»

Il successo è stato molto meno incisivo con il lancio di PlayStation 3 e Yoshida ha ricordato il prezzo rivelato all’E3 come un “momento orribile”. Accoppiato con un catalogo limitato di terze parti e un’infrastruttura hardware che era notoriamente difficile da realizzare per i giochi, PS3 è stata nei guai fin dal primo minuto.

«Ken Kutaragi è stato un geniale ingegnere: la squadra che ha lavorato per lui era molto motivata, infatti era un grande motivatore»

E a proposito:

«Forse stava usando i videogiochi come un trampolino di lancio per realizzare la sua visione e i suoi sogni. Voleva diventare il prossimo Intel o qualcosa del genere. Non ha visto il bisogno di coinvolgere gli sviluppatori di giochi nella progettazione del sistema: è così che è stata realizzata PS3 ed è stato molto efficace»