Forza Horizon 4: una demo, una sicurezza

Normalmente il 2012 è ricordato per la terribile profezia Maya, che avrebbe annichilito la terra in data 21 dicembre (per la cronaca, siamo ancora qui) o per il centenario della tragedia del Titanic o per il miliardo di visualizzazioni di Gangnam Style su YouTube. I ricordi dei videogiocatori sono abbastanza diversi ma quasi tutti concordi: l’arrivo di Forza Horizon ha segnato in maniera indelebile i racing arcade e, da allora, il titolo di Playground Games non ha fatto altro che migliorare mantenendo incontrastato il proprio posto sul trono. Giunti al quarto capitolo, le novità sono consistenti e possiamo essere già sicuri di una cosa: anche nei prossimi due anni Horizon manterrà con forza lo scettro di miglior racing arcade.

Una quattro stagioni

Come già saprete, il perno centrale su cui ruota tutta la produzione è il cambiamento climatico che, rispetto a Project CARS 2, si espande in maniera più concreta e sull’intero ambiente di gioco. Dalla bellissima sequenza introduttiva possiamo già cogliere le differenze nette tra le varie stagioni, studiate a puntino sopratutto per nel rapporto tra la temperatura dell’asfalto e quella delle gomme. Non stiamo certo parlando di una simulazione certosina, del resto è e rimane un racing arcade, ma sono differenze che si notano, risaltate dalla disattivazione degli aiuti di guida. Il passaggio da estate a inverno è evidente: sia che si tratti di sterrato o asfalto, l’attenzione dedicata alla guida aumenta esponenzialmente alle temperature più basse, dovuta principalmente alla fredda temperatura delle gomme e alla conseguente minore aderenza. L’incidente dunque è sempre dietro l’angolo, ma è anche un’occasione per constatare quanto la fisica sia migliorata e una distruttibilità ambientale più marcata, anche se dovrà essere verificata più nel dettaglio.
Forza Horizon 4 sembra essere – come al suo solito – estremamente vario: abbiamo potuto partecipare ad alcuni eventi partendo con mezzi base come Audi TT o Lancia 037 per lo sterrato, oltre a uno spettacolare evento da stuntman che ci ha posto nelle condizioni di inseguire un jet a bordo di una Bugatti Chiron. La natura sandbox del titolo dunque permane, con la possibilità di sbloccare via via degli “avamposti” che diventeranno il nostro hub e garage, permettendoci anche il viaggio rapido.Tornano anche le personalizzazioni, dall’avatar alla vettura, probabilmente molto più varie e complete rispetto ai precedenti capitoli.
Ma altra novità, passata un po’ sottotraccia, è il cambiamento avvenuto nell’online, trasformando Horizon in un vero e proprio MMO, con 72 giocatori contemporanei: questa volta, potremo far parte del Team Adventure, un PvP in cui due squadre composte da sei utenti possono gareggiare per far parte delle diverse leghe presenti. Ma questa struttura varia in maniera netta il mondo di gioco, avendo a che fare con comportamenti reali e non “semplici” riproposizioni come i Drivetar, che rimarranno a disposizione del single player.

Lo stato dell’arte

Ricordando che il titolo nasce nativamente a 4k per essere sfruttato dall’ammiraglia Microsoft (Xbox One X), Forza Horizon 4 fa sfoggio di sé anche a 1080p, con vetture realizzate minuziosamente sia negli esterni che all’interno e un environment britannico semplicemente superbo, pulito e risaltato da un ottimo impianto luci, capace di rendere alla perfezione il cambiamento di clima. Tutti le texture, gli shader e i poligoni sembrano essere al loro posto, perfetti, e anche i vari filtri riescono a restituire un’immagine priva di difetti evidenti, in tutte le condizioni.
Sul fronte audio siamo anche qui su altissimi livelli. Pur non avendo potuto approfondire le variazioni climatiche, già dall’anteprima si è potuto notare come i cambiamenti non sono solo visivi ma anche sonori: è tutto l’ambiente a “suonare” diversamente, a cominciare dal contatto tra asfalto e gomme. I rombi dei motori, benché non raggiungano le vette toccate da Kunos Simulazioni, si presentano in maniera del tutto similare a quelli del fratello “serioso” Forza Motorsport 7. Ottimi, ma non eccezionali.

In conclusione

Nonostante il poco tempo a disposizione, Forza Horizon 4 ci ha convinti: l’implementazione delle stagioni, i miglioramenti alla fisica e alla struttura ludica sembrano essere ben integrati e in grado di differenziare il titolo in maniera netta dai propri predecessori. Peccato solo che la Gran Bretagna non offra scorci eccezionali come fu per ambientazioni come l’Australia, ma, tralasciando questo aspetto, siamo sicuri che il nuovo lavoro di Playground Games non deluderà nessun amante dei racing game. Appuntamento dunque al 2 Ottobre su Xbox One e PC.




FIFA 19: le impressioni dalla demo

Come ogni anno, l’arrivo del nuovo FIFA sugli scaffali segna l’inizio definitivo della nuova stagione calcistica, correlando gioie e delusioni del calcio reale a quello digitale. FIFA 19 è l’ennesima evoluzione del calcistico canadese cominciata con FIFA 17 e con l’avvento del Frostbite Engine, presentando diverse novità sul piano contenutistico e alcune di gameplay, che hanno un impatto visibile già dalle prime partite di questa demo. In attesa della recensione, dunque, diamo un primo sguardo a queste novità.

Verso il Triplete

L’arrivo in pompa magna della Champion’s League e competizioni tangenti non è certo passata inosservata, tanto che ha avvicinato alcuni utenti dell’altra sponda (PES) al nuovo titolo Electronic Arts. L’integrazione di questa aggiunta sembra totale, a cominciare dalla modalità Kick-Off completamente rivista: abbiamo infatti a disposizione non solo la classica amichevole, ma anche una serie di match da affrontare all’interno di tornei ufficiali e una serie di parametri in grado di modificare pesantemente gli incontri. Pur non presenti nella demo, sappiamo già che sarà possibile affrontare delle amichevoli molto particolari in cui spicca la modalità “Sopravvivenza“, nella quale un giocatore lascerà il campo una volta segnata una rete, fino alla vittoria di chi si ritroverà con meno calciatori sul rettangolo di gioco. Ma sarà possibile giocare amichevoli dove varranno ad esempio soltanto i tiri da fuori area, o quelli al volo e via dicendo, sino a una gara senza regole dunque, senza fuorigioco, falli e tutto l’impianto regolamentare del calcio moderno. Inoltre, potremmo affrontare le varie fasi della Champion’s in totale libertà e, cosa importante, richiesta dagli amatori del single player, tutte le nostre statistiche verranno raccolte in un infografica visibile costantemente nel menu.
Le novità fortunatamente non si fermano ai contenuti: una volta scesi in campo si nota subito l’impatto degli Scontri 50/50, una feature che permette una migliore gestione della fisica, prendendo in considerazione la reale stazza degli atleti. Già dalle prime battute, infatti, assisteremo a contrasti più realistici e battaglie più marcate per il possesso palla. Risaltano anche le differenze tra i vari calciatori in cui – in parole povere – un Verratti farà molta fatica a contrastare un Dembélé del Tottenham. Anche l’Active Touch System presenta delle novità sostanziali: i calciatori che ricevono palla modificano la postura in base al contesto in cui si trovano, se tra attacco o difesa, se pressati o liberi di muoversi. La posizione che assumeranno, dunque, modificherà il tipo di impatto che avrà il corpo sul pallone e viceversa, aggiungendo un tocco in più verso il realismo. Infine, il Timed Finishing, disattivabile dal menu di personalizzazione delle assistenze al gioco, funziona in maniera del tutto simile alla ricarica delle armi in Gears of War. Questa volta per colpire bene il pallone serviranno due tocchi del tasto adibito al tiro, uno per la potenza e uno per l’impatto dove, il tempismo, sarà fondamentale. Effettivamente serve un minimo di pratica per assimilare la nuova meccanica, soprattutto se abituati al vecchio sistema: non è detto infatti che colpendo il pallone con le stesse modalità con cui avveniva nei precedenti episodi l’esito sarà il medesimo.
Ma le novità non si fermano qui. Una piccola grande implementazione è data dalle Tattiche Dinamiche, che vanno ad aggiungersi al menu contestuale dell’atteggiamento della squadra in campo, da difesa a oltranza ad attacco totale. Prima di una partita abbiamo la possibilità di associare a ogni tipo di comportamento uno schema ben preciso, con modulo, posizione in campo dei giocatori e tattiche completamente personalizzate e variabili in tempo reale durante il corso della partita. Facendo un esempio potremmo associare alla difesa a oltranza per difendere un risultato importante un 5-4-1 oppure ad attacco totale un 4-2-4. Una volta cambiato atteggiamento col d-pad vedremo spostarsi dunque i calciatori in tempo reali, assumendo la nuova posizione. C’è un “però”: l’uso indiscriminato di tale pratica può aprire enormi spazi su campo e letali se sfruttati dagli avversari. È bene dunque cambiare tattica una volta tranquilli e con il possesso palla.

La chiamavano Trinità

All’interno della demo è presente anche un piccolo estratto del Viaggio: Campioni, ultimo episodio della serie dedicata ad Alex Hunter. Anche qui le novità sono molteplici, a cominciare dalla possibilità di scegliere già da subito la sorellastra Kim Hunter o l’amico/rivale Dennis Williams, ora nel Manchester United. Hunter invece, è un nuovo giocatore del Real Madrid e questo avrà delle forti ripercussioni sulla sua carriera come del resto sul suo carattere. Il successo, la fama e la gloria potrebbero destabilizzare il giovane calciatore inglese ma questo, lo vedremo in dettaglio sul titolo completo. In questa preview abbiamo avuto solo modo di giocare come Alex, in un match di Champion’s League contro lo United. Le meccaniche sembrano le medesime ma sappiamo già che il protagonista potrà scegliere come “mentori” tre campioni del Real come Modric, Marcelo Kroos, che avranno un impatto importante non solo sull’aspetto ludico, ma anche nella vita privata.
A livello tecnico invece non sono presenti grosse novità. Si può notare una migliore cura delle divise, nuova regia per alcune cutscene e nuova inquadratura alle spalle del portiere al rinvio da fermo, permettendo una migliore visione del campo, soprattutto se si vuol giocare palla corta. Le vere novità probabilmente le vedremo con l’implementazione del ray tracing, magari già dal prossimo anno.

In conclusione

Manca poco ormai all’arrivo di FIFA 19 che si presenta davvero ricco dal punto di vista contenutistico e con alcune implementazioni al gameplay che ne migliorano il feeling. Nonostante alcune piccole criticità sembrano permanere come fisica del pallone non proprio precisa e forse una eccessiva velocità di gioco, il titolo Electronic Arts si appresta a conquistare il mercato, nonostante il suo rivale sia uscito da circa un mese.




Two Point Hospital

Facciamo un salto indietro nel tempo: 1997, anno d’uscita di Theme Hospital di Bullfrog. Uno dei gestionali più amati di tutti i tempi: sia per il gioco in sé, vasto e profondo per l’epoca, sia per la sua incredibile ironia e leggerezza nel trattare un tema spinoso come quello delle malattie. In quegli anni era la prassi lottare con teste giganti ed imitatori di Elvis Presley, e il gioco fu una delle ultime hit dello studio inglese fondato da Peter Molyneux e Les Edgar, prima di essere accorpato agli studi inglesi di Electronic Arts.
Torniamo al presente: dopo ben ventuno anni esce Two Point Hospital, seguito spirituale di Theme Hospital creato da Two Point Studios, studio di sviluppo che vede nel team due figure fondamentali che hanno partecipato alla creazione del predecessore, i designer Mark Webley e Gary Carr.

Ma andiamo a vedere come si propone questo seguito spirituale…

I’m no Superman

Two Point Hospital ci presenta da subito un sistema di progressione simile a quello visto in giochi come Overcooked: con dei livelli (o meglio, strutture ospedaliere) dove si devono ottenere delle stelle. Per ottenerle, basta seguire delle simil-quest varie per livello, come l’ottenere un’alta reputazione o conseguire un certo numero di pazienti curati. Una struttura che ben si sposa con un titolo del genere, facendo contento sia chi voglia ottenere la singola stella atta a sbloccare le altre strutture nel minor tempo, che i completisti. Vi è anche un minimo di backtracking, visto che è possibile tornare nei precedenti livelli quando si vuole, direttamente dalla mappa di gioco, così da aggiungere stanze e oggetti sbloccati avanti nel tempo e magari ottenere quella tanto agognata terza stella.

Ma passiamo al gioco vero e proprio: il design è rotondo e gommoso, e il lavoro di Ben Huskins e Gary Carr sembra quasi un’evoluzione di Theme Hospital, e ben si sposa con l’atmosfera del titolo. Il gameplay è vario e, nei momenti più concitati, come le emergenze che consistono nell’arrivo di pazienti da curare il prima possibile, offre quel giusto grado di sfida tipica dei titoli del genere, e del predecessore. La costruzione e la pianificazione delle stanze che formeranno il nostro ospedale dei sogni è tanto semplice quanto completa, con un editor che prende a piene mani dal titolo originale e anche da giochi come The Sims di Maxis: in poco più di qualche secondo, avremo creato il nostro ospedale dei sogni, con stanze e oggetti che sbloccheremo man mano nel gioco. Siano esse ottenute tramite ricompensa per le stelle raggiunte, o sbloccate tramite i kudosh, punti accumulabili tramite varie quest lanciate dal nostro staff, una delle novità introdotte in Two Point Hospital.

I cultori dell’originale titolo Bullfrog sanno, però, che la feature più importante del gioco erano le malattie, ricettacolo di incredibile ironia e motivo di divertimento. Per fortuna, nonostante la lunga assenza, le patologie divertenti (per quanto possa risultare un ossimoro) non mancano. I testoni e gli imitatori di Elvis lasciano il posto a uomini-lampadina, pentole incastrate in testa, e soprattutto imitatori di Freddie Mercury e del Tony Manero de La Febbre del Sabato Sera. A tal proposito: un plauso alla localizzazione italiana per l’ottimo lavoro svolto, che ha visto trasformare l’originale “mock star” in “rapsodite”, rendendo più netta e divertente il collegamento riguardante lo storico frontman dei Queen. E non sarà nemmeno l’unica citazione pop nascosta nel gioco! Two Point Hospital offre di tutto, dai Ghostbusters passando a Grey’s Anatomy, il gioco è una continua celebrazione della pop culture dagli anni ‘80 fino ai giorni nostri.

Insomma, concludendo, questo Two Point Hospital è un centro sotto tutti i punti di vista: il titolo è principalmente mirato agli orfani di Theme Hospital che hanno dovuto aspettare ben ventuno anni per avere un altro capitolo della serie, seppur come sequel spirituale. Le sfide sono tante, e tutto ciò va a favore della longevità del gioco, davvero vasto e capace di far pronunciare al giocatore le fatidiche parole “altri cinque minuti e stacco”, come ogni buon gestionale che si rispetti. Ora, si spera solamente di non dover attendere altri vent’anni e passa per un sequel ufficiale… ma, nel frattempo, diamo il bentornato a uno dei capisaldi del genere gestionale!




The Void creerà delle esperienze VR per Marvel e Disney

The Void, compagnia che sviluppa software per la realtà virtuale e aumentata, ha annunciato che realizzerà cinque esperienze “mixed reality” basate su IP Disney e Marvel Studios.
Ultimamente sembra che l’interesse delle compagnie verso il mixed reality stia aumentando, creando esperienze più accessibili agli utenti anche se, nonostante i visori  VR/AR/MR costino sempre meno, sono ancora in gran parte ignorati dalla massa.
Come riportato da Fast Company, oltre alla partnership con ILMxLAB (ramo entertainment di LucasFilm), la prima esperienza in mixed reality sarà basata sul prossimo film Disney Ralph spacca internet – Ralph Spaccatutto 2 , che debutterà a Novembre.
Questa non è la prima volta che The Void collabora con Disney: l’anno scorso ha creato un’esperienza MR a tema Star Wars.
Sarà interessante vedere se questo tipo di esperienze incoraggeranno le masse ad adottare nuove tecnologie VR.




Immortal: Unchained – La Sindrome di Stoccolma

Quando sei un piccolo team di sviluppo, appena nato, con poca esperienza ma con grande voglia di fare, non è facile varcare il confine che porta al successo. Questo vale per tutti gli ambiti, incluso ovviamente quello videoludico, nel quale Toadman Interactive si è lanciata nello sviluppo di un titolo ambizioso e che sembra fare tanto il verso ai capisaldi di molti generi. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con un souls in salsa fantascientifica (non ultimo The Surge di Deck13), ma Immortal: Unchained è diverso, e pare già essersi fatto conoscere come il “Dark Souls con i mitra“. Effettivamente, unire meccaniche da TPS a un souls like sembra un’operazione folle e un po’ fuori dal mondo, eppure, seppur con qualche scivolone, sembra funzionare.

Da cosa nasce cosa

Approcciarsi alle vicende scritte da Anna Tole (The Witcher) e Adrian Vershinin (Crysis 3, Battlefield 1), come in ogni buon souls like che si rispetti, non è operazione delle più semplici. Salvo qualche eccezione (vedi Nioh), in più titoli del genere l’insieme si presenta in maniera frammentata, raccogliendo manufatti, sbloccando armi o attivando dei “dispensatori di lore“. Eppure, nonostante qualche palese citazione, tutto funziona, fregiandosi della tanto in voga “profezia da compiersi” ma in salsa del tutto nuova.
Tutto, ma proprio tutto, ha inizio da un Monolite misterioso, che con la sua energia dà vita all’Universo e ai nove mondi protagonisti delle vicende. Come da prassi, si scatenano guerre per il controllo di un simile potere, e da questi conflitti sono i Prime a trarne vantaggio, avviando così un’era prospera. Una volta creato il nostro personaggio attraverso un menù avaro di elementi di personalizzazione, saremo chiamati a risvegliare il potere del Monolite per scongiurare l’apocalisse in arrivo, anche se si avranno un po’ di sorprese lungo il cammino, sino a un finale interessante e per certi versi coraggioso.
All’interno del titolo avremmo a che fare con NPC, pochi a dir la verità, ma ben scritti e preziosi per scoprire lati della storia più intimi ed emotivi, ma anche per instillare qualche piccolo dubbio al giocatore sul proprio percorso e sulle proprie azioni.
Molto dunque viene raccontato attraverso dialoghi e descrizioni, ma non mancano alcune cutscene, narrate attraverso artwork interessanti stilisticamente ma che rischiano di distanziare un po’ il giocatore dal racconto; solo l’ultima cutscene è generata con il motore di gioco, fortunatamente. Non è presente un “new game+”, né multiplayer o altri elementi online, ma Toadman ha precisato che molte feature verranno introdotte in futuro, già a partire dai prossimi mesi.
Per la cronaca, il titolo è stato completando in circa 25 ore di gioco, con qualche portale residuo ancora da aprire e qualche boss opzionale da affrontare.

Tra Chuck Norris e Carla Fracci

Tutto ha inizio nel Nucleo, il nostro hub centrale che somiglia vagamente al Nexus di Demon’s Souls. Da qui potremo interagire con gli NPC, personalizzare il nostro equipaggiamento e livellare. Ma, cosa ancor più importante, potremo teletrasportarci verso i tre mondi che è possibile visitare: Arden, Veridian e Apexion. La parte succosa del titolo è il gameplay, un po’ schizofrenico, capace di passare da buone idee e ottimi spunti a scivoloni grossolani. La caratteristica principale di Immortal è di essere un TPS (Third Person Shooter) abbinato alle classiche meccaniche da souls, comportando un approccio completamente nuovo in entrambi i sensi: in primis, la possibilità di colpire i nemici, ed esser colpiti dalla distanza è alquanto straniante al primo approccio, dovendo schivare i colpi in arrivo a più riprese e al contempo – se possibile – aggirare l’avversario per colpirlo alle spalle o destabilizzarlo, situazione simile a Nioh o probabilmente al futuro Sekiro.
Altra meccanica interessante, ma mitigata rispetto alla versione di prova, è il danno localizzato: possiamo colpire arbitrariamente gli arti, smembrando così i corpi dei nostri poveri nemici. Una volta colpito l’arto dove è impugnata l’arma, si attiveranno anche animazioni uniche dove l’avversario cercherà di colpirci come può. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione a risparmiare proiettili in quanto, una volta terminati, saremo in balia dei nemici, che come noi dovranno fermarsi a ricaricare. Fortunatamente, attraverso consumabili – se in nostro possesso – e una volta sbloccati i restanti slot per le armi, questo problema viene molto mitigato.  Il nostro arsenale si compone di diverse tipologie di armi, tutte con caratteristiche proprie: passiamo da carabine a fucili a pompa, per andare da pistole a SMG, fucili di precisione e lanciagranate. Queste armi si suddividono anche per il tipo danno inflitto, cosa che si sposa benissimo con le diverse resistenze dei vari nemici. Sono presenti anche armi corpo a corpo, consistenti in una coppia di lame, asce o martelli utili soprattutto per infliggere il colpo di grazia agli avversari e risparmiare così qualche proiettile. Queste armi purtroppo risaltano il primo dei grossi limiti del titolo: difatti, non possiedono moveset apposito, non vi è possibilità di effettuare combo o di incatenare colpi in maniera bizzarra tra uno sparo e un colpo melee. In fin dei conti è come se non ci fossero, limitando anche la costruzione di specifiche build o anche diversi approcci al combattimento. Le armi bianche, come quelle da fuoco comunque, sono potenziabili attraverso materiali recuperati e i Bit (la valuta del gioco), ma anche smantellabili, recuperando così oggetti per il crafting. Questo sistema, benché semplice, aumenta a dismisura la voglia di sperimentare l’utilizzo di armi diverse, grazie anche a un costo in Bit molto accessibile. A questo, si accostano anche dei perk (simil anelli di Dark Souls), suddivisi tra attacco, difesa e supporto: il loro utilizzo permette di variare leggermente build durante il gioco e, quando la situazione lo richiede, aumentare magari la salute, la stamina oppure la velocità di ricarica delle armi o il recupero di elementi per il crafting. La loro varietà è sicuramente un punto di forza, così come lo è del resto tutta la struttura su cui si poggia il gioco. Però… c’è un però: è possibile configurare tutto questo soltanto una volta attivato e utilizzato un Obelisco (Falò). Questo significa che, una volta trovata un’arma di nostro interesse, potremmo cambiarla soltanto riposandoci, limitando pesantemente il gameplay. Un altro limite è l’assenza di diverse corazze a disposizione, avendone soltanto una che, trovando gli appositi terminali di potenziamento, andrà via via assemblandosi sino al suo completamento; almeno abbiamo la possibilità di personalizzarla, scegliendo il colore e la livrea da applicare, una volta trovati i componenti necessari. Ma qui finora non abbiamo nemmeno scalfito la schizofrenia dei ragazzi di Toadman.

Pad alla mano le sensazioni sono abbastanza positive, con un impostazione simil-Bloodborne abbastanza intuitiva: nessun tipo di parata o di parry, tutto è riservato alle schivate che possono essere migliorate nei frame delle animazioni attraverso il level-up. Inutile dire quanto siano fondamentali. Il tutto, in generale, funziona: sfruttare l’intelligenza artificiale per dividere i nemici e poi colpirli singolarmente può essere una buona soluzione, anche se non sempre praticabile, vista la presenza di avversari capaci di teletrasportarsi che diventano un vero incubo. I nemici che affronteremo sono discretamente vari e suddivisi per tipologia. Il loro limite di aggro è variabile, per cui potrebbe capitare di essere seguiti fino alla fine dei tempi.
Ma il problema principale è l’equilibrio di gioco, il più grande peccato di Immortal, che consta di situazioni al di fuori delle comprensione umana ma anche di sezioni ben strutturate (Apexion su tutte) capaci di far venire il dubbio se un simile sviluppo sia stato portato avanti dalle stesse persone. Capiterà infatti di assistere a veri errori da principianti, come il posizionamento di Obelischi nel ben mezzo di un’orda di avversari che comporta lo spreco di risorse preziose mettendo semplicemente piede fuori da una zona che, da prassi, dovrebbe essere invece sicura. Questi errori si verificano anche nel level design, costruito ad hoc per far provare il brivido della scomunica a qualunque giocatore, creando una difficoltà accessoria dove magari vi sono già dei problemi da gestire. Eppure, anche qui, il level design riesce a volte a sorprendere, con ambienti molto grandi e ben collegati tra loro, ricordando – con la giusta cautela – i fasti di From Software. Anche il ritmo soffre dei medesimi problemi, con sezioni al cardiopalmo una dietro l’altra e momenti di vuoto assoluto, soprattutto verso il finale.
Ma veniamo alle boss fight, tutte abbastanza differenti fra loro, ma che in qualche modo non riescono a risultare memorabili. Se a volte il loro approccio deve essere “studiato”, facendo attenzione ai movimenti e ai tipi d’attacco, altre volte risultano un po’ troppo semplici, in quanto basta appostarsi alle spalle del nemico per finirlo senza alcuna difficoltà. Alcune di esse sono configurate come opzionali, oppure “segrete” sbloccando alcuni portali (tipo Stargate), in grado di trasferirci da un pianeta all’altro. Tutti questi problemi sono figli probabilmente della poca esperienza del team, ma forse anche frutto di una cattiva interpretazione dell’opera di Miyazaki in certi frangenti. C’è da dire però – per correttezza – che alcuni di questi problemi, anche se in misura molto più limitata, esistono anche nei capolavori di genere. Si sbaglia solo con le dosi, quindi.

Disincanto

Nel nostro vagabondare tra i pianeti, purtroppo, raramente troveremo scorci mozzafiato. Forse questo è uno dei limiti più grandi di Immortal: Unchained: sa fin troppo di già visto, tra il design delle costruzioni e persino dei nemici che, in qualche modo, richiamano personaggi di altri brand. Nonostante questa mancanza di idee e un certo piattume generale, ogni tanto il titolo sembra destarsi, regalando momenti di grande impatto visivo e in qualche modo memorabili, ma avviene così di rado che quasi a un occhio meno attento potrebbe sfuggire. Se il comparto artistico dunque non fa gridare al miracolo, figuriamoci quello tecnico in senso stretto, povero di dettagli e con qualche problema di troppo tra glitch, bug, qualche piccolo errore nelle collisioni, nei geo data, pop-up delle texture e nell’intelligenza artificiale. Quest’ultima, a dire il vero, riesce a sorprendere in molti frangenti, accerchiandoci o stanandoci con granate. Insomma, è un titolo che ha sicuramente bisogno di un’ulteriore rifinitura, con molti problemi risolvibili tramite semplici patch riparatorie.
Sul fronte audio, il titolo può vantare un buon doppiaggio inglese, espressivo al punto giusto e capace di caratterizzare adeguatamente gli NPC. Anche le musiche che accompagnano quasi sempre l’azione sono abbastanza azzeccate, dal tono epico ma soprattutto risultano funzionali. Effetti sonori nella media anche se alcuni in certi frangenti, sembrano quasi una tortura.

In conclusione

Una volta concluso Immortal: Unchained sarete chiamati a un’importante decisione: ricominciare, riscoprendo piccoli risvolti di trama a vostro rischio e pericolo o attendere l’uscita di alcune patch, permettendo un NG+ più equilibrato e tecnicamente più curato? Qualunque sia l’esito, la prima fatica di Toadman Interactive, seppur con tanti difetti, risulta un titolo interessante che, con piccoli accorgimenti, può diventare un ottimo spunto per un eventuale sequel. Sa essere molto cattivo, ma volete mettere la soddisfazione di superare tutte le avversità del fato digitale?

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Il calo degli utenti di PUBG

Secondo un grafico pubblicato da SteamDB lo scorso 10 Settembre, Playerunknown’s Battleground avrebbe mantenuto il record di una media di circa 1 milione di utenti giornalieri, per un intero anno dall’8 settembre 2017. L’unico gioco che su Steam sia riuscito a raggiungere 1 milione di giocatori giornalieri era finora Dota 2. Il titolo è andato così bene da arrivare a un picco 3,2 milioni di utenti nello scorso gennaio: è suonato quasi strano il calo dei giocatori nella giornata di ieri, dove PUBG si attestava sui 960mila utenti, con un abbassamento di 80mila giocatori rispetto al 9 Settembre. Ma la spiegazione arriva facile: come riporta anche Eurogamer.net, il calo potrebbe essere dovuto all’apertura della beta privata su Ps4 di Call of Duty Black Ops 4, nel quale è presente una modalità Battle Royale.

In ogni caso, gli utenti di PUBG sembrano essere in graduale calo. A cosa possiamo ricollegare questa perdita di giocatori?
Ovviamente in questi casi si pensa a Fortnite, eterno rivale del gioco di Bluehole che sta giocando bene la propria partita sul piano degli aggiornamenti e dei bugfix. Infatti, Pubg ha ancora numerosissimi bug grafici ed è proprio questo che fa preferire il titolo di Epic a un certo numero giocatori; oltre al fatto, per niente sottovalutabile, che Fortnite è gratis. Gli sviluppatori di PUBG Corp. avevano comunque annunciato già lo scorso Agosto la “Fix PUBG campaign“, pubblicando una roadmap che illustrava i cambiamenti e miglioramenti che verranno apportati nei prossimi 2 mesi, a partire dei bug grafici insidiosi.
La Battle Royale dunque continua, anche nell’arena dei developer.




Dead Cells

Sarebbe uno sbaglio definire Dead Cells come “l’ennesimo metroidvania con grafica retro 2D“. Il titolo dei francesi Motion Twin ha qualcosa di diverso dagli altri: Dead Cells è, infatti, il padre fondatore di un nuovo genere, che molte voci autorevoli del settore non hanno esitato a definire “roguevania”, un felice incontro tra uno dei generi più inflazionati degli ultimi anni (il metroidvania, appunto) e il roguelike (dinamico): dopo ogni morte del nostro personaggio, ricominceremo il gioco da capo conservando solamente le abilità che siamo riusciti a sbloccare nel corso delle nostre partite, ma perdendo ogni accessorio, arma o potenziamento trovati in giro per la mappa durante l’avventura, aspetto che personalmente non ho apprezzato affatto, probabilmente perché sono troppo legato alla modalità più classica, ma che effettivamente, per i giocatori più pazienti e caparbi, potrebbe diventare un espediente per non stancarsi di giocare.

Tutto inizia sempre dalla cellula

Come i primi esseri viventi immersi nel brodo primordiale, anche noi all’inizio del gioco saremo solo un ammasso di cellule, con la sottile differenza che le nostre saranno putride. Dopo una brevissimo intro in cui vedremo l’ammasso di cellule impossessarsi del povero cadavere di un soldato senza testa, saremo pronti per iniziare il nostro cammino e sbrogliare finalmente la matassa che cela il mistero della nostra esistenza: chi siamo, dove siamo e perché. La storia sarà una sorta di puzzle da comporre man mano, scopriremo andando qualche porzione, trovando pergamene o altri indizi qua e là nel corso del gioco. La narrativa non è da premio Pulitzer, ed è parecchio marginale: ma poco male, sarete più impegnati a godervi il gameplay che a seguire la storia.

Taglia lì, squarcia qui

Dopo la prima partita, che sarà quasi un tutorial, rinasceremo all’interno di una stanza (stanza che sarà differente ogni volta che ricominceremo la partita), gremita di strane ampolle e vasi pendenti; ogni volta che riusciremo a sbloccare una nuova abilità o arma, verrà inserita in uno di questi contenitori.
Lo scopo del gioco è quello di scoprire la nostra provenienza passando attraverso diversi livelli (13 in tutto, ma per completare il gioco non sarà necessario visitarli tutti). Non mancano le bossfight al termine delle quali potremmo ricevere importanti “drop” dal boss in questione, come armi rare o progetti per la creazione delle stesse. I boss non tantissimi, ma gli scontri sono congegnati in modo da regalare attimi di pura adrenalina, anche perché sappiamo già che essere sconfitti durante un combattimento segnerà la fine della partita in corso.
È interessante il sistema di livellamento delle abilità, acquisibili o potenziabili scambiando con uno strano essere chiamato “Il Collezionista” (che incontreremo in alcuni punti random della mappa) tutte le anime raccolte dai precedenti scontri con i mostri (sì, il discorso della raccolta di anime è un po’ un cliché, ma che volete farci?).
Per quanto riguarda le armi invece, più avanti nel gioco si sbloccherà anche il Fabbro, tramite il quale potremo migliorare quelle che abbiamo in dotazione ma non siate troppo entusiasti, perché non importa quale potentissima spada o arco abbiate trovato o creato: dopo la morte ogni vostra conquista andrà perduta e, volta per volta, quando ricominceremo il livello, potremo scegliere solo le armi base, costringendoci quindi a una sfrenata ricerca di armi più potenti in giro per il livello. Esiste un altro modo per trovare dell’ottimo equipaggiamento, ed è possibile grazie all’acquisto di armi o accessori presso i “mercanti”, presenti in punti sempre diversi della mappa: in questo caso lo scambio avviene tramite il denaro o le gemme preziose raccolte durante la partita. Può risultare frustrante a volte perdere denaro e anime dopo una morte inaspettata, quindi, una volta raggiunta una ingente quantità di materiali preziosi, grazie ai portali che man mano si andranno a sbloccare in giro per il livello, diventerà opportuno teletrasportarsi nei pressi di un mercante o di un “Collezionista”, in modo da poter investire quello che abbiamo faticosamente accumulato prima che sia troppo tardi.

Il Design è tutto

Per il titolo di Motion Twin non si parla di comparto grafico come qualcosa a sé stante, ma di qualcosa che risulta un tuttuno con game e level design.
L’utilizzo degli sprite, che rievoca uno stile retro molto in voga, sembra ormai esser diventato uno degli aspetti più comuni tra le etichette indipendenti, tanto che la medesima scelta è stata fatta anche per giochi come Slain! Back from Hell, Axiom Verge o ancora l’acclamato Bloodstained: Curse of the Moon.
La vera differenza del “moderno” modello retro di Dead Cells sta nelle animazioni degli sprite, fluide e ben dettagliate. I livelli sono molto caratteristici, e ognuno diverso dall’altro, e ci porteranno dalle fetide fogne a dungeon intricati e cupi. La grande varietà e quantità di elementi su schermo lascia intravedere un profondo studio e una cura del dettaglio da parte degli sviluppatori, caratteristica che fa ancor più apprezzare il lavoro svolto dagli sviluppatori.
Il comparto audio è globalmente buono, con una soundtrack abbastanza coinvolgente, anche se alla lunga potrebbe risultare leggermente ripetitiva in alcuni leitmotiv, SFX di armi effetti video ed esplosioni riprodotti in maniera eccezionale, che riescono a rendere bene l’idea della potenza sprigionata dalle azioni del nostro personaggio.

A conti fatti

Dead Cells è risultato essere uno dei migliori metroidvania/roguevania mai sviluppati, niente e nessuno dovrebbe impedirvi di far vostro questo piccolo grande capolavoro videoludico. Abbiamo testato questo titolo su PC (Steam), ma sono fermamente convinto che un gioco del genere veda un’ottima espressione del proprio potenziale su Nintendo Switch, console sulla quale è presente insieme a PS4 e Xbox One.




Detective Gallo

Non di rado, di questi tempi, si sente esprimere a un amico, a un collega o a un avventore qualunque la voglia di andare via da questo paese, vuoi per il poco lavoro, le troppe tasse, i populisti, i terrapiattisti, i no-vax, la disillusione galoppante, va a sapere.  C’è sfiducia nell’Italia, e soprattutto poca stima verso gli italiani. Non che sia un discorso a me incomprensibile, a volte mi sento così anch’io. Quando ho giocato a Detective Gallo, dell’italianissima Footprints, ho provato infatti un senso di piccolo conforto.
Il mio primo incontro con il pingue pennuto avviene nel 2016, in un angolo della Milan Games Week riservato ai soli sviluppatori indie italiani (grazie, AESVI). I giochi erano tanti, e pure interessanti, ma dove volete che cada l’attenzione di uno cresciuto a pane e avventure grafiche? Non solo ho provato il gioco, ma ho scambiato anche due chiacchiere con le due menti creative che hanno presieduto alla sua creazione, i fratelli Francesco (programmatore, nonché script e UI developer) e Maurizio De Angelis (Art director, animator e story editor). Ne era venuta fuori un’intervista interessante andata in onda durante uno speciale su Teleacras, e che poi fu persa assieme ad altri file a causa di un “Millennium bug” che affettò i server dell’emittente in quei giorni, prima che ne venisse effettuato il backup. Un vero e proprio delitto. Un caso forse buono per il Detective Gallo. Che però, almeno in questa interessantissima avventura grafica, ha ben altro di cui occuparsi.

Prima l’uovo o il Gallo?

Ma facciamo un passo indietro: sappiamo che creare un videogame non è facile, tantomeno in un paese come il nostro. Vale quindi la pena raccontare un po’ la gestazione di questo progetto. Prima del gallo, del resto, deve nascere l’uovo. E l’uovo è stato deposto nel 2015, anno di rilascio della prima build del gioco, covato poi assieme all’attuale publisher, Adventure Productions, che ha dato al progetto motivi e sostanza per continuare. Si è arrivati così al crowfunding nella seconda metà del 2016, con una campagna su Eppela che ha fruttato circa 15.500 €, permettendo di lavorare su cutscene, animazioni, localizzazione in altre lingue e un doppiaggio italiano e inglese tuttora presente nel titolo. Il gioco è stato quest’anno rilasciato dapprima per PC e successivamente anche su PS4 e Nintendo Switch, dove è stato distribuito da MixedBag, che ne ha curato anche il porting su console lavorando su Unity partendo dall’engine originario del gioco, Adventure Game Studio. Oggi il titolo sta registrando un buon apprezzamento di critica e pubblico, ed è quasi una storia da fiaba per i developer di Detective Gallo, che hanno messo su non solo un’avventura grafica di grande equilibrio, ma anche trainata da una storia molto ben curata, che vede al centro un protagonista di un certo appeal e ben caratterizzato che andiamo a conoscere subito.

Le 3 P

Professionista, polemico e puntiglioso: chi avrebbe il coraggio di mettersi contro il Detective Gallo? Forse nessuno, tranne un serial killer di piante che semina il terrore fra i proprietari di vegetali della città. Il più sconvolto dalla vicenda è il ricco e stralunato Phil Cloro, botanofilo incallito che dà inizio all’avventura portando il Nostro nella propria villa per constatare lo sterminio di massa delle sue piante rare (un vero e proprio botanicidio) e incaricandolo di scoprire l’efferato autore di simili delitti a fronte di un cospicuo compenso. Detective Gallo ha un vero esperto in materia ad affiancarlo, l’assistente Spina, un fiero e acuminato cactus nano, personaggi non giocabile che diverrà silenzioso contraltare delle arzigogolate deduzioni e convinzioni espresse in un susseguirsi di regole etiche che compongono la singolare weltanschauung dell’investigatore.
Si intuisce bene già da queste scelte la portata di ironia trasfigurante di quest’avventura grafica, che si arricchisce di personaggi caratteristici quali la venditrice di caramelle Candy Bop, eternamente innamorata di Detective Gallo, il baby teppista, il commerciante, il taxista (con la sua singolare evoluzione spirituale), fino all’informatore che non vedremo mai ma di cui emerge nitida la caratterizzazione attraverso i soli dialoghi telefonici intercorsi con l’investigatore.
Insomma, un approccio del tutto “comedy” che si intesse in una struttura narrativa da noir investigativo. Quando si approcciano i generi (non solo videoludici), il rischio di scivolare nel banale del canone è grosso, e i ragazzi Footprint Games mostrano di esserne consapevoli. Detective Gallo gioca bene con i cliché, occhieggia al meta, indulge al citazionismo e non nasconde le influenze alla base dell’opera, e riuscire a fare tutto ciò senza banalizzare è il primo grande merito dei fratelli De Angelis. L’altro è quello di aver curato egregiamente la scrittura: la storia assume un tono umoristico ma non superficiale, apprezzabile da un pubblico eterogeneo per età e cultura, con linee di testo che non sforano i limiti del politicamente corretto senza però risultare rattenute. Equilibrio e qualità, insomma, si ha la sensazione di star leggendo quella che è una storia Disney per toni, scrittura (una scrittura ibridata con l’umorismo delle vecchie avventure della fine dello scorso secolo) e anche nel finale, dove si è messi davanti a un coup de théâtre che fa sorridere. Una simile storia non sfigurerebbe nella collana Disney noir, sia in ragione dei contenuti, sia, come è chiaro già a un primo sguardo, grazie al proprio art-style.

Storie di Paperi

Difficile non pensare agli albi di Topolino, a Mega 2000, a TopomisteryDetective Gallo ha quello stile visivo interamente incentrato sull’universo tanto caro a Don Rosa e Carl Barks. Non sono presenti altre figure zoomorfe, soltanto degli amabili pennuti coi loro becchi di forma varia, dal sardonico sorriso del commerciante alla tonda e bonaria Candy Bop sino al nerboruto e duro proprietario della discarica, senza dimenticare il nostro scontroso protagonista.
Gli scenari sono armonicamente deformati, ricordandoci gli ambienti di alcuni classici della LucasArts come Day of The Tentacle Sam ‘n Max; proprio da quest’ultima iconica avventura grafica sembrano provenire non poche ispirazioni, a partire da quella che è l’atmosfera di fondo del gioco (in merito alla quale si vede chiara anche l’influenza di avventure come Tony Tough Discworld) sino ad alcuni scenari, su tutti quello onirico e surreale in cui Detective Gallo si troverà a dover estorcere preziose informazioni a un personaggio, che ricorda concettualmente il Mistery Vortex dell’avventura di Steve Purcell. Oltre a risultare visivamente bello ed efficace in fase di gioco, lo scenario della dimensione del sogno contribuisce anche a rompere una monotonia che la scarsa varietà di ambientazioni rischia alla lunga di creare, che è uno dei pochi difetti del gioco (pur risultando una buona idea in termini di design, i cartelli direzionali in ogni scenario non sarebbero necessari) alla pari di alcuni enigmi che potevano essere meglio congegnati: difficilmente un utente avvezzo alle avventure grafiche si troverà bloccato, i puzzle sono abbordabili ma non per questo semplificati, il punto debole di alcuni (davvero pochi, in verità) sta nella mancanza di una ferrea consecutio di indizi atti a condurre alla soluzione, ma si tratta di eccezioni ampiamente compensate dal resto delle quest che invece tengono ben presenti questi pattern, e che assicurano un buon livello d’impegno e un ritmo di gioco che non si spegne praticamente mai.
In questo aiuta anche non poco la scelta intelligente di alcune meccaniche: i game designer hanno optato per una grande semplicità di interazione portando al minimo il concetto di “interfaccia ad azioni contestuali“, e che ci vedrà utilizzare i tasti sinistro e destro del mouse rispettivamente per compiere azioni e analizzare ambiente e oggetti, in linea di massima. Questa scelta, assieme alla facoltà di saltare i dialoghi e alla possibilità di intuire quelli già affrontati, alla facoltà di vedere tutti gli hotspot disponibili su schermo premendo la barra spaziatrice e alla “courtesy option” che permette di andare direttamente allo scenario con un semplice doppio click nella direzione prescelta, massimizza la godibilità del titolo e riduce al minimo i tempi morti.
A far da adeguato contorno a tutto ciò c’è la colonna sonora di Gennaro Nocerino che restituisce molto bene le atmosfere da noir investigativo, mantenendosi su stilemi classici ma non stantii, ed elaborando melodie sospese tra il serio e il dilettevole, che contribuiscono a dar ritmo e leggerezza alle sequenze di gioco senza mai astrarre il giocatore dal contesto, e contribuendo a un comparto sonoro di ottimo livello, che unisce SFX appropriati a un doppiaggio di tutto rispetto, dove la voce del Detective Gallo (interpretato in italiano da Federico Maggiore, che dà voce anche a Skinny di The Wardrobe, gioco distribuito dallo stesso publisher e di cui si trova un easter egg) conferisce carattere al protagonista, non sfigurando affatto con l’omologo inglese assieme a tutto il resto del cast.

Potenziale seriale

L’opera prima di Footprints porta a casa un risultato il cui equilibrio non è affatto scontato, né facilmente raggiungibile: una storia godibile e dal buon ritmo, che riesce sorprendentemente a capovolgersi anche quando sembra aver imboccato una soluzione narrativa banale, personaggi  ben caratterizzati, un art-style straordinariamente curato, che sbava solo in alcune animazioni di certo migliorabili, una soundtrack appropriata, enigmi di medio impegno che seguono un’adeguata curva di difficoltà crescente, il tutto incastonato in un sistema di gioco intelligente, semplice ed efficace. Se, oltre a enigmi più elaborati, avessimo avuto una maggior varietà di ambientazioni, Detective Gallo sarebbe un gioco davvero senza sbavature.
Si può poi discutere, sul piano narrativo, della bontà o meno della soluzione finale che, se da un lato può sembrare un po’ facilona, dall’altro ha i connotati rocamboleschi e leggeri delle storie disneyane, e risulta certamente in linea con l’intero mood del gioco, contribuendo all’armonia globale dell’opera.
Se la limitatezza delle ambientazioni deriva certamente dalle risorse disponibili, sul resto si può benissimo lavorare, le basi ci sono tutte, anche per fare di Detective Gallo un personaggio seriale. Il potenziale del personaggio c’è, il talento dei creatori pure: perché non provarci?




Battlefield V: le impressioni dalla open beta

Battlefield V non sembra essere partito col piede giusto. Dopo tanti anni in cui abbiamo visto avvicendarsi varie epoche storiche ed esperimenti discretamente interessanti, l’ultimo capitolo sembra avvolto da un alone di mistero. Nessuna notizia della battle royale, denominata Firestorm, pre-order ben al di sotto della media e infine un posticipo sulla data di uscita di un mese, forse per evitare la “concorrenza” spietata di Red Dead Redemption 2 o, più probabilmente, per rifinire alcuni elementi di varia natura, come ad esempio, l’ottimizzazione generale in vista dell’entrata in scena del Ray Tracing di Nvidia.
Questa open beta ci ha finalmente permesso di saggiare alcune novità del titolo che in qualche modo sanciscono un ritorno al passato.

V per Vanitoso

Il passaggio da Battlefield 3 a Battlefield V sembra essere avvenuto in maniera istantanea anche se, nel frattempo, abbiamo assistito a Battlefied 1 e a Hardline, ben diversi per caratteristiche e aspettative. La natura del titolo DICE dunque rimane invariata, con un feeling divenuto ormai un marchio di fabbrica e lontano dalla frenesia del suo rivale più diretto Call of Duty. Ma di novità ce ne sono, a cominciare dal ritorno della distruttibilità ambientale totale che cambia decisamente le carte in tavola una volta compreso che i proiettili posso attraversare alcuni ripari. Ma tutto questo si esprime maggiormente con i mezzi pesanti, in grado di distruggere interi appartamenti modificando di fatto il layout della mappa. A proposito, le location disponibili in questa beta sono due: Rotterdam, protagonista anche della presentazione di Nvidia, e Narvik, una mappa innevata ai confini del Circolo Polare Artico. L’approccio in queste due zone è completamente diverso e sono caratterizzate da un buon level design sviluppato anche in verticale, pieno di ripari, vie di fuga e scorciatoie.
Proprio una delle grandi novità di Battlefield V è la possibilità di costruire piccoli avamposti, torrette e persino artiglieria anti-aerea che ampia a dismisura le possibilità tattiche: presa posizione, sarà possibile costruire un proprio fortino in grado di difendere più agevolmente uno degli obbiettivi e, viceversa, dare vita a un vero e proprio assedio, a una guerra di trincea che tanto è mancata nel precedente capitolo. Inoltre, potremmo soccorrere chiunque indipendentemente dalla classe scelta: una volta colpiti “mortalmente” abbiamo a disposizione due scelte, ovvero se morire in maniera rapida, accelerando l’arrivo al menu di respawn, oppure lottare con tutte le forze chiedendo aiuto, attivando anche animazioni dedicate.
Come detto, il feeling è sempre lo stesso, con la Grand Operation a fare da traino, e forse unica modalità in grado di restituire l’epicità di una grande guerra. Le armi, limitate per numero in questa beta, ma comunque varie, non presentano particolari novità dal punto di vista delle meccaniche, cosa che fa storcere un po’ il naso considerando che siamo passati dalla modernità di Battlefield 4, alla Prima Guerra Mondiale e ora alla Seconda.

V per Vistoso

Anche se non abbiamo potuto approfondire, sappiamo che la personalizzazione avrà un ruolo chiave all’interno del progetto: sia il nostro alter ego che armi e mezzi a disposizione, avranno un ampio set di elementi in grado di trasformare visivamente qualunque cosa. Il tentativo è quello di rendere Battlefied V più “umano”, mettendo al centro il giocatore e il suo team. Di fatti, la cooperazione svolge un ruolo più importante rispetto ai capitoli precedenti e premiata non solo dai classici punti esperienza ma anche da equipaggiamento speciale, come armi o mezzi corazzati. Più umano vuol dire anche avere un sistema di progressione “su misura”, che abbiamo avuto modo di verificare sul campo: via dunque alla standardizzazione in favore di un approccio più personale e incline al nostro stile di gioco. Una volta raggiunti determinati obbiettivi, armi ed equipaggiamento sbloccati saranno in linea con le nostre abitudini, in un percorso delineato che invoglia il giocatore a seguire stili diversi.
A livello tecnico, il Frostbite Engine è sempre un bel vedere, nonostante l’assenza del Ray Tracing. Sia Rotterdam che Narvik, benché completamente diverse, sono ricche di dettagli, con elementi perfettamente modellati, come da tradizione. Da segnalare però alcuni problemi dovuti alla fisica, e bug e glitch di varia natura oltre a problemi di matchmaking, ma che probabilmente verranno risolti con il rilascio ufficiale.

In conclusione

Battlefield V sembra essere il Battlefield di sempre, qualitativamente molto valido e puntellato qua e là al fine di arricchire un sistema già ampiamente collaudato. È ancora molto presto per esprimere un giudizio, del resto non sappiamo quasi nulla del single player, della rimanente offerta di gioco e sopratutto della modalità Firestorm. Dunque non ci resta che attendere (un mese in più) per recensire adeguatamente l’ultima fatica di DICE.




We Happy Few – E La Pillola Va Giù

Come tutti sappiamo, We Happy Few, è un titolo dalla storia travagliata, presentato ormai nel lontano 2015 e arrivato in questi giorni, ben diverso da quanto prospettato. La campagna Kickstarter atta a finanziare il progetto è stata una manna per Compulsion Games ma anche una spada di Damocle, in quanto, dopo vari rinvii, l’uscita del titolo non poteva più esser posticipata. Terminato il lungo periodo di early access, Wellington Wells è pronta per essere esplorata, un’isola avvolta dal mistero ma anche da tanti elementi da rifinire.

Sembra talco, ma non è…

Inghilterra, 1960, ma non quello che pensate: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalla Germania e, come in altre ucronie, questo ha portato molti cambiamenti nella società. Ma c’è una città particolare, un luogo isolato, che ha deciso  di dimenticare il passato vivendo in allegria e spensieratezza: Wellington Wells è la vera protagonista del titolo, proprio come Rapture per Bioshock, anche se con le dovute proporzioni. Tra gli abitanti circola una speciale “medicina”, la Joy, capace di regalare subito benessere, rendendo luminosa anche una lugubre giornata; ed ecco quindi che la città pullula di vita, lontana dalle tragedie vissute durante il conflitto, cui nessuno sembra ricordarsene. A dir la verità, questo espediente non è nuovo: si pensa subito al Soma di Brave New World di Aldous Huxley, ma anche a Naruto e al suo Tsukuyomi Infinito o persino a Code Geass: Lelouch of the Rebellion e alla droga Refrain. Come rendere dunque originale un espediente narrativo già abusato in numerose opere? Ci pensa il comparto artistico a mettere una pezza, ma anche la caratterizzazione dei protagonisti con i loro dialoghi a renderci quasi alieni di fronte alle bizzarie che ci troveremo davanti.
Ma – come dicevamo – Wellington Wells è il fulcro, una radiosa prigione in cui la perfezione la fa da padrona, tanto che ogni minimo gesto ritenuto “non conforme” (come correre) verrà immediatamente preso di mira dagli abitanti e dalla polizia, una sorta di Gestapo, pronta a sedare qualunque tipo di ribellione. Basta infatti mancare una sola dose di Joy – come avviene nel prologo – per far cessare la meravigliosa fiaba indotta dalla droga, attanagliando con sensi colpa, rimorsi e traumi che solo una guerra e i suoi postumi è in grado di produrre. We Happy Few è tutto questo, un costante contrasto di emozioni che riesce a colpire nel segno lo spettatore, con dialoghi ben scritti e originali, con una sceneggiatura che riesce a estrapolare tematiche importanti da ogni anfratto della cittadina. Purtroppo, non di solo narrativa si vive.

Perché sei così serio?

We Happy Few nasce come immersive sim con una forte componente survival mitigata in questa versione finale. La fame, la sete e la stanchezza non sono più letali come nella concezione originaria del gioco, divenendo meri malus per la nostra stamina. Gli sviluppatori, probabilmente ascoltando i pareri del pubblico durante l’early access, hanno addolcito alcune componenti che, in qualche modo, risultano però mal amalgamate tra loro. Andare a ricercare varie componenti per il crafting come i buoni Bioshock o Fallout insegnano, è fondamentale: bidoni della spazzatura, cassette della posta, bauli possono diventare delle vere e proprie miniere e, ottenuti i componenti necessari, sarà possibile dilettarsi nella costruzione di vari oggetti che variano tra quelli base e quelli avanzati. Non solo armi e oggetti utili, ma anche il vestiario ha la sua importanza: una caratteristica che non è andata persa è lo stealth, essenziale, ma fino a un certo punto. Indossare il vestito giusto in certi frangenti può fare la differenza, eppure, tutto si perde in un bicchiere d’acqua, naufragando in un’intelligenza artificiale lacunosa sotto molti punti di vista: basterà un piccolo errore per ritrovarsi accerchiati da gente che nemmeno si trovava nelle vicinanze, e si potrà far tornare tutto alla normalità con la stessa facilità, semplicemente svoltando l’angolo, come dopo un’istantanea dose di Joy. Questo difetto fa pendant anche con la morte, che non ha alcuna conseguenza, anzi, a volte sarà più comodo tirare le cuoia piuttosto che proseguire. Tutto ciò rende il titolo poco appagante ed, escludendo l’efficace narrativa, nel complesso il risultato rischia di essere disastroso. Anche il venire alle mani con i nemici del momento non regala alcuna soddisfazione a causa di hit box imprecise, mancanza di feedback reale e animazioni non proprio eleganti. Sembra quasi di colpire il vuoto, sarebbe bastato davvero poco per mettere una pezza a questo problema.
Anche la differenziazione esteriore dei tre protagonisti viene meno: la loro fisicità così diversa non risulta fondamentale e solo aumentando il nostro livello con alcuni upgrade, potremmo sentire lievi differenze.
Gli unici elementi discretamente riusciti sono le sezioni notturne, in cui il coprifuoco è attivo ed esser visti può scatenare un putiferio ma, soprattutto, la meccanica dedicata alla pillola Joy e ai suoi effetti. Ogni compressa ingerita comporta alcuni cambiamenti – anche visivi – dato che potremmo passare inosservati per le vie della città e superare senza problemi i detector per i “Musoni”, coloro che rifiutano le gioie della medicina. Ma assumerne troppa ha delle controindicazioni, come perdita della memoria e crisi d’astinenza più marcate, in grado di far imbestialire la popolazione. È quindi un bene assumerla solo in casi specifici; anche qui, spingere su questa meccanica avrebbe garantito maggiore originalità e spessore a un titolo che vede nell’amalgama degli elementi il principale problema.
Durante le avventure avremo modo di sbloccare piccoli rifugi, degli hub dove poter riposare o spostarsi rapidamente, cosa abbastanza utile quando si ha a che fare con molte quest secondarie aperte ma purtroppo fin troppo simili tra loro.

Chiaroscuro

Anche dal punto di vista tecnico We Happy Few non raggiunge vette d’eccellenza. Nonostante l’utilizzo dell’Unreal Engine 4 il gioco lascia adito a qualche dubbio, a cominciare da alcuni glich e bug di varia natura, come corpi spariti nel nulla o l’eccessivo pop-up delle texture. Oltre a questo, fa quasi impressione l’eccessivo riutilizzo degli asset sia per gli ambienti che per la popolazione, consistente in circa cinque-sei modelli, ripetuti all’infinito. Tutto crea anche problemi alla navigazione in quanto perdersi per le vie della cittadina sarà all’ordine del giorno. Nonostante un ciclo meteo e giorno-notte il titolo non riesce proprio a spiccare, se non per alcune trovate artistiche come il passaggio dalla triste realtà al lucente bagliore della vita dovuto all’assunzione della pillola Joy e allo stile in cel-shading che, in qualche modo, regala a We Happy Few una sua identità. Inoltre, il titolo sarà uno dei pochi a poter sfruttare la nuova tecnologia per il ray tracing e il nuovo anti-aliasing DLSS, disponibili non appena le nuove Nvidia serie 2000 muoveranno i loro primi passi sul mercato.
Fortunatamente la componente audio riesce a salvare quanto rimane, contando su un ottimo doppiaggio inglese, con uno slang appositamente elaborato. Tutto risulta a volte caricaturale ma efficace, in grado di far risaltare i momenti bui come quelli goliardici.  Purtroppo la traduzione non sembra essere andata a buon fine, con sottotitoli a volte incompleti e soprattutto invasivi, mostrando dialoghi non direttamente interessati a noi, anche nel bel mezzo di un’altra conversazione. Il risultato è una caotica bulimia di frasi su schermo che rendono il tutto di difficile comprensione.

In conclusione

We Happy Few paga il suo contorto sviluppo e l’improvviso cambio di direzione che ne hanno mozzato, a ogni livello, il gameplay. L’ossatura buona del titolo resta nella componente narrativa e nel doppiaggio, in grado di restituire una storia forse non originale ma capace di emozionare, esplorando le mille sfaccettature della società umana. Dipende dunque da quanto peso decidiate di dare alla trama e al suo evolversi rispetto al resto: valutando gli elementi nel loro insieme, si arriva giusto alla sufficienza. È dunque una grossa occasione sprecata ma un buon punto di svolta per Compulsion Games, che dopo questa esperienza potrà ripensare ai propri errori e portare in futuro qualcosa di più completo e meglio curato in tutti i suoi aspetti.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.