Kingdom Come: Deliverance sarà adottato da un’Università per lo studio della storia medievale

Il noto story-driven open-world RPG Kingdom Come: Deliverance sarà utilizzato in ambito universitario per l’insegnamento della storia. Il titolo sviluppato da Warhorse Studios e distribuito da Deep Silver, è ambientato in epoca medievale nel regno di Boemia e, grazie alla sua particolareggiata ricostruzione storica, sarà adottato dall’Università Masaryk di Brno, in Repubblica Ceca, per il corso di Storia Medievale.

Il rapporto fra videogame e metodi didattici si fa sempre più stretto ed è ormai sempre più importante una meticolosa cura dei contenuti nello sviluppo di un’opera videoludica in termini di realismo e veridicità storica. Il risultato sancisce un’ottimo risultato per un developer che può fregiarsi di aver unito i concetti dell’entertainment e dell’education al punto da essere ritenuti utili in termini di gamification applicata alla didattica.

Il creatore del gioco, Daniel Vávra, ha infine confermato su Twitter che il team di sviluppo è anche al lavoro su un personaggio femminile che sarà inserito nel titolo:




Wolfenstein II: Le Gesta del Capitano Wilkins (DLC) – Un’Aggiunta al Tofu

Siamo giunti alla conclusione delle Cronache della Libertà, serie di DLC rilasciati per Wolfenstein II: The New Colossus. Le Gesta del Capitano Wilkins è il terzo e ultimo DLC di questa trilogia, atta a espandere l’universo narrativo principale, ma riuscendo malamente nell’intento. Tutti i capitoli con i loro rispettivi personaggi sono risultati scialbi, senza novità di rilievo e fondamentalmente una grande occasione sprecata. Anche la storia dedicata a Wilkins non è da meno purtroppo, registrandosi forse come il capitolo meno riuscito, il che la dice lunga.

Tutto già visto

Dopo il quaterback Joseph Stallion e l’ex OSS Jessica Valiant tocca a Gerald Wilkins completare il ciclo narrativo. Soldato dell’esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale, il Capitano Wilkins non si è mai arreso, nonostante la sonora sconfitta a base di testate nucleari nelle principali città americane, compresa New York. Per niente intimorito, li lancerà alla ricerca dell’arma definitiva nazista, il Cannone del Sole, con base operativa in Alaska. Se il pretesto di utilizzare un’arma leggendaria di cui i progetti sono probabilmente esistiti può risultare quantomeno interessante, è il solito sviluppo narrativo che non convince. Le ormai classiche cutscene discretamente animate narrano una storia già sentita, con colpi di scena in grado di far rimpiangere le glorie di Beautiful e che, ovviamente, non lasciano il segno. Tutto scorre liscio senza particolari sussulti, fino al climax finale che dà la mazzata a un DLC di poca utilità.

Tutto già giocato

Se il Pistolero Joe aveva a disposizione l’Ariete e Morte Silenziosa il Costrittore, al Capitano non poteva che toccare il terzo dispositivo: un set di trampoli in grado di far raggiungere al protagonista luoghi collocati a una certa altezza ma anche di calpestare i nemici. Dal suo utilizzo ne deriva un level design costruito ad hoc, ma meno aperto di quanto ci si aspetti. Fin troppe volte il Capitano si dimentica di averli addosso e di utilizzarli, salvo quelle poche sezioni in cui saremo costretti a raggiungere il prossimo livello della mappa. Tolto questo piccolo espediente, il gameplay rimane il solito senza novità di alcun tipo: anche qui nessun nuovo nemico, nessuna arma inedita e nessuna nuova abilità. Stiamo sempre parlando di meccaniche di alto livello, ma riprese direttamente dal titolo originale.
Qui l’azione, rispetto all’episodio precedente, ritorna a essere più frenetica e la possibilità di avere una salute del 200% (salvo ritornare pian piano al classico 100 una volta colpiti) permette una migliore gestione delle orde di nazisti in arrivo. Oltre a questo c’è davvero poco da segnalare, cosa che rafforza l’idea di un DLC che si limita a svolgere il solo “compitino”.

In conclusione,

Le Gesta del Capitano Wilkins segna la triste fine di una trilogia partita male e finita peggio. Tralasciando un gunplay che è sempre il fiore all’occhiello della produzione, c’è davvero poco di cui essere soddisfatti da questo episodio, come dalle intere Cronache della Libertà, davvero deludenti sotto tutti i punti di vista. L’unica nota positiva da trarre da questa esperienza è ragionare sull’acquisto del season pass prima ancora che il contenuto sia stato rivelato, una mossa veramente azzardata per chi abbia dato fiducia a questa trilogia nella speranza che questa fosse all’altezza del titolo principale.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




I migliori videogame in co-op locale

Negli ultimi anni abbiamo vissuto una grandissima evoluzione del multiplayer, sempre più proiettato verso una dimensione competitiva e globalmente interconnessa, soprattutto con il crescere delle potenzialità delle nostre reti domestiche.
Passando da barattoli collegati con lo spago alla più moderna fibra ottica, sembra però venuto meno il senso di “unione fra giocatori” che in passato si percepiva attorno a un nuovo videogame, quasi come se questa caratteristica fosse rimasta d’esclusivo appannaggio dei boardgame (che, diciamocelo, grazie al cielo stanno vivendo un ottimo momento).
Se la natura stessa delle console mitiga in parte questo fenomeno di distacco (con la bandiera dei party game tenuta alta da Nintendo Switch e da Sony Playlink), chi ha scelto il computer come piattaforma di gioco non può (apparentemente) vantarsi di un catalogo titoli degno di nota.
Cosa fare? Privarsi di invitare un amico oppure il partner per una sessione di gioco? L’idea ci rende assai tristi. I titoli da giocare ci sono eccome: sono stati semplicemente oscurati da un mercato dalle esigenze assai differenti; ed è proprio per questo motivo che abbiamo creato questa Top 5.

I titoli presi in esame non sono posti sotto forma di classifica (reputiamo delle bellissime esperienze ludiche “di coppia” anche i giochi inseriti nelle “Menzioni d’onore”, in fondo a questo articolo), quindi considerate quelli selezionati come dei “campioni” nel loro genere di appartenenza.
Non parleremo di grafica e gameplay come in una normale recensione ma ci concentreremo in relazione alla loro componente cooperativa locale, utilizzando come criteri di valutazione: quanta importanza gli sviluppatori hanno dato al multigiocatore rispetto al singolo, quanto la complementarietà dei giocatori sia fondamentale e (ultimo ma più importante) quanto è appagante l’esperienza nel complessivo.
Siete pronti? Si parte!

Salt&Sanctuary

Voto: 8

Per metà souls-like e per metà metroidvania, il gioco di Ska Studios nasconde a prima vista la possibilità della coop locale. Per attivare il secondo giocatore, infatti, bisognerà per prima cosa creare due personaggi dal menù principale. Avviata la partita si potrà “convocare” il compagno soltanto dopo aver portato una specifica statuetta sino a uno dei santuari (che funzionano da zone di “riposo”, come succede con i falò dei vari Dark Souls). Queste statuette non saranno illimitate, quindi consigliamo vivamente di gestirle in maniera parsimoniosa, anche se, una volta convocato il secondo giocatore, questi rimarrà in partita fino alla fine della sessione pur fungendo da spettatore nella storia dell’host (potrà quindi sfruttare vendor e aiutare il primo giocatore, ma non potrà effettuare scelte relative alla trama).
Non lasciatevi però scoraggiare da questa meccanica forse esageratamente punitiva e fine a se stessa, il gioco regala un’esperienza completa e appagante. Potrete plasmare personaggi diversi a seconda del vostro modo di giocare, creando combo devastanti o finendo rovinosamente annientati. Dipende tutto da voi. L’unica certezza? Salt&Sanctuary è una piccola grande perla, da vivere in compagnia.

Gauntlet

Voto: 7

Remake del famosissimo Coin-op di Atari (classe 1985), Gauntlet ci fionda in un classico e stereotipato dungeon crawler con visuale isometrica di matrice fantasy. Quattro il numero massimo di giocatori reclutabili sia in rete che in locale.
Cosa lo rende speciale? Il fattore “ipocrisia”.
Gli eroi, infatti, saranno chiamati a collaborare per raggiungere la fine dei vari livelli (a volte persino sfuggendo letteralmente alla morte, falce alla mano), ma solo uno di loro vincerà il premio di “eroe più avido”, dopo aver raccolto un maggior numero di tesori o saccheggiato il vostro cadavere agonizzante.
Le classi a disposizione obbligano ad approcci diametralmente opposti ma, indipendentemente dal fatto che siate maghi, guerrieri, valchirie o elfi, l’agonismo instillato dalla corsa all’oro vi farà dimenticare parecchie amicizie.

Cuphead

Voto: 9

Shoot’em up dal carattere hardcore, con un design grafico straordinario che si rifà ai cartoni animati anni ’30, Cuphead si è dimostrato un successo su tutta la linea fin dalla sua uscita.
Focalizzato su boss fight serratissime, l’esclusiva Microsoft mette in evidenza la sua vocazione cooperativa sin dal video iniziale, in cui verremo a conoscenza dell’antefatto che catapulterà la tazzina Cuphead e il suo fratello Mugman in un mare di guai.
Le feature che gli sviluppatori hanno aggiunto al multigiocatore rispetto al singolo sono la possibilità di salvare in extremis il compagno caduto (dando un “cinque” alla sua anima in dipartita) e di cedergli una vita, quando se ne posseggono almeno due. Inoltre, la difficoltà (ben) calibrata per due giocatori, si ristabilisce nello standard singleplayer nel caso uno dei due dovesse passare a miglior vita.
Le hanno proprio pensate tutte? Sì! Cuphead è un gioco con tutti i pezzi al posto giusto. Un capolavoro senza tempo.

Trine Trilogy

Voto: 7

Puzzle-platform bidimensionale (con sfondi 3D) di stampo fantasy, Trine fa della fisica il suo punto di forza, affidando al motore Physx (di casa Nvidia) la gestione (egregia) degli enigmi ambientali che dovremo affrontare per raggiungere l’end game.
I personaggi intercambiabili (mago, guerriero e ladra) sono ben diversificati, ma non così tanto complementari: si potrà difatti portare a termine l’intero gioco anche con un solo eroe.
Se considerate una longevità non elevatissima (ma comunque crescente, insieme alla qualità generale, nei tre titoli), la cooperazione diventa l’unica maniera effettiva per godere a pieno di un titolo che in realtà offre molta più “magia” di quella che si possa pensare. E se l’esperienza del gioco base non vi sembra abbastanza, potrete contare nell’ottimo supporto di Steam Workshop e nell’editor di livelli presente all’interno del gioco.

Overcooked: Gourmet Edition

Voto: 8

Salvare l’Onion Kingdom da una bestia fatta di spaghetti al sugo con le polpette, andando a ritroso nel tempo e girando le location più improbabili (da galeoni pirata a navi spaziali), cucinando zuppe, hamburger, fish&chips e altro ancora. Ogni livello di Overcooked è una sfida diversa; un’imprevedibile corsa contro il tempo tra ostacoli ambientali e ricette via via più complesse e creative.
Cooperazione, coordinazione, organizzazione e nervi saldi sono le doti fondamentali per portare a termine le varie comande, tagliando, cucinando e servendo (stando attenti a non bruciare nulla e senza dimenticare di lavare i piatti).
Se a parole sembra semplice, nei fatti il gioco si presenta solido nelle meccaniche, immediato e divertente come poche altre cose al mondo.
Cuochi solitari, defilatevi. Il gioco è un multiplayer locale duro e puro; offre anche una modalità competitiva e la possibilità di condividere un joypad nel caso siate a corto di periferiche e si presentino alla porta nuovi amici (quattro il numero massimo di giocatori).
Non abbiamo dubbi e lo consigliamo senza remore: Overcooked vi conquisterà dal primo piatto.

Menzioni d’onore:

Magicka / Guacamelee / Hyper Light Drifter / Rayman Origins / Helldivers / Worms WMD / Lego Series / Lara Croft And The Temple Of Osiris / Castle Crushers

Se ancora non siete stanchi di andare in tandem, vi invitiamo a dare un’occhiata ad A Way Out, titolo dei creatori di Brothers: A Tale Of Two Sons, che uscirà il prossimo 23 marzo su PC, PS4 e Xbox One.
Non lo nascondiamo neppure: è il titolo che più ci ha coinvolti allo scorso E3.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello




La sfida di Facebook a Twitch e Youtube

Nei primi mesi dell’anno, Facebook ha introdotto il suo Gaming Creator Pilot Program, un’iniziativa mirata ai content creator, come PewDiePie, che offre la possibilità di streammare a 1080p/60fps e con possibilità di monetizzazione dei video. Una mossa che conferma la decisione del social network di puntare più sulla creazione di una vera e propria stazione televisiva a portata di smartphone, ovvero Facebook Watch: difatti, se nel lato sportivo fanno eco gli accordi con Fox per trasmettere la UEFA Champions League e alcune partite pomeridiane della MLB (la lega americana di baseball), sul lato videoludico risaltano gli accordi per portare su Facebook Watch alcuni tornei della Electronic Sports League, principalmente i tornei di Paladins e di Counter Strike: Global Offensive.

Tutto ciò che manca a Facebook per competere con Twitch e Youtube sono gli influencer. Come citato da Guy Cross, direttore delle partnership americane della compagnia:

«Stiamo cercando dei partner che hanno la capacità di attirare pubblico, ma che credono anche nel progetto. Vogliamo costruire qualcosa di speciale che unisce sia gli strumenti già a disposizione per gli streamer, che le novità proposte da Facebook. I content creator videoludici sono i benvenuti sulla piattaforma: lo scorso anno abbiamo sperimentato molto e abbiamo ricevuto molti suggerimenti che ci hanno permesso di migliorare e di investire ancora di più i nostri sforzi su questo lavoro.»

Facebook vuole puntare a diversificare la propria proposta da Twitch: in quest’ultimo i giochi di tendenza la fanno da padrone, mentre Facebook, forte dei 2,2 miliardi di utenti (secondo i dati degli ultimi mesi del 2017), vuole abbracciare qualsiasi tipo di gioco. Gli streamer registrati al nuovo programma hanno già la possibilità di ricevere donazioni dagli utenti, lo streaming a 1080p, e secondo Cross «si sta lavorando insieme ai content creator per l’aggiunta di altre opzioni».

Insomma, sembra proprio che il social network creato da Mark Zuckerberg stia seriamente puntando sul mercato dello streaming video, ma ci sarà spazio per loro in un mercato dominato da Twitch e Youtube? Cross dice la sua al riguardo:

«Molte aziende, come sviluppatori di giochi tripla A o broadcaster di eventi e-sport, si sono dimostrati molto interessati al nostro progetto. Il settore del gaming è vasto e continuamente in crescita: su Facebook abbiamo più di 800 milioni di utenti che usano i giochi della piattaforma, e se contiamo anche gli utenti che partecipano attivamente ai gruppi riguardanti i videogiochi, oppure che condividono video appositi, i numeri sono davvero importanti.»

Ma Cross e Facebook devono stare attenti alla percezione del pubblico riguardo al social network: essendo un social più diretto i contenuti rapidi la fanno da padrone, con video dalla durata molto ridotta, e dove, in generale, gli utenti non passano molto tempo, preferendo più un approccio “mordi e fuggi”:

«Sappiamo che Facebook non è necessariamente un posto dove passi gran parte del tempo, gli utenti sono più abituati a loggare continuamente in più fasi del giorno. Per questo abbiamo bisogno di puntare su Facebook Watch, dove verranno offerti contenuti dalla durata maggiore, come serie tv, eventi sportivi o varietà d’intrattenimento.»

Eppure, la più grande sfida per Facebook resta quella dei puri numeri: lo scorso anno, il social network ha ospitato 27.500 streamer attivi. Numeri irrisori rispetto agli 814.000 di Twitch e ai 293.000 di Youtube e, considerando che Twitch e Youtube sono già facilmente a disposizione degli utenti Playstation 4 e Xbox One che vogliono cimentarsi nel live streaming, sembra proprio che Facebook stia per intraprendere forse la sua sfida più difficile negli ultimi dieci anni. Nonostante tutto, Cross sembra fiducioso nella riuscita del progetto:

«Stiamo tenendo d’occhio altre piattaforme per vedere i loro pregi e difetti. Ci vorrà un po’ di tempo prima di partire attivamente con questo progetto, ma nell’anno appena passato abbiamo compiuto molti test che ci hanno permesso di fare molti passi in avanti.»

Insomma, vedremo se Facebook riuscirà a emergere come seria contendente al trono del live streaming, detenuto da Twitch. Anche se, visti i record ottenuti da Ninja (che recentemente ha avuto in live una star del mainstream come il rapper Drake), sembra che il social di Mark Zuckerberg dovrà prepararsi a un’ardua salita.




Rilasciato il teaser del nuovo Tomb Raider

Pochi giorni fa, all’interno del codice del sito ufficiale di Tomb Raider sono stati trovati nome e data di uscita del nuovo capitolo, Shadow of The Tomb Raider e 14 Settembre 2018. Non si è dovuto attendere molto all’ufficialità: proprio ieri sono state rilasciate alcune informazioni ufficiali che vedono confermato il titolo ma non la data di uscita. Non si sa molto sul gioco: Square Enix ha rilasciato un breve teaser e una descrizione molto vaga, “Il momento in cui Lara diventa la Tomb Raider“. La data importante dunque diventa il 27 Aprile, durante il quale verranno rivelati maggiori dettagli. Il gioco sarà disponibile per PS4, PC e XBOX ONE X.




Dinasty Warriors 9

Anno nuovo, musou nuovo: la serie con cui Koei Tecmo ha inventato il genere arriva al nono capitolo, e questa volta la casa nipponica prova a rinnovarla con cambiamenti sostanziali rispetto ai capitoli precedenti, primo fra tutti una mappa enorme interamente esplorabile con meccaniche open world.
Non tutto è andato per il verso giusto, al punto che ci troviamo forse con uno dei peggiori musou usciti negli ultimi anni, con una resa tecnica a volte ai limiti dell’imbarazzante e tantissimi bug che fanno sprofondare il gioco sotto la sufficienza nonostante una mole di contenuti notevole.

I tre regni

La storia di Dynasty Warriors 9 si ispira al Romanzo dei Tre Regni, tra la rivolta dei Turbanti Gialli e la fine del regno Shu; durante i 13 capitoli di cui si compone il titolo, assisteremo alle vicende dei tre condottieri principali, Cao Cao, Liu Bei e Sun Jian, disponibili fin dall’inizio, per poi poter controllare altri personaggi che si sbloccheranno con l’avanzare della storia, ognuno di essi avrà delle zone e finali inediti, rendendo necessario un elevato numero di ore di gioco per vedere il tutto.

Cao Cao meravigliao

Il comparto grafico del gioco è, ahimè, un vero disastro: Omega Force ha voluto rischiare adottando un nuovo motore di gioco che rende possibile attuare la modalità open world, ma la resa finale è un’accozzaglia di texture in bassa risoluzione, modelli poligonali dozzinali, frame rate pessimo anche su console mid-gen e PC ultra pompati; aggiungiamo a ciò un elevato numero di bug e glitch, ambientazioni spoglie e monotone, nemici che appaiono e scompaiono a caso, animazioni legnose e il disastro è completo.
Il comparto sonoro si mantiene invece nella media, con alcune musichette dal tono rock che talvolta stonano con l’ambientazione, mentre gli effetti audio sono quelli classici a cui la saga ci ha abituato, e risultano collaudati; è presente il doppiaggio in inglese, giapponese e cinese, e finalmente sono almeno presenti i sottotitoli in italiano.

Tanto fumo e poco arrosto

In Dynasty Warriors 9 ci sono tantissime attività da fare, ma soltanto in poche si salvano: molte quest secondarie noiosissime, si può andare a caccia e pescare, ma anche queste due attività sono noiose in quanto non offrono nessuna sfida, sono soltanto utili ad acquisire materiali, allungando il brodo inutilmente.
Ogni personaggio può equipaggiare tantissime armi, ognuna con moveset diversi, le armi possono essere acquistate o costruite, inoltre è possibile potenziarle e aggiungere delle gemme che aggiungono vari effetti per il combattimento.
Anche se è possibile controllare tanti personaggi diversi, alla fine si differenziano pochissimo, in quanto ognuno di loro può utilizzare qualsiasi arma, cambiano soltanto alcune mosse speciali uniche di ogni personaggio.
Il combat system è mutato rispetto ai precedenti titoli: questa volta non ci saranno più le combo tra attacchi leggeri e pesanti, ma ci saranno attacchi detti “variabili” e “reattivi“; inoltre premendo il tasto dorsale destro insieme a uno dei quattro frontali, potremo infliggere status negativi ai nemici, rendendoli vulnerabili a una serie di nostri attacchi. Infine è presente l’immancabile attacco musou, una mossa speciale che si attiva dopo aver riempito la barra apposita durante il combattimento.
Nonostante i cambiamenti, però, risulta sempre la solita caciara, sconfiggere i nemici non necessita di alcuna tattica, basta premere pulsanti a caso e il risultato è lo stesso, l’intelligenza artificiale dei nemici è vicina allo zero, e anche settando il livello di difficoltà massimo sarà possibile sconfiggerli prevedendo facilmente le loro mosse.
Un’altra novità è l’utilizzo di un rampino per scalare le pareti, che potrebbe essere anche un’aggiunta interessante, se non fosse per il fatto che si possono rompere facilmente delle meccaniche di gioco, ad esempio durante l’assedio di una roccaforte, è possibile utilizzarlo per affrontare direttamente il boss, rendendo inutile qualsiasi tattica.

Conclusioni

Dynasty Warriors 9 è un titolo evidentemente imperfetto, gravato da un comparto grafico vergognoso per una produzione tripla A di questo livello, anche se ricco di contenuti,  di cui solo pochi si salvano dalla noia che contraddistingue il resto.
Omega Force ha compiuto un passo falso, realizzando un titolo di qualità inferiore ai precedenti che non ci sentiamo di consigliare, se non ai veri appassionati della saga per ragioni di collezionismo.




Life is Strange: Before The Storm – Episodio Bonus: Addio – See You Space Max

Nel mondo degli Indie, Life is Strange si è già conquistato un posto tra i cult dell’ultimo decennio, riuscendo a tessere una perfetta trama che lega i vari personaggi, prima ancora di essere un teen sci-fi ben strutturato. Il lavoro di Deck Nine è riuscito a interfacciarsi perfettamente ai giocatori, con storie e personaggi credibili e capace di rispondere al pensiero che almeno una volta nella nostra vista abbia fatto, ovvero cambiare una nostra scelta passata qualora ne avessimo la possibilità. Tolta la componente sovrannaturale e persino la protagonista Max, il prequel Before the Storm è riuscito a innalzare ulteriormente il valore del lavoro del team, dimostrando che il titolo può autosostenersi grazie alla sceneggiatura e la messa in scena.
In esclusiva per i possessori della Deluxe Edition dell’ultima fatica di Deck Nine, arriva questo episodio bonus denominato Addio, il cui tutto sarà incentrato sull’ultimo saluto tra Maxine e Chloe, prima del ricongiungimento nella saga originale. Questo ulteriore prequel è un capitolo particolare ma nonostante ciò, riesce ad aggiungere un bellissimo pezzo del puzzle al già stimato Life is Strange.

The Maxine show

Addio è un episodio interamente incentrato sul legame fraterno tra Max e Chloe, prima che tutto venga sconvolto dagli eventi che noi giocatori conosciamo ma che è meglio non divulgare per evitare spoiler. Il giorno peggiore della vita di Chloe viene vissuto dal punto di vista di Max, in un percorso abbastanza guidato rispetto ai precedenti capitoli ma non per questo banale: il valore dei rapporti è e resterà una componente fondamentale delle vicende e, nonostante sia un episodio della durata di circa un’ora e mezza riesce a suscitare fortissime emozioni – a volte contrastanti – in eventi di cui comunque siamo a conoscenza. Si viene a creare così una netta distinzione tra “raccontato” e “vissuto”, una differenza presente costantemente nelle nostre vite ma a cui non facciamo caso, ed è proprio questa la forza di Life is Strange: un punto di vista esterno rispetto a episodi di vita che la maggior parte di noi ha vissuto, riesce a far riflettere sulle nostre scelte, desideri e conseguenze. Un’opera formativa che, sfruttando storie che a un primo sguardo possono risultare banali, permette una crescita personale che ben poche opere videoludiche e non riescono a ottenere. La differenza è data dal come si racconta una storia, non dalla storia stessa.
Ma veniamo al punto focale delle vicende. L’intero episodio è ambientato a casa Price, nell’ultima manciata di ore prima del punto di non ritorno. Il pretesto della “pulizia generale” della stanza di Chloe, ci permette di fare una gita tra i ricordi e aggiungere elementi narrativi precisi che impreziosiscono la caratterizzazione dei personaggi: l’ammissione alla Blackwell da parte di Chloe e i suoi altissimi voti a scuola, la spensieratezza fanciullesca e i tratti distintivi della prima Maxine, insicurezza e amore per la sua seconda famiglia. Fa un certo effetto vedere il duo prima dei profondi cambiamenti che stanno per arrivare, soprattutto in Chloe, solare, giocosa e con l’ottimismo in poppa.
Una volta trovato un vecchio album di disegni, partirà una caccia al tesoro che sarà ben più di un semplice gioco tra due amiche.

Un tesoro per tutti

Questo episodio è un’immensa allegoria: Max e Chloe stanno per dirsi addio ma c’è ancora il tempo di fare un viaggio, approfittando di un gioco iniziato ben cinque anni prima. L’intera caccia al tesoro che ne seguirà non è altro che un pretesto per porre una prima pietra sulle proprie convinzioni personali, in una realtà velocemente mutevole come quella dell’adolescenza. Sul piano del gameplay non si presentano grosse “fatiche”, tutto risulta scorrevole, il focus del gioco si sposta sui pensieri di Maxine e sulle sue titubanze; il tesoro dunque, una volta trovato, avrà tanti significati per il duo, e servirà da perno della discussione principale che si apprestano ad affrontare.
Questa giornata passata assieme a Chloe, come detto, è molto importante: per la prima volta – approfittando delle informazioni già acquisite nella pentalogia originale – possiamo assistere alle prime “rotture” nella vita della Price, che per sua sfortuna avvengono quasi tutte nello stesso momento. Se fino a oggi abbiamo solo potuto immaginare e speculare riguardo le ragioni della sua indole e delle sue azioni e reazioni, vivere questi momenti fa nuova luce sulla sua caratterizzazione, completando il quadro sulla sua psiche. Come ci ha abituati Deck Nine, in Life is Strange, abbiamo a che fare con personaggi plausibili e reali, con problemi e pensieri che hanno il tratto della quotidianità. Questo “tornare indietro” nella vita di qualcuno è ben più di un semplice flashback: in questo capitolo bonus possiamo sentire il peso non solo delle nostre azioni ma anche quelle degli altri personaggi, rendendo tutto tangibile e drammaticamente vero.
Unendo tutte le tessere del puzzle, dunque, avremo una visione più chiara delle due opere principali precedenti e questo, senza dubbio, spinge a rigiocare entrambi, magari riscoprendo il valore di piccoli gesti a cui, forse, non abbiamo dato il giusto peso.

In conclusione

Questo episodio conferma la qualità e soprattutto la passione che Deck Nine ha mostra nell’intero progetto di Life is Strange. Anche se le vicende raccontante in Addio erano già di nostra conoscenza, lo spaccato della vita di Max e Chloe prima degli eventi tragici, fa una bella luce sul loro passato: vedere Chloe leggiadra e sorridente è un momento unico, lieto ma, al contempo, un po’ triste quando pensiamo a lei come co-protagonista nell’originale Life is Strange. Addio è dunque un bel regalo per tutti i fan e chiude il cerchio su un lavoro che aspetta la sua prosecuzione con l’attesissimo secondo capitolo.




Italian Video Game Awards

Il Drago d’Oro cambia nome, veste e location e diventa Italian Video Game Awards. Un tocco di maggior internazionalità, categorie ripensate, platea delle grande occasioni. Dopo 5 edizioni, quella del Teatro della Vetra rappresenta un po’ l’inizio di un nuovo ciclo, una prima edizione di un nuovo corso verso una manifestazione che aspira a un respiro più ampio rispetto a quello limitato all’ambito del Belpaese. La strada da fare è ancora tanta, ma fa piacere vedere come i progressi rispetto al passato non manchino.
La giuria, composta da 12 elementi provenienti quasi interamente dal mondo del giornalismo videoludico, fra testate generaliste e specialistiche e outsider, ha scelto i migliori titoli per ogni categoria dei quali di seguito trovate l’elenco completo:

Game of the Year: The Legend of Zelda: Breath of the Wild

People’s Choice: Horizon: Zero Dawn

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Best Selling Game: FIFA 18

Radio 105 eSports Game of the Year: Tom Clancy’s Rainbow Six Siege

Best Art Direction: Cuphead

Best Audio: Nier: Automata

Best Character: Senua – Hellblade

Best Narrative: Prey

Best Game Design: Super Mario Odyssey

Best Evolving Game: GTA Online

Best Family Game: Mario + Rabbids Kingdom Battle

Game Beyond Entertainment: Last day of June

Innovation Award: PlayerUnknown’s Battlegrounds

Best Mobile Game: Monument Valley 2

Best Indie Game: What Remains of Edith Finch

Best Italian Game: Mario + Rabbids Kingdom Battle

Best Italian Debut Game: Downward

MCV Special Recognition Awardto the most successful individual in the Italian Industry: Davide Soliani, Ubisoft Milan

MCV Special Recognition Award to the most successful Italian company in the world: Digital Bros




Dark Souls e la cultura del contesto

Se avete giocato almeno una volta a Dark Souls, fiore all’occhiello della nipponica From Software, sarete sicuramente scesi a patti (come del resto accade con le Fazioni all’interno del gioco) con la sua controversa e dibattuta “non narrazione” o lore (della quale trovate una disamina in questo corposo speciale) che di fatto costituisce una grossa fetta di quella fortuna che lo ha reso capostipite di un vero e proprio sottogenere di giochi di ruolo, quello dei soulslike.
Oltre che a reinterpretare la difficoltà dei tempi passati con un gameplay tanto punitivo quanto gratificante, Dark Souls fa della libera interpretazione il più grande punto di forza, perché è proprio attraverso le speculazioni che la community arricchisce l’esperienza di gioco, donandogli una linfa vitale che si rinnova a ogni discussione.
È però il gioco stesso a richiedere cooperazione da parte del suo interlocutore (inteso come “giocatore”) e su questa impernia il suo significato più profondo. Tutto ciò, in maniera consapevole o meno, può essere relazionato alla cultura d’origine dell’opera ed è quello su cui ci concentreremo qui di seguito.

Analizzandone il linguaggio, possiamo considerare quella nipponica come una High Context Culture (HCC), ovvero quel tipo di cultura basata più sul senso complessivo di una frase che sul significato della singola parola che la compone. Nella lingua giapponese non esiste differenziazione tra maschile e femminile, singolare e plurale; inoltre, i verbi sono coniugati in maniera uguale per tutte le persone ed esistono soltanto due tempi verbali: il “passato” e il “non passato”, il quale racchiude in sé presente e futuro. Tutto ciò evidenzia come il sistema linguistico valorizzi il contesto come chiave di lettura per la comprensione. Tornando a Dark Souls, riuscite a immaginare quanto la lingua di partenza possa creare un allontanamento dalla nostra attuale capacità di interpretazione? Se avete provato un forte senso di alienazione giocando, sì; e se ne siete stati affascinati al punto da sentire il bisogno fisiologico di approfondire, be’, gioite, siete i giocatori perfetti per Dark Souls.
L’appartenenza a una HCC coinvolge in maniera incisiva, oltre che la lingua, anche la sfera personale, influenzando le tradizioni, il linguaggio non verbale e la stessa percezione del tempo. Generalmente, infatti, gli occidentali tendono a vedere il tempo proiettato verso il futuro, in maniera lineare, mentre nella cultura orientale la ciclicità sta alla base di tutto. Chiusa una stagione se ne aprirà una nuova, come in cerchio, esattamente come avviene per le varie ere che compongono la (apparentemente) distorta linea temporale dei vari Souls.
Tornando al linguaggio in relazione alla HCC, i gesti rappresentano, nel gioco di Miyazaki, l’unico strumento di comunicazione tra i giocatori, che interfacciandosi sono riusciti in senso lato a coniare parole nuove e locuzioni, riutilizzate usualmente all’interno della community («Loda il Sole» vi dice qualcosa?); inoltre, si è venuta a creare una forma autentica di galateo (inchinarsi dinnanzi a un nuovo giocatore, soprattutto se ostile, rappresenta sempre il primo passo per ottenere un “leale scambio di opinioni”). Tutto ciò rispecchia in pieno l’idea di tradizione di origine, pur rappresentando di fatto un’innovazione all’interno del mondo del gaming.

Ma Dark Souls è unico nel suo genere?
Solo in parte, perché sono tantissimi i giochi che richiedono una cooperazione simile da parte dell’interlocutore-giocatore. Basti pensare ai giochi del Team Ico, come The Last Guardian e Shadow Of The Colossus (tornato da poco sugli scaffali in veste rimodernata) o più semplicemente all’idraulico più famoso di tutti i tempi: Super Mario.
Quindi tutti i giochi provenienti da una HCC necessitano di interpretazione?
Come in ogni opera (dal cinema alla musica), pensare al contesto sociopolitico e culturale di partenza aiuta a comprendere più a fondo i significati più o meno espliciti, ma la risposta, anche in questo caso, è un parzialissimo “no”. Le eccezioni sono tante in numero proporzionale a quanti sono i giochi appartenenti alla regola. La saga di Resident Evil, ad esempio, meriterebbe un’analisi approfondita, ma in linea di massima riesce bene nell’intento di raccontarsi, probabilmente perché nel tempo ha subito una più profonda influenza da parte del mondo occidentale.

Viviamo in un melting pot di culture, e in questa sede è impossibile non citare giochi non narrati e ad alto contesto di provenienza europea, come lo struggente quanto nostrano Last Day of June, sviluppato da Ovosonico; Inside dei danesi Playdead (dei quali si potrebbe citare anche Limbo); infine anche Little Nightmares degli svedesi Tarsier Studios, come gli stessi Souls distribuiti da Bandai Namco.
Va da sé che questa è solo la punta dell’iceberg: a ragion veduta si potrebbero analizzare miriadi di realtà differenti, soprattutto in un momento così florido per il mercato degli indie game, che spesso fanno del linguaggio visivo una forma d’arte. Puntualizzato che questo articolo voleva soltanto fornire degli spunti di riflessione, rimaniamo al vostro fianco in attesa dell’uscita di Dark Souls Remastered, il 25 maggio su PC, Playstation 4, Xbox One e Switch.

Gaetano Cappello

Carmen Santaniello




Brothers: A Tale of Two Sons

C’era una volta un regista, esordirebbe questo scritto se fosse una fiaba. Ma questo scritto parla di una fiaba, e tutto sommato quest’incipit può andar bene.
C’era una volta un regista, che girava film indipendenti di buona fattura. Un giorno, nel 2010, venne chiamato da una scuola di Örebro – cittadina svedese che accolse dal Libano la sua famiglia quando aveva soltanto 10 anni – per tenere una lezione in un corso di game design, parlando dalla prospettiva del filmmaker. La lezione ebbe successo, al punto che gli fu chiesto se non volesse cimentarsi ad abbozzare un videogame. Poteva essere un buon passatempo prima del sesto film, un Balls che aveva avuto un’accoglienza più tiepida rispetto a opere come Jalla! Jalla! o Zozo.
Fu così che, in breve tempo, prese forma un mondo fantastico dai contorni immaginifici, sospeso tra l’immaginario dei fratelli Grimm e la mitologia scandinava.
Come ogni fiaba che si rispetti, anche questa non manca di un lieto fine, e fu così che l’idea di Brothers: A Tale of Two Sons, dopo alcuni dinieghi, venne sposata e sviluppata da Starbreeze Studios, per poi trovare distribuzione sul mercato nell’agosto 2013 grazie al publisher nostrano 505 Games.
A pochi giorni dall’uscita della seconda opera di Fares, il cooperativo A Way Out, rispolveriamo una storia dalle forti emozioni e che offre al giocatore, oltre a un gameplay unico, un viaggio per molti versi difficile da dimenticare sul piano visivo.

Padri e figli

Ogni fiaba che si rispetti riserva ai propri protagonisti un sentiero da percorrere.
La storia di Brothers inizia all’ombra di un albero, su un costone di roccia a strapiombo sul mare, con un ragazzino in ginocchio dinanzi a una lapide. Il sospetto che si tratti della tomba della madre trova immediata conferma grazie a un flashback nel quale vediamo la donna annegare in mare, scivolando da una barca durante una tempesta, mentre il ragazzo tenta invano di salvarla. Da quel momento, il piccolo Naiee svilupperà un enorme terrore dell’acqua, e potrà immergersi soltanto aggrappandosi alle salde spalle del fratello maggiore, Naia, con il quale intraprenderà ben presto un incredibile viaggio. I due, infatti – ed è qui che il gioco ha veramente inizio – si troveranno sin da subito a dover portare il padre dal medico del villaggio, che gli diagnosticherà un terribile male, curabile soltanto dalle acque raccolte nel cuore dell’Albero della Vita che si trova dalla parte opposta del regno.

In cooperare in single player

Fin dai primi passi, il giocatore si ritroverà dinanzi a un sistema di controlli totalmente inedito: il tragitto che va dal punto di partenza alla casa del medico è un buon momento per familiarizzare infatti con un sistema che ci permette di governare i due fratelli contemporaneamente sullo stesso pad, ma separatamente con i due stick analogici. Con lo stick destro controlleremo il giovane Naiee, mentre il sinistro ci permetterà di direzionare Naia. L’operazione all’inizio difficilmente risulterà agevole, specie se si vuol andare avanti spediti: i giochi ci hanno abituato a focalizzarci sul controllo di un singolo personaggio, con il quale al massimo ci rapportiamo ai vari NPC e alle intelligenze artificiali, anche in termini cooperativi. Qui dovremo costringerci a scindere abilmente il pensiero, sincronizzando i movimenti per superare i singoli puzzle: ci sarà la necessità di sollevare oggetti pesanti in due, bisognerà muoversi in modo da trasportarli aggirando gli ostacoli, si incontreranno puzzle dove sarà richiesto effettuare in sincrono movimenti totalmente diversi. In tal senso Brothers: A Tale of Two Sons rappresenta un’esperienza musicale: è come imparare un giro d’accordi su un nuovo strumento, la coordinazione fra mano destra e mano sinistra aumenta con la pratica, e il risultato si fa sempre più armonico.
Parimenti, prenderemo confidenza con le singole caratteristiche dei due fratelli e impareremo a sfruttarle nei singoli puzzle in cui incapperemo: il più grande è più alto, più forte, può nuotare (e trasportare il fratellino sulle spalle) e interagire meglio con gli adulti, mentre il minore può adattarsi agli spazi stretti (dove spesso l’altro non passa) e ha maggior empatia con bambini e animali. Muoversi in questa maniera non risulterà complesso, a lungo andare, ma bisogna concedere alla mente il giusto tempo per abituarsi, avere un approccio paziente soprattutto quando, credendo di aver ormai il controllo della situazione, ci si potrebbe trovare a mischiare i comandi e a doverne rapidamente tirare le fila.
Da questo punto di vista, Brothers: A Tale of Two Sons è un vero gioiellino, con un sistema di controlli altamente gestibile, efficiente ed efficace, che fanno gioco a vari puzzle dalle meccaniche elaborate, raramente di difficile risoluzione, ma che mettono alla prova il giocatore in termini di abilità.

Grammelot

Quel che rende straordinario il control system non è soltanto l’aspetto riguardante la gestione dei personaggi nella loro interazione con gli ambienti e nei singoli puzzle. I controlli qui sono una forma di linguaggio, prendere confidenza con la gestione dei personaggi ci mette in relazione diretta con i due fratelli, è il primo mezzo per instaurare un rapporto sinergico tra i character e sentirne anche noi l’affetto, gli attriti, le tensioni, le emozioni. Il legame in tutta la sua profondità, insomma. Un meccanismo fondamentale in un titolo sostanzialmente privo di dialoghi. O meglio, i dialoghi fra i personaggi ci sono, ma non fanno riferimento ad alcun linguaggio codificato o conosciuto. Quel che vediamo nella mise-en-scene di Brothers: A Tale of Two Sons è un vero e proprio grammelot: né voci, né linee di testo, nessun sottotitolo, solo il teatro dei gesti, della mimica e dei versi inscenato in un vasto palcoscenico fiabesco, dove tutto risulta miracolosamente comprensibile, dai dialoghi fra i due fratelli a quelli con i vari NPC che incontreremo nel percorso. Intuiremo i dissapori con un dispettoso ragazzo del villaggio, l’amarezza di un troll a cui è stata rapita la compagna, fino ai momenti di emozione più intensa che si scopriranno nel corso di questo straordinario racconto odeporico.

Echi norreni

Dal punto di vista visivo, non si può non ammirare lo straordinario lavoro del Concept Artist e illustratore Bradley Wright, che restituisce su schermo scenari che sembrano presi a piene mani dai fratelli Grimm in una fantasmagoria di fogliame dai colori tenui, ruscelli abbacinanti, alte vette e orizzonti lontani.
È un libro di fiabe illustrato che prende vitaBrothers, e il suo impatto su schermo è straordinario, con una policromia ben dosata che si stende in immagini eleganti e quiete come un’acquarello; anche nei paesaggi più crudi, dove si rappresenta la ferocia della guerra e dove regnano ormai soltanto morte e silenzio, il tratto dei disegni tende a deformare ogni evento tragico sotto la lente lenitiva del fiabesco, con un effetto di lieve straniamento nei confronti di tutto quel che vediamo.
L’art-style è straordinario sotto molti aspetti, e ci rende facile passare sopra alcuni dettagli tecnici poco curati e certamente perfettibili: del resto è il comparto artistico qui a farla da padrona, e non quello strettamente tecnico.
A far da appropriato corredo alle immagini del gioco è certamente la colonna sonora di Gustaf Grefberg che non risulta mai fuori luogo, ed è anzi curatissima nella sua orchestralità, ma che alla lunga può risultare a tratti monotona nel ripetersi dei principali leitmotiv e nell’eccessivo indugiare su un certo lirismo che dovrebbe invece rappresentare un suo punto di forza. Il comparto musicale ha certamente una sua solidità e supporta egregiamente il divenire della storia, ma all’ascolto solitario non riesce a risultare incisivo nonostante sia certamente ben elaborato.

La perdita, la crescita, la vita

Come tutte le grandi fiabe, Brothers: A tale of Two Sons tratta argomenti importanti attraverso un racconto dai contorni quasi infantili. Ma chi ha letto le storie dei Grimm o di Andersen sa bene che dietro a quel fiabesco stava anche un mondo per niente confortevole, con finali spesso tutt’altro che lieti.
Brothers non fa eccezione in tal senso, ma un finale tutt’altro che lieto non è affatto casuale né a effetto, contribuendo invece alla funzione formativa della fiaba.
Come scrive lo psicanalista austriaco Bruno Bettelheim nel suo Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe: 

«Soltanto uscendo nel mondo l’eroe della fiaba (il bambino) può trovare se stesso; e quando trova se stesso trova anche l’altra persona con cui potrà vivere felice per il resto dei suoi giorni, cioè senza dover più provare l’angoscia di separazione. La fiaba è orientata verso il futuro e guida il bambino. La fiaba è orientata verso il futuro e guida il bambino — in termini che egli può comprendere sia nella sua mente conscia, sia in quella inconscia — aiutandolo ad abbandonare i suoi desideri infantili di dipendenza e a raggiungere una più soddisfacente esistenza indipendente.»

Da Brothers usciamo formati noi, e anche il bambino che è in noi. Brothers è un racconto d’amore – filiale e fraterno – un racconto sulla crescita, sulla perdita e sulla scoperta di se stessi: è un racconto di formazione e, come tale, porta con sé il suo preziosissimo insegnamento.

È una storia intensa e dilaniante, in cui la compenetrazione negli stati d’animo dei personaggi è quasi totale, portandoci a viverne i dolori più intensi. È un viaggio attraverso paesaggi immaginifici e creature fantastiche che in qualche modo gioca con gli emisferi cerebrali, scissi e al contempo in continua interazione, come i due fratelli, un racconto che tende a unire il nostro lato emotivo e il nostro lato razionale, che ci invita a imparare a governarli entrambi e ad armonizzarli, proprio come è necessario per i due piccoli fratellini. Per poter vivere e sopravvivere. È un gioco in cui non si guidano solo Naia e Naiee, ma la nostra stessa mente, che in qualche modo si fa protagonista tramite i due personaggi.
Tre ore scarse, ma estremamente intense in un un titolo che ci insegna l’importanza della cooperazione, anche con quel piccolo fratello (maggiore o minore) che si nasconde da qualche parte dentro la mente di ognuno di noi.