The Inpatient

The Inpatient

The Inpatient il nuovo gioco per Playstation VR, targato SuperMassive Games, può essere annoverato tra gli horror psicologici.
La software house inglese, dopo averci affascinato con la coinvolgente storia di Until Dawn (qui la recensione) ed entusiasmato, lanciandosi nel mondo della realtà virtuale, con lo spettacolare shooter su binari Until Dawn: Rush of Blood (qui la recensione), che rappresenta uno spin-off del primo, adesso ci presenta quello che è un vero e proprio prequel del capitolo d’esordio.
Non c’è quindi da meravigliarsi se l’hype di tutti i fan della serie è stato elevato sin dall’annuncio ma, se già doversi confrontare con un primo titolo di rango non risultava un’operazione semplice, questo The Inpatient presenta non pochi problemi che ne inficiano la qualità.

Blackwood Pines Sanatorium

Ambientato 60 anni prima gli eventi di Until Dawn, in un manicomio/casa di cura a BlackWood Pines, The Inpatient ci vede vestire i panni di un paziente affetto da amnesia. Durante tutto il gioco ci troveremo sempre in compagnia di qualche personaggio con cui dialogheremo (nel vero senso della parola).
Prendendo in prestito dalla Teoria del Caos l’effetto farfalla, la SuperMassive Games, come già  in Until Dawn, ce ne offre la propria versione: le risposte che sceglieremo di dare influenzeranno il corso della storia, saranno decisive per la vita o la morte dei personaggi incontrati e ci condurranno a finali differenti.

Cosa si poteva fare meglio

Come accennavamo, i difetti legati a questo titolo sono diversi e coinvolgono molti settori chiave.
Il secondo  difetto, non da poco in ordine di fastidio arrecato al gamer, è rappresentato dalla programmazione dell’ambiente che ci circonda. L’intero scenario, compresi il 99% degli oggetti, si presenta infatti come un unico gigantesco blocco immobile: ciò vuol dire che non solo non saremo in grado di far muovere niente sbattendovi contro, perdendo in realismo ma, per di più, qualsiasi oggetto, persino quelli dotati di ruote, ci bloccherà il cammino, impedendoci di proseguire, obbligandoci a una macchinosa manovra di aggiramento. Per compire questa farraginosa operazione dovremmo spostare l’analogico di destra per tre o quattro volte nella direzione della rotazione che vorremo effettuare prima che la manovra vada a buon fine.
Qualche “illuminato” sviluppatore della casa britannica, ha ben pensato di mettere una bella toppa a questo inconveniente creando quello che rappresenta il primo dei difetti del gioco.
Il più grave problema è infatti proprio legato al sistema di controllo.
I programmatori della SuperMassive Games hanno dimostrato la propria maturità in ambito VR, studiando un sistema di controllo che evita completamente, qualsiasi problema legato al “motion sickness”, posizionando il movimento in avanti sull’analogico sinistro e la rotazione di 30/45/60 gradi sull’analogico destro.
Fin qui un ottimo lavoro. Purtroppo qualcuno, probabilmente in uno stadio particolarmente avanzato dello sviluppo del gioco, o addirittura in fase beta testing, ha avuto la “geniale” idea di mettere sempre sull’analogico destro la “feature” per l’inversione di visuale a 180°. Questa inopportuna funzione di controllo ci perseguiterà per tutto il gioco e ci capiterà in continuazione di azionarla involontariamente. Malauguratamente, neanche dalle impostazioni è possibile disattivarla, e saremo così condannati per l’intero gioco a doverci voltare nuovamente nella giusta direzione, diminuendo ancor di più la già scarsa immersività di questa esperienza VR.
Lo stress e il senso di insoddisfazione causati dalle già citate incaute scelte di programmazione ci inducono a sperare almeno in una storia avvincente e dal finale ricco di suspense. Anche qui veniamo amaramente delusi: ci mettiamo veramente poco a capire la storia e i suoi risvolti, e il gioco si riduce a seguire qualche personaggio per interminabili corridoi nei quali non succede assolutamente niente, e quasi speriamo in un jumpscare per movimentare un po’ la noia generata da questi lunghi tratti soporiferi.

Cosa ci è piaciuto

Assolutamente da lodare, invece, è l’esperimento relativo al controllo vocale dei dialoghi fatto dagli sviluppatori della SuperMassive Games.
Durante i colloqui con i vari personaggi, ci verranno poste delle domande e proposte a schermo due risposte possibili: ci basterà pronunciare la frase scelta e verrà automaticamente interpretata dall’intelligenza artificiale che si occupa del riconoscimento vocale.
L’eccellente lavoro degli sviluppatori britannici fa sì che l’algoritmo di riconoscimento vocale abbia un ottimo livello di accuratezza, pari quasi al 90% di corretta identificazione della risposta. È saggiamente stata anche prevista la possibilità di selezionare la risposta, semplicemente guardandola e premendo il tasto X.
In breve, risulta abbastanza naturale parlare con i personaggi del gioco sebbene sia necessario pronunciare esattamente la frase mostrata come risposta e non sia possibile dire qualcosa di simile o di significato analogo, come avviene nelle odierne AI di riconoscimento vocale.

Analisi Tecnica

Le texture sono belle, dettagliate e di grande effetto, sia quelle relative all’ambiente sia quelle che delineano l’aspetto dei personaggi. Il titolo sarebbe graficamente eccellente se non fosse per una miriade di bug grafici che, a scapito del realismo, fanno brillare anche in totale oscurità tutti gli oggetti, evidentemente aggiunti in un secondo momento, come i contorni delle finestre, delle porte, alcune parti della pavimentazione ecc.
Le animazioni dei personaggi sono abbastanza fluide e credibili, mentre quelle legate al nostro personaggio lasciano alquanto a desiderare. La velocità con cui ci muoviamo è a dir poco ridicola, anche nei momenti più concitati di imminente pericolo siamo lenti come una tartaruga assonnata e, se ci guardiamo i piedi, per altro scalzi, notiamo una specie di “moon walking” con scivolamento frontale del tutto inverosimile.
Il comparto audio è buono: i dialoghi, in italiano, sono ben doppiati, quasi al livello di quelli dello spin-off Rush of Blood, e le musiche accompagnano abbastanza bene le varie parti della storia. Gli effetti audio, seppur d’effetto, sono spesso temporizzati con troppo anticipo, rovinando così la sorpresa dei, tra altro rari, jumpscare.
L’estrema lentezza del personaggio, le lunghe camminate per gli interminabili corridoi che attraversiamo del tutto indisturbati e le poche emozioni che regala questo titolo, fanno sì che la scarsa longevità di sole 2-4 ore diventi un pregio piuttosto che un difetto.
Per quanto riguarda il “motion sickness”, problema sempre in agguato quando si tratta di realtà virtuale, possiamo tranquillamente affermare che i ragazzi di SuperMassive Games lo hanno totalmente scongiurato, tramite l’ormai collaudato sistema di rotazione a scatti.

The Inpatient

Impressioni Impazienti

Purtroppo The Inpatient delude sotto molti aspetti, la storia lenta e superficiale, il sistema di controllo stressante e tutt’altro che funzionale, la longevità di sole 2/3 ore e qualche bug grafico, fanno scendere il giudizio generale del gioco ben al di sotto della sufficienza. L’impressione generale che si ha giocando a The Inpatient è che la SuperMassive Games abbia puntato davvero in alto con un titolo graficamente bellissimo, e aggiungendo l’innovazione del controllo vocale dei dialoghi, al già apprezzato sistema di narrazione dell’effetto farfalla, abbia cercato di raggiungere l’olimpo delle IP. Purtroppo evidentemente, a uno stadio avanzato dello sviluppo, forse per problemi di budget, o a causa di qualche deadline da rispettare, abbiano dovuto accelerare la conclusione del titolo, lasciando bug grafici un po’ ovunque e rattoppando alla meno peggio i bug più importanti.

 




Cosa sappiamo di A Way Out?

Attualmente in via di sviluppo per PS4 , Xbox OnePC, A Way Out è un’avventura narrativa cinematografica che può essere vissuta solo in coppia,  in locale o online, dove ognuno può svolgere il ruolo di un singolo personaggio. Dapprima rivelato all’E3 dello scorso anno, l’atteso titolo di Hazelight Studio si propone come un’esperienza unica e nuova. La sua data di uscita è confermata, a detta dello studioper il 23 marzo 2018. Giocato in terza persona, A Way Out è un titolo basato, sul multiplayer locale in prima linea. I personaggi interpretabili sono Leo o Vincent, selezionabili da entrambi i giocatori, due detenuti, che devono riuscire a fuggire dal carcere e mantenere il loro anonimato nel loro rientro nella società. Ma, come è ovvio che sia, le cose non andranno secondo i piani.
Sarà necessario collaborare con il proprio compagno, sia che si tratti di trovare strumenti specifici per determinati enigmi o di salvarsi l’un l’altro quando vi saranno scontri con determinati nemici. Tutto è progettato e basato per un’esperienza a due giocatori, inclusi tutti i dialoghi e gli incontri. Anche Leo e Vincent non avranno dei limiti legati ai proprio ruoli, essendo in grado di cambiare posizione in ogni scenario per far si che il gioco sia il più soggettivo possibile.
Oltre al combattimento e alla risoluzione dei puzzle si potrà interagire con i PG di gioco presenti in ogni livello. Vi saranno dei dialoghi a scelta multipla che porteranno a vari scenari finali.
Vi lasciamo con il Trailer, direttamente dall’E3 2017. 




Il punto sulle Loot Box

Recentemente, Patricia Vance, presidentessa dell’ESRB, equivalente americano del PEGI, ha annunciato un nuovo avviso da piazzare sulle copie fisiche dei giochi che utilizzano il meccanismo delle loot box.

La Vance ha dichiarato:

«In molti ci hanno chiesto di entrare più nello specifico ma, dopo molte ricerche fatte negli ultimi mesi, soprattutto indirizzate ai genitori, abbiamo scoperto che molti di loro non sanno cosa siano le loot box e, anche quelli che ne hanno sentito parlare, non ne capiscono bene il meccanismo. Quindi per noi è importante concentrarci non solo sulle loot box, ma sulle microtransazioni in generale.»

La storia, quindi, tende a ripetersi: negli anni ‘90, quando sui telegiornali scorrevano le immagini di Doom o Mortal Kombat, i genitori pensavano che tali giochi non fossero adatti ai bambini. Per non parlare dei polveroni scaturiti a ogni uscita di Grand Theft Auto, oppure, le ridicole polemiche nostrane, su Mafia e Resident Evil 2. Veniva considerato tutto non adatto per i propri pargoli.
Ma questa volta le proteste vengono direttamente dai giocatori: che si parli delle microtransazioni di Star Wars Battlefront II, scandalo finito addirittura sui giornali, oppure del disegno di legge contro le loot box presentato da Chris Lee, rappresentante statale delle Hawaii e gamer di lunga data, gran parte delle persone facenti parte del settore concordano sulla loro limitazione o, addirittura, abolizione.

Le loot box sono il risultato della continua corsa a una certa assuefazione da gaming: in passato bastava comprare il singolo oggetto, e anche il più agguerrito dei giocatori poteva ritenersi soddisfatto. Mentre con il metodo attuale delle box diventa tutto un’attività casuale votata alla costante ricerca dell’oggetto desiderato. Tale meccanismo viene sfruttato fino all’osso dai produttori di videogiochi, così come testimoniato dal direttore finanziario di Electronic Arts, Blake Jorgensen, che, a proposito di Fifa e della modalità Ultimate Team ha dichiarato:

«Un film al cinema, negli Stati Uniti, può costarti venti dollari, ancora prima di prendere il popcorn, il che va bene. Ma allo stesso tempo un videogioco costato sessanta dollari che viene giocato dalle tremila alle cinquemila ore l’anno ha un valore maggiore. Se continui a spenderci soldi vuol dire che lo fai per divertiti ancora di più. Stiamo puntando sul dare ai giocatori quello che vogliono, e in grandi quantità, piuttosto che concentrarci sullo sviluppo di un nuovo gioco o di qualcosa di diverso.»

Il problema delle loot box viene proprio da dichiarazioni del genere: questa volta non è un fattore dovuto all’ignoranza dei genitori o dei media, ma alla convinzione da parte degli sviluppatori di fare giochi col puro scopo di spremere gli utenti, quando in realtà dovrebbe essere l’opposto.
EA, già sotto l’occhio del ciclone per il caso Star Wars Battlefront II, ha recentemente presentato un brevetto per il matchmaking basato sulla sequenza sconfitta/vittoria. Anche Activision-Blizzard è arrivata a concepire un’idea simile: difatti il loro sistema arriverà a premiare di più chi usa le microtransazioni. Così facendo, le loot box rischiano di scendere nello spinoso territorio del gioco d’azzardo e della ludopatia. È un problema che, se non dovesse venire affrontato seriamente dai produttori di videogiochi stessi, potrebbe passare nelle mani dei governi, com’è successo recentemente dall’indagine condotta dalla commissione che vigila sul gioco d’azzardo in Belgio. E visti gli aggiramenti legali da parte di Activision-Blizzard in Cina o la mancanza di concrete iniziative da parte dell’ESRB, questo scenario potrebbe diventare presto una realtà.




Annunciati i titoli PS PLUS di marzo 2018

Anche questo mese Sony rende disponibili grandi giochi per gli abbonati al servizio PlayStation Plus, questo mese è il turno di Bloodborne, grande esclusiva Sony, e Ratchet and Clank, altra ottima esclusiva.
Ecco l’elenco completo:

  • Bloodborne (PS4)
  • Ratchet and Clank (PS4)
  • Legend of Kay Anniversary (PS3)
  • Mighty No. 9 (PS3 e PS4)
  • Claire: Extended Cut (PS Vita e PS4)
  • Bombing Busters (PS Vita e PS4)

Per gli abbonati al PS PLUS marzo sarà un grande mese, che per adesso si aggiudica la migliore libreria dei titoli PS+ del 2018.
I giochi per il PlayStation Plus saranno disponibili al prossimo aggiornamento settimanale, martedì 6 marzo 2018.




La tutela degli abandonware online

Dopo il baratro nel quale sono sprofondati svariati giochi (vedi Grand Theft Auto Online per PS3 e Xbox 360), lo U.S. Copyright Office sta valutando se aggiornare o meno le disposizioni antielusione del DMCA (Digital Millennium Copyright Act), che impediscono al pubblico di utilizzare liberamente contenuti e dispositivi protetti dal DRM (Digital Rights Management), il cui significato letterale è “gestione dei diritti digitali”.
I file audio o video vengono codificati e criptati in modo da garantire una diffusione più controllata e renderne più difficile la duplicazione, consentendone l’utilizzo più adeguato possibile. Questi aggiornamenti avvengono ogni tre anni attraverso una consultazione pubblica, dove vengono prese in esame svariate richieste.
Una su tutte, riguarda l’abbandono dei giochi online datati e lasciati ormai al loro corso. Infatti, fino a ora, per preservare questi titoli per le generazioni future e per i giocatori nostalgici, l’Ufficio ha adottato norme specifiche, che permettono a biblioteche, archivi e musei di utilizzare emulatori e altri strumenti analoghi per rendere giocabili i vecchi classici. Tuttavia, queste norme sono molto restrittive e non possono essere applicate a giochi che richiedono una connessione a un server online e, di fatto, quando i server vengono chiusi, il gioco scompare per sempre.
Proprio per queste ragioni il MADE (Museum of Art and Digital Entertainment) ha recentemente chiesto allo U.S. Copyright Office di estendere le norme correnti e includere giochi che richiedono una connessione online. Ciò consentirebbe alle biblioteche, agli archivi e ai musei di gestire tali server e mantenere così in vita questa tipologia di giochi.

Questo problema è più che mai attuale, poiché centinaia di giochi multiplayer online sono già stati abbandonati. Difatti, si tratta di circa 319 titoli, molti dei quali sono i noti FIFAThe Sims. Purtroppo, proprio nell’ultima settimana, la Entertainment Software Association (ESA), che agisce per conto di membri di spicco, tra cui Electronic Arts, Nintendo e Ubisoft, si è opposta alla richiesta, affermando  che le modifiche proposte consentirebbero e faciliterebbero un uso illecito dei software in questione e che se questi, ormai datati, venissero supportati ancora al pieno delle loro possibilità, il mercato diventerebbe troppo statico, rallentando la vendita dei nuovi titoli.
Qual è, quindi, la strada giusta da percorrere? È difficile rispondere ma per quanto i nuovi titoli abbiano bisogno della massima attenzione e pubblicità per poter far andare avanti il mercato, non possiamo dimenticare i loro “antenati” dai quali, probabilmente, sono nati.




Mulaka – Una Finestra su un Vecchio Mondo

Il mondo degli indie è in forte crescita, e gode spesso di una maggior libertà creativa rispetto ai grossi team di sviluppo, incatenati la maggior parte delle volte a logiche di mercato che talvolta risultano castranti. L’ultimo arrivato nell’universo videoludico indipendente è Mulaka, titolo sviluppato dal team Lienzo e interamente basato sulla mitologia Tarahumara, antica popolazione messicana che, stando alle leggende, avrebbe dato i natali a guerrieri formidabili ed eccezionali corridori. Le loro credenze, usi e costumi sono tutti racchiusi in questo action-adventure che vede come protagonista un Sukurùame, sciamano in grado di sconfiggere il male che sta infestando la sua terra natìa.
Nonostante il popolo Tarahumara si sia ormai abituato alle usanze del ventunesimo secolo, si tratta di una tribù che ha subito, e continua a subire nella realtà odierna, discriminazioni e atti di violenza: proprio per questo, parte del ricavato di Mulaka sarà destinato a una ONG che si occupa della sua tutela.

Il Sole e l’altre stelle

Come detto, l’intero Mulaka si basa sulla mitologia Tarahumara, sia dal punto di vista visivo che nella narrazione: il mondo è in pericolo e l’influenza di Teregori, il Signore del Male, sta avendo la meglio. Solo colui che sarà in grado di far confluire in lui la forza degli esseri celestiali potrà riportare la serenità.
Sebbene questo classico scontro tra bene e male possa risultare una premessa banale, è il modo in cui viene raccontato a fare la differenza. Il team di sviluppo ha studiato a fondo la cultura della tribù, attraverso testi antichi e l’ausilio di antropologi e leader Tarahumara. La mole di informazioni ricavata ha permesso a Lienzo di imbastire una lore prima di tutto, attraverso molti dialoghi di richiamo “zeldiano” e testi atti alla descrizione dei nemici. Ognuno di quest’ultimi infatti è parte integrante della cultura Tarahumara, come per esempio i Seelò, mantidi antropomorfe che un tempo dominarono il mondo, per passare a semi-divinità come Ganoko fino a Teregori, il male assoluto. La loro rappresentazione è ricca di simbolismo e invoglia ad approfondire le basi della mitologia in questione. Alcune cutscene, realizzate in stile acquarello, faranno da trait d’union tra le vicende, con suggestivi dialoghi  con le entità celestiali che ci aiuteranno lungo il viaggio. Le lingue disponibili sono soltanto inglese e spagnolo, ma risultano intendibili e di non complessa fruizione.
La conoscenza di una cultura dimenticata è l’elemento di forza di Mulaka: abbiamo visto svariate opere su mitologie a noi vicine come quella greca, egizia e norrena eppure il mondo è così ricco di storie e spunti che sarebbe un peccato non poterne godere. Il team di Lienzo è stato in grado di portarci in un mondo così diverso dal nostro, eppure animato dalle stesse paure e dalle stesse speranze che hanno accompagnato noi occidentali.

Uno è Tutto e Tutto è Uno

Mulaka si presenta come un action/adventure dai marcati caratteri platform. Durante l’esplorazione delle mini mappe, non interconnesse tra loro, ci muoveremo principalmente a piedi, sfruttando le grandi doti atletiche del Sukurùame e, soprattutto, la sua grande maestria nel combattimento. Armati soltanto di una lancia, si verrà alle mani con decine di nemici diversi, ognuno con punti di forze e debolezza specifici. Lo studio del moveset delle creature sarà fondamentale e cambiare approccio al nostro stile di lotta sarà fondamentale per sopravvivere. Gli attacchi si suddividono in pesanti e leggeri senza possibilità di parare i colpi avversari; al suo posto, una schivata “bloodborniana” diventa fondamentale in certi frangenti, soprattutto quando saremo circondati da tanti nemici diversi. Non si tratta di un titolo particolarmente impegnativo, ma bastano una manciata di distrazioni per finire al Creatore.
Uno degli elementi tratti dallo studio della tribù è l’utilizzo di alcune erbe a uso esclusivo del Sukurùame, l’unico in grado di di trarre beneficio dai vegetali messi a disposizione dalle divinità. Proprio in Mulaka, la raccolta di quattro diversi tipi di piante forniranno altrettanti boost al nostro personaggio: si va dal classico recupero della salute, alla creazione di uno scudo temporaneo, fino all’aumento della potenza d’attacco e alla creazione di piccoli esplosivi. Il loro utilizzo favorisce l’attraversamento delle zone più impervie e contribuisce ad aggiungere interessanti elementi strategici, soprattutto negli scontri contro i boss.
Altro aspetto fondamentale per uno sciamano è il diretto contatto con le entità celestiali che, nel videogioco, si traduce nella possibilità di giovare di brevi ma efficaci trasformazioni: alcune di esse, come la metamorfosi in uccello o giaguaro, saranno fondamentali per alcune sezioni platform mentre altre, oltre a risultare utili in combattimento con un po’ di creatività, daranno accesso a luoghi altrimenti inaccessibili. I dungeon a disposizione sono completamente diversi gli uni dagli altri, sia per contenuto che per conformazione: la loro esplorazione, a volte risolvendo piccoli enigmi, permette di accumulare Kòrima, la moneta di gioco, con la quale è possibile potenziare il personaggio, aumentandone alcune abilità.
Ma il vero fiore all’occhiello del titolo sono le boss fight: dopo aver varcato il classico cancello di fine dungeon, avremo l’opportunità di affrontare i capisaldi della mitologia Tarahumara, in cui sarà fondamentale un buono spirito d’osservazione. Chi ha giocato i Souls sa bene che una buona varietà di nemici è necessaria per poter essere messi costantemente alla prova e Mulaka assolve a questo compito, dando a ogni boss fight caratteristiche unica, in cui non solo bisognerà fare attenzione al moveset del nemico ma anche all’ambiente circostante. Frequenti sono i richiami ad altre opere, come i lavori From Software o, in alcuni frangenti, a Shadow of the Colossus; eppure tutto risulta originale, grazie all’attento studio degli sviluppatori nel citare senza risultare pedissequi. Proprio le boss fight ci invogliano a spingerci avanti solo per il gusto di affrontare il successivo, temibile nemico.

Un quadro poligonale

Il motore Unity è alla base di molti indie, è un engine scalabile, di facile utilizzo e che permette di sostenere tutte le idee degli sviluppatori. Il mondo ricreato da Lienzo si presenta visivamente suggestivo, sfruttando le peculiarità del low-poly, una tecnica poco usuale nei videogiochi moderni. Se di fronte a uno screenshot del titolo non gridereste al miracolo, vederlo in movimento restituisce invece un’ottima esperienza visiva, in grado di riprodurre ambienti idilliaci ispirati alla cultura nord-messicana. Ogni ambiente infatti è frutto di un attento studio, così come la realizzazione dei costumi e di elementi di decoro degli abitanti, e ovviamente dei nemici. Il tutto gira senza intoppi a 1080p e 60fps, salvo qualche rallentamento nei menù di gioco e sporadici bug e glitch, sui quali il team di sviluppo pare essere già al lavoro.
Anche l’accompagnamento sonoro vanta un’attenzione particolare: tutti gli effetti audio sono stati registrati direttamente nella terra dei Tarahumara, dallo scorrere dei fiumi al fruscio del vento. Anche le splendide musiche – poche, a dir la verità – sono state interamente realizzate grazie all’ausilio degli strumenti locali. Il risultato è un’opera totale in grado di restituire a 360 gradi una cultura che quasi certamente i più non avranno mai sentito nominare.

In conclusione

Mulaka è letteralmente una finestra su un mondo inedito, ed è più di un semplice videogioco. Il  team di Lienzo è stato in grado di restituire l’anima di una terra dimenticata con ottime scelte artistiche, contornate da boss fight di buona fattura, capaci di restare impresse nella memoria. Tralasciando qualche piccolo difetto tecnico, Mulaka può diventare ispirazione per altri titoli, unendo il divertimento e la sfida alla ricerca di culture e storie che noi tutti ignoriamo.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




StarBlood Arena

StarBlood Arena

StarBlood Arena è uno shooter 3D in prima persona a bordo di una navetta spaziale, ambientato in dodici arene da combattimento al chiuso.
Il titolo si piazza in quel filone inaugurato da RIGS: Mechanized Combat League, offrendo ben poche innovazioni al genere. Gli sviluppatori della WhiteMoon Dreams, provano a cavalcare l’onda della realtà virtuale per proporre un titolo che, senza un visore addosso, tende a svuotarsi di significato.
Starblood Arena è un prodotto ricco di difetti e probabilmente senza alcuna pretesa, carente sotto diversi aspetti, e nel migliore dei casi ci regala brevi momenti di divertimento, alternati a lunghe pause di caricamento.

StarBlood Network Reality Show

Il gioco ci introduce a un improbabile futuro popolato da diverse razze extraterrestri e dove letali reality show televisivi vanno per la maggiore.
Una ben assortita coppia di simpatici presentatori alieni, chiacchierando spesso degli affari propri, ci introdurrà alla scoperta dello studio televisivo del “famosissimo canale” StarBlood Network, guidandoci così a conoscere i comandi di guida delle astronavi che andremo a pilotare, senza dimenticarsi di prenderci un po’ in giro.
Il controller preposto allo scopo è il classico joypad, che con l’analogico sinistro ci permetterà di ruotare e muoverci, mentre con i tasti L1 e R1 sarà possibile traslare sull’asse Z.
Già dal tutorial si avverte un senso di malessere, “motion sickness” a cui sarà difficile sottrarsi.
Il più grave difetto del gioco è rappresentato proprio dalla chinetosi, difetto che, malgrado gli sforzi fatti dal team della WhiteMoon Dreams, non sembra sia stato del tutto risolto ma, a voler esser buoni, soltanto lievemente mitigato.
È proprio il “motion sickness” insieme alle lunghe attese tra un match e l’altro a spezzare l’unico aspetto divertente del gioco, rappresentato dal ritmo frenetico degli scontri nelle arene.

Pregi vs Difetti

La storia lascia molto a desiderare, costituendo soltanto un mero pretesto per i combattimenti tra razze aliene su delle mini astronavi, non assolvendo neanche al compito di fungere da collante alle varie modalità di gioco.
Per un imprecisato motivo, ci troviamo a partecipare a un letale reality show televisivo, dove impersoneremo uno dei 9 piloti disponibili fra le diverse razze aliene e umane. Ogni pilota comanderà una specifica navetta, che avrà differenti caratteristiche di difesa, velocità, ecc. e differenti armi primarie e secondarie ( laser, missili, bombe, ecc. ).
Le ambientazioni dei vari livelli, sono le 12 arene messe a disposizione per i combattimenti tra cui Catacombe, Miniera, Fabbrica, Grotta e Silo.
Gli scenari (interamente al chiuso) risultano così decisamente claustrofobici (caverne, cunicoli, anfratti), fattore che tende a intensificare i fastidi legati al “motion sickness”.
Superando i primi segni di chinetosi, con un po’ di buona volontà, si riesce a giocare qualche partita degna, a tratti persino divertente. In breve, l’iniziale sensazione di caos, si trasforma in una battaglia adrenalinica per lo più istintiva, senza richiedere grandi sforzi strategici e organizzativi.
Purtroppo il ritmo frenetico di StarBlood Arena – che di per sé rappresenta la caratteristica più entusiasmante del gioco – viene spezzato da lunghe fasi di caricamento tra un match e l’altro.
È possibile giocare in single player, in multiplayer e in modalità co-op: le sfide sono i classici deathmatch tutti contro tutti o a squadre, una versione del “capture the flag” con una palla e una sfida dove bisogna difendere le proprie basi da ondate di nemici che arriveranno all’infinito, anche questa affrontabile in solitaria o a squadre.
Il primo impatto con il comparto grafico è di certo positivo, grazie alla cura dei personaggi e ai loro dettagli nell’interfaccia di selezione dei piloti, ma si fa poi deludente durante le sfide nelle arene, dove presenta una grafica grossolana e spesso scarna.
Le mappe, seppur lievemente claustrofobiche, sono studiate abbastanza bene, concedendo lo spazio necessario per qualche discreta evoluzione tridimensionale.
Superato l’iniziale smarrimento e senso di caos, il gameplay vero e proprio risulta abbastanza divertente, e una volta presa confidenza con la mappa si tende ad approfittare di ogni anfratto per colpire il nemico, rimanendo comunque protetti.
Il sistema di puntamento risulta comodo e preciso: guidati dal movimento del PSVR, sarà sufficiente guardare direttamente il nemico, facendo collimare il mirino con la sua navicella e potremo colpirlo senza troppa difficoltà.
Assolutamente degno di nota è il comparto audio, che vanta sia delle azzeccatissime musiche metal, ottime per scandire il ritmo incalzante dei combattimenti, sia dei dialoghi in italiano con un doppiaggio di buona qualità.
I disagi legati al “motion sickness” rendono il gioco tutt’altro che gradevolmente fruibile: anche dopo aver superato l’iniziale chinetosi e aver fatto un po’ l’abitudine al movimento a 360°, di tanto in tanto si incorrerà in spiacevoli momenti dove potrà ripresentarsi il malessere, costringendoci così ad abbandonare temporaneamente il campo di battaglia, rompendo ancora una volta il ritmo del gioco.

Try before you buy

StarBlood Arena è, in definitiva, un titolo del quale si può tranquillamente fare a meno senza timore di star perdendosi un’impareggiabile esperienza VR, portando a sconsigliarlo con decisione chiunque abbia riscontrato in passato qualche episodio di “motion sickness”.
Gli “stomaci d’acciaio” che vorranno mettere alla prova le proprie doti di immunità alla chinetosi, prima dell’acquisto, potranno provare la demo gratuita scaricabile dal Playstation Store, mentre per i possessori di Playstation Plus il titolo è disponibile nella line-up di febbraio, figurando per il secondo mese consecutivo (come già accaduto nei due mesi precedenti con Until Dawn: Rush of Blood del quale trovate qui la nostra recensione).




Dreams: il videogioco che risveglia la creatività dei giocatori

La maggior parte delle case ha al proprio interno oggetti artistici che non vengono utilizzati, dalle chitarre ai  kit da origami. Nonostante siano a portata di mano, la maggior parte delle volte non verranno mai utilizzati perché imparare a utilizzarli completamente da zero, molte volte, intimidisce i più. Media Molecule, game developer di Guildford, pensa che i videogiochi possano aiutare. Lo sviluppatore è lo stesso della nota IP Little Big Planet, serie di giochi di stampo platform che ha permesso agli utenti di creare e rimodellare il mondo a proprio piacimento con un editor composito e giocoso. Con quest’idea di fondo, Media Molecule ha speso gli ultimi cinque anni lavorando su Dreams, esclusiva Playstation 4 che permetterà di creare e condividere i propri piccoli mondi. Il gioco dovrebbe uscire durante il 2018 e offrirà un potenziale di libertà e creatività che nessun videogioco è riuscito a portare fino ad oggi.
Si potranno creare sculture di persone, oggetti, animali. Sarà possibile creare la propria musica, le proprie case, stazioni ferroviarie e tutto ciò che si vuole. Dopo la fase di creazione, sarà possibile camminare e interagire con il proprio mondo. Si potranno creare anche dei mostri, dei personaggi, livelli con delle piattaforme. Lo stile artistico rende il tutto molto più interessante, per cui anche un oggetto molto spartano può sembrare una meraviglia. Sarà letteralmente possibile creare e rendere “reali” i propri pensieri, per poter poi interagire con essi.

Minecraft, come Lego: Worlds, permette al giocatore di assemblare nuovi oggetti da alcuni blocchi già esistenti. Vari titoli hanno seguito questa falsariga, mischiando anche altri elementi che talvolta hanno dato vita a felici combinazioni (vedi Portal Knights, uscito a metà dello scorso anno); Dreams permette di creare i blocchi stessi, così da avere una libertà totale sulla creazione di qualunque cosa. Kareem Ettouney, il direttore artistico di Media Molecule, dice:

«I bambini sono nati liberi. Non hanno nessuna idea di ciò in cui sono bravi o meno. Gli dai in mano un pennarello e loro disegnano. Nessun bambino vi dirà “non ne sono capace”. Il talento, la capacità, è un concetto degli adulti, ed è stato creato da noi attraverso la visione dei risultati a scapito del puro divertimento. Il concetto in Dreams è quello di provare ad avvicinare le persone all’idea che tutte le discipline creative sono possibili per chiunque. La tecnologia è arrivata a un punto tale da poter esprimere noi stessi: potrebbe avvenire un rinascimento, e le persone sono pronte. Sono gli strumenti a non esserlo.»

La creatività ha comunque un prezzo. Prima o poi, se si vuole la qualità, si dovranno utilizzare i mezzi e gli strumenti opportuni. Gli illustratori e gli artisti utilizzano Photoshop, per esempio, per creare dei videogiochi sono utilizzati strumenti come Unity. Ovviamente ogni mezzo ha difficoltà di utilizzo. Questo è il punto in cui si fermano molte persone, poiché non hanno il tempo, il modo o la possibilità di poter utilizzare certi strumenti. Dreams punta proprio a evitare queste situazioni rendendo il tutto il più intuitivo possibile. Fare delle sculture utilizzando un controller Playstation 4, può essere molto intuitivo, oppure poter creare suoni o le animazioni più banali, come quello dell’apertura delle porte, con grande libertà, in aggiunta al fatto che per poter svolgere compiti diversi non si dovranno usare software o interfacce diverse. Kareem ha effettuato una “piccola” dimostrazione di ciò che si può fare su Dreams, creando una gigantesca città al neon su un terreno arido in circa venti minuti. Ovviamente i giocatori non saranno capaci di creare qualcosa di simile portata sin da subito, ma imparare fa parte del gioco stesso, ed è divertente a suo modo, poiché si potranno vedere i risultati del proprio duro lavoro.

Siobhan Reddy, il direttore dello studio di Media Molecule, dice:

«Io sono una di quelle persone che ha deviato dalla strada maestra dopo l’università, creativamente parlando. Sono diventato un produttore, quindi la maggior parte delle mie giornate non le passo creando , ma organizzando e dirigendol Dreams mi ha dato una possibilità di tornare dentro quel mondo. Dreams stesso è principalmente frutto dei tuoi sensi e dei tuoi pensieri, che è effettivamente ciò che sono la musica e l’arte e non ti impone di combattere contro un’interfaccia. Stiamo cercando di portare all’interno del mondo digitale tutto ciò che conosciamo riguardo la creazione e l’arte e che abbiamo acquisito con le nostre mani, i nostri occhi e le nostre orecchie. Ciò dà la possibilità di creare anche piccoli giochi.»

Reddy continua dicendo che ha iniziato a utilizzare Dreams per raccontare delle storie:

«Non so nemmeno da dove vengano fuori. Ho creato un gioco basato sul post-sbornia dopo la nostra festa di Natale. Mi dà moltissima libertà di espressione. E se ciò può accadere a me, allora può accadere agli altri. È il modo che intimidisce meno per portare a galla il mio amore per la creazione, perché sono capace di spingermi molto lontano nonostante io sappia davvero poco.»

Tutto ciò che viene creato su Dreams può essere trasferito e salvato in una gigantesca libreria virtuale. Se si è collegati online e qualcuno scolpisce una bellissima statua, per esempio, c’è la possibilità che essa appaia in altri mondi. Dreams incoraggia la collaborazione poiché nessuno, a parte un genio, può creare tutto da solo partendo da zero. Le persone che creeranno i propri mondi e i propri giochi avranno bisogno di una vastissima immaginazione e fonte di ispirazione da cui trarre spunto. I giocatori che non vogliono creare nulla, invece, potranno semplicemente godersi i mondi altrui giocando online e vivendo le avventure e le esperienze che offrono gli altri giocatori. In ogni caso, Dreams sfida il concetto di videogioco come qualcosa che viene consumato passivamente. David Smith, uno dei co-fondatori di Media Molecule e direttore tecnico, dice:

«Non penso che il desiderio di creare qualcosa svanisca. Tutti lo tratteniamo in qualche modo e sotto qualche forma. Quando scegli che vestiti indossare, che musica ascoltare, questi sono atti artistici. Sono atti umani molto importanti. Penso che noi ci mettiamo dei limiti a mano a mano che diventiamo vecchi, abbiamo più paura di fallire, o abbiamo meno tempo da investire su ciò che ci piace per vedere se porta a qualcosa. Per imparare a suonare il violino ci vogliono centinaia di ore prima di produrre dei suoni che non siano terribili. Ciò a cui punti inizialmente è suonare il violino e produrre dei suoni che siano buoni, ma a poco a poco diventerai sempre più bravo, con l’allenamento.»

Ciò a cui mira Media Molecule con Dreams è creare soddisfazione mettendo in collaborazione pensieri e sensazioni, con tutti i vantaggi che offre un videogioco: condivisione, interattività e uno scambio reciproco di conoscenze. Dreams non è creato al semplice scopo di far creare le cose al giocatore, ma per fargli credere e capire che loro possono effettivamente farlo e che ne hanno le capacità.
Di Dreams non si conosce ancora la data di rilascio, ma lo sviluppatore ha recentemente dichiarato che sarà compatibile anche con PSVR, rendendo l’esperienza creativa ancora più immersiva.




I titoli PSVR più attesi del 2018

Il nuovo anno è appena iniziato e molti sono i titoli attesi per questo 2018. Sony sembra voler continuare a investire sulla realtà virtuale e, con la recente uscita di The Inpatient, sembra che il parco titoli di PSVR si faccia sempre più consistente. Vediamo quali sono i titoli più interessanti fra quelli in arrivo per il visore PS4:

Ace Combat 7: Skies Unknown

Titolo sviluppato da Project Aces per PS4, PC Xbox OneAce Combat 7: Skies Unknown, mostra una campagna aggiuntiva dedicata esclusivamente a PlayStation VR, con numerose missioni che ci porteranno a bordo dei jet militari più all’avanguardia. Purtroppo la data di pubblicazione non è stata ancora svelata, ma sappiamo che verrà lanciato entro il 2018.

The Persistence

Vi piacciono i titoli survival horror? The Persistence farà sicuramente al caso vostro. Sviluppato e distribuito da Firestone, il titolo è ambientato nel 2521, a bordo del The Persistence, vascello spaziale impegnato in una missione scientifica, su cui un’incidente, ha provocato la mutazione dell’equipaggio. Il nostro obiettivo sarà quello di sopravvivere ai mutanti attraverso livelli sempre più ostici. Anche per questo titolo la data di pubblicazione non è stata rivelata.

Sprint Vector

Titolo sviluppato da SurviosSprint Vector cambia la prospettiva che caratterizza molti altri titoli, offrendo ai propri utenti una vera e propria attività fisica per riuscire a giocare. Infatti il titolo si avvale dei supporti PlayStation Move per simulare il movimento del corpo durante la corsa. Sicuramente un elemento interessante, con cui i giocatori potranno divertirsi senza rinunciare all’attività fisica. Che sia l’inizio di qualcosa di più grande?

Golem

Golem, un’avventura targata Highwire Games, ci metterà nei panni di una ragazza con il potere di controllare giganteschi Golem di pietra, per combattere altri simili nemici. Il titolo, che uscirà il 13 marzo 2018, utilizzerà un sistema di movimento definito Incline Control, che ci permetterà di muoverci inclinando il corpo verso le varie direzioni.

Blood and Truth

Titolo di casa London StudiosBlood and Truth è un titolo shooter ambientato a Londra, come il precedente titolo The London Heist contenuto in VR Worlds, che ci calerà nei panni di Ryan Marks, un soldato élite delle Forze Speciali impegnato a salvare la propria famiglia da un malvagio criminale. In questo titolo si potranno utilizzare i supporti PlayStation Move, per ricaricare le armi, cosa che ci farà provare a pieno l’esperienza di gioco. London Studios non ha rivelato la data di pubblicazione dichiarando solo che è prevista per il 2018.

Transference

Puzzle game psicologico sviluppato da SpectreVision, casa cinematografica fondata da Elijah Wood, protagonista de Il Signore degli Anelli. In Transference, il giocatore sarà sottoposto al test di prova di una nuova tecnologia che permetterà, attraverso un casco, di sperimentare le emozioni altrui. Sarà rilasciato durante il periodo estivo del 2018.

Star Child

Titolo di casa Sony Playful CorpStar Child si presenta come un titolo Platform 2D, presentato all’E3 2017 di Los Angeles. Seguiremo le avventure di Spectra e il suo compagno di viaggio, in un’importante missione per salvare il pianeta da una forza che vuole distruggere tutto. Verrà rilasciato durante il 2018.

E qui si conclude la nostra lista dei giochi più attesi del 2018. Abbiamo visto titoli che potrebbero essere candidati a gioco dell’anno e altri meno ma vi terremo comunque aggiornati sulle ultime novità riguardanti il visore di casa Sony.




PUBG vs. Fortnite: i re della Battle Royale

Il mondo del gaming si è arricchito di nuovi giochi che hanno lanciato un genere adesso in auge in ambito videoludico, la Battle Royale. Il primo è PlayerUnknown’s Battleground, titolo basato su precedenti mod sviluppate da Brendan “PlayerUnknown” Greene su svariati giochi (ARMA 2 su tutti) prendendo ispirazione dal film giapponese Battle Royale. Ne è venuto fuori lo stand alone che è diventato nel 2017 il titolo più giocato di Steam, che ha infranto ben 7 Guinness World Record, e che vede il giocatore affrontare online 99 avversari in un deathmatch su un’isola gigante.
La storia del successo di PUBG e di questo genere, non nasce soltanto dall’intuizione di una sola persona che ha magicamente creato il gioco del momento; dopo il film del 2000 infatti il concept dell'”ultimo sopravvissuto” che deve aver prima ucciso tutti gli altri per continuare a vivere è stato ripreso più e più volte nel mondo del cinema, non lasciando indifferente l’universo videoludico nel quale ritroviamo le medesime meccaniche, senza seconde chance per i giocatori, come in Counter Strike.
Contemporaneamente un primo concept di battle royale nei videogiochi si presenta come mod per Arma 2, poi riadattato per Arma 3. Ovviamente non era ancora conosciuto come tale, ma era soltanto un assaggio di quello che Greene avrebbe creato con PUBG. Nel frattempo abbiamo un altro esempio di questa formula: stiamo parlando di H1Z1, che ha al suo interno una battle royale costituita da ben 150 giocatori e che ha permesso a Greene di muovere i primi passi in ambito professionistico come consulente, prima di essere chiamato dai Bluehole Studios per lo sviluppo di PUBG.

Il secondo è invece Fortnite, un gioco completamente oscurato da tutti i competitor all’uscita ma che ha saputo rilanciarsi, ispirandosi al sistema di PUBG, creando la Fortnite Battle Royale. La storia di Fortnite è singolare, anche se abbiamo poche informazioni a riguardo: sappiamo che il progetto è nato circa 6 anni fa e che durante gli anni è stato ripreso e abbandonato varie volte fino a quando, Epic Games, lo ha salvato dal completo oblio sfruttando la formula dell’early access per poterne portare avanti lo sviluppo. Di base doveva essere un gioco survival, in cui salvare il mondo da una apocalisse zombie. Ci si aspettava un buon successo di vendite ma, paradossalmente, non per la meccanica della battle royale.
Essendo giochi dello stesso genere hanno molti punti in comune. Analizziamoli uno alla volta.

La tensione

Senza tensione, un gioco di questo genere non avrebbe senso di esistere; tensione in grado di far restare accovacciato cinque minuti dietro un albero e in  grado di farci preoccupare del numero di superstiti round dopo round. Questa tensione è alla base del genere battle royale. Sia in PUBG che in Fortnite quindi, il silenzio è il vostro miglior amico: muoversi con attenzione è essenziale e, al primo cenno di rumore, un brivido salirà lungo la schiena per la paura di essere scoperti. È possibile giocare come ne I mercenari di Stallone ma si rischierebbe di snaturare il gioco, visto che in una Battle Royale si sopravvive con l’astuzia e non con la forza.
Questa sensazione tende a variare tra i due titoli: in Fortnite l’azione è più veloce; il cerchio velenoso che vi circonda si restringe più velocemente che in PUBG e la mappa è più piccola. PUBG  è al contrario un gioco nel quale i nervi vanno tenuti ben saldi perché semplicemente la partita dura di più. Difficile decretare il migliore in questo ambito, dipende dalle vostre preferenze, soprattutto in termini di durata.

Le mappe

La mappa in questo tipo di titoli, fa la differenza. Come già accennato, in Fortnite si ha la sensazione di giocare a qualcosa di già visto, con un po’ Minecraft e un po’ Team Fortress per citarne un paio, mentre grazie alla vastità della sue mappe PUBG si distingue. Andando più nello specifico nel titolo Epic vi è una sola piccola mappa rispetto a quella del rivale e inoltre, PUBG ha ormai introdotto Miramar, la mappa desertica che si va ad aggiungere a Erangel. Dalla sua Fortnite offre un design più cartoonesco, che per alcuni può risultare più gradevole.
Riguardo le mappe, è visibile a occhio che quelle in Player Unknow sono molto più vaste, offrendo molteplici strategie ma anche molti più rischi; implica anche una certa percentuale di fortuna poiché, se si sbaglia punto di atterraggio, si dovrà prendere un veicolo e rischiare di essere uccisi. In Fortnite questo non accade per un semplice motivo: come detto la mappa è più ridotta e facile da attraversare, e questo aiuta e non poco i giocatori a trovarne altri e a ucciderli facendosi strada per la vittoria.
PUBG offre più ripari sul territorio ma questo viene compensato in altro modo da Fortnite, che approfondiremo di più analizzando la tattica dei due giochi.

La tattica

La tattica da imbastire, se si vuole sopravvivere è differente, ma in tutti e due i casi fortemente rilevante. In Fortnite bisogna “craftare” per riuscire a costruire le proprie difese e per sopravvivere si ha bisogno di fantasia e inventiva; in PUBG è fondamentale trovare la posizione giusta e non si ha nulla a disposizione oltre la mappa e i loot già pronti.
Ma andiamo nel dettaglio per capire meglio cosa fare in uno e cosa nell’altro. In Fortnite, non appena a terra, avremo la possibilità di costruire quel che serve e, prima che inizi il livello; si avrà anche l’opportunità per creare il materiale distruggendo elettrodomestici, auto, ecc. Durante la fase di combattimento vero e proprio quindi, potremo creare delle posizioni rialzate e mura per proteggere noi stessi o il nostro team. Questo, darà vantaggio ai più veloci a costruire, per esempio, ripari rialzati che offrono una visuale migliore sul nemico.
In PUBG dovremo cavarcela con ciò che si trova in giro e non si avrà tempo di cercare nuovo equipaggiamento; saremo subito scaraventati nell’azione e molta importanza verrà data quindi ai ripari e agli edifici rialzati che danno ai cecchini l’opportunità di sopravvivere più facilmente. Comune a entrambi i titoli, è lo spostamento continuo, dato che si è circondati da una nube circolare di gas velenoso e, ogni posto ritenuto sicuro,  non lo sarà per molto.

Il combat system

Nonostante i due giochi siano molto simili, il sistema di combattimento è alquanto diverso, anche se valido per entrambi. In Fortnite vi è un solo tipo di mira, mentre in PUBG il tutto è strutturato diversamente: ne abbiamo di tre diversi tipi: l’Hip Fire che offre la possibilità di sparare a dispetto della precisione, ovviamente la classica opzione di mira, sempre in terza persona, e infine, quella che possiamo definire la modalità cecchino, medio/lungo raggio, l’ADS (aiming-down-sights) che trasposta il tutto in prima persona offrendo la possibilità di mirare in maniera precisa.
Per quanto riguarda le armi quest’ultimo stravince a mani basse su Fortnite: la loro quantità  è molto più ampia e a tratti, tende alla simulazione, mentre il sistema delle armi è più semplificato in Fortnite. Inoltre in Player Unknow, troviamo i veicoli che possono aiutare o danneggiare il giocatore durante il combattimento esplodendo.

Gli ultimi cinque minuti

Gli ultimi cinque minuti di gioco, sono quelli che decidono le sorti di una battle royale, dopo la “selezione naturale” susseguitasi e dove più forti hanno prevalso. È il momento in cui bisogna rimboccarsi le maniche e fare sul serio. Su Fortnite, gli ultimi minuti si svolgono all’interno di fortezze molto vicine e questo non fa altro che aumentare la frenesia da combattimento, dando una motivazione in più ai giocatori a migliorare il più possibile l’equipaggiamento prima di questo momento, poiché sarà essenziale sul finale di partita. L’ultima fase di PUBG, seppur piena di tensione è priva d’azione, i giocatori tendono a muoversi con poca avventatezza.

Le conclusioni

Sembra che la battaglia all’ultimo sangue tra Fortnite e PlayerUnknow’s BattleGround sia terminata. Si tratta di videogame molto validi e molto simili, anche se differiscono per alcune meccaniche il cui loro apprezzamento deriva essenzialmente dal gusto personale. Questo non ci esime dal dare un parere oggettivo: per quanto riguarda la mappa, nonostante la grandezza, PUBG offre meno spunti strategici mentre, discorso analogo, ma a parti invertite, per il combat system, dove, rispetto a Fortnite, bisogna agire con una tattica più articolata. La scelta è ardua e per questo motivo consigliamo entrambi i titoli: Fortnite  va benissimo per un divertimento più rilassato, mentre PUBG per una vera e propria sfida competitiva.