Sparatoria Florida: il governatore del Kentucky contro i videogiochi

Mercoledì a Parkland, in Florida, un 19enne considerato da tutti un appassionato di armi ha aperto il fuoco in una scuola superiore, uccidendo 17 persone. L’ennesimo attacco sul suolo americano che ha riacceso il dibattito sulle origini di tanta violenza. Lo stesso Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, è intervenuto introducendo un discorso riguardo il «declino della cultura moderna», facendo orecchie da mercante sul vero problema presente sul suolo americano, ovvero la facilità con cui si riesce a reperire armi.

Su questa scia troviamo anche Matt Bevin, governatore del Kentucky, secondo il quale i videogiochi hanno un ruolo cruciale riguardo la «cultura della morte che oggi così facilmente celebriamo», che fondamentalmente è la principale responsabile di incidenti come questo. Bevin in un’intervista per Leland Conway:

«Alcuni videogiochi sono limitati a un pubblico adulto ma tutto il mondo sa che anche i bambini li giocano. Esistono titoli che fanno delle stragi il loro punto di forza, premiando la loro riuscita e l’omicidio di qualcuno che in quel momento chiede pietà. Parlo di videogiochi quotati, anche protetti dal Primo Emendamento.»

Ha poi continuato, riferendosi alla sentenza della Corte Suprema:

«Le reputo spazzatura, come la pornografia: desensibilizza le persone rispetto al vero valore della vita umana, alla dignità delle donne, alla dignità dell’umanità, e stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato.»

Bevin ha chiesto ai media di assumersi le responsabilità di ciò che rilasciano e continua:

«Perché abbiamo bisogno di videogiochi che incoraggino le persone a uccidere altre persone. Che si tratti di romanzi, che si tratti di Serie TV, che si tratti di un film, chiedo ai produttori di domandarsi quale sia il reale valore dei loro lavori, oltre la speranza di un guadagno. Ma a quale prezzo?»

I videogiochi, così come altri media di intrattenimento, sono dunque per Bevin la causa che ha snaturato la moralità della società moderna. Secondo il governatore, i genitori hanno smesso di educare i propri figli, liberandosi delle loro responsabilità e permettendo ai bambini di «creare le proprie regole senza conseguenze».
Questa però non è la prima volta che Bevin si scaglia contro i videogame in seguito a una strage scolastica. In un video presente su Facebook, in seguito alla sparatoria di Boston dello scorso Gennaio, aveva puntato il dito contro i videogiochi come parte di quell’industria di intrattenimento che «abitua i giovani a una realtà tragica dove la morte è una costante permanente».

Negli Stati Uniti i videogiochi sono assiduamente accusati di avere un ruolo fondamentale in queste stragi, a partire dalla famosa sparatoria di Columbine avvenuta nel 1999 i cui responsabili sarebbero stati dei fan del videogioco Doom. L’assassino della strage alla Virginia Tech del 2007 era solito giocare a Counter-Strike, noto sparatutto, mentre il norvegese Anders Behring Breivik amava Call of Duty. Ma la campagna anti-videogiochi ha toccato il fondo, rendendosi ridicola, per opera dell’avvocato Jack Thompson, che aveva addirittura citato in giudizio Grand Theft Auto IV. Il dubbio che i videogiochi possano avere delle responsabilità ha sfiorato anche Barack Obama, ex presidente degli Stati Uniti d’America che aveva sensibilizzato i centri per il controllo delle malattie a studiare gli effetti dei videogiochi violenti.

Per quanto gli studi siano stati davvero tanti, non si è mai trovata una correlazione tra videogiochi e comportamenti violenti. Che sia invece la facilità con cui un ragazzo, un adulto riesca a procurarsi un’arma all’interno del territorio USA? Perché puntare il dito contro qualcosa che si odia, in questo caso l’industria dei videogiochi, è molto più semplice e veloce che creare una legge che limita la vendita delle armi.

L’industria videoludica non è un mezzo che trasmette violenza. Molto spesso risulta essere un metodo d’intrattenimento culturale in grado di insegnarci qualcosa di importante, raccontandoci una storia e che riesce a spiccare con l’arte e la creatività degli sviluppatori, che con enorme passione provano a plasmare qualcosa che faccia leva sui sentimenti dei videogiocatori.




The Darwin Project (Beta)

Viviamo in un periodo particolare, dove l’online sta gradualmente sovrastando titoli single player che, una volta conclusi, trovano spazio solo tra gli scaffali di casa. Le battle royale sono in voga in ambito videoludico, dove fanno la voce grossa IP del calibro di PlayerUnknown’s Battlegrounds e Fortnite ma, nonostante questo tipo di mercato veda come massimi esponenti i titoli di Bluehole ed Epic Games, si sente ancora la mancanza di qualcosa, di quel “pepe” che potrebbe portare le battaglie su un altro livello. La risposta arriva da dove non la si aspetta, ovvero da Microsoft: nonostante non si vedano nemmeno con il cannocchiale titoli esclusivi di livello sulla propria console, la casa di Redmond ha dato fiducia a Scavengers Studio e al loro The Darwin Project, passato per la verità un po’ in sordina durante la presentazione allo scorso E3. La domanda è: questo ennesimo titolo “battle royale”, può veramente dire la sua di fronte ai mostri sacri del genere? La versione da noi testata era ancora in fase preliminare ma abbiamo voluto analizzare con calma tutti gli aspetti di un titolo che non andrebbe sottovalutato.

Canada, una terra violenta

Non è passato tanto tempo dall’uscita nelle sale di Hunger Games, omonimo film tratto da una serie di opere letterarie ambientate in un mondo distopico, in cui un gruppo di giovani ragazzi viene scaraventato in una specifica location con l’unico scopo di eliminarsi a vicenda. Se siete fan della saga o – ancora meglio – del celebre manga di Koushun Takami, Battle Royale, troverete di vostro gusto The Darwin Project, che promette molta più profondità di quanto visto finora. Il tutto ha anche un contesto narrativo: un famoso show televisivo canadese crea il The Darwin Project, trasmissione dove dieci detenuti sono costretti a uccidersi a vicenda pur di sopravvivere.
Elemento che balza subito all’occhio è il discostarsi sapientemente dalla concorrenza, proponendo qualcosa di nuovo e probabilmente di più complesso. Tutto parte proprio dal numero: scordatevi il dare la caccia e l’esser cacciati da decine e decine di altri giocatori; qui, più che in ogni altro titolo di questo tipo, a far la differenza tra la sopravvivenza o meno è la capacità d’adattamento, elemento che Charles Darwin ritenne fondamentale per la sopravvivenze delle specie viventi. Avremo a che fare dunque, non solo con altri nove contendenti ma soprattutto con le rigide temperature canadesi e quindi con difficili condizioni ambientali che possono rendere ancor più difficoltoso e stratificato il gameplay del titolo.
Buttati nella mischia con addosso una semplice tuta, un arco e un’ascia, sarà fondamentale sin da subito “craftare” e ottenere qualcosa che possa proteggerci dalle intemperie. Qui entra in scena uno dei tanti elementi fondamentali: l’esplorazione. L’unica mappa a disposizione è abbastanza grande da permettere la ricerca di alcuni elementi essenziali senza incrociare lo sguardo di qualcuno. Disseminati qua e là, sono disponibili zone in cui reperire risorse importanti, utili per aumentare il livello del nostro alter ego attraverso il suo equipaggiamento. La mappa è suddivisa in sette zone distinte ma collegate tra loro e che via via verranno distrutte per favorire un maggiore accentramento dei giocatori nelle fasi finali. Questo elemento non è nuovo ovviamente ma è ben studiato ed evita che alcuni utenti possano venire isolati dalla partita.
Il modo di affrontare la situazione dipende da molti fattori ma soprattutto dalla nostra strategia e forza d’animo: può risultare utile restare in disparte, cercando di potenziare il proprio equipaggiamento oppure diventare dei cacciatori, seguendo le orme della vostra ignara preda e colpirla alle spalle. I diversi approcci portano a pro e contro che variano di partita in partita; essenzialmente, dipende da che tipo di contendenti avrete di fronte e adattarvi di conseguenza.

Come detto, ogni angolo può nascondere nemici e prima o poi, vi toccherà combattere. Tastiera o pad alla mano, il combat system risulta assai semplice: il buon utilizzo dell’arco dipende solo dai vostri riflessi e mira e il corpo a corpo da come siete attrezzati. Il vero nemico è l’ambiente stesso e il freddo influenzerà letteralmente la vostra resistenza. L’unico modo per difendersi dalle rigide temperature è ripararsi creando un vestiario adatto o, soluzione più rapida ma anche più rischiosa, accendere un fuoco per scaldarsi; il fuoco acceso ha però un effetto non trascurabile, quello di segnalare ai nemici la vostra posizione. Se da un lato risulta essere dunque un grosso svantaggio, dall’altro The Darwin Project vi permette di vedere ogni cosa da un altro punto di vista come, in questo caso, attirare gli avversari in una trappola grazie all’accensione del falò.
Anche nel titolo Scavengers non mancano i rifornimenti che, una volta raccolti, permettono di sfruttare alcuni potenziamenti passivi, in grado di cambiare le sorti del match: resistenza, velocità o una migliore visione dell’ambiente e dei nemici sono perk essenziali per aumentare le proprie chance di sopravvivenza.

Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte

The Darwin Project, prima di essere un videogioco e un fittizio programma televisivo, è un titolo che riesce a portare anche quella giusta dose di innovazione. La sua duplice natura di Battle Royale e Truman Show viene espressa in maniera diretta sulle principali piattaforme streaming come Twitch: il pubblico reale potrà decidere il suo favorito, mettendo a disposizione del giocatore risorse in grado di aumentare le sue possibilità di vittoria. Facendo un paragone motoristico, il tutto sembrerebbe simile al Fan Boost presente in Formula-e dove il pilota votato dal pubblico riceve un surplus di potenza extra. È una meccanica davvero interessante e che ben si sposa alle logiche degli e-sports: ogni giocatore potrà essere un gladiatore del XXI secolo, con il vantaggio di non essere ucciso realmente in battaglia.
Interessante è anche la possibilità di prendere le veci del (Mega) Direttore (Galattico) che, da spettatore interessato (grazie a un drone indistruttibile) potrà seguire le gesta del manipolo di uomini decidendo – non direttamente però – il corso del match: potrà scegliere quale settore della mappa distruggere, elargire perk a piacimento e anche curare uno dei partecipanti. Questo giocare a fare Dio è forse uno degli elementi più difficili da gestire, presentandosi come una lama a doppio taglio. Questa meccanica andrà approfondita  non appena verranno rilasciate altre release pre-lancio.
Dal punto di vista tecnico, il titolo sembra già ben ottimizzato, garantendo i 60fps in ogni situazione. Certo, non è un gioco che si perde in dettagli “soulsiani”, preferendo uno stile molto vicino a Fortnite, volutamente cartoonesco, forse per sdrammatizzare il più possibile l’evento su cui poggia il titolo.

In conclusione

Nonostante sia ancora in fase Beta, The Darwin Project riesce a introdurre una serie di idee innovative sfruttando la propria natura di show televisivo. Una battle royale dalle molte facce, in cui il nostro istinto di sopravvivenza può davvero fare la differenza. Andranno valutate più attentamente le meccaniche social, che rischiano di minare l’equilibrio del titolo ma, in ogni caso, il lavoro Scavengers Studio è davvero da tenere in considerazione.




Studiare divertendosi portando a spasso Bayek

Se ci pensiamo bene, in Assassin’s Creed Origins migliaia di piccoli egiziani digitali svolgono il loro lavoro all’interno dell’Antico Egitto riprodotto nel gioco. Raccolgono frutti, trasportano merci, vendono nei mercati, si occupano dei campi e, sì, anche di mummificazioni varie ed eventuali.

Una enorme mole di lavoro per gli sviluppatori, quasi 3 anni di incessante sviluppo e studio per riprodurre così minuziosamente tutto ciò che circonda i giocatori durante il gameplay: gli stessi giocatori a cui, d’altro canto, non interesserà minimamente il contesto del gioco, perché saranno interessati semplicemente a finire il titolo prima possibile scorrazzando a destra e a manca per completare le missioni, raccogliere tesori e far saltare qualche testa qua e là, per poi riposarsi e attendere la prossima uscita della serie.
Ubisoft, ha deciso di rilanciare e promuovere l’immane lavoro dietro l’ultimo AC, rilasciando la modalità Discovery Tour: una versione del gioco senza combattimenti o missioni, che trasformerà Assassin’s Creed Origins in un museo virtuale, accompagnando i giocatori in un tour dell’Antico Egitto tramite circa 75 visite guidate. Modalità che era stata già annunciata lo scorso anno e che sarà disponibile gratuitamente per tutti i possessori del gioco dal 20 Febbraio o altrimenti disponibile per l’acquisto come stand-alone su Steam e Uplay per 20$.

Data la minuziosità con la quale è stato storicamente riprodotto l’Egitto nell’ultimo capitolo della saga degli assassini più famosi del mondo, non ci stupisce affatto l’entusiasmo dello storico di Ubisoft, Maxime Durand, che intervistato da Gamesindustry.biz dice:

«Il Discovery Tour è un sogno che abbiamo da tantissimo tempo. Siamo stati fortunati perché il nostro top management ci ha totalmente supportato in questa iniziativa. Pensiamo che l’enorme quantità di lavoro e dedizione che abbiamo riproposto nell’Antico Egitto debba essere condivisa con il maggior numero di persone possibile. Abbiamo creato un ambiente open world in cui speriamo che il nostro lavoro sulla credibilità (degli usi e costumi oltre che delle  monumentali strutture) consenta ai giocatori di immergersi totalmente all’interno dei vari tour virtuali, perché possiamo condividere più dettagli ed evidenziare il loro vero valore. Per noi è molto stimolante fornire informazioni accademiche  dettagliate su un periodo storico per il quale abbiamo studiato tanto»

Tuttavia la cosa interessante va anche oltre lo studio, la dedizione e la precisione con il quale ha lavorato il Team di Durand, poiché questa nuova chiave di lettura dei videogiochi potrebbe infrangere la barriera di quella che da sempre ha dichiarato incompatibilità con questo mondo: l’educazione scolastica.
Durand, nella fase di produzione del Discovery Tour, ha espresso molto chiaramente al team di sviluppo che gli insegnanti, non avrebbero dovuto avere alcun timore nel mostrare i contenuti di Assassin’s Creed nelle loro classi, permettendo così agli studenti di immergersi nell’Antico Egitto e saperne di più in un modo completamente nuovo, sicuro e interattivo:

«Da diversi anni riceviamo testimonianze da parte degli insegnanti , in cui ci comunicano di stare registrando dei video, sicuri per la scuola, dei nostri giochi per creare il proprio materiale didattico. Ma questa volta, non solo non dovranno temere di mostrare alcun contenuto “pericoloso” ai loro studenti, ma verranno fornite anche ulteriori informazioni accademiche a cura di storici ed egittologi qualificati»

Insomma sarebbe bello vedere un giorno che questa nuova tipologia di interazione tra studenti e videogiochi possa raggiungere anche obiettivi più lontani, come per esempio essere introdotta all’interno di tutti i musei, per raccontare la storia in un modo completamente nuovo, coinvolgente e interattivo. Come è stato per l’evento promozionale del Discovery Tour di AC Origins, avvenuto all’interno del British Museum, data la grossa mole di antichi manufatti egizi presenti al suo interno.
Durand, per concludere, ammette solo di avere una piccola riserva sulla parte “divertente” della nuova modalità che potrebbe andare persa dal momento che il gioco verrà privato di uccisioni e missioni da compiere. Sperando però al contempo di arginare la perdita con l’inserimento di più tour virtuali possibili. In ogni caso non ci rimane che attendere gli ormai pochissimi giorni che distano dal lancio della nuova modalità per tastare con mano quanto affermato dallo staff di Ubisoft. Che sia divertente o meno, l’utilizzo dei tour virtuali attraverso gli usi e costumi delle diverse epoche storiche rappresenterebbe sicuramente un grande passo verso una direzione che in futuro potrebbe cambiare totalmente l’approccio allo studio da parte degli studenti di tutto il mondo.




Sparkle 2

Preparate i vostri  riflessi e siate pronti ad affrontare complicatissimi rompicapo, arriva Sparkle 2, un puzzle game veramente originale che vi terrà letteralmente attaccati allo schermo come un’ape al miele! Già rilasciato per PC, iOS, Android, Xbox One, PS4 e persino PS3, questo titolo dal carattere molto forte, dai toni fantasy/epici, è stato sviluppato da 10Tons ed è di recente arrivato su Nintendo Switch, una console in cui titoli del genere, rivolti ad un pubblico principalmente casual, possono riscuotere un successo inaspettato.

Alla ricerca delle 5 chiavi

Che ci crediate o no, Sparkle 2 ha una storia… eh già! A quanto pare, tanto tempo fa furono create 5 chiavi per custodire qualcosa di molto prezioso, qualcosa di inimmaginabile: toccherà a noi dunque andare alla ricerca di queste chiavi, usando tutto il nostro ingegno e avvalendoci delle magie a nostra disposizione. Davanti a noi un lungo sentiero, che tal volta si ramifica in incroci che ci porteranno in certi luoghi misteriosi, nel quale ogni giorno dovremmo affrontare un puzzle, ogni giorno sempre più intricato, ogni giorno sempre più vicini ad una delle chiavi.
Il gameplay è decisamente molto simile a quello di Actionloop o Zuma, che a sua volta richiama molto quello di Puzzle Bubble: un serpentone di sfere colorate verrà incanalato in un corridoio al termine del quale ci sarà una buca che risucchierà tutto il campo da gioco se più sfere cadranno al suo interno, facendoci perdere così la partita. Per evitare tutto ciò dovremmo utilizzare il nostro Orb Swift, una sorta di fionda per lanciare delle sfere e crearne dunque una serie di tre o più dello stesso colore; una volta creata la serie le sfere scompariranno e, se riusciremo a concatenare più serie di diverso colore in successione, il serpentone sarà presto disfatto e potremmo procedere dunque al livello successivo.

Sparkle 2 si differenzia principalmente per i suoi power-up che appariranno di tanto in tanto nel campo di gioco e che, attivati lanciando una sfera, sprigioneranno una magia particolare, un raggio gelato che spazzerà via grossa parte delle sfere, indipendentemente dal loro colore, o una pioggia di comete che libererà il campo dandoci un attimo di tregua; inoltre, un po’ come in un RPG, alla fine di ogni livello il nostro Orb Swift si potenzierà e piano piano riusciremo a ottenere dei power-up permanenti come una sfera speciale ogni 10 sfere, un gameplay meno frenetico ma più lungo o degli effetti speciali per una serie di un determinato colore. La versione per Switch offre inoltre sia la modalità di controllo offerta in mobile, dunque tramite touch screen, sia quella offerta nelle versioni console, ovvero mirando col control stick e lanciando la sfera con un tasto, dando modo di giocare così a una versione decisamente più completa di ogni altra sua apparizione precedente. Il titolo di 10Tons offre al giocatore una campagna principale di ben 92 livelli rigiocabile, se non altro, in modalità difficile e “nightmare”, ma se non vi va di rimettervi alla ricerca delle 5 chiavi ancora una volta potrete comunque passare altre ore con le modalità Survival, ovvero una modalità infinita (il classico dei giochi puzzle), una Challenge mode che vi permetterà di rigiocare dei singoli livelli a diverse difficoltà, e la modalità Cataclysm, le cui sfere arriveranno di continuo senza darvi un attimo di tregua. Sparkle 2 ci vuole dunque spingere a pensare sempre in fretta e, per quanto statico, fuori dagli schemi, vuole regalare così al giocatore un gameplay avvincente, che ci porterà a divorare un livello dopo l’altro senza freno, con una learning curve molto gradevole che permette di familiarizzare gradualmente col gameplay e con le novità che verranno introdotte nei livelli (come l’aggiunta di un nuovo colore o un nuovo power-up), e dunque offrendo una difficoltà congrua con l’avanzare del gioco, rendendo il titolo molto accessibile ad appassionati dei puzzle game e non.

In un mondo fantastico dove tutto può accadere

Sparkle 2, per essere un puzzle game, presenta uno stile molto definito e la sua presentazione è singolare e ben riuscita: la grafica e le tonalità dei colori sono ben definite, il campo di gioco chiaro e mai confusionario e il design delle sfere, anche se sono delle semplici forme geometriche, è ben realizzato, queste restituiscono in tutto e per tutto quel senso di magia che il titolo ci propone, sono veramente… belle! Mai succederà che in un livello potremo confonderci o assistere a dei bug che rovineranno l’esperienza; Sparkle 2 fila liscio come l’olio e, durante le ore di gioco, ci sentiremo veramente immersi nel mondo fantastico proposto in questo titolo. Insieme ai campi di gioco, alle sfere e alla mappa ci sono anche alcune semplici cutscene che appariranno quando arriveremo in dei luoghi specifici, che consistono, più che in delle cinematiche, in immagini fisse con semplici animazioni (come delle foglie che volano o qualche fulmine all’orizzonte) accompagnate da una calda voce narrante che ci descriverà lo scenario che ci troveremo davanti, nonché il nostro stato d’animo, e ci comunicherà se in quel luogo specifico è presente una chiave oppure no.
Il comparto sonoro, dalla voce narrante alla colonna sonora, è veramente ben curato e molto professionale, quasi quanto quello di un gioco prodotto da una grande casa produttrice. Alla composizione c’è Jonathan Geer, veterano che aveva già lavorato al precedente Sparkle e che è apparso in altri videogiochi come Owlboy, Heart Forth, Alicia e Cook, Serve, Delicious!; le sue musiche restituiscono quel senso di epico presente in questo titolo e riescono perfettamente a richiamare immagini come foreste, cavalieri e calderoni magici che ribollono, tipiche dello stile fantasy. Presentissima è l’influenza dello stile di Danny Elfman, quel fare pomposo seppur pacato e misterioso che tanto può piacere agli amanti delle colonne sonore di Edward Mani di Forbice, Batman o Nightmare Before Christmas.

Qualcosa manca

Un puzzle game come questo, tuttavia, dovrebbe avere delle caratteristiche che a oggi dovremmo considerare imperative, primo fra tutti il multiplayer. È vero, Sparkle 2 ci offre tante modalità che possono offrire diverse ore di longevità, ma il gameplay, seppur molto avvincente, si fa alla lunga ripetitivo, dopo un po’ potremmo annoiarci a giocare da soli; il multiplayer è un elemento che spezza del tutto la monotonia dei giochi puzzle e Sparkle 2 purtroppo ne è sprovvisto. Anche la modalità survival acquista poco significato poiché non esiste alcun elemento di competitività, né contro altri, con una tabella dei migliori punteggi online, né contro se stessi, tentando di battere il proprio miglior punteggio, dato che il titolo non ha un sistema di punteggi e dunque, dopo la campagna principale, che dura comunque per parecchie ore, anche se ci sono buoni elementi per continuare a giocare, ci saranno comunque pochi stimoli per affrontarli. È un vero peccato, anche perché in passato altri titoli simili, come Actionloop, presentavano una bella modalità multiplayer e offrivano dunque nuovi stimoli per giocare diverse partite a colpi di intuito con gli amici. Inoltre, come già detto, sono presenti due metodi di controllo, ma si tenderà spesso a giocare solamente con uno di questi, rendendo difficile il giocare con l’altro sistema; sembrerebbe un problema da poco ma, in realtà, chi si troverà meglio a controllare la fionda tramite touch screen, rischia di limitare la propria esperienza a Sparkle 2 come “portable only” e dunque difficilmente vorrà attaccare la console al dock per giocare sullo schermo di casa. È consigliabile dunque imparare a giocare con i controlli da console ed evitare così dolori al braccio e torcicollo dovuti a uno sguardo allo schermo spesso appoggiato sulle nostre gambe perché, ahimè, il display di Switch si estende per larghezza, è una console dura da tenere con una mano sola ed è per questo che titoli come Sparkle 2 si riveleranno difficili da fruire; tuttavia, anche se il gioco non lo permette, sarà possibile tenere lo schermo verticalmente, assumendo dunque una postura più comoda e continuare a giocare come se niente fosse, senza alcuna particolare difficoltà.

Un’occasione in parte mancata

Abbiamo dunque un bellissimo gioco, con un bel gameplay molto accessibile, con un bello stile grafico e sonoro, tanta longevità, prezzo abbordabile sullo store ma con alcuni difetti. Tirando le somme, Sparkle 2 è decisamente un gioco molto valido, che può risultare curatissimo sotto molti aspetti ma al quale è stata dedicata poca attenzione sotto altri. L’assenza di multiplayer e di un sistema di punteggio rende Sparkle 2 un gioco a ¾ (dire che è un gioco a metà non sarebbe corretto) ed è un vero peccato perché con qualcosa in più Sparkle 2 avrebbe potuto dare filo da torcere anche a Puyo Puyo Tetris e dimostrare che un prodotto destinato al mercato mobile non è affatto da buttare. Si potrebbe finire il titolo senza stimoli, o alla fine dell’avvincente campagna principale o gradualmente durante quest’ultima, dipende dal tipo di approccio del singolo giocatore.
In ogni caso, Sparkle 2 riuscirà a darvi quel senso di quasi dipendenza tipica dei puzzle game il che, unito anche alla bellissima atmosfera all’interno del titolo, lo rende già un vincitore all’interno della sua categoria. Dategli una chance, non vi deluderà!




Mushroom Wars 2

Quando Shigeru Miyamoto uscì con il primo Pikmin per Nintendo Gamecube, i ragazzi inglesi di Zillion Whales pensarono «perché non facciamo anche noi uno strategico simile?»
Probabilmente è stata questa la genesi del primo Mushroom Wars, hit indie da più un milione di download uscita nel 2009 su iOS, Android, Playstation 3 e Steam. Dopo essersi ripetuti con Mushroom Wars: Space, datato 2014 e disponibile solo sui sistemi mobile, tre anni dopo arriva il seguito ufficiale, un Mushroom Wars 2 che punta a confermare la buona riuscita della serie.

Mushroom Wars 2 è uno strategico in tempo reale con piccoli elementi presi dai MOBA e dai tower defense che aggiungono un po’ di carattere al tutto. All’avvio del gioco ci troveremo davanti a due scelte: le due imponenti campagne single player da più di 100 missioni e le varie sessioni di multiplayer, sia libero che competitivo, dove potremo giocare da un minimo di due a un massimo di quattro giocatori. È possibile sfidarsi in singolo e in partite cooperative due contro due, con la possibilità di aggiungere bot, aggiunta utile per quelle volte in cui manca l’amico di turno o per allenarsi in vista delle partite rankate.

La modalità single player ricorda un po’ quella di Kingdom Wars: all’inizio ci vengono introdotte le meccaniche del gioco tramite dei semplici tutorial, per poi lasciare spazio ai livelli veri e propri, dove dovremo sovrastare numericamente il nemico usando una buona dose di strategia.
La sfida offerta è sostanziosa e per tutti i palati: i primi livelli saranno più semplici e, andando avanti nella campagna, verranno sbloccati quelli più difficili, dove avremo meno aiuti visivi (come il segnale per evolvere le proprie basi, o il baloon che ci indica il numero delle truppe in ogni base) e un’intelligenza artificiale più aggressiva.
Il tutto giova alla longevità del titolo, visto che per sbloccare la seconda storia bisognerà ottenere tutte le stelle nella precedente campagna, completando i vari livelli a ogni difficoltà. Ad aggiungere pepe al gioco avremo anche qualche quadro con dei boss (per esempio, una rana che mangerà le nostre truppe quando passeranno nei suoi dintorni) e, più avanti nella campagna, un sistema di abilità che ricorda quello di alcuni noti MOBA.

Parlando della grafica, rispetto al primo Mushroom Wars i disegni sono tecnicamente più puliti, anche se peccano in carisma: le basi tendono a somigliarsi un po’ tutte, e le truppe avrebbero potuto giovare di qualche animazione in più. Molto ben disegnate, invece, le schermate di caricamento.
Tecnicamente siamo sulla linea di molte produzioni indie, in primis quelle uscite sia su sistemi casalinghi che su mobile: nessun requisito stellare, si può giocare al massimo dei dettagli senza nessun calo di framerate anche su PC datati o laptop poco performanti.
Il gameplay è ben calibrato: le mappe sono variegate, con diversi ostacoli ambientali e zone di bonus e malus, come i prati fioriti (che aumenteranno la produzione dei nostri funghetti guerrieri) o le paludi (che non ne produrranno affatto). L’unico difetto riscontrato è la mancata personalizzazione delle hotkey: i tasti rapidi delle abilità e del frazionamento delle unità da mandare da un fungo all’altro tendono a sovrastarsi l’uno con l’altro, soprattutto nelle tastiere piccole.
Il sonoro è di buona fattura, con musiche orecchiabili che ben si sposano con l’atmosfera generale, anche se a lungo andare si scade nella ripetitività, e ascoltare i soliti 3-4 brani presenti nella colonna sonora per tutta la sessione di gioco non aiuta molto.

Tirando le somme, questo Mushroom Wars 2 è uno strategico “mordi e fuggi” che funziona e che può offrire tante ore di divertimento: il tutto grazie alle due lunghe campagne single player e al multiplayer online. I limiti tecnici vengono sopperiti da un gameplay intuitivo e veloce, che regala sfide appassionanti sia per i completisti che per i giocatori più casual. Trovate il gioco su Steam, su tutte le console casalinghe e anche sugli store Apple e Android.




Wolfenstein II: I diari dell’Agente Morte Silenziosa (DLC) – Ma che Veramente?

Il secondo racconto delle Cronache della Libertà, serie di DLC rilasciati per Wolfenstein II: The New Colossus, ci permette di conoscere l‘Agente Morte Silenziosa (a.k.a. Jessica Valiant), ex OSS che durante la Seconda Guerra Mondiale fu artefice di numerose perdite umane del fronte nazista e che, dopo il tradimento e l’uccisione del suo collega e amato, si è gettata tra le braccia dell’alcool. Ma, un giorno, l’opportunità di trovare vendetta bussa alla sua porta.

Tra nazisti e Martini

Dopo la blanda narrativa dedicata a Joseph Stalion, purtroppo questo secondo capitolo dei contenuti aggiuntivi non migliora la situazione. La sceneggiatura che fa da sfondo alle vicende di Jessica Valiant risulta addirittura meno coinvolgente rispetto al contenuto precedente, portando di fatto una storia che non racconta nulla nuovo e un personaggio ancora una volta mal sfruttato: i suoi trascorsi annegati nell’alcool non trovano approfondimento, diventando una piccola bozza di caratterizzazione. Non vi è alcuna spinta interessante su alcuna tematica, né traccia degli elementi “sopra le righe” che hanno caratterizzato la stupenda narrativa di Wolfenstein II, rendendo di fatto questo DLC soltanto una discreta occasione per saggiarne ancora una volta le ottime meccaniche sparatutto del titolo.
Anche qui tornano le cutscene “animate” che  – purtroppo – abbiamo imparato a conoscere ne Il Pistolero Joe, e che non riescono a rendere giustizia a quanto di buono realizzato nel titolo principale. È come se questi contenuti fossero stati immessi senza prendere in considerazione le scelte narrative di The New Colossus: i contenuti sembrano fin troppo distaccati e con pochi elementi in comune con  le storie di Blazkowicz e soci. La durata, inoltre, continua a non aiutare: è possibile terminare I Diari dell’Agente Morte Silenziosa in circa un’ora.

Non sono Splinter Cell!

Come detto nella recensione del precedente DLC, peculiarità dei nuovi personaggi è lo sfruttamento di alcuni elementi tecnologici che in Wolfenstein II aumentavano di molto la varietà nel gameplay. Se il Pistolero Joe aveva a disposizione “il potere dell’Ariete”, Jessica Valiant può contare sul costrittore, che non è un elemento da 50 Sfumature di Grigio, bensì un mezzo in grado di restringere la cassa toracica della protagonista permettendole di sgusciare via tra gli stretti cunicoli presenti nella mappa. Questo elemento ben si sposa con le peculiarità dell’agente, chiamata appunto Morte Silenziosa per la sua efficacia nell’eliminare i nemici senza esser mai scoperta.
Il secondo DLC, dunque, sposta l’intero focus sulle dinamiche stealth, o almeno ci prova: Wolfenstein II è uno sparattutto che certamente permette eliminazioni silenziose, ma il suo meglio è  espresso tramite caotiche – ma ben messe in scena – sparatorie, il che ha fatto sì che The New Colossus sia stato tra i più apprezzati esponenti del genere negli ultimi anni. Incentrare tutte le dinamiche di un gioco di questo tipo su meccaniche stealth mette alla berlina soprattutto un’IA incapace di integrarsi al meglio con le avventure dell’ex agente OSS: basterà infatti restare all’interno di un cunicolo, aspettando che il malcapitato nazista incroci il nostro percorso, per assassinarlo in totale sicurezza. Anche nel caso in cui commettessimo un errore – e quindi facessimo scattare il tanto odioso allarme – basterà ripetere la procedura. Eppure ci sarebbe voluto poco: stanarci attraverso granate, costringendoci a cambiare postazione avrebbe messo un po’ di quel “pepe” al gameplay che purtroppo in questo caso manca. Fortunatamente ci vengono in soccorso alcune peculiarità di Jessica, come un bullet time attivato passivamente non appena veniamo scoperti, permettendoci di sparare un colpo prima di metterci al riparo. Ma è troppo poco per rendere il tutto “esaltante”. Terminata la storia, infatti, resterà quasi nulla dell’esperienza, che potrete comunque completare al 100% cercando i vari collezionabili sparsi per le mappe. Su questo fronte, forse, è stato fatto qualcosa in più, portandoci anche al di fuori del nostro pianeta, ma continua ad avvertirsi il riutilizzo (ridondante) di alcuni asset del gioco principale.
Anche sul fronte tecnico non sono presenti novità rilevanti, potendo rimandare l’analisi di questi aspetti alla recensione di Wolfenstein II: The New Colossus.

In conclusione

Anche questo DLC purtroppo lascia l’amaro in bocca. Dopo il Pistolero Joe, Morte Silenziosa non riesce a regalare momenti memorabili, nonostante lo sfruttamento di alcune meccaniche che avrebbero senza dubbio valorizzato l’altra faccia della medaglia del frenetico gameplay di Wolfenstein II. La durata risicata e una IA non all’altezza rendono questo contenuto aggiuntivo un semplice passatempo per chi ha già acquistato il season pass. Per chi ancora non l’avesse fatto, anche in questo caso, il prezzo probabilmente non vale il biglietto.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Rivelata la data di uscita di Vampyr

Annunciata la data di uscita di Vampyr da parte di Dontnod Entertainment e Focus Home Interactive, uscirà il 5 giugno 2018 su PC, Playstation e Xbox One.

La notizia è stata data attraverso la webserie Stories from the Dark, basata sulla trama del videogioco, ambientato a Londra nei primi del ‘900 durante un’epidemia che ha trasformato tutti gli abitanti in vampiri assetati di sangue

Vampyr non presenterà DLC, multiplayer o microtransazioni, ma, al contrario delle tendenze degli ultimi tempi si baserà esclusivamente sul singleplayer.




Josh Sawyer: perché Obsidian creerà una propria IP

Lo studio Obsidian, dopo 14 anni di attività si ritrova in una posizione del tutto nuova: per la prima volta infatti, creerà un sequel per un IP proprietaria, dopo aver espresso il suo talento nello sviluppo di videogiochi commissionati da terzi.
Ma ormai siamo vicini all’uscita del secondo capitolo della saga proprietaria di Obsidian, Pillars of Eternity 2, con uscita pianificata per il mese di Aprile, dopo aver raccolto 4.4 milioni di dollari sul portale di crowdfunding Fig.

Obsidian è uno studio ben conosciuto tra i fan degli RPG: fondato nel 2003, iniziò a lavorare su Star Wars: Knights of the Old Republic che riscosse un certo gradimento tra critica e pubblico; tra i loro lavori di successo, titoli come Fallout: New Vegas e South Park: Il Bastone della Verità.
Josh Sawyer, creative director del gioco, ha rilasciato alcune dichiarazioni in merito all’uscita imminente del titolo a Gameindustry:

«La pressione è più o meno la stessa di sempre dato che conosco le aspettative delle persone a cui piacciono i giochi basati su Infinity Engine; ma anche lavorando sull’IP di qualcun’altro hai delle aspettative ben precise. Lavorando su Star Wars, per esempio, saranno sempre presenti fan che esprimeranno un’opinione su questo o quell’altro. É più snervante lavorare su Pillars of Eternity perché la responsabilità è tutta nostra, ma nonostante ciò, non sentiamo la pressione perché siamo sicuri di poter fare un buon lavoro su questa, come su qualsiasi altra IP. Quindi da questa prospettiva mi sento totalmente a mio agio nel lavorarci; so solo che non voglio deludere la compagnia e non voglio sprecare la chance per fare qualcosa di buono per i fan.»

Continua poi in merito alle intenzioni dell’azienda per il proseguo della saga:

«Poiché questo titolo è una proprietà intellettuale di Obsidian vogliamo continuare a svilupparlo, sia con questo capitolo che con un potenziale spin-off; vogliamo che rimanga aggiornato e popolare e che continui a crescere col tempo. Perché per uno sviluppatore Indie possedere una IP è una benedizione e se questa è popolare, allora è una doppia benedizione; non possiamo sprecarla.»

Sawyer dimostra quindi di essere consapevole di quanto sia importante questa serie per i ricavi dello studio e per l’ampia libertà nella creazione del titolo che ha a disposizione. Infatti, durante l’intervista allude anche alla frustrazione che si prova nel dover lavorare con i proprietari delle varie IP, forse un po’ troppo “protettivi”.

«Per grandi IP come Star Wars ci sono molte persone alla Lucasfilm, ma ora alla Disney, che sono responsabili per mantenere il DNA della saga e può essere frustrante entrarvi in confitto. Loro vogliono qualcosa che vada bene, ma è un processo molto più difficile perché ciò che pensi sia figo, eccitante e interessante deve andare bene anche a loro per poterlo applicare.»

Ritorna poi sul titolo che sta sviluppando:

« È un gioco che ha cambiato franchise nel corso degli anni e la percezione di cosa va e di cosa non va è cambiata durante questo periodo. È veramente un problema perché quando l’IP di un proprietario può andare in contrasto con la tua idea, devi ricostruire tutto. Ma quando l’IP è tua, tu sei quello che decide quale direzione essa prenderà, e riesci a capire meglio su cosa si sviluppa l’IP; questo aiuta a farla evolvere nella maniera più naturale possibile.»

Ciò che può creare un problema allo studio in questo caso è il fatto che l’intero progetto sia in crowdfunding e quindi esiste una fan base che si aspetta un certo tipo di prodotto, questione ovviamente presa in considerazione da Obsidian:

«Abbiamo provato ad ascoltare tutti ma ovviamente non possiamo prendere alla lettera tutto ciò che ci viene detto; dobbiamo basarci sulla nostra esperienza e leggere tra le righe. Un’altra cosa che stiamo facendo è affidarci sia al feedback del singolo utente che di quello complessivo della telemetria (Beta Tester).»

Poi sui feedback e sui dati aggiunge:

«I dati ricevuti dai Beta Tester non sono sempre una soluzione, sono solo un altro strumento che ci aiuta a capire che strada intraprendere. Se senti molte persone esprimere un parere ma possiedi dati contraddittori, devi iniziare a chiederti perché ci sono dati che non dicono tutto»

Con Deadfire, Obsidian è a rischio, perché per la prima volta si mette in gioco da studio proprietario:

«Ho lavorato a vari titoli che, per un motivo o per un altro, sono stati spinti a uscire prematuramente e ne sono consapevole. Con il primo capitolo di Pillars of Eternity doveva essere tutto pronto entro l’inverno ma non lo era; lo era a livello tecnico, c’era tutto quello che doveva esserci ma non si giocava bene ed era pieno di bug.»

E conclude:

«Questa è la nostra IP, qualcosa che facciamo per i fan. Non vogliamo perdere tempo, non vogliamo girare attorno a cose stupide, ma capiamo di aver avuto una chance per dare un’ottima impressione di noi con questo franchise, quindi ci prendiamo più tempo. Il gioco sarà migliore e avrà comunque problemi al lancio, ma questa è la strada migliore da intraprendere. Non avreste voluto vederlo prima del lancio»



Dragon Ball FighterZ – Più Coerente dell’Opera Originale

Siamo ormai alle battute finali del Torneo del Potere, ultimo arco narrativo – finalmente – di Dragon Ball Super, midquel del celeberrimo Dragon Ball Z, che ha sconquassato – e non poco – molti elementi della mitologia creata da Akira Toriyama. In questi ultimi anni, quindi, la voglia di rivivere le emozioni di uno dei più famosi battle shonen di sempre è tornata più viva che mai, anche in ambito videoludico, dove Dragon Ball Xenoverse – ancora in auge con il suo secondo capitolo – è riuscito in qualche modo a intrattenere gli amanti della saga, nonostante il mancato sfruttamento di meccaniche picchiaduro di livello. Serviva quindi qualcosa di potente, un vero fighting game, che manca dai tempi della serie Budokai e Tenkaichi: tutto questo è Dragon Ball FighterZ. Fin dalla sua presentazione all’E3 2017, Fighterz è riuscito sin da subito ad attrarre gli sguardi dei fan, portando in tutto e per tutto lo spirito della saga, visivamente e, soprattutto, coi contenuti.

Chi sei? Goku non lo sai

Dragon Ball Fighterz riesce a offrire una buona varietà di contenuti, racchiusi in un hub centrale che funge anche da stanza per il multiplayer. L’evento principale è ovviamente la Modalità Storia presente in tre differenti versioni, unite da un unico filo conduttore. Tutto ruota intorno all’Androide N° 21, personaggio ideato dallo stesso Akira Toriyama. Divenuta capo dell’esercito del Red Ribbon – di quello che ne rimane, almeno – è spinta dal solo obiettivo di acquisire nuova forza, mangiando letteralmente i più forti combattenti del mondo di Dragon Ball. La sua fame insaziabile, dovuta essenzialmente alle cellule di Majin Bu innestate nel suo corpo, procurerà grossi grattacapi ai nostri eroi ma anche – e questo è interessante – ai temuti nemici quali Cell e Freezer. Saremo noi stessi a cambiare il loro destino, prendendo – di fatto – in prestito i loro corpi e la loro forza. Benché non si tratti di una sceneggiatura da premio Oscar, le tre trame distinte offrono l’opportunità di approfondire le origini dell’Androide e i vari retroscena che hanno portato alle vicende iniziali. La narrazione si fregia di numerosi momenti da fan service, ben studiati e che riescono ad aggiungere ancora più dettagli alla caratterizzazione dei personaggi ideati da Toriyama San. Quest’arco narrativo può essere effettivamente considerato come una saga filler di Dragon Ball Super, trovando perfetto inserimento tra il reclutamento di Gohan nel top team dell’Universo 7 e il Torneo del Potere, battle royale in cui i combattenti di otto universi si danno battaglia per scampare all’annientamento totale. Prendendo come assodato questo elemento, Dragon FighterZ riesce a non sfigurare rispetto alla contemporanea serie animata, diventando in tutto e per tutto qualcosa che potrebbe definirsi “canonico”. Trovano spazio anche alcune “chicche” come l’abbattimento della quarta parete durante la narrazione o attraverso eventi dedicati, in cui ci troveremo faccia a faccia con il nostro alter ego “dragonballiano”.

Purtroppo il rovescio della medaglia è sempre dietro l’angolo: se è vero che la narrazione risulta interessante, è la sua conduzione a non convincere a pieno. Tra un capitolo e l’altro, sono presenti alcune mappe in cui, attraverso un percorso libero, affronteremo diversi scontri prima di arrivare al “boss di fine livello”. Se da un lato questi scontri risultano utili per accumulare punti esperienza, perk passivi, in grado di aiutarci nel cambiare l’esito di un combattimento e, aggiungere alcuni personaggi al proprio team, dall’altro risultano ripetitivi e soprattutto privi di gratificazione, in quanto la loro difficoltà è tutt’altro che proibitiva. È vero, qualche “siparietto” ed easter egg tra i personaggi scelti è sicuramente interessante, ma questi non sono così frequenti da controbilanciare adeguatamente. Il risultato è, alla lunga, quello di rendere prolissa una narrazione che, senza questo problema, risulterebbe leggera e a tratti divertente.

Le altre modalità di gioco non sono meno importanti. Da non sottovalutare la sezione Tutorial – anche se poco approfondita – e la Modalità Allenamento, in cui potremo imparare le basi del combattimento e migliorare di volta in volta; presenti anche battaglie in locale, dove sfidare gli amici, creando anche dei tornei appositi. È presente una corposa Modalità Arcade, costituita da diversi percorsi casuali in cui affronteremo combattimenti sempre più difficili, in base al punteggio ottenuto negli scontri precedenti. I vari duelli presenti risultano appaganti e spingono il giocatore a una continua sfida, non solo contro la CPU ma soprattutto contro se stessi.
Le varie modalità offline non sono altro che una prova generale per il Multiplayer Online, dove guerrieri di tutto il mondo competono per diventare i numeri uno della classifica mondiale. Fortunatamente il matchmaking ci viene in soccorso fin da subito, facendoci destreggiare con giocatori di pari livello, anche se non mancherà di affrontare utenti sensibilmente più abili di noi. Buona la stabilità del netcode e, trovata molto utile, è l’aggiunta di un contatore per i frame persi dovuti ai lag, che ci permette di monitorare in tempo reale la situazione. Unica nota dolente è la mancata penalizzazione agli utenti che decidono di abbandonare lo scontro poco prima di essere sconfitti, annullando di fatto la partita appena svolta.
Il roster può effettivamente risultare povero se confrontato con altri titoli dedicati al franchise di Dragon Ball, anche considerando che si tratta di un picchiaduro tre vs tre: solo 25 i personaggi giocabili, di cui tre sbloccabili (le versioni SSGSS di Goku e Vegeta e Androide N° 21).

Una nuova realtà, con le sue verità

Ma veniamo alla reale “ciccia” del titolo, quel gameplay che ha esaltato un po’ tutti sin dal suo esordio. Nonostante siano limitati a 25, tutti i personaggi di FighterZ sono unici, con proprie caratteristiche, punti di forza e debolezza. Questo aspetto è da tenere in seria considerazione, in quanto trovare l’alter ego perfetto per noi richiederà un minimo di sperimentazione. Se, a prima vista, le meccaniche picchiaduro risultano basilari – à la Naruto per così dire – con combo eseguibili con la sola pressione di un tasto, basta poco per accorgersi di quanto tali meccaniche abbiano componenti nascoste ai gamer di primo pelo. Presto ci si accorge di come le combo automatiche siano essenzialmente inutili e bisognerà approfondire praticamente tutto per aprire un intero mondo costituito da giusti tempismi, conteggio dei frame delle animazioni e il giocar d’astuzia con le assistenze degli altri personaggi. Non dimenticando dunque le combo automatiche (Combo Z per gli amici), in ogni caso sempre utili, sarà l’utilizzo di colpi più avanzati uniti ad altri elementi di gameplay a fare la differenza. Con rimbalzi à la Tekken ridotti al minimo, sarà fondamentale l’utilizzo dell’Impeto del Drago, un avvio di combo in grado di mandare in aria il nostro avversario per continuare a concatenare altre serie di colpi. Tutto si gioca sul giusto tempismo, memoria e riflessi, cosa che alza nettamente il livello del titolo rispetto alla diretta concorrenza.
Come detto, si tratta di un picchiaduro tre contro tre, in cui sarà fondamentale eseguire i cambi come, del resto, decidere il supporto all’azione; questo perché potremo concatenare le combo e i colpi energetici tramite l’utilizzo dei diversi personaggi, divenendo quasi inarrestabili. Il contatore della barra dell’aura è un altro elemento da tenere in conto in quanto più sarà carica, maggiore sarà l’effetto dei nostri attacchi, permettendo inoltre l’utilizzo del teletrasporto alle spalle del nostro avversario e soprattutto, segnerà il passo ai devastanti e spettacolari colpi finali. Il tempismo è la chiave ma anche la strategia non scherza: infatti, il personaggio sostituito vedrà ricaricata lentamente la propria energia. Fortunatamente nulla è lasciato al caso: i “change” possiedono un cooldown proprio per evitare lo spam eccessivo della meccanica, che altrimenti diventerebbe frustrante per chi la subisce. Altra caratteristica fondamentale è l’utilizzo dello Sparking Blast, un boost temporaneo in grado di ricaricare la nostra energia e soprattutto aumentare la potenza d’attacco.
Una caratteristica interessante di alcuni membri del roster è il supporto di un proprio compagno, proprio come una qualsiasi abilità: esempio su tutti è C-18 (Lazuli) che fregiandosi dell’aiuto di suo fratello gemello C-17 (Lapis), è in grado di replicare le movenze che hanno eliminato Gohan nell’orribile futuro di Trunks. Oppure Black Goku e Zamasu, uniti da un legame particolare ma in grado di rivelare la loro natura di malvagi a tutti i malcapitati. Tutti i personaggi possiedo comunque delle raffinatezze degne di nota: basti pensare ai dischi energetici di Freezer che dopo un po’ tornano indietro rischiando di colpire noi stessi, o Crilin e i suoi senzu o ancora, l’utilizzo del moveset di Cell durante la creazione del proprio ring per colpire i nemici.
Elemento, che forse risulta un po’ posticcio a dire il vero, è l’utilizzo delle Sfere del Drago durante il match: una volta raccolte tutte e sette le sfere – ed è difficile che accada – non appena il contatore d’aura segnerà lo stesso numero, ecco che apparirà il possente Drago Shenron che esaudirà un desiderio tra i tre a disposizione; far tornare in vita un compagno caduto o ricare l’energia potrà cambiare le sorti dell’incontro. Questa meccanica, benché interessante, risulta poco utile e soprattutto poco sfuttabile; sembra quasi ridondante ai fini del gameplay ma fortunatamente non al punto da rovinare l’esperienza.
Una meccanica, purtroppo assente e che avrebbe ulteriormente aumentato la profondità di FighterZ, è l’assenza del volo, elemento usuale in Dragon Ball già dalla prima serie. Probabilmente ciò è dovuto a scelte precise di Arc System ma è davvero un peccato che non si sia spinto l’acceleratore su qualcosa che ormai è parte integrante del franchise.
In Dragon Ball FighterZ sono presenti le tanto famigerate loot box, ma niente paura: tutto è acquistabile solo ed esclusivamente attraverso la moneta di gioco, ovvero gli Zeni. Le loot box, una volta aperte, permetteranno di acquisire elementi atti alla personalizzazione del proprio avatar e della scheda del giocatore.

Il tuo cuore saprà ritrovare Dragon Ball

Il 2.5D di Arc System è quanto di più bello offerto da un gioco in cel-shading finora, scalzando dalla testa del podio Naruto Ultimate Ninja Storm 4.  Non solo il character design, ma anche le movenze dei vari personaggi sono riprodotte alla perfezione, restituendo, a conti fatti, una puntata dell’anime interattiva. Nulla è lasciato al caso, sia per le ambientazioni, che risentono dei nostri attacchi, che per i colpi energetici, in grado di restituire la giusta e poderosa potenza d’attacco. Tutto risulta molto pulito con ottimi filtri e particellari che trovano la massima espressione nelle Dramatic Finish, cutscene speciali che riproducono fedelmente avvenimenti fondamentali della saga di Dragon Ball. Tutto questo ben di Kaio risulta incredibilmente ottimizzato e gestibile al massimo della forma (1080p, 60fps) anche da macchine non più performanti.
Anche l’audio non è da meno, a cominciare dal doppiaggio che si fregia delle voci originali giapponesi e statunitensi, cosa che rende ancor di più esaltante l’utilizzo di determinate mosse e la visione delle scene d’intermezzo. Gli effetti sonori sono la ciliegina sulla torta, anch’essi riprodotti alla perfezione, dalle onde energetiche all'”urto” dei colpi fisici. Anche le musiche danno sfoggio di sè, esaltando tutti i momenti iconici e le battaglie come si deve.

In conclusione

Dragon Ball FighterZ è una gioia per gli occhi: quello che a prima vista può sembrare solo un esercizio stilistico è, a conti fatti, un egregio esponente dei picchiaduro, potendo vantare un gameplay accessibile e al contempo stratificato, in grado di dare grosse soddisfazioni agli hardcore gamer. È un titolo che non ha problemi evidenti ma alcune piccole “deficienze” che, sommate, costano la perfezione: un roster limitato ma comunque ben caratterizzato, la “diluita” Modalità Storia e quel mancato sfruttamento del volo non inficiano comunque un titolo che ha dimostrato quanto ci sia ancora bisogno di Goku e compagni nella nostra vita, nonostante siano passati 30 anni dalla sua prima apparizione.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Kaz Hirai si dimette dal ruolo di CEO di Sony

Dopo sei anni alla guida come presidente e CEO di Sony, Kaz Hirai abbandona la carica a favore dell’attuale vice-presidente esecutivo e capo del settore finanziario dell’azienda Kenichiro YoshidaHirai resterà in Sony con funzioni onorarie dal 1 Aprile, data in cui tutte le modifiche verranno rese effettive.
Stando alle dichiarazioni di Sony, il cambio di leadership è stato proposto dallo stesso Hirai, che ha caldamente consigliato di scegliere Yoshida come suo successore: «Dalla mia nomina a presidente e CEO nell’aprile del 2012, ho dichiarato che il mio obbiettivo sarebbe stato assicurarmi che Sony continuasse a essere un’azienda che assicura ai propri clienti  “kando” – che significa “coinvolgere qualcuno sul piano emotivo”– e che li ispiri e soddisfaccia la loro curiosità. Per perseguire questo scopo, ho dedicato me stesso a trasformare la compagnia e accrescere il profitto, e sono veramente orgoglioso che ora, nel terzo e ultimo anno del nostro piano aziendale a medio raggio, ci aspettiamo di superare il target di guadagno che ci eravamo imposti. È bello per me sentire sempre più persone entusiaste del fatto che Sony sia tornata»

Sony presto inizierà un nuovo piano aziendale a medio raggio, che sarà guidato dal nuovo CEO Yoshida, che ha dichiarato: «Costruiremo sul metodo di business stabilito da Mr. Hirai, ed eseguiremo ulteriori cambiamenti atti a migliorare la nostra competitività come azienda globale e che ci permetta di avere una crescita dei profitti a lungo termine.»

Hirai prese il comando della Sony sei anni fa, dopo un lungo periodo di successi come direttore del settore Playstation. Con lui i giochi sono diventati per Sony il motivo più grande del suo successo, dovuto soprattutto alla leadership di PS4 nel settore.