Playstation Now: Digital Foundry analizza le prestazioni dei titoli PS4

Sony ha aggiunto da alcuni giorni alcuni titoli PS4 nel catalogo del servizio streaming PlayStation Now.
Digital Foundry ha colto l’occasione per operare un’analisi del servizio dal punto di vista tecnico sul piano del frame-rate, della grafica e anche in termini di latenza,
Il parere è globalmente positivo, anche se è importante sottolineare che è necessario disporre di una buona connessione internet.
Di seguito il video completo:




Annunciata la data d’uscita di Gran Turismo Sport

Gran Turismo Sport, settimo capitolo del noto franchise, sarà rilasciato su PlayStation 4, come annunciato qualche ora fa dallo sviluppatore Polyphony Digital.

Il gioco di simulazione di corse esordirà il 18 ottobre in tutta Europa. Il lancio avviene due settimane dopo l’annuncio del diretto concorrente Forza Motorsport 7 ed è stato accompagnato da un nuovo trailer da 30 secondi.

Arrivare finalmente a questo punto, per GT Sport, è stato come percorrere una strada lunga e tortuosa.
La nuova data di rilascio è scivolata oltre 11 mesi dopo l’annuncio originario dell’editore: Sony Interactive Entertainment aveva infatti annunciato nel maggio del 2016 che avrebbe lanciato il gioco il 15 novembre 2016. Polyphony Digital ha poi annunciato nel mese di agosto che aveva deciso di rinviare al 2017 il lancio del gioco.

Lo sviluppatore aveva anche pianificato un’open beta per Gran Turismo Sport nei primi mesi del 2016, successivamente annullata, per poi concedere una closed beta ,terminata prima dello scorso marzo.

«Stiamo entrando nelle fasi finali dello sviluppo mentre ci prepariamo per il lancio», ha dichiarato il creatore della serie e Presidente di Polyphony Digital, Kazunori Yamauchi in un post su PlayStation Blog in cui annunciava la release, aggiungendo che lo studio è finalmente pronto a fornire dettagli sulle caratteristiche di Gran Turismo Sport, tra cui la modalità “campagna“, nonché vari veicoli e piste. Come già annunciato, il gioco supporterà anche il visore PlayStation VR con annessa modalità realtà virtuale.

I pre-ordini sono disponibili presso il PlayStation Store e i rivenditori europei. Gran Turismo Sport sarà disponibile nella sua edizione base a $ 59.99 e in una versione limitata al prezzo di $ 69.99 con annessi i seguenti articoli:

  • GT Sport Starter Pack (8 auto)
  • $ 1MM di crediti di gioco
  • Pacchetto adesivi livrea
  • 30 Avatar GT Sport
  • Casco da corsa cromato (per il profilo del conducente)
  • Confezione e Steelbook in versione limitata

Sony offre anche una Digital Deluxe Edition a 79,99 dollari, che implementa lo Starter Pack con quattro auto aggiuntive e raddoppia il credito nel gioco e il numero di avatar.




Tokyo 42 – Citazioni ne Abbiamo!?

Ogni tanto si assiste a un ritorno agli anni ottanta: che sia per la moda, sui libri, film o videogiochi poco importa; in qualche modo quegli anni ci hanno lasciato qualcosa e riviverne i momenti migliori mette una pezza alla nostalgia. Proprio in ambito videoludico abbiamo avuto molti esempi di revival che, prendendo spunto da film di genere come Dredd, Blade Runner o Robocop, hanno fatto saggiare le peculiarità di sceneggiatura e messa in scena tipica di quegli anni. Basti citare il DLC di Far Cry 3 denominato Blood Dragon, un’enciclopedia della fantascienza più trash anni ottanta, fino al titolo protagonista di quest’oggi, Tokyo 42. Anch’esso recupera tutte le caratteristiche dei lungometraggi di quegli anni, le situazioni, i dialoghi e il design, impacchettando un titolo divertente e di intrattenimento, pur non privo di qualche difetto.

Cyberpunk 2042

Impersoniamo qualcuno la cui vita cambia improvvisamente. Veniamo a scoprire dalla TV che siamo stati incastrati per un omicidio accaduto per le strade di Tokyo. L’unica cosa da fare è scappare e cercare risposte su chi è stato e perché. Inutile dire che le parole assumeranno forma di proiettile. Questo è insomma l’incipit di Tokyo 42, di certo non una trama cervellotica, ma comunque adatta al tipo di contesto. È un pretesto, qualcosa che ha la funzione di introdurci al mondo di gioco e di guidarci verso il finale. Anche i comprimari subiscono una caratterizzazione anni ottanta, con dialoghi sopra le righe e colpi di scena abbastanza forzati. Nel corso della storia interagiremo con diversi personaggi, tutti con uno stile di vita abbastanza discutibile, ma che saranno utili per scoprire la verità su quanto successo. La trama si sviluppa come se fosse il primo GTA (con il dovuto metro di paragone): nel peregrinare da un capo all’altro di Tokyo troveremo, in parallelo alle missioni principali, quest secondarie legate ai diversi personaggi, oltre a un sistema – che potremmo definire “di contratti a termine” – che ci permetterà di acquisire reputazione e denaro. Proprio la reputazione diventa il fulcro del gioco: maggiore sarà, più avremo a che fare con i pezzi grossi della mala e, di conseguenza, avremo modo di acquisire informazioni cruciali.
Insomma, Tokyo 42 non è altro che un’accozzaglia di cliché anni ottanta, piena di riferimenti a film, manga (uno su tutti Ghost in the Shell), e tanto altro di quanto sfornato in quegli anni. E proprio per questo ci piace.

Se non hai un gatto non sei nessuno

Tokyo 42 è innanzitutto uno sparatutto-sandbox. Le varie missioni che sceglieremo hanno una buona dose di varietà d’approccio: sfruttare la mappa sarà essenziale in ogni frangente, non solo se si vuole affrontare il tutto in stealth, ma anche se si vuole intraprendere la strada di uno Steven Seagal qualunque. Il nostro arsenale è molto vario, e va dalle classiche pistole ai fucili di precisione, sino al bazooka e a una katana che regala grosse soddisfazioni. Quando si comincerà a fare sul serio inizierà una vera e propria guerra: capiterà molto spesso di trovarsi da soli contro decine di nemici e centinaia di proiettili visibili a schermo; proprio quest’ultima caratteristica sarà essenziale dato che ci permetterà di schivare letteralmente i colpi nemici e di rispondere di conseguenza, magari sfruttando la scarsa IA degli avversari.
Particolare è anche il sistema di puntamento – un po’ macchinoso, a dir la verità –nel quale diventa essenziale mirare con attenzione ma, complici alcuni problemi di prospettiva, può risultare frustrante, soprattutto durante i momenti più concitati. Qualora le cose si mettessero davvero male, entrerà in scena anche un simpatico sistema di mimetizzazione olografica: consumando l’energia di una batteria non meglio specificata, potremmo cambiare aspetto e mischiarci così tra la folla. Anche questo sistema dovrà essere pianificato e bisognerà controllare se nelle vicinanze sia posizionato o meno un sistema di ricarica dell’energia. Una volta perse le tracce, i nemici riprenderanno il proprio pattugliamento. È un titolo che non risulta per nulla semplice, grazie anche al fatto che basta essere colpiti soltanto una volta per ritrovarci all’altro mondo. Oltre a questo avremo a che fare anche con le Nemesi, colleghi assassini che desiderano farci fuori; anche loro possono mimetizzarsi tra la folla per cui, potenzialmente, ogni cittadino di Tokyo può diventare una minaccia. Fortunatamente potrà venire in nostro soccorso – una volta sbloccato – un gattino modificato geneticamente che, con il suo potere di rilevazione, può aiutarci a trovare la Nemesi e quindi rispedirla al mittente.
Un elemento cardine del gameplay di Tokyo 42 è la prospettiva, nel bene e nel male. Tutta la mappa può essere infatti ruotata a intervalli di 90° permettendoci di vedere tutto ciò che rientra nel nostro interesse. Il rovescio della medaglia si ha però quando ci troviamo in spazi stretti, magari tra un palazzo e l’altro, dove diventa praticamente impossibile vedere la strada da percorrere o individuare eventuali ripari. Peggio ancora quando si è alla guida di un mezzo di per sé già difficile da governare che, con l’aggiunta di un cambio prospettico di questa portata, diventa una delle parti più frustranti del titolo.
Tokyo, comunque, si presenta molto colorata, con un design che si rifà in parte a opere come Ghost in the Shell: grattacieli colorati, enormi schermi continuamente animati e alcuni sistemi tecnologici ci proiettano direttamente nel futuro; è liberamente esplorabile a piedi ma è possibile utilizzare anche – una volta sbloccati – i vari punti d’interesse, un sistema di teletrasporto in tempo reale molto utile, data la dispersività e caoticità della mappa. Particolare è anche la scelta di annullare completamente i danni da caduta, anche da altezze proibitive.
Lungo la città sarà possibile fare acquisti in punti specifici, soprattutto di armi e munizioni, ma anche di alcuni oggetti di dubbia utilità, come ad esempio un casco di banane. La mappa presenta anche dei piccoli segreti da raggiungere, oggetti rari che, una volta recuperati, entreranno a far parte del nostro arsenale.
Durante il gioco si sente comunque la mancanza di una reale omogeneità tra le varie parti del titolo, si ha l’impressione che mondo di gioco e narrazione siano completamente slegate e anche alcune meccaniche risultano ancora grezze.
Anche l’audio generale e le musiche non fanno gridare al miracolo, ed è un vero peccato perché proprio sul piano sonoro potevano essere inserite delle chicche davvero niente male. Il titolo è completamente tradotto in italiano.

In conclusione

Tokyo 42 si presenta come un titolo dall’alto potenziale mal sfruttato: l’approccio alle missioni è sicuramente il punto forte del titolo ma il sistema di puntamento impreciso, la mappa molto carina ma caotica e, soprattutto, i già citati problemi di prospettiva, rendono questo indie game spesso frustrante. La sfida data dalle missioni può comunque intrattenere e un contesto che non si prende molto sul serio aiuta molto a non focalizzarsi su alcuni difetti narrativi e di design. Chi è amante della fantascienza anni 80-90 troverà comunque modo di apprezzare le scorribande per le vie di Tokyo.




Destiny 2: annunciato bundle con PS4 Pro Glacier White

Dopo 3 anni dall’uscita di Destiny, a cui Sony ha dedicato un primo bundle con l’edizione bianca di PS4, la storia si ripete. Destiny 2, in uscita a settembre, sarà protagonista, insieme alla PS4 Pro Glacier White, di un nuovo bundle in edizione speciale.
Il nuovo pacchetto sarà comprensivo della console in colorazione bianca con hard disk da 1TB, del controller abbinato anche nel colore e di una copia della Digital Deluxe Edition di Destiny 2 in formato retail.
La Digital Deluxe Edition contiene il pass espansioni e quello dei contenuti digitali premium:
Spada leggendaria, Emote leggendario, Emblema a tema impero dei cabal.
Lo speciale bundle sarà lanciato lo stesso giorno in cui uscirà Destiny 2, il 6 settembre, in esclusiva per GameStop.
Destiny 2, inoltre, avrà una beta che partirà dal 18 luglio, per chi ha prenotato il gioco, vi invitiamo a consultare gli orari e le date in questa news.




Annunciata la data d’uscita di Thimbleweed Park su PS4

Thimbleweed Park arriva finalmente su PS4. Dopo un’attesa di alcuni mesi, anche i possessori della console potranno giocare il punta e clicca di Terrible Toybox a partire dal 22 agosto. La notizia è stata resa nota dallo stesso creatore, Ron Gilbert, in un post pubblicato su PlayStation Blog.
Per chi non conoscesse l’ultima opera del creatore di Monkey Island, si tratta di un’avventura  grafica in pixel art che si rifà ai grandi capolavori dell’epoca LucasFilm Games (Maniac Mansion su tutti, e non a caso è uscita in occasione del trentennale del gioco ed è ambientata nel 1987) ed è una riproposizione parodistica di una detective story dai contorni sovrannaturali che mette dentro elementi tratti dalla letteratura di Stephen King e da note serie tv quali X-Files e Twin Peaks. per offrire un’avventura davvero strana e meravigliosa.

Nel post pubblicato, Ron Gilbert precisa che gli utenti «meravigliati dalla precisione con la quale un punta e clicca funziona su console, senza un mouse», in ragione dell’enorme quantità di tempo spesa dall’intero team a perfezionare i controlli su pad senza far perdere le emozioni delle avventure degli anni ’80 e ’90. In realtà questo era già avvenuto sul NES, dove si può ricordare un porting di Maniac Mansion in 8 bit.
Ron Gilbert ha sviluppato il gioco affiancato da altri due grandi nomi della vecchia guardia Lucas, Gary Winnick e David Fox, e il riscontro della critica è stato estremamente positivo. Il gioco è già giocabile dal 30 marzo su PC, Mac e Xbox One. In attesa della data di rilascio dell’ormai confermata versione per Nintendo Switch, vi lasciamo al trailer di lancio per PS4:




Virginia

Il recente annuncio di Transference VR durante la conferenza Ubisoft all’E3 ci ha dato ancora una volta dimostrazione di come il mondo cinematografico e quello videoludico vadano sempre più intrecciandosi, nutrendosi dei rispettivi mezzi tecnici, linguaggi e suggestioni formali e sostanziali. Il meccanismo è in atto da tempo, il sempre maggior ricorso nel settore agli attori hollywoodiani è un segno di ulteriore ibridazione, e quando titoli come Virginia si affacciano nel panorama dei videogame abbiamo la misura di quanto la settima arte sia un’influenza di rilievo per certi autori e game designer, anche in termini di regia e sceneggiatura.
Sviluppato da Variable Games, Virginia segue la storia di Anne Tarver, neo agente FBI assegnato al caso della scomparsa del giovane Lucas Fairfax e, al contempo, incaricato di riferire agli Affari Interni del comportamento della collega Maria Halperin, con cui si trova in coppia sul caso. Da questi presupposti, piuttosto classici, prende le mosse un intreccio che si complicherà progressivamente, mostrando risvolti complessi che porteranno il giocatore in un dedalo di misteri nascosti dietro la quieta immagine dell’ordinario.

Richiami seriali

Pur godendo di una trama complessa, sul piano narrativo Virginia prende le mosse da stereotipi classici del cinema e della fiction televisiva. Come se non bastassero i riferimenti agli UFO che aleggiano nel corso della storia, a rievocare X-Files si aggiunge la collocazione dell’ufficio della Halperin in un seminterrato, che ricorda quello del buon vecchio Fox Mulder, l’agente meno amato dai vertici del FBI. Seppur i richiami sono estremamente ricorrenti, non è la serie di Chris Carter il principale riferimento del titolo: le dinamiche della provinciale Kingdom (immaginaria cittadina della Virginia), ricordano molto da vicino quelle dell’altrettanto immaginaria Twin Peaks, ed è proprio nell’opera di David Lynch che troviamo il basamento concettuale di Virginia. A partire dal soggetto dell’indagine, quel Lucas che con la sua scomparsa diventa la mano atta a scoperchiare il Vaso di Pandora delle esistenze dei miti cittadini di Kingdom, svolgendo quindi una funzione simile a quella di Laura Palmer in Twin Peaks, e diventando il fulcro attorno al quale si srotola l’inconscio della stessa protagonista, Anne. Virgina non è infatti la classica detective story: l’indagine diventa anzi quasi un pretesto per mostrare la polvere nascosta sotto il pesante tappeto di Kingdom, ma soprattutto per leggere dietro le vite dei due personaggi principali, gli agenti Anne e Maria. In Virginia non sono presenti enigmi, neanche sotto forma di piccoli puzzle, e per questo possiamo definire il titolo come una “visual novel”. Il puzzle è probabilmente la personalità stessa della protagonista: in parallelo all’indagine sulla scomparsa del giovane Lucas, è evidente come Anne conduca una silenziosa ricerca su alcuni aspetti del proprio passato che non hanno mai trovato risposta.

Ricordo, cammina con me

Il gioco alterna infatti una narrazione lineare – cronologicamente ordinata nel susseguirsi dei singoli giorni che compongono la settimana in cui si colloca l’indagine – a rapidi flashback, visioni, sequenze oniriche, figlie del linguaggio lynchiano che pervade l’intero titolo. Le memorie e le visioni di Anne tendono sempre più a confondersi col piano del reale, i simboli sono talmente vividi da lasciare più di una volta il dubbio sulla loro veridicità. È un impianto che ricorda Twin Peaks, ma anche Blue Velvet, altro film di David Lynch dal forte apparato simbolico, anch’esso ambientato in una piccola cittadina americana, al punto che, nell’unica sequenza del videogame ambientata in un Roadhouse, non mi sarei stupito di sentire il pezzo di Bobby Vinton che dà il titolo al lungometraggio del regista di Missoula.
Simbolismo e tendenza all’astratto per un titolo ambizioso, dunque, ma non sempre questi elementi sono ben calibrati: Virginia gode infatti di un immaginario surreale espresso in sogni e allucinazioni che dà spesso luogo a un’ambiguità a volte confusionaria. Ma, se è vero che la realtà è talvolta contaminata dalla finzione, è altrettanto vero che la finzione rivela a sua volta scampoli di verità nascoste nelle profondità della coscienza, e questo meccanismo riesce a volte a fornire in maniera efficace vari indizi su cosa agiti il subconscio di Anne. Più di una volta però questo procedimento non risulta efficace, con la conseguenza che il flusso simbolico perde in potenza e armonia, risultando caotico, claudicante e solo parzialmente apprezzabile. Elemento che si fa tanto più delicato nella misura in cui non sono presenti dialoghi o linee di testo a contribuire alla spiegazione della storia: Virginia opera infatti una scelta di campo coraggiosa e che, in ogni caso, dà i suoi frutti in fase di regia, la quale riesce a offrire ottimi momenti di cinema, con un montaggio serrato e improvvisi salti scenici non solo nelle cinematiche, ma soprattutto nei momenti di gameplay.

Il bisonte, la scatola, il cardinale

Lo stile cinematografico di Virginia è uno degli aspetti più riusciti del titolo, capace di dare al giocatore una narrazione essenziale ed efficace e abile nel giocare con gli stilemi di un certo cinema d’autore statunitense. Siamo ovviamente lontani dalle vette simboliste di registi del calibro di Lynch, Cronenberg o Ferrara, la regia è qui molto più acerba, talvolta ingenua, ma è innegabile come Virginia sia uno dei migliori esempi del genere in campo videoludico, raccontando una storia che regge pur in assenza di dialoghi, affidandosi al montaggio e alla potenza di immagini popolate da simboli poderosi che vanno dal bisonte (animale americano per eccellenza) al cardinale rosso (uccello detto “cardinale della Virginia“, che ritorna come un ossessivo redde rationem della protagonista con il proprio passato), i quali ricorrono nelle visioni e nei sogni di Anne unitamente a simboli quotidiani, quasi banali, che scandiscono il tempo e il ritmo della storia.
Assume forte valenza simbolica la chiave spezzata che Anne porta sempre con sé, simulacro attorno al quale ruotano il proprio vissuto irrisolto, il rapporto col padre, i misteri sepolti, la paura d’affrontarli e l’impossibilità d’aprire una scatola nascosta in interiore che serba verità che spesso si preferirebbe non conoscere.

Suoni e visioni

Virginia non è certo un titolo elaborato sul piano grafico, con modelli tridimensionali in cel shading che conservano comunque un proprio stile e che danno il loro meglio negli ambienti aperti, nei quali predominano i colori chiari. Nell’opera dominano inoltre i cromatismi, con un ricorrere del rosso che ricopre un valore certamente simbolico, e che fa il paio con l’erubescenza del cardinale della Virginia.
Un punto a favore va alle animazioni prodotte da Terry Kenny – abilmente affiancato dal Pink Kong Studios – le quali rivestono un ruolo molto importante nel dettagliare una storia che, in assenza di dialoghi, risulta esaltata dai particolari visivi, dalle espressioni, dalle movenze dei corpi, atte a rendere atteggiamenti o particolari stati d’animo dei personaggi.
Sul piano tecnico si riscontrano un po’ di problemi di frame rate, nonostante il titolo sia stato giocato a 30 FPS come consigliano gli sviluppatori sin dal menù iniziale; nulla che risulti troppo fastidioso, considerando soprattutto che non vi sono particolari esigenze di precisione, ma sono comunque piccoli difetti presenti nel titolo riscontrati da più di un giocatore.
Il vero capolavoro dell’opera è però il comparto sonoro, una raffinatissima colonna sonora composta da Lyndon Holland ed eseguita dall’Orchestra Filarmonica di Praga che non sfigura nel confronto con i suoi omologhi della settima arte, accompagnando l’azione con perfetta coerenza e restituendo in maniera magistrale quel senso di sospensione proprio del contesto onirico, giocando a volte su una dialettica oppositiva suono-ambiente che regala risultati di straordinaria armonia (vedi la traccia Roadhouse nella sequenza al locale notturno); Holland, classe 1987, dà prova di grande perizia e di una consapevolezza sul piano armonico affatto scontate per un compositore così giovane, spaziando da chiare influenze di genere – una su tutte quella di James Newton Howard e dei suoi primi lavori quali Il Fuggitivo, Linea Mortale e Virus Letale, dalle quali eredita soprattutto la commistione fra suoni orchestrali e sintetizzatori – ad alcune più recenti OST di Cliff Martinez, e creando un ponte fra la musica classica e le sonorità sintetiche ’80-’90 che ben si presta ad accompagnare le sequenze di un titolo come Virginia.

Finali senza fine

Nel saggio Tipologia del romanzo poliziesco, il critico Tzvetan Todorov distingueva due narrazioni all’interno delle storie appartenenti al macro-genere del giallo: la storia del delitto e quella dell’inchiesta condotta dal detective, che altro non è che un mezzo per ricostruire la prima storia. Nel caso di Virginia, il delitto (ovvero la scomparsa del giovane Lucas) è un mero pretesto per un viaggio multiforme, che attraversa i tortuosi sentieri dell’inconscio delle due protagoniste e che finisce col costruire un grande affresco d’intrighi, complotti, società segrete e misteri governativi racchiuso nel microcosmo di una piccola cittadina americana. Come molti suoi corrispettivi cinematografici (e non), quel che Virginia lascia al giocatore è un senso di stordimento e disorientamento di fronte a una storia dal forte impatto visivo (e visionario) e non pochi quesiti aperti. Il titolo si affida a una potenza di immagini basata su simboli, icone e simulacri i cui significati sottesi si dipanano tra salti temporali e narrativi, diacronie, flashback che aprono uno squarcio sul passato dei personaggi principali e flashforward che prefigurano scenari futuri probabilmente irrealizzati fino all’apoteosi lisergica della sequenza finale. Come nel Doppio Sogno di Schnitzler, il dualismo fra realtà e immaginazione lascia il giocatore nell’incapacità di distinguere il vero dal falso, quel che Anne ha realmente vissuto e quel che invece è frutto di sogni e visioni; se questo non è un difetto in sé, lo è però il suo contenuto, quel piano surreale del titolo che da un lato conferisce a Virginia una gran forza immaginifica ma, dall’altro, finisce col risultare troppo carico, talvolta ridondante, spesso frammentario, penalizzando una trama i cui risvolti si perdono in un insieme astratto e indefinito.
Il lavoro di Jonathan Burroughs e soci rappresenta comunque un pregevole unicum in ambito videoludico, strizzando l’occhio ai grandi maestri del cinema surreale sul piano icastico e, per scelte formali, ai noir più visionari di metà ‘900, da The Third Man di Carol Reed a Laura di Otto Preminger, con i quali ha in comune le atmosfere rarefatte e una doppia articolazione narrativa in cui tutti i personaggi, gli oggetti, i simboli assurgono a simulacri guidati da una voce senza corpo.
Titolo difficilmente incasellabile in ambito videoludico (a meno che non ci si voglia fermare spregiativamente e semplicisticamente a una definizione di “walking simulator” che non tiene conto di contenuti e forme), Virginia è una detective story che non presenta enigmi o elementi di difficoltà per il giocatore, il quale non dovrà far altro che immergersi in una narrazione di genere dai risvolti metafisici e psicologici che, pur non risultando priva di difetti, indurrà i più curiosi a rivivere una seconda volta le circa 3 ore di gameplay per vedere la storia da un’altra angolazione, nella speranza di decifrare, nel marasma di simboli sfuggiti a un primo sguardo, la chiave spezzata atta ad aprire la cassetta dei significati nascosti dell’opera.




Samurai Warriors: Spirit of Sanada

Sebbene sembri, a un primo sguardo, il solito musou che Koei Tecmo Omega Force ci propinano da circa 20 anni, Samurai Warriors: Spirit of Sanada offre delle chicche che, a suo modo, lo rendono unico.
Il gioco in questione è uno spinoff della serie Samurai Warriors, che a sua volta è uno spin-off della serie Dinasty Warriors (Shin Sangoku Musou in Giappone, da quì ha origine appunto la parola che ne identifica il genere di appartenenza).

Storia

La storia è incentrata sulla vita di Masayuki Sanada, e ne percorre le varie fasi fino alla morte, per poi incentrarsi sulla vita del più famoso figlio Yukimura; verremo a conoscere quindi il loro punto di vista nella guerra per il dominio del Giappone dell’epoca Sengoku, oltre a molte personalità del periodo che potremo utilizzare come alleati, o che saranno nostri nemici nelle battaglie secondarie (in tutto ci sono 61 personaggi giocabili). Di ogni personaggio potremo leggere una scheda dettagliata che ci racconterà la loro storia, e peccato che nel gioco non sia disponibile la lingua italiana, perché una simile mole di testo in sola inglese può rappresentare un vero problema per chi non ha dimestichezza con la lingua.

Gameplay

Le novità principali rispetto agli altri musou consistono nell’esplorazione di villaggi o città e nei mini giochi all’interno di esse: si può pescare, coltivare, visitare il dojo per imparare nuove tecniche, prendere il tè con un alleato per rafforzare il legame, visitare l’archivio per rivivere eventi passati, visitare il fabbro per aumentare la potenza delle armi e, infine, visitare vari negozi.
Un’altra importante novità è rappresentata dai cosiddetti “six coins (che raffigurano il simbolo del clan Sanada): parlando con gli alleati a volte guadagneremo dei punti che riempiranno le sei monete, ognuna delle quali rappresenta uno stratagemma da usare in battaglia, il quale ci faciliterà la missione che stiamo affrontando, a volte curando le nostre ferite o quelle degli alleati, a volte dandoci un bonus alla velocità, e via dicendo.
Il combat system invece è quello a cui siamo abituati da sempre, che si incentra più sulla spettacolarità che sulla tecnica vera e propria: sebbene sia possibile imparare tantissime tecniche, si può completare il gioco facendo sempre le stesse combinazioni di mosse, il che può risultare alla lunga monotono per chi è nuovo al genere o non lo ama.

Grafica e Sonoro

L’aspetto tecnico del gioco non è dei migliori: la modellazione dei personaggi è discreta, mentre tutto il resto è piatto e con una densità poligonale bassa, le textures sono spesso in bassa risoluzione, insomma, se non fosse per la presenza di centinaia di nemici presenti contemporaneamente, per il frame rate solido e per la spettacolarità degli scontri, ci troveremmo ampiamente sotto la sufficienza.
Il gioco è disponibile su PC e Ps4 e gira a 1080p su PS4 e 4k nativi (uno dei pochissimi giochi a supportarli) su PS4 pro.
Per quanto riguarda il sonoro: è stato fatto un discreto lavoro sulle musiche, epiche al punto giusto ma nulla di trascendentale.
I dialoghi sono di buona fattura e ben recitati, anche se disponibili solamente nella lingua giapponese, e gli effetti sonori durante le battaglie sono quelli classici, fra suoni di mischia, cavalli e sferragliare di armi e armature.

Conclusioni

Samurai warriors: Spirit of Sanada è un gioco ricchissimo di contenuti ed è caldamente consigliato a chiunque sia appassionato di storia giapponese e ami il genere musou (e conosca la lingua inglese); la storia principale ci terrà impegnati per una ventina di ore ma, se si vuole completarlo al 100%, ce ne vorranno almeno il doppio.
Se non si ama il genere invece conviene starne alla larga, le novità che apporta il titolo in questione non sono abbastanza a renderlo appetibile a un pubblico più eterogeneo.




Gravity Rush 2

Il mio primo giorno di lavoro estivo: al ristorante, addetto alla sala. Era l’estate del 2007, un’isola nel bel mezzo del Mar Mediterraneo, caldo asfissiante e un pizzico di tregua nemmeno dopo il tramonto. Avevo sostituito il ragazzo che adesso lavorava come barman nel locale situato un numero civico più avanti, coi tavoli piazzati proprio sullo stesso marciapiede in cui erano sistemati i nostri. A fine serata un cliente, un signore distinto dagli occhi a mandorla, turista straniero ovviamente, habitué col senno di poi, mi fa un cenno chiedendomi il conto. Arrivato al tavolo, mi guarda e, molto lentamente, con un marcato e inconfondibile accento giapponese à la Haruhiko Yamanouchi mi fa: «Sapete qual è il problema di voi italiani?». Sorrido imbarazzato e aspetto che continui, sperando in cuor mio di non aver commesso errori, durante il servizio, che potrebbero averlo infastidito e che potrebbero mettere a repentaglio il lavoro appena trovato,  «In Giappone,» prosegue «lavoriamo ogni giorno per migliorarci in ciò che sappiamo fare»; lì per lì non riesco a capire a cosa esattamente si riferisca e mi si dipinge sul volto quell’espressione tipica di attonimento di chi vorrebbe replicare ma non ha ancora colto il senso e però rimane a bocca aperta, in silenzio. Lui, voltandosi per la proverbiale, impercettibile frazione di secondo, posa lo sguardo sul ragazzo che sta lavorando al bancone del locale accanto al nostro ristorante, quel ragazzo di cui io oggi sono il sostituto; poi si rivolge nuovamente a me e continua: «Voi italiani, invece, non vedete l’ora di fare qualcosa di nuovo ogni giorno. Oggi siete qui, domani vi trovate lì.»

Japan Studio, Project Siren, Keiichiro Toyama e il suo Team Gravity: è il 2012 e Gravity Daze (questo il titolo originale), partito come progetto PS3 fa invece la sua apparizione come esclusiva su PS Vita, la console portatile di Sony. Nel giro di pochissimi mesi ne diventa vox populi la killer-app, per quanto il titolo rimanga poco conosciuto in Occidente, viste le scarse vendite della console.
Il gioco, un action adventure in cel-shading che sfrutta appieno le potenzialità del dispositivo, ci introduce a un mondo fantastico e fluttuante nel quale la protagonista – la bella, ingenua e smemorata Kat – si ritrova a girovagare alla ricerca dei propri ricordi in compagnia di un misterioso gatto che, a quanto pare, è causa del potere che le permette di manipolare la gravità e di aiutare i bizzarri cittadini di Hekseville, minacciati da tempeste gravitazionali e sinistre creature, fino a diventarne la beniamina.
Devo dire la verità: prima di cominciare a giocare questo secondo capitolo ho deciso deliberatamente di non provare la remastered per PS4 a cura di Bluepoint Games, ho preferito invece rispolverare PS Vita per rinfrescarmi un po’ la memoria come si deve. A distanza di cinque anni, Gravity Rush rimane un gioco di tutto rispetto, così come la console che lo ospita, che nel tempo è stata – da me – messa da parte in favore dell’handheld di Nintendo (quando si dice che sono i giochi a fare la fortuna di una console e non la tecnologia hardware, come invece in molti sostengono di questi tempi), un titolo, dicevo, ancora in grado di divertire, un gioco che trova la sua giusta dimensione su quella console portatile.

In questo secondo episodio, la storia riprende esattamente da dove si era interrotta, con una Kat catapultata in un nuovo scenario, attorniata da nuovi personaggi e priva dei propri poteri: il pretesto giusto insomma per poter reintrodurre le meccaniche di gioco, a beneficio di chi si approccia per la prima volta alla saga, e nuovi comandi sul controller della Playstation 4 per chi invece, come me, proviene da un’esperienza su portatile.
Ed è proprio qui che nascono le prime perplessità: i comandi sembrano essere peggiorati rispetto al predecessore, se non fosse che effettivamente è possibile regolare/disabilitare alcune funzioni assegnate al controller, si direbbe comunque che non è stato fatto alcun passo avanti in tal senso. Man mano che Kat va riacquisendo poteri e abilità durante il primo e il secondo capitolo della storia ci si rende conto di quanto possa diventare sempre più frustrante – specie poi nelle fasi avanzate di gioco – gestire i movimenti a mezz’aria della protagonista, che di libertà ne ha veramente tanta visti i poteri di cui dispone. Complice di tale, annunciato disastro è una telecamera anch’essa per nulla migliorata rispetto al primo episodio, che ci darà del filo da torcere durante le 20 ore abbondanti in cui si svolge la parte principale della storia. La narrazione, a causa di alcune ingenuità in fase di scrittura, come ad esempio il dar per scontato molti degli eventi accaduti in Gravity Rush o durante i quasi venti minuti dell’anime Ouverture – pubblicato gratuitamente sul canale Youtube di Playstation un mese prima del lancio, doppiato nello stesso idioma di fantasia che caratterizza i dialoghi del gioco e sottotitolato anche in lingua italiana – non tende certo all’eccellenza e, pur ribadendo i buoni spunti che caratterizzavano il primo episodio, li riduce a una a tratti sbiadita imitazione.

Ma veniamo ai lati positivi: a partire dall’eccellente realizzazione artistica, ispirata tanto a Mœbius quanto a certe produzioni manga, continuando per le sublimi animazioni e la straordinaria colonna sonora, un framerate piuttosto stabile, una rosa di missioni secondarie, sfide, cacce al tesoro, un sistema di potenziamento delle abilità accompagnato dall’uso di speciali talismani che più in là nel gioco possono anche essere fusi fra loro per crearne di nuovi, aggiungendo così una buona dose di personalizzazione ai propri poteri, non dimenticandoci inoltre di una modalità foto migliorata, dell’implementazione delle gestures, dei costumi (quello di 2B direttamente da Nier: Automata su tutti), del DLC gratuito che espande la storia e ce la fa vivere dal punto di vista di Raven, dei sempre piacevoli dialoghi in stile fumetto in parallasse e di alcune memorabili bossfight, risulta evidente che gli aspetti di rilievo di questo titolo non sono certo pochi. Lodevole è anche lo sforzo fatto per rendere un po’ meno ripetitive alcune di queste attività, se si gioca con una connessione a internet attiva, dando la possibilità di poter sfidare e raccogliere sfide, giudicare scatti fotografici e a nostra volta venire giudicati dagli amici o da simpatici sconosciuti.

Jirō Ono è un arzillo vecchietto di 92 anni. Il suo piccolo ristorante conta meno di dieci posti a sedere e per poter gustare il suo menu 3 stelle Michelin bisogna prenotare mesi prima e avere in tasca almeno 300 dollari in contanti. Sin dall’età di 9 anni si sveglia ogni mattina con un solo proposito: migliorare il proprio sushi.
Ciò che accomuna il grande chef di Tokyo e i membri di Project Siren  oltre al non essere italiani – è la minuziosa dedizione al proprio lavoro. Probabilmente, offrendo a questi ultimi l’opportunità di migliorare quegli aspetti che non hanno del tutto convinto in Gravity Rush 2, sono certo che i prossimi capitoli potranno tendere naturalmente ad avvicinarsi di più a quell’idea di perfezione che ogni buon giapponese insegue.




Raphael Colantonio lascia Arkane Studios

Negli ultimi anni abbiamo imparato ad apprezzare Arkane Studios grazie alla qualità di suoi titoli quali Dishonored o il reboot di Prey.
È proprio notizia di poche ore fa che il suo fondatore, nonché presidente, Raphael Colantonio, ha deciso di lasciare l’azienda prendendosi un periodo (non specificato) di riposo.
Questo il suo comunicato pubblicato sul sito di Bethesda:

«Gli ultimi 18 anni sono stati un’avventura fantastica, dall’inizio di Arkane nel 1999 alla realizzazione del nostro primo titolo, Arx Fatalis, fino all’ingresso in ZeniMax Media nel 2010 e alla pubblicazione della serie di Dishonored e dell’acclamato Prey; è tempo per me di fare un passo indietro per avere più tempo da spendere con mio figlio e riflettere su cosa sia importante per il mio futuro. Ho avuto l’opportunità di lavorare con alcune delle persone migliori e più brillanti di questa industria, e mi sento estremamente fortunato ad essere stato parte di questo viaggio con tutti i membri di Arkane. Ho vissuto molti momenti magici. Ho anche attraversato momenti difficili. Ma posso dire che l’ingresso in ZeniMax ha portato le cose al livello successivo e ha dato ad Arkane l’opportunità di emergere come studio di prima classe. ZeniMax ci ha permesso di realizzare i migliori giochi che abbiamo mai creato. E so che ce ne saranno altri in arrivo.
Auguro il meglio a chiunque in Arkane, Bethesda e ZeniMax. Senza ombra di dubbio mi mancheranno tutti. Prima di chiudere vorrei ringraziare i fan di Arkane per la loro passione e per il supporto. Mi aggiungo a loro come più grande sostenitore di Arkane Studios e non vedo l’ora di giocare agli straordinari nuovo giochi su cui lo studio sta lavorando.»

Anche noi di Gamecompass ci teniamo ad augurargli buona fortuna e un sentito grazie per aver contribuito a creare alcuni dei migliori titoli degli ultimi anni.




Transformers: finché tutti sono uno

Transformers, chi non li conosce? Dopo tanti giochi deludenti, High Moon Studios è riuscita a portarci su Cybertron, terra natia dei robottoni, in storie ben più drammatiche di quanto siamo stati abituati a vedere. In questo articolo faremo il punto su Transformers: War for Cybertron, Transformers: Fall of Cybertron e il meno riuscito – come vedremo in seguito – Transformers: rise of the Dark Spark.
Creati nel lontano 1984 da Hasbro, i Transformers sono entrati nell’immaginario collettivo, apparendo dappertutto e ritornati di moda negli ultimi anni con i film di Michael Bay e i videogiochi; proprio in concomitanza con il quinto lungometraggio, Transformers: l’ultimo cavaliere, abbiamo deciso di rispolverare una trilogia videoludica che, a dir la verità, in pochi conoscono ma che merita senza dubbio di essere giocata.

L’inizio della fine

Cominciamo dal 2010 quando su Playstation 3, Xbox 360 e PC venne rilasciato Transformers: war for Cybertron, capitolo creato in collaborazione con Hasbro, da High Moon Studios, facenti parte di Activision.
Il gioco ha la funzione di prequel per tutta la saga che abbiamo visto in questi anni, con le vicende  incentrate sul pianeta natale dei Transformers: Cybertron. Questo pianeta è devastato da una guerra civile in piena regola tra i pacifici Autobot e i sostenitori di una pace attraverso la tirannia, i Decepticon, con la campagna single player suddivisa in due parti: la prima dedicata agli antagonisti e la seconda, con eventi cronologicamente successivi a questa, agli Autobot.
Il gioco inizia proprio con Megatron, leader dei Decepticon, che guida un assalto a una stazione orbitale sotto il comando di Starscream, il Comandante Supremo dei cieli. L’intento è quello di riuscire prendere possesso dell’Energon Oscuro, una misteriosa sostanza, molto potente ma estremamente instabile; vedendo Megatron riuscire a dominare il pericoloso carburante, Starscream decide di unirsi alla sua causa.

IL RESTO DELLA TRAMA – SPOILER

Dopo aver riattivato il Ponte di Energon, e rifornito così la stazione spaziale, Megatron, si dirige verso la capitale degli Autobot, Iacon, per sconfiggere Zeta Prime, il leader di quest’ultimi, per ottenere la Chiave Omega allo scopo di aprire l’unica strada di accesso verso il nucleo di Cybertron; sconfitto Zeta Prime e ottenuto la chiave, Megatron corrompe il nucleo del pianeta con l’Energon Oscuro, danneggiandolo irrimediabilmente. Con Iacon ormai quasi caduta, il corriere Bumblebee va in cerca di un soldato chiamato Optimus per comunicare la sconfitta di Zeta Prime. Egli dovrà assumere il comando temporaneo degli Autobot ma quando da Kaon, la capitale dei Decepticon, arriva un messaggio da Zeta la missione primaria diventa il suo salvataggio e, attraverso questo, salvare Cybertron.

[riduci]

TRAMA – SECONDA PARTE

Scopriamo che il ruolo di guida di Optimus è ereditario, essendo appartenente alla linea dei Prime, ma nonostante ciò egli ha sempre rifiutato di accettare il peso di questa responsabilità. Ma i tempi sono bui e occorre con urgenza un nuovo leader, leadership alla quale non può più sottrarsi. Dopo una lunga battaglia Optimus Prime riesce ad arrivare alla sezione interna del nucleo, dove la coscienza senziente del pianeta lo avverte che la corruzione è ormai troppo diffusa: per invertire l’effetto l’intero pianeta dovrà entrare in stasi e durante quel periodo non potrà sostenere la vita. Proprio in questo momento comincia a delinearsi la strada che porterà alla storia che conosciamo e proprio Optimus sarà costretto ad ordinare l’evacuazione dei civili su scala planetaria. Megatron però la pensa diversamente cominciando a far fuoco sugli Autobot e impedirgli quindi di scappare. Dopo una dura battaglia contro Trypticon, il super robot nemico, il tutto si conclude con costruzione dell’Arca, una gigantesca nave spaziale che porterà gli Autobot lontano da Cybertron quando il pianeta sarà completamente in letargo.

[riduci]

Transformers: la battaglia per Cybertron si presenta come uno sparatutto in terza persona frenetico e molto caciarone, con sistema di coperture attivo assente ma con dei potenti colpi melee (corpo a corpo). Questo gameplay si basa molto sull’abilita di riflessi e voglia di uccidere dell’utente che può sfruttare la scarsa intelligenza artificiale per sfogarsi contro tutto ciò che abbia un microchip.
Oltre al personaggio di cui prenderemo il controllo, vi saranno due compagni a seguito che si muoveranno autonomamente, la maggior parte delle volte verso il fuoco nemico; una buona variazione del gameplay arriva ovviamente dalle trasformazioni che spaziano da veicoli su ruote ad aerei, trasformazioni che sono sempre in tempo reale e che regalano delle belle soddisfazioni.
Graficamente il gioco si presenta con alti e bassi: la modellazione, cosi come il design dei Transformers e Cybertron sono ottime, ma questo IN è controbilanciato dal pesante OUT delle texture, sporche e a bassa definizione, che rovinano ciò che vediamo su schermo, soprattutto nelle cutscene. Buone le animazioni, soprattutto durante le trasformazioni, come anche gli effetti speciali, anche se – c’è da dire – che probabilmente  si poteva fare più. Il gioco è completamente localizzato in italiano, con un buon doppiaggio, abbastanza espressivo, e ottimi effetti sonori, mentre le soundtrack lasciano un po’ il tempo che trovano. Vi è anche una modalità online sia competitiva che cooperativa, quest’ultima presente anche nella campagna principale. Fa il suo esordio la modalità “Escalation“, una sorta di orda stile Gears of War, e per il competitivo un sistema di classi da sviluppare con molti potenziamenti da sbloccare.

 

War never changes

Il 2012 è il momento di Transformers: Fall of Cybertron. Qui tutto subisce un potentissimo boost, dalla trama al gameplay, passando per un lato artistico fuori scala.
Tutto ha inizio sull’Arca, la nave che gli Autobot pilotano lontano da Cybertron, in fase di costruzione nel finale del primo capitolo. Ma L’attacco dei Decepticon dà il via a una dura battaglia, durante la quale Bumblebee viene seriamente danneggiato facendo da scudo a Optimus durante lo scontro finale con Megatron.
Ma tutto ha in realtà ha inizio sei giorni terrestri prima, dove il leader degli Autobot sta supervisionando le operazioni di rifornimento dell’Arca ma, improvvisamente, i Decepticon attaccano Iacon; durante la battaglia il Prime nota che la città sembra favorire i suoi movimenti e ostacolare quelli dei Decepticon quando, a un certo punto, viene guidato verso una stanza nascosta dove una leva, una volta tirata, innesca la trasformazione della città nel titanico Autobot Metroplex.

TRAMA – PARTE PRIMA

Grazie a quest’ultimo la nave è salva ma Optimus purtroppo viene catturato e portato al cospetto di Megatron; proprio Metroplex, salverà l’Autobot schiacciando e distruggendo il Dittatore Decepticon. Starscream coglie al volo l’occasione per prendere il tanto agognato comando mentre si scopre che la trasformazione di Metroplex in robot, ha consumato gran parte dell’Energon destinato all’Arca; bisogna quindi trovarne altro. Durante il corso della storia veniamo a scoprire elementi di lore molto interessanti per gli amanti della saga: ad esempio Shockwave, lo scienziato dei Decepticon, scopre che gli Antichi avevano ideato un congegno detto Ponte Spaziale in grado di aprire buchi spazio-temporali e saltare da una posizione all’altra dell’Universo, entrando a conoscenza della Terra durante il periodo in cui i dinosauri la regnavano.

[riduci]

TRAMA – PARTE SECONDA

Nel frattempo a Kaon, Soundwave, che di nascosto aveva portato i resti di Megatron al suo laboratorio, lo riattiva e, come prima cosa, reclama il comando da Starscream che si darà alla fuga. Intanto, al sito di lancio dell’Arca, Ratchet si accorge che il buco creato dal Ponte Spaziale, precedentemente attivato, non è più stabile e potrebbe collassare da un momento all’altro. Senza Energon gli Autobot sono bloccati ma, Metroplex, vedendo l’incombente urgenza, decide di offrire volontariamente l’energia della sua stessa scintilla vitale nonostante Optimus lo preghi di rinunciare. Gli Autobot corrono quindi alla nave senza perder tempo e, una volta in orbita, si ritorna dove tutto ebbe inizio: l’Arca viene raggiunta dalla Nemesis, la nave Decepticon, facendo partire le ostilità. Nell’ultima parte di gioco, dal sapore epico, utilizzeremo i robot più famosi di entrambi gli schieramenti fino a quando torniamo a Bumblebee, che come abbiamo visto all’inizio, si intromette nel duello fra Optimus Prime e Megatron restando gravemente ferito. Optimus finalmente realizza che non c’è davvero posto per lui e per il suo rivale nello stesso Universo e i due leader si affronteranno con spada e scudo finché uno dei due prevale, ma a quel punto le due navi hanno raggiunto il buco spazio-temporale che si sta chiudendo, venendo entrambe risucchiate al suo interno.

[riduci]

Tante migliorie apportate, come detto all’inizio, a cominciare dalla trama sicuramente più coinvolgente e ricca di colpi di scena. Piccole novità per il gameplay, che resta sì simile al precedente capitolo ma con affinamenti, come il trasporto di due armi alla volta, di cui una standard e una pesante e tutte acquistabili e potenziabili attraverso il Teletran, una sorta un Amazon in tempo reale dove acquistare hack di vario tipo e gadget come torrette automatiche e scudi. Controllo dei veicoli ulteriormente migliorato e campagna che non si svolge più in gruppi di tre ma da soli, avendo quindi ogni ambientazione sviluppata appositamente per le caratteristiche distintive del nostro robot. Non mancano quindi sezioni stealh e sezioni platform oltre al caciarone far fuoco contro avversari di metallo, il tutto sotto l’insegna della varietà. Torna anche l’online con il multiplayer suddiviso in quattro classi, con Transformers personalizzabili, la modalità “Escalation”, portando la longevità del titolo su ottimi livelli.
Tecnicamente sono stati fatti passi avanti nella modellazione, con modelli dei protagonisti ottimi anche dal punto di vista del design, con molti particolari in continuo movimento e dettagli che ogni amante dei robottoni non può far altro che apprezzare. Animazioni eccellenti in tutte le situazioni, dai movimenti fino alle trasformazioni, il tutto arricchito da moltissimi effetti particellari e comparto luci gradevole. Rimane purtroppo il problema delle texture, a bassa risoluzione e con eccessivo pop-up. Questa volta il gioco non è doppiato in italiano ma si presenta con un ottimo doppiaggio inglese e sottotitoli mentre le musiche diventano uno dei punti forti del titolo.
Nota di merito ai tanti easter egg disseminati qua e là per tutta la campagna che ci fanno capire quanto questo gioco sia stato creato da appassionati per appassionati, facendo di Fall of Cybertron sicuramente il miglior titolo della saga.

 

Il Tracollo

Si giunge infine nel 2014 dove si cambia studios, non più High Moon ma Edge of Reality, in un capitolo che definire un grossa delusione è estremamente riduttivo. Per la prima volta la saga dei Transformers approda anche sulla nuova generazione di console, Playstation 4 e Xbox One, ma davvero in pochi notarono la differenza. Transformers: Rise of the Dark Spark si presenta come un cross-over tra i due capitoli precedenti e il nuovo film di Michael Bay uscito quasi in contemporanea: Transformers: l’era dell’estinzione.

Proprio la trama comincia dove finisce il film, sulla Terra, con Optimus che cerca di recuperare la Spark Oscura, la nemesi della Matrice del Comando dei Prime; dove la Matrice regala saggezza, in modo ma mantenere il comando degli autobot, la Dark Spark dona il potere di controllare le leggi fisiche che dominano l’Universo.
Dopo quest’incipit terrestre si passa a Cybertron, un po’ di tempo prima degli eventi narrati in Fall of Cybertron.

TRAMA – SPOILER

I Decepticon sono alla ricerca della Spark Oscura per ordine di Megatron, credendo che possa far pendere l’ago di questa guerra, ormai logorante, dalla sua parte. Una volta acquisita però, Megatron, viene sconfitto da Optimus con la Spark persa nei meandri dello spazio. Di nuovo sul nostro pianeta, la Dark Spark finisce nelle mani di Lockdown, antagonista protagonista della pellicola, ma anche qui – come potete immaginare – verrà sconfitto dal nostro Prime preferito.

[riduci]

Descrivendo questo titolo la prima cosa che salta all’occhio è il comparto tecnico. Nonostante sia un gioco creato per le nuove generazione di console si presenta con quanto di peggio si possa vedere: texture a bassissima risoluzione e particellari ridicoli.
Il gameplay risulta privo di novità e basato su quanto di buono fatto da High Moon Studios con Fall of Cybertron. L’unica introduzione è lo sblocco delle armi, perk e potenziamenti attraverso la risoluzione di varie quest secondarie presenti in ogni missione. È un titolo deludente sotto tutti i punti di vista dove anche la sceneggiatura soffre di una scrittura caotica e davvero difficile da seguire. Davvero un peccato.
Nonostante ciò, i primi due capitoli vanno senza dubbio recuperati essendo non solo ottimi esponenti degli TPS ma anche racconti memorabili sui più famosi robottoni al mondo, dagli albori, il tutto arricchito da un ottimo gameplay e tante chicche che gli appassionatati non possono far altro che apprezzare. Rise of the Dark Spark rappresenta invece il male; è quello che un videogioco non dovrebbe essere, pessimo sotto tutti i punti di vista e creato solo per sfruttare l’uscita di un film che può essere considerato addirittura peggio.
Personalmente non so come finirà lo scontro tra Optimus Prime e Megatron ma so di certo che continueranno a farci divertire come quando li guardavamo in tv da piccoli, continuando a tifare per uno o per l’altro schieramento.