Analizzando case study riguardanti grandi aziende come Amazon salterà subito all’occhio anche ai meno esperti di pianificazione strategica come uno dei fattori di successo del colosso di Bezos sia la “customer experience”. Locuzioni quali “customer care” o “focus on the customer” lasciano bene intendere quanto l’attenzione, la tutela e il supporto del cliente siano considerati condizioni essenziali per mantenere certe aziende ai vertici del mercato. Questa “customer obsession” — come la chiamano dalle parti di Seattle — ha portato il re dell’e-commerce occidentale a più di 76 milioni di account registrati, a quasi 1 milione e mezzo di venditori attivi nel proprio marketplace e a un fatturato annuo che si aggira attorno ai 60 miliardi di dollari. Se si considera che l’ACSI (American Customer Satisfaction Index, che misura il grado di soddisfazione dei clienti di un’azienda negli Stati Uniti) ha rilevato nei confronti di Amazon il livello di gradimento più alto di sempre, certi numeri di mercato in continua crescita non possono stupire.
Come insegna la teoria economica di base, i comportamenti efficienti di alcune aziende influenzano i competitor, ma Amazon ha determinato un “culture change” anche al di fuori del proprio mercato, inducendo molti produttori e fornitori di servizi a un aumento del grado di attenzione verso il cliente, e alzando al contempo le aspettative di protezione da parte dei consumatori, i quali in certi casi possono permettersi di riporre, in termini di tutela dei propri acquisti, una fiducia tale da non temere conseguenze negative e tentare l’acquisto anche in presenza di probabili truffe online ai propri danni − seguendo il semplice principio del “tentar non nuoce” − nelle quali, senza servizi come Paypal, avrebbero perso irrimediabilmente il proprio denaro.
L’assistenza al cliente, che si traduce soprattutto in una garanzia di transazioni sicure e in un efficace e pronto rimedio ai problemi conseguenti all’acquisto, è un parametro non da poco nell’orientamento della scelta di un consumatore. Perché, come i veri amici, anche l’affidabilità di un’azienda si vede nel momento del bisogno.
Per questo chiunque abbia avuto la sventura di perdere o di vedersi sottratto un prodotto Apple, ha provato un sollievo non da poco nel poter andare sul proprio iCloud e bloccarlo in remoto, e questo è uno dei fattori che hanno contribuito − numeri alla mano − a livelli altissimi di customer satisfaction e di customer loyalty in favore dell’azienda di Cupertino.
Lo stesso sollievo che ho provato io qualche mese fa quando, appena subito un furto, ho avuto la possibilità di bloccare in remoto e in totale autonomia il mio MacBook Air e un vecchio iPhone 4S direttamente dalla sala d’attesa della stazione di Polizia. Possibilità non prevista per la PS4 Pro che figurava tra la merce rubata: in quel caso mi sono limitato a cambiare la password dal mio account PSN e a disconnettere il dispositivo a esso collegato. Non sono un tipo che demorde però e, facendo ulteriori ricerche, leggo su vari thread del forum Playstation che sarebbe possibile richiedere blocco e localizzazione della console al centro assistenza Sony: mi pare una scelta giusta e sensata e decido dunque di aspettare l’indomani per chiamare l’Assistenza Clienti.
Il mattino seguente alla denuncia (che ho sporto in tarda serata) chiamo e chiedo di bloccare la mia PS4 (della quale nel frattempo avevo recuperato i numeri seriali sulla scatola); la signorina del call center mi spiega (piuttosto sgarbatamente) che è necessario che la polizia chiami l’assistenza Sony, alla quale loro stessi avrebbero indicato un numero di telefono ad hoc con un team dedicato a queste situazioni. Resto un attimo basito. Riprendo fiato e domando: «Quindi deve contattarvi telefonicamente la polizia? Ne è sicura?». Lei si dice sicurissima, «è la prassi».
Mi pare assurda la sola idea che la polizia debba alzare il telefono per chiamare l’assistenza Clienti Sony, ma non mi vengono date alternative e non mi resta che provare. Torno in Questura con i seriali della console, sporgo una denuncia integrativa e spiego all’agente quel che mi è stato detto dall’assistenza. Lui mi guarda come se gli avessi appena riferito di aver visto un’orda di Coboldi in piazza Duomo o l’Enterprise sopra lo stadio di San Siro, e mi dice di non aver mai sentito nulla di simile. Gli rispondo che lo so, che pare assurdo anche a me, ma è quel che mi hanno detto e gli chiedo la cortesia di provarci, perché non mi hanno dato alternative. L’agente una persona gentile, si rende disponibile a parlare con chicchessia e mi domanda di chiamare io stesso l’assistenza e passargli l’operatore. Dentro me penso sarebbe meglio una chiamata dalla sede della Questura, cosicché Sony possa magari verificare che sia effettivamente la polizia a chiamare, ma faccio come mi dice lui, al limite ce lo diranno loro e rifaremo la chiamata, penso ancora.
Risponde un’altra signorina: spiego anche a lei la situazione e mi dice di attendere un attimo in linea, per informarsi riguardo la procedura della quale non è a conoscenza.
Dopo circa un minuto di attesa, la stessa signorina mi dice di essersi informata, la procedura è chiarissima: la polizia deve inviare una PEC (!!!) con copia della denuncia e una richiesta di blocco della console alla mail assistenza@playstation.it (alla linea telefonica ad hoc e del team dedicato che immaginavo già come una sorta di intelligence nascosta negli scantinati della sede di Sony, con tanto di Fox Mulder a scartabellare fra cataste di vecchie PSX e EyeToy impolverati, nessun riferimento). Resto un attimo zitto, dentro me sono ancora più basito (F4! F4! F4!): riferisco tutto all’agente che attende paziente di fronte a me. Questi giustamente strabuzza gli occhi, mi guarda con gli occhi che deve aver avuto il generale Zieten quando gli dissero che l’Austria aveva dichiarato guerra alla Prussia: mi dice di passargli la signorina, alla quale chiede conto della situazione.
La ragazza deve avergli ripetuto quanto mi aveva già detto e lui prova a spiegarle che la Polizia è autorizzata a fare uso della propria PEC soltanto per rapporti con enti pubblici e amministrazioni, che gli agenti non possono utilizzarla ad libitum, che per una richiesta di blocco di una console non hanno mai avuto istruzioni specifiche (“e ci mancherebbe”, penso io, e pare pensarlo anche lui). Aggiunge con logica elementare che comunque la denuncia è un atto pubblico, protocollato, che rilasciato al denunciante fa fede per sé, che anche nei casi di furto d’auto il denunciante per prassi porta il documento autonomamente alla compagnia assicurativa senza che questa abbia bisogno di un riscontro ufficiale dal corpo di polizia. La signorina spiega che questa è la procedura e che lei non può farci nulla.
L’agente chiude la telefonata e mi guarda sbigottito: condivido il suo stupore, mi dice che per lui è una situazione senza precedenti. Concordo, ovviamente, e aggiungo che in questa maniera un’azienda crea un danno al proprio utente, rendendogli seriamente difficile la procedura, nonostante tutta la buona volontà. L’agente è comunque una persona paziente e disponibile, mi dice che ne parlerà al suo superiore per sapere se è possibile inviare una simile PEC, e mi invita a chiamare il mattino seguente. Lo ringrazio e vado via.
L’indomani chiamo la Questura a metà mattinata e chiedo di parlare con l’agente che aveva redatto il mio verbale: me lo passano, lui mi dice di trovarsi con l’ispettore, al quale aveva esposto il mio caso. Mi passa l’ispettore, il quale mi dice di non aver mai sentito di una situazione simile: mi spiega che loro non possono assolutamente avanzare una richiesta di blocco di una console a un’azienda privata, perché le loro procedure in tal senso sono abbastanza rigide e la PEC risulterebbe ingiustificata, al di fuori delle loro mansioni, a meno che il privato in questione non dimostri loro che il Ministero dell’Interno, in virtù di un accordo con Sony, autorizza la polizia a mettere in atto una simile procedura. «Altrimenti quanto richiedono resta un loro regolamento interno, che hanno stabilito in completa autonomia senza porsi il problema della fattibilità», mi dice.
Conclude dicendomi in ogni caso di provare a inviare autonomamente la mail con la mia PEC personale − per noi iscritti all’ordine dei giornalisti è obbligatoria, per fortuna − di allegare le denunce e di invitarli a contattare la Polizia loro stessi per un riscontro, se non gli bastasse un atto ufficiale: di fronte a una richiesta di Sony, avrebbero tranquillamente potuto dar conferma della veridicità della denuncia, ma agire in autonomia no, una telefonata erano pure disposti a farla in mia presenza, ma la PEC è un mezzo ufficiale, avrebbero dovuto giustificarne l’uso, e una richiesta di blocco non ha nemmeno finalità d’indagine.
Mi lancio in un ultimo tentativo, un’ultima chiamata a Sony: questa volta mi risponde un ragazzo a cui riassumo l’intera vicenda. Lui mi ascolta ma non sa che dirmi. È quasi mortificato per la situazione, mi dice di non poter farci nulla, e mi offre la possibilità di inserire la 2-step verification («Già fatto», dico) o di disattivare la PS4 principale: «Già fatto anche questo», dico. Sta zitto un attimo e mi risponde che, oltre questo, lui non ha altre possibilità, e la sua voce è davvero dispiaciuta. Mi lascio andare in uno sfogo estemporaneo contro Sony, sottolineando come in questo modo l’azienda rende impossibile la procedura, arrecando di fatto un danno all’utente e permettendo al contempo il traffico di console rubate: la mia PS4 dovrà prima o poi essere connessa a internet dal prossimo che vorrà utilizzarla, Sony ha la possibilità di tracciarla e bloccarla. Non prendendo alcuna contromisura, nessuno può avere alcun deterrente a comprarla rubata piuttosto che in un negozio. Lui ascolta, poi farfuglia qualcosa ribadendo quel che lui poteva fare per aiutarmi: capisco bene che non può parlar male dell’azienda per la quale lavora, specie durante una chiamata registrata, e gli dico che lo so, quasi mi scuso per lo sfogo, gli preciso di non avercela con lui che sta solo facendo il suo lavoro, ma che è la persona più vicina a Sony che mi ritrovo al momento, che sono reduce da un’esperienza che comunque non è stata piacevole per me e che da due giorni provo a bloccare la mia console a distanza (non ne avrò alcun vantaggio, ok, ma mi consola in parte il pensiero di rendere ai ladri le cose meno facili). Spero possa far presenti le mie lamentele e il disagio arrecatomi (cosa di cui dubito), lo ringrazio e chiudo.
Ho inviato le denunce e la richiesta di blocco via PEC, ma non ho avuto alcun riscontro, neanche negativo: Sony in questo caso ha non solo arrecato disagio a un utente, impendendogli di bloccare una console che ha regolarmente acquistato e mettendola nella disponibilità di un terzo che usufruirà del suo sistema, ma ha danneggiato in qualche modo se stessa, favorendo un mercato nero che non trova deterrenti né timori sul piano delle conseguenze (mentre, a quanto mi dicevano in Polizia, di prodotti Apple grazie ai servizi disponibili via iCloud se ne ritrovano non pochi).
Una delle distorsioni più grosse del mondo videoludico odierno, sostengo da tempo, sono i giochi in esclusiva, perché è su quello che si gioca la partita fra i pochi grandi operatori presenti sul mercato: la scarsa concorrenza in un mercato che vedo solo tre produttori di console, di cui uno (Nintendo) pare giocare una partita trasversale e un’altro che ha fatto numerosi errori in questa generazione, portano a grandi inefficienze in termini di servizi, e fra queste probabilmente anche quella di cui ho raccontato, portando Sony a non sentire un’adeguata assistenza al cliente come necessaria. Gli utenti PS4 se li è già accaparrati grazie ad altre mosse, di cui le esclusive costituiscono un tassello importante, e forse non conta molto altro. Ma Sony fa da anni suo il motto “For the players“, frase con la quale vuole chiaramente far passare il proprio impegno, la propria dedizione nei confronti dei propri utenti. Esempi di customer service come quello appena illustrato mostrano al contrario un ampio disinteresse nei confronti di problematiche degli utenti che vadano oltre la perdita dell’account: su quello sono molto solerti, ma è abbastanza? La risposta la darà al solito il mercato: come l’esperienza Amazon insegna, se un’azienda comincerà a dare di più in questi termini, l’ago della bilancia potrebbe sforzarsi a favore di chi tutela maggiormente l’utente, di chi, fra le aziende, si mostri davvero più “for the players”.