Life is Strange: Before The Storm – Episodio 3: L’Inferno è Vuoto – Si Ride, Si Scherza ma alla Fine si Piange

Purtroppo tutto ha una fine, soprattutto i viaggi che vorremmo durassero per sempre, come quelli vissuti assieme a Max, Chloe e Rachel. Siamo giunti dunque alla conclusione di questa trilogia prequel, in cui è centrale il rapporto tra la fedele amica di Max Caulfield e la quasi mitologica Rachel Amber. I primi due episodi hanno sviscerato la relazione tra le due, ma soprattutto hanno dato vita a una Rachel davvero carismatica, forse la vera protagonista di questa storia. Chi ha giocato il primo Life is Strange sapeva benissimo come sarebbe andata a finire, e proprio questo portava a una domanda anche nelle recensioni precedenti: può avere senso raccontare qualcosa che di cui si conosce già il finale?

The Chloe and Rachel show

L’Inferno è vuoto è il terzo episodio di Before the Storm ed è quello sicuramente più adrenalinico. Abbiamo imparato a conoscere il passato di Chloe Price e i suoi perché, ad amare un personaggio come Rachel Amber, ma anche il contorno presente ad Arcadia Bay. Tutti i nodi devono venire al pettine, ma Deck Nine è riuscita a sorprendere, incentrando l’intero episodio su una sola parola: fiducia.
Tutte le scelte fatte in precedenza avranno delle ripercussioni, anche se alcune di esse restituiscono la sensazione di esser fin troppo guidate, per cozzare il meno possibile con l’inizio del primo Life is Strange. Anche se i finali disponibili sono tre, infatti, questi differiscono solo per qualche dettaglio, ma risultano comunque tutti ben riusciti. Partendo proprio dal finale, possiamo trovare la scelta azzeccata di chiudere il tutto in dolcezza, con qualche vena malinconica, anche se la mazzata è proprio dietro l’angolo. La gestione del finale è proprio la ciliegina sulla torta, una “torta” i cui strati stanno nelle dinamiche instauratasi tra i personaggi, fra i quali spiccano ovviamente Chloe e Rachel, ma dove trovano spazio anche elementi tangenti alla narrazione principale.
Uno degli elementi più riusciti è senza dubbio la congiunzione di esperienze del giocatore e del personaggio: a un certo punto della storia, quello che accadrà alla protagonista sarà direttamente riferito a noi stessi e al nostro approccio alla narrazione. Questo è possibile grazie a un eccellente scrittura dei personaggi, in grado di apparire reali nonostante le scelte artistiche e alcune pecche tecniche. Ma, come per Life is Strange, Before the Storm è la perfetta amalgama di esperienze ed emozioni scaturite da avvenimenti così lontani eppure così familiari; Chloe, Rachel, Max, sono solo alter ego (“unisex”) delle nostre decisioni, scaturite da esperienze personali e uniche.

Casa Arcadia

Ma torniamo al punto focale, quella fiducia che ha anche un’altra faccia, ovvero quella del dubbio. Chloe e Rachel (sempre associata al fuoco) sono ormai intime, e l’avvenimento che ha scosso il finale de Il Mondo Nuovo viene sviscerato per tutto l’arco narrativo di questo conclusivo episodio, anche se alcuni elementi non convincono a pieno – ma ne riparliamo dopo.
A differenza di quanto visto finor,a sarà il silenzio o il suono della voce a traghettarci verso la conclusione, una scelta sapiente nonostante l’intero titolo si fregi di una bellissima colonna sonora. Ma non basta avere musiche d’eccezione, bisogna saperle usare, e Deck Nine ci riesce, azzeccando il momento esatto in cui l’uso di una nota o melodia può fare la differenza. La regia tocca il picco in una scena onirica che, ruotando ancora sul concetto di fiducia, riesce a dare quella sferzata decisiva alla crescita caratteriale di Chloe e a gettare le basi del personaggio conosciuto una volta presi i panni di Max nel primo titolo. Ma, come detto, qualcosa torna meno: alcune decisioni sembrano fin troppo forzate, e anche la caratterizzazione degli interpreti pare virare bruscamente in modo da incastrarsi perfettamente in un puzzle più grande.
Nella vita si sceglie una sola volta e Before the Storm riesce a veicolare questo messaggio meglio del suo predecessore, visto che qui le nostre azioni non possono essere cancellate con un’imposizione della mano.
L’inferno è vuoto non sarà comunque l’ultimo episodio: a breve uscirà un episodio bonus denominato Addio, incentrato su Chloe e Max. Questa aggiunta sarà l’ultimo saluto prima di lanciarci nel tanto atteso seguito di Life is Strange.

In conclusione

Può avere senso, dunque, raccontare qualcosa di cui si conosce già il finale? La risposta è assolutamente sì. Before the Storm riesce a entrare con prepotenza nel nostro immaginario, diventando parte essenziale del progetto Life is Strange. C’erano tantissimi modi di rovinare il tutto, il rischio di ottenere un prodotto senza né capo né coda, o piatto, era dietro l’angolo, ma fortunatamente tutto è andato per il verso giusto. Before the Storm ci ha regalato una Rachel Amber migliore di quanto potessimo immaginare, così ben studiata che perfino il solo entrare nella sua stanzetta suscita una certa emozione: una ragazza all’apparenza perfetta ma con un inferno dentro, tenuto a bada soltanto da Chloe. Solo adesso riusciamo a dare una forma e un significato più profondo all’urlo di dolore della ragazza dai capelli azzurri in LIS alla rivelazione della perdita della sua amata, e questo è uno dei tanti meriti di questo prequel.




Assassin’s Creed Origins

Dopo una pausa di due anni, Ubisoft ritorna col suo prodotto di punta, questa volta proponendo le origini dell’intera saga vissute attraverso gli occhi di Bayek di Siwa, medjay dell’antico Egitto del periodo tolemaico, per risalire alla nascita della Setta degli Assassini (chiamati Occulti in questo gioco).

La serie targata Ubisoft ha registrato negli anni degli alti e bassi, toccando l’apice con il secondo capitolo (del quale sono stati realizzati due sequel), per poi scendere in basso con il terzo (a parere di chi scrive deludente dal punto di vista della trama), e successivamente riprendersi con il quarto Black Flag (forte di una bella storia incentrata sui pirati e di un gameplay divertente), al quale però sono susseguiti un paio di titoli deludenti: Unity, azzoppato dagli eccessivi bug in fase di lancio e da un gameplay non all’altezza delle aspettative, e Syndicateche non apportava sostanziali migliorie al gioco precedente.

Assassin’s revenge

La storia di questo capitolo è tra le più interessanti dell’intera saga, almeno per quanto riguarda la parte giocata nell’antico Egitto: per chi non lo sapesse, la serie di Assassin’s Creed si è sempre distinta per una parte “moderna”, nella quale si controlla un personaggio (Desmond Miles nei primi tre capitoli) atto a utilizzare l’Animus (macchinario che permette di rivivere in prima persona i ricordi di vite passate) che a sua volta impersonerà un membro della Confraternita degli Assassini nella parte ambientata nel passato e che dovrà trovare degli oggetti potentissimi chiamati Frutti dell’Eden.
Nei primi due capitoli questo dualismo  si è rivelato a suo modo interessante, ma dopo il terzo (che pone fine della storia di Desmond) la modernità avrà un ruolo sempre più marginale e confusionario (forse per mancanza di idee).
Assassin’s Creed Origins non è tanto diverso da questo punto di vista: si impersonerà Bayek per la stragrande maggioranza del tempo, mentre la sua controparte moderna avrà un ruolo di pochi minuti che si svolgerà in una zona ristretta.
Sin dall’inizio del gioco, il nostro eroe sarà spinto da un desiderio di vendetta a causa dell’uccisione del figlio per mano di alcuni uomini mascherati appartenenti a una setta chiamata “Ordine degli Antichi“.
Assieme alla moglie Aya (anche lei abile combattente), Bayek viaggerà attraverso l’intero Egitto per smascherare gli assassini del figlio e quindi ucciderli. Il rapporto tra Bayek e Aya è ben caratterizzato e credibile, attraverso momenti tragici e toccanti empatizzeremo per loro e assisteremo alle cause che li hanno spinti a creare l’Ordine degli Assassini.

Assassin’s beauty

Il comparto tecnico del gioco è ottimo sotto quasi tutti i punti di vista: le ambientazioni sono realizzate con una cura maniacale, si evince una notevole attenzione per i dettagli sia sul piano storico che paesaggistico. La mappa di gioco è immensa e non si notano rallentamenti, nemmeno quando prendiamo il controllo dell‘aquila di Bayek (novità di questo episodio), e sopratutto finalmente è interamente esplorabile sin dall’inizio, senza quei fastidiosi muri che causavano la desincronizzazione nei giochi precedenti.
La modellazione poligonale dei personaggi principali risulta eccellente, a differenza dei PNG secondari che lascia invece un po’ a desiderare, con modelli anonimi e troppo simili tra loro, ma possiamo chiudere un occhio considerando la vastità di un mondo così aperto e realizzato così bene. Persino l’acqua è finalmente realizzata bene, un dettaglio da cui si nota una grande cura sul piano tecnico, portandoci a ritenerla la migliore per realizzazione fra i giochi sandbox usciti di recente.

Stesso discorso si può fare per la colonna sonora composta da Sarah Schachner, la quale ha già lavorato ad alcuni episodi precedenti della saga: le musiche sono bellissime e fondono perfettamente strumenti classici a effetti synth, e sono utilizzate sapientemente in relazione ai momenti di gioco, rendendole appropriate al contesto e creando un’armonia fra immagine e sonoro che valorizza la messa in scena.
Il doppiaggio in lingua inglese è ottimo, mentre se si decide di scaricare la lingua italiana (in questo episodio tutte le lingue a parte l’inglese necessitano un download separato) si può assistere a cambi di tonalità che risultano non di rado comici, chiaro indice del fatto che i doppiatori non avessero idea delle scene del gioco a cui stavano lavorando. In ogni caso sono disponibili i sottotitoli in italiano, che noi vi consigliamo insieme al doppiaggio in inglese.

Assassin’s skills

Una delle grandi novità di questo episodio è quella dell’inserimento di elementi RPG nel sistema di gioco di Assassin’s Creed: adesso sarà possibile accumulare esperienza e salire di livello, personalizzare il personaggio tramite l’albero delle abilità, il potenziale di danno inflitto aumenterà sia con il livello del PG, sia con le abilità che andremo sbloccando, sia con vari  potenziamenti che potremo fabbricare raccogliendo determinati materiali, e lo stesso discorso vale in termini di difesa e via dicendo.
Il sistema di combattimento è stato rivisto: adesso risulta molto più simile a quello di Dark Souls, con il tasto dorsale sinistro dedicato alla parata con lo scudo (con il giusto tempismo, premendo un tasto mentre ci stanno attaccando potremo sbilanciare l’avversario, rendendolo vulnerabile per breve tempo) e il tasto dorsale destro all’attacco leggero, mentre con il grilletto sinistro potremo prendere la mira con l’arco e scoccare con il grilletto destro, tasto che serve anche per sferrare l’attacco potente con le armi da mischia. Si nota un certo miglioramento sul piano del combat system dei passati capitoli, i quali risultavano monotoni e poco divertenti, ma c’è ancora un ampio margine di miglioramento, in quanto l’IA dei nemici è molto facile da aggirare: con un po’ di pratica potremo far fuori qualsiasi nemico, a patto che sia di livello simile al nostro, mentre con i nemici di qualche livello in più non avremo speranza, rendendo l’accumulo di esperienza necessario al completamento del gioco.
Ci sono miglioramenti anche per quanto riguarda l’aspetto parkour: tutto risulta più semplice, è necessario premere soltanto un tasto per arrampicarsi, è presente un solo tipo di cors, e il personaggio farà la maggior parte delle volte quello che vorremo noi (le cadute accidentali dei capitoli passati sono soltanto un brutto ricordo).
Fra tutti questi aspetti positivi, una nota negativa riguarda le animazioni del protagonista, in gran parte riciclate rispetto ai giochi precedenti.

Assassin’s greed

In un’epoca in cui impazzano le microtransazioni, Assassin’s Creed Origins non si sottrae alla tendenza: i giocatori potranno acquistare sia oggetti di gioco puramente estetici, sia armi potentissime, sia materiali per il crafting, sia esperienza e punti necessari a sviluppare le abilità, facilitando enormemente il completamento del gioco, mentre chi sceglierà di non pagare (e quindi di giocare il titolo nella sua interezza) dovrà completare le missioni secondarie per acquisire l’esperienza necessaria.
Anche se il gioco non necessita di loot box per essere portato a termine, pensiamo ancora che una simile pratica possa in qualche modo rovinare l’esperienza di gioco nelle recenti opere videoludiche, portando alcuni utenti a ottenere vantaggi con un semplice esborso di denaro, che permette di livellarsi a chi invece voglia fare la “fatica” di acquisire esperienza sul campo di gioco, che è poi quel che distingue un vero gamer.

Conclusioni

Ubisoft è riuscita nell’intento di dare nuova vita alla serie con questo capitolo, che offre una grafica eccezionale, sia su console che su PC, un gameplay rinnovato e certamente migliore rispetto ai capitoli precedenti, una mappa di gioco immensa, tantissime missioni (alcune delle quali un po’ ripetitive, a dirla tutta), una trama convincente e un’ottima colonna sonora.
Se non teniamo conto delle ormai ineluttabili microtransazioni, avremo un gioco che offre tantissime ore di divertimento e che si colloca di certo tra i migliori episodi della serie.




The Town of Light

Da LKA, studio tutto italiano, arriva The Town Of Light, walking simulator rilasciato originariamente su PC e recentemente approdato su Playstation 4 e Xbox One. Italiano lo studio,  italiana la storia: Town of Light è infatti ambientato nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, luogo realmente esistito e situato nell’omonimo comune pisano, ed è basato su fatti realmente accaduti al suo interno. Il titolo è stato curato nei minimi dettagli: la struttura (a oggi abbandonata a se stessa) è stata ricreata con cura maniacale e gli oggetti che compongono la scenografia – gli attrezzi medici, le bottiglie di soluzioni mediche, il design delle stanze e dei corridoi, delle porte, delle sedie e dell’architettura generale – possono definirsi storicamente precisissimi. Alcuni medici psichiatrici e lo stesso comune di Volterra hanno contribuito alla creazione del gioco per curarlo in ogni minimo dettaglio, e le lodi da parte di critici e del Comune stesso dopo la sua uscita non sono certamente venute meno; è un titolo che tratta di argomenti molto forti, quali le barbariche cure tipiche dei primi ospedali psichiatrici, il coinvolgimento in tutto questo delle personalità religiose con i loro pesanti giudizi, l’abbandono delle pazienti a loro stesse, la mancanza di personale, o la presenza di personale non adatto in strutture pre-legge Basaglia, il distacco dalla società e la famiglia, l’alienazione da tutto e da tutti. The Town of Light è un titolo per i più curiosi, seppur con una certa sensibilità (e stomaco forte); un’avventura – se così la si può chiamare – che ci ricorderà quanto l’indifferenza sia letale e come la sufficienza nell’identificare certe problematiche, ai tempi, abbia rovinato centinaia e centinaia di vite.

Chi è Renée?

Per apprezzare la storia e il contesto del gioco è opportuno avere una buona infarinatura della storia politica e sociale dell’Italia a cavallo fra gli anni ’30 e gli anni ’40: il regime fascista, la presenza oppressiva della comunità cristiana, la seconda guerra mondiale, la posizione sociale della donna, le continue lotte per le sue opinioni e la sua libertà, il pesante giudizio degli abitanti delle piccole realtà cittadine italiane: The Town of Light profuma come uno stanzino a casa di vostra nonna al cui interno sono presenti fotografie, oggetti e ricordi dell’epoca. Sfortunatamente tutto questo rappresenta solo una corteccia del gioco; il racconto vede al centro la triste storia di una ragazza problematica che, per via di alcuni suoi comportamenti ritenuti troppo “ribelli” per l’epoca, viene strappata a una società nella quale viveva con disagio a causa della sua “luce” per essere riformata nell’ospedale psichiatrico di Volterra. La vita all’interno  del manicomio non è per nulla bella, fra cure sperimentali, gente catatonica e si rivela un vero inferno, e la nostra Renée, dubbiosa per la sua sanità mentale, vive una realtà che non vuole vivere, ma che in fondo pensa di meritare. La nostra storia è ambientata nel 2016, anno in cui la protagonista decide di tornare nella casa di cura, ormai abbandonata, per trovare qualcosa che aveva dimenticato. The Town of Light sembra voler porsi come un walk simulator a tema horror ma in realtà l’elemento orrorifico è trasmesso solo dai toni decadenti e oscuri della location: non è presente alcun effetto jumpscare né alcun “mostro dei ricordi” dal quale fuggire. Non vi è alcun vero elemento ludico, il gameplay non prevede alcun puzzle solving: è più appropriato parlare di The Town of Light come di una vera e propria esperienza che mira a recuperare i momenti all’interno della casa di cura, eventi che risveglieranno ogni volta qualcosa che ci guiderà da un indizio a un altro, fino a tessere l’intera trama. Questa esperienza pone l’accento sulla ricerca dell’identità, perduta una volta strappata dalla società per via di comportamenti inusuali che, in case di cura come questa, venivano facilmente identificati come malattie da curare; si cessava di esistere, e il pensiero “diverso” doveva essere sostituito con quello “giusto” a forza di pratiche terribili e sedativi potentissimi.

Il comparto grafico del gioco è veramente soddisfacente: il motore grafico Unity compie bene il lavoro di restituire texture di qualità, effetti ombra ben definiti e anche le cutscene che ricreano l’ospedale ai tempi dell’attività. La generale tonalità cupa, per quanto attinente con l’atmosfera decadente del titolo, suona a volte scontata e a volte po’ fuori luogo in un titolo del genere: l’intento del gioco è probabilmente quello di far riflettere il giocatore, far provare quel dolore che hanno provato le pazienti, metterlo a disagio, e in questo intento The Town of Light riesce benissimo. Il problema è che il mezzo non sempre risulta appropriato: nei momenti in cui si è più immersi nella memoria del personaggio si fa ricorso a un’effettistica di genere abbastanza telefonata, che farebbe anche pensare a un jumpscare che non arriverà mai (per fortuna); vengono proposte delle illustrazioni bellissime dal tema forte e convincente, ma con un art-style moderno un po’ fuori dal canone grafico 3D del gioco, per non parlare dei disegni presenti nel diario di Renée, per nulla coerenti con la sua calligrafia e la sua personalità, un po’ a riproporre il solito trito assioma “problematico = artista” (insomma, spiegatemi cosa ci fa un oni, proprio della cultura giapponese, in un diario di una ragazza italiana degli anni ’30).

Il titolo, dicevamo, presenta pochi elementi di puro gameplay, limitandosi l’interazione del giocatore a ricreare qualche evento segnante o a rispondere a qualche domanda: ne emerge la natura cinematografica di The Town of Light, e il suo intento di raccontare una storia è chiaro ed efficiente, ma andando avanti non risulta chiaro su cosa ci si stia concentrando: sulla storia di Renée? Sulla storia di qualche altro personaggio del gioco? Sulla documentazione delle pratiche degli ospedali psichiatrici tramite cutscene o illustrazioni? Sulla denuncia alla società e al mondo cristiano che demonizzavano certi comportamenti poco consoni al “vivere civile” dell’epoca? Il connubio fra storytelling e gameplay non è perfetto e a volte questo sembra confondere le idee appositamente, quasi fosse una scelta a effetto. L’aspetto cinematografico prevale su quello videoludico, dicevamo: non che il gioco in sé non sia valido, è comunque stimolante andare personalmente alla scoperta degli indizi della memoria di Renée e, se si fosse optato per un film, la meticolosità con la quale l’ospedale psichiatrico è stato ricostruito sarebbe venuta a mancare, ma The Town of Light è un titolo intento a raccontare più che a divertire, a lasciare qualcosa nell’utente anziché risultare una semplice esperienza passeggera.

La colonna sonora comprende principalmente pezzi composti con un bel pianoforte calmo ma anche malinconico, e altri pezzi più ambient, con comparto effettistico degno di Aphex Twin, e che ricordano in un certo senso Limbo. In un gioco del genere una colonna sonora di questo tipo, ben composta e ben temperata per gli ambienti che man mano andremo a visitare, è la benvenuta ma sfortunatamente qui i difetti sopracitati smorzano l’efficacia della soundtrack, ed è un vero peccato. C’è da aggiungere, infine, che il doppiaggio del personaggio principale risulta un po’ sforzato, quasi finto, aggiungendo un altro elemento fuori posto del gioco. La storia in sé dura poco, è possibile finire il gioco in poche ore; tuttavia il sistema di domande che manda avanti certe parti nel gioco può sbloccare dei capitoli alternativi, la trama varierà anche se di poco ma sfortunatamente The Town of Light è un titolo abbastanza angosciante e sbloccare ciò che resta nel gioco dopo una prima sessione, anche riprendendo da un determinato capitolo selezionabile, può risultare pesante e tedioso, poiché il gioco necessita lentezza per fruire al meglio della splendida trama. In pratica la longevità, e dunque rigiocare il gioco o sbloccare i capitoli e gli achievement mancanti, può variare in relazione allo stomaco del giocatore. Il gioco non necessita di grandi requisiti minimi sul piano tecnico, anche se tuttavia computer con minora capacità di calcolo dovranno godere di un’esperienza di gioco un po’ mozzata anche alla qualità più bassa, e dunque incontreranno texture di qualità inferiore e framerate sempre basso e che non arriverà mai ai 60 FPS di cui il gioco è capace.

Che cosa ci resta?

The Town of Light è un titolo forse uscito al momento sbagliato, troppo presto oppure troppo tardi, un titolo che forse sarebbe dovuto rimanere in sviluppo per qualche tempo in più per consegnare ai giocatori un’esperienza un po’ più completa e decisa. Non fraintendeteci:The Town of Light è un titolo che si pone in maniera diversa dagli altri, il cui intento – quello di far riflettere e mettere insieme i pezzi di una storia – è ben presente e funziona, ma rimane sempre qualcosa fuori posto: un gameplay scarno misto a uno storytelling bello ma spesso pretenzioso fanno di questo titolo un’esperienza per pochi, il che non è un bene perché The Town of Light è un gioco che ha molto da dire e renderlo un walking simulator come molti è un danno per la sua godibilità. È sicuramente difficile creare un gioco nel vero senso della parola con gli elementi di trama presi in considerazione dallo studio fiorentino, anche perché tocca temi sensibili di storie realmente accadute, però una componente di puzzle solving più marcata sarebbe stata ben gradita e forse una prospettiva diversa e più chiara della storia forse sarebbe stata più affascinante; il carattere introspettivo di The Town of Light è interessante ma confusionario e la minima distrazione vi farà perdere il filo del discorso.
The Town of Light è, come già ribadito, uno di quei titoli che è più un’esperienza che un gioco e questo è sicuramente il suo punto forte: l’immersione nel personaggio e nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra è certamente ciò che distingue questo titolo e le sue tematiche particolari lo connotano in uno scenario ormai saturo. Nonostante qualche imperfezione, se siete dei giocatori dallo stomaco forte, questo è un titolo che merita attenzione e che va goduto così com’è. The Town of Light sorprenderà certamente i giocatori più curiosi, lo studio LKA ha consegnato un buon prodotto, valido e con tanto potenziale tematico ma per il prossimo si spera possa puntare maggiormente sulla creatività del gameplay, dare al tutto un aspetto più convincente e che si fonda bene con lo storytelling.




Nidhogg 2

Devo ammetterlo, non sono un grande fan dei titoli indie, né tanto meno dei giochi privi di un filo narrativo. Nidhogg 2, IP di proprietà della casa di sviluppo Messhof Game, prende a piene mani entrambi gli elementi e ne fa il proprio stendardo. Un titolo che nasce, sin dal concept, molto originale ma privo di un teorico significato: seppur migliorato rispetto al primo capitolo uscito nel 2014, graficamente è stato arricchito dagli sprite ma adesso risulta anche molto più confusionario.
Unica stella che fievole si illumina nel cielo di Nidhogg 2 mi è parsa essere la sua giocabilità che, seppur ridotta all’osso, è abbastanza alta, oltre che intuitiva.
A ogni modo, risulta davvero molto difficile contestualizzarlo nel panorama videoludico odierno.

Nidhogg 2 avrebbe potuto trovare il suo posto 15 anni fa come cabinato, quando ancora la sala giochi non era un mero ritrovo per giocatori di slot machine. Giocarlo in 1vs1, in piedi in sala giochi, a spintonarsi durante una partita sullo stesso schermo, questo potrebbe essere divertente, ma in casa? Seduti di fronte al vostro monitor? State certi che l’unica emozione che proverete sarà quella di aver recuperato spazio sul vostro hard disk una volta disinstallato il gioco.

Una volta personalizzato il nostro personaggio, con i pochi elementi selezionabili, lo scopo del gioco, unico e solo, sarà quello di riuscire a raggiungere l’estremità opposta del piano di gioco per aggiudicarsi la vittoria ed essere poi divorati dal Nidhogg (un enorme serpentone volante facente parte delle credenze mitologiche scandinave) che vi porterà via masticandovi al termine di ogni livello. Gli stage non seguono una logica, ognuno prevede l’utilizzo esclusivo di una sola arma oppure, in alcuni casi, saranno presenti più armi da poter prendere anche dai vostri nemici una volta eliminati. Ogni partita inizia precisamente nella metà del livello con un “face to face” col vostro nemico che, allo stesso nostro modo, avrà un solo obiettivo: terminare il livello raggiungendo l’estremità a lui opposta, ogni volta che un concorrente viene eliminato farà un spawn  (comparirà nuovamente) dopo qualche secondo. Ci sono diversi livelli disponibili, ognuno con le sue ambientazioni e armi caratteristiche. La modalità single player non ha nulla da invidiare alla modalità in multiplayer, risultano entrambe prive di incisività.

I giochi indipendenti fanno ormai parte di un larga fetta di mercato, si stanno facendo strada sgomitando con le grandi case di sviluppo, portando spesso a casa grandi successi, come nel caso di giochi del calibro di Limbo o Inside di Playdead, o lo stesso Steamworld Dig 2 e tanti altri titoli di successo. Mi chiedo se abbia ancora senso sviluppare oggi un gioco come Nidhogg 2, che difficilmente troverà posto nelle librerie dei videogiocatori, né tantomeno il loro favore.




Injustice 2 – Chi Aiuta un Eroe?

Siamo in pieno periodo Justice League, l’ultima fatica del DC Cinematic Universe in cui, per la prima volta, abbiamo potuto osservare le dinamiche di un gruppo disomogeneo ma, che per portare la pace, collabora al fine di salvaguardarla (circa). Ma non si vive di solo cinema: fortunatamente sono molti i videogame che, traendo ispirazione dalle stesse fonti, sono riusciti a creare storie efficaci e in grado di approfondire le personalità di uno o dell’altro eroe. Basti citare la serie Arkham dedicata al Cavaliere Oscuro firmata Rocksteady, un concentrato  “batmaniano” perfetto che, durante i suoi quattro capitoli, è riuscito a restituirci un Bruce Wayne come non si era mai visto. E un picchiaduro come Injustice? Proprio quest’ultimo è la dimostrazione che è possibile creare interi universi alternativi validi indipendentemente dal genere, proseguito splendidamente dal secondo capitolo.
Superman, ancora stravolto dalla morte di Lois Lane e di suo figlio, e imprigionato da Batman, continua a non cambiare idea sulla gestione della criminalità. Ma una nuova minaccia planetaria si avvicina e, come si suol dire, si farà di necessità virtù.

Injustice League

Injustice 2 si candida a diventare il miglior picchiaduro di quest’anno, anche grazie a un tessuto narrativo superiore alla controparte cinematografica recente. Come nel precedente capitolo, la storia prosegue su uno dei mondi alternativi al nostro, in cui Superman è diventato un vero e proprio dittatore, unificando il pianeta ed eliminando, o imprigionando, chi può ledere lui o la pace sulla Terra. Ma adesso è in una prigione speciale costruita da Batman, l’unico a essersi opposto alla tirannia del kriptoniano e unica fonte di incorruttibilità rimasta per le vie di Gotham. In questo secondo capitolo Brainiac, Il Collezionista di Mondi, sarà il villain, una minaccia totale e tangibile, essendo stato protagonista della distruzione di Krypton anni addietro. Toccherà dunque a ciò che rimane della Justice League tentare di contrastarlo.
Se c’è una cosa che caratterizza la narrazione dei ragazzi di NetherRealm è la consapevolezza di aver scritto qualcosa di maturo e lontano da banalità e momenti frivoli che la controparte cinematografica ci ha abituati a vedere. Ogni personaggio è costruito in modo credibile, soprattutto quelli che hanno accettato il cambiamento imposto da Superman. Diversi saranno i momenti epici in grado di farci sobbalzare dalla sedia e colpi di scena ben gestiti. Non mancano alcuni escamotage narrativi al fine di rendere credibile uno scontro come tra Freccia Verde e Superman e alcune chicche che i fan DC sapranno sicuramente apprezzare. Anche le cutscene beneficiano di questo lavoro, con telecamere digitali sempre al posto giusto e in grado di valorizzare, assieme ai filtri utilizzati, i primi piani sui protagonisti e le loro emozioni. Proprio i personaggi interessati proveranno sentimenti contrastanti, rendendo più accessibile ai nostri occhi la loro parte umana piuttosto che quella di semidio o semplice eroe.
Purtroppo da segnalare una mancanza – un po’ fastidiosa – di sinossi dedicata a ogni personaggio e quantomeno un riassunto del capitolo precedente.

Batman V Superman

Tutti i personaggi presenti in Injustice 2 godono di meccaniche uniche, non solo per le “super”, davvero spettacolari, ma soprattutto per le movenze e gadget utilizzati. Bilanciare un roster che vede personaggi come Superman o Darkseid non era un compito facile, eppure i ragazzi di NetherRealm sono riusciti a far sfruttare a ogni personaggio le sue peculiarità e punti di forza, stando attenti alle vulnerabilità del nemico. È un picchiaduro stratificato, con un ottimo parco mosse e che richiede buon allenamento per riuscire a padroneggiare al meglio un determinato personaggio. Colpi pesanti, medi e leggeri sono uno standard ma ben calibrati e arricchiti dalla possibilità di usare boost temporanei in grado di cambiare le sorti del match, assieme alla possibilità di scagliare oggetti di scena e persino gli avversari, in un’altra area in modo molto cinematografico. Tutto questo fa da ottima base alle tante modalità presenti, a cominciare dal single player che, oltre ad avere un’ottima campagna, si fregia anche del Multiverso, sfruttando una delle caratteristiche dei DC comics: ogni settimana saranno disponibili diverse “Terre” su cui dovremo intervenire per porre fine a una crisi, che si traduce in una serie di combattimenti a difficoltà crescente e con modificatori che creano ostacoli od opportunità nelle arene, fino al raggiungimento della pace sul nostro pianeta gemello. Questa modalità, oltre ad arricchire di molto la longevità, permette (come il resto delle modalità d’altronde) di ottenere punti specifici per noi stessi e per i singoli personaggi che, raggiungendo certe quote, possono essere personalizzati e potenziati con equipaggiamento sempre migliore. Questo aspetto è ben implementato e, oltre alla modifiche esteriore del nostro alter ego, permette di potenziarne le abilità, diventando una vera e propria macchina da guerra da utilizzare sopratutto nel multiplayer. Tutti gli oggetti vinti, identificati come casse premio, verranno visualizzate nel Caveau di Brother Eye, un nome altisonante per definire il semplice menù dove potremo visualizzare l’equipaggiamento, scegliere se utilizzarlo e persino rivenderlo per far fruttare la monete in gioco e acquistare così altre casse premio. Se per caso ve lo state chiedendo, la risposta è SI, sono presenti microtransazioni in grado di farci acquistare casse premio migliori, e di conseguenza miglior equipaggiamento, per velocizzare il processo di crescita. Fortunatamente non è invasivo come per altri titoli, presentandosi abbastanza bilanciato ma non necessario.
Chiudono le modalità presenti le Gilde dove è possibile riunirsi e affrontare battaglie in comunità, affrontandone altre, sbloccando laute ricompense.
Infine, non possono mancare gli Extra – un po’ deludenti a dir la verità – visto che tengono conto solo delle percentuali di utilizzo, statistiche, rivedere i riconoscimenti o la spiegazione del Multiverso. Avere dei modelli dei personaggi, schede dedicate e qualche art work non sarebbe stato male.

Da DC a PC

Injustice 2 si presenta molto bene anche su PC, facendo dimenticare di colpo i passi falsi di Mortal Kombat X. A colpire sin da subito sono i modelli poligonali dei vari personaggi, ricchi di dettagli e molto vicini alla controparte cartacea. L’utilizzo di texture, shader e perfino la resa dei capelli è di ottima fattura, regalando personaggi credibili anche grazie al buon lavoro effettuato sulle animazioni. Stessa qualità anche per gli scenari che, come da tradizione, presentano oggetti con cui è possibile interagire. Si presentano molto variegate, piene di dettagli e con chicche ben riuscite, come omogenee transizioni tra i vari scenari e tra le diverse cutscene e il combattimento vero e proprio.
Tanti sono i settaggi disponibili per adattare al meglio il gioco alle vostre configurazioni hardware, con risoluzioni che arrivano fino al 4K, ma dedicata soltanto ai PC più performanti.
Anche la componente audio si presenta abbastanza bene a cominciare dal doppiaggio: infatti, al contrario del primo capitolo, tutto il gioco è localizzato in italiano, potendosi avvalere di voci conosciute ai più come Marco Balzarotti (celebre Batman della serie Arkham), Matteo Zanotti (Superman), Riccardo Peroni (Joker) e Tony Sansone (Flash). Stranamente il punto debole sono le musiche, incapaci di creare emozioni e che in qualche modo lasciano il tempo che trovano.

In conclusione

Se siete rimasti delusi dalle storie del DC Cinematic Universe potrete tranquillamente rifarvi con Injustice. Il secondo capitolo conferma quanto la distanza tra cinema e videogioco sia ormai nulla, riuscendo a portare quel pathos e quella profondità che purtroppo ai lungometraggi continua a mancare. Fortunatamente è anche un ottimo picchiaduro, mai banale, ben strutturato e con tante modalità diverse. Insomma, Injustice 2 è ottimo titolo, da non farsi scappare, sia che siate fan Marvel o DC.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Wolfenstein II: Le Avventure di Pistolero Joe (DLC) – Er Pistola

Wolfenstein II: The New Colossus è uno dei migliori – se non il migliore – First Person Shooter del 2017. Titolo che vanta un’ottima componente narrativa ed eccellenti meccaniche, si arricchisce adesso di nuovi DLC denominati Cronache della Libertà, in cui vestiremo i panni di un trio di personaggi completamente inedito e che abbiamo avuto modo di scrutare già a partire dall’Episodio 0: Joseph Stallion (protagonista di questa recensione), il Capitano Gerald Wilkins e l’ex agente OSS Jessica Valiant, in arte Morte Silenziosa. Il trio è collegato da un’unico scopo: trovare informazioni per poter fermare il Cannone del Sole, l’arma definitiva nazista. Cominciamo questo viaggio dunque, con il Pistolero Joe.

Eliminare la carie

Joseph Stalion è un ex giocatore di football americano che, dopo essersi ribellato al regime nazista, rifiutandosi di favorire la vittoria della squadra tedesca all’Uberbowl, è stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, insieme ai propri compagni. Il suo desiderio è quello di trovare il prima possibile Roderick Metze, un ex dentista statunitense unitosi al regime e chiave dei suoi ricordi.
Se l’idea di raccontare storie parallele alle vicende di nostra conoscenza può far o meno piacere – personalmente avrei preferito qualcosa coincidente ai mesi in cui B.J. Blazkowicz si trovava in coma –  è il metodo narrativo a lasciare perplessi: siamo rimasti affascinati dalle bellissime cutscene del capitolo principale, le quali, purtroppo, in questo DLC non sono presenti. Tutto vira verso uno stile vicino ai fumetti americani – che può anche starci – ma le cutscene risultano troppo statiche e mal gestiste, sottraendo allo spettatore il godimento delle vicende. Le stesse, inoltre, non regalano grosse soddisfazioni, ed è il peccato principale di questo contenuto aggiuntivo: la storia del Pistolero Joe – così chiamato dai suoi tifosi – risulterebbe anche interessante ma purtroppo non approfondita a dovere, dando l’impressione di fermarsi a mero pretesto per godersi qualche ora di gameplay extra. Ma anche la durata non aiuta: andando spediti, il tutto può concludersi in un paio d’ore.

Squadra che vince non si cambia

Peculiarità dei nuovi personaggi è lo sfruttamento di alcune feature che in Wolfenstein II, a un certo punto, permettevano di variare alcuni tratti del gameplay. Il Pistolero Joe è infatti in grado di sfondare mura e alcuni elementi dello scenario come quarterback comanda, permettendoci percorsi alternativi all’interno dell’ambiente di gioco, e di prendere di sorpresa gli odiati crucchi. Purtroppo (o per fortuna) non ci sono novità di rilievo: gli ambienti presentano poche novità significative, non ci sono nuove armi e nessun nuovo nemico. Tutto è all’insegna della continuità, portando, come detto precedentemente, qualche ora in più di ottimo shooting. Certo, qualche novità in più non avrebbe guastato dal punto di vista contenutistico ma, ciò nonostante, il gameplay non stanca mai, portando tutta la frenesia e il divertimento a cui questa saga ci ha ormai abituato.
Sono presenti anche i potenziamenti per le armi, sparsi qua e là per la mappa, e alcuni collezionabili che possono allungare di qualche ora la durata del DLC.
Anche dal punto di vista tecnico non sono presenti novità particolari, presentandosi alla stessa splendida maniera come anche il comparto sonoro, con doppiaggio di buon livello in italiano e musiche sempre pronte a entrare nei momenti giusti.

In conclusione

Se non avesse alle spalle gli asset derivati da Wolfenstein II, questo DLC non avrebbe raggiunto la sufficienza. Mancano novità di rilievo e non si approfondiscono avvenimenti che difficilmente sono associabili agli eventi principali. Se l’idea alla base può risultare interessante, a conti fatti, il primo episodio delle Cronache della Libertà, non vale il prezzo del biglietto (9,99 €).

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Terroir

«Camminare con quel contadino che forse fa la stessa mia strada, parlare dell’uva, parlare del vino che ancora è un lusso per lui che lo fa» diceva Rino Gaetano in Ad esempio a me piace il sud. E “lusso” è la parola giusta per descrivere la bevanda amata dal Dio Bacco, e in parte anche Terroir, prima fatica per lo studio di sviluppo General Interactive Co., autori di un Tycoon Game basato sulla gestione di una compagnia vinicola.

Appena avviato il gioco, ci si trova di fronte a una schermata principale realizzata in una grafica low polygon 3D che ben si sposa con il tono minimale dell’opera. Vi è anche una schermata di tutorial dove vengono spiegate la gestione dell’azienda e soprattutto le quattro fasi usate per preparare il vino, ovvero, vendemmia, fermentazione, pressatura e invecchiatura. Tali schede ci vengono in aiuto durante la partita e possono essere richiamate in ogni momento. Il gioco ci offre tre diverse difficoltà: facile, con più soldi e meno imprevisti, standard, con una disponibilità monetaria nella media, e difficile, con un budget esiguo e più difficoltà dovute all’infestazione di insetti, piante malate e molto altro.

Avviando la partita, ci troviamo catapultati in una serie di tile esagonali che ricordano quelli di giochi più celebri come Sid Meier’s Civilization: abbiamo la nostra tenuta e delle caselle di terreno variabile (terra, sabbia e argilla) dove possiamo far crescere diverse tipologie di uva da cui trarre molteplici varietà di vino: dal Cabernet-Sauvignon passando per il Syrah, il Merlot e lo Chardonnay.

Bisogna stare attenti a far crescere bene l’uva, tenendo d’occhio lo stato delle viti e, soprattutto, il metro di maturità sulla destra, dove un valore troppo basso o troppo alto potrebbe rovinare la qualità del nostro prodotto finale. Con la fase di vendemmia, il gioco comincia a farsi più strategico: dovremo compiere diverse scelte atte a migliorare le quattro caratteristiche della bevanda (acidità, dolcezza, colore e corporatura) , come il metodo di spremitura dell’uva, o delle botti dove effettuare l’invecchiamento del vino. Il tutto viene illustrato da immagini in xilografia che si sposano perfettamente con la vena artistica del gioco. Dopo aver imbottigliato la nostra bevanda, verrà il momento di un assaggio da parte dei sommelier (divisi per bravura, da 1 a 5 stelle) che daranno un voto al nostro vino, così da stabilire un prezzo di vendita per poi esser distribuito nelle botteghe specializzate o, a un prezzo molto più basso, nei supermercati.

Il gioco presenta anche un sistema di meteo dinamico, semplice ma ben fatto, oltre a un sistema di imprevisti e di probabilità, attivabile a richiesta solamente dopo aver realizzato il primo vino col voto massimo. Queste variabili aggiungono un po’ più di pepe alla partita, soprattutto usando le probabilità, vere e proprie quest completabili entro un determinato arco temporale che potranno determinare la nostra fortuna o sfortuna. Una partita può durare fino a un massimo di 60 anni, anche se potremo continuare la nostra carriera di viticoltori oltre il tempo limite del gioco, a patto di non aumentare il punteggio massimo, e sempre se riusciremo a non andare in bancarotta!
Da segnalare anche la buona colonna sonora realizzata dal CLARQinet Ensemble di Singapore, che accompagnerà le nostre sessioni con delle composizioni Soft Jazz orecchiabili che tendono a non stancare.

Terroir è una buona prima opera, che gode di scelte ben pensate e ben realizzate e altre migliorabili, come alcuni aspetti inerenti la gestione economica, che ho trovato un po’ raffazzonata (non c’è una schermata dove controllare il nostro bilancio, le perdite e guadagni mensili, e questo lede non poco in termini di pianificazione e visione d’insieme), ma tutto sommato il titolo gode di una buona longevità, a patto di entrare nell’ottica della filosofia “losing is fun” tanto cara a un pilastro del gestionale come Dwarf Fortress, visto che il gioco è parecchio spietato nei nostri confronti già a difficoltà standard, e tenderà a farci pagare cara una cattiva gestione vinicola o monetaria. D’altronde, dovrete mettervi alla prova per scoprire quanto siete bravi: e, come dicevano i latini, «in vino veritas!»




Uncharted: L’Eredità Perduta

La saga di Uncharted compie 10 anni, e la ricorrenza non poteva essere festeggiata meglio di come lo è stata nell’ultima annata: un quarto capitolo dalla storia fluida, che registra i migliori numeri di vendita nella storia della nota serie Naughty Dog, e l’introduzione di alcune novità, non ultima la modalità multiplayer, fanno di questo 2017 un anno davvero da ricordare. Il suggello finale a una stagione così straordinaria è apposto da L’Eredità Perduta, titolo proposto al mercato come DLC di Fine di un ladro ma che, a conti fatti, presenta tutta la dignità e la completezza di un titolo a sé stanno. In questo spin-off (il secondo, dopo L’abisso d’oro, pubblicato in esclusiva su PS Vita) Naughty Dog dà spazio alle “quote rosa” della saga: protagoniste sono infatti Nadine Ross, personaggio che ci si è trovati a fronteggiare nell’ultimo capitolo della serie, e Chloe Frazer, vecchia fiamma di Nathan Drake apparsa per la prima volta 8 anni fa in Il Covo dei Ladri e che qui ci troviamo a controllare per l’intera durata del gioco.

La storia ha inizio in una Calcutta agitata dalla guerra civile, dove le due protagoniste si incontrano per rubare un prezioso artefatto di cui è in possesso Asav, leader dei ribelli che animano la sommossa urbana. Ottenuto l’artefatto, lo scenario si sposterà sui Ghati Occidentali, dove si andrà alla ricerca della Zanna di Ganesh, preziosa reliquia nascosta nel cuore dell’antico impero Hoysala: ed è proprio qui che viene introdotto un primo elemento inedito in tutta la serie. Il giocatore si ritroverà quasi fin da subito infatti in un’ampia mappa con due tipologie di obiettivi che lo impegneranno per un intero capitolo: bisognerà infatti obbligatoriamente attivare 3 leve piazzate in altrettanti punti sulla mappa per passare allo stadio successivo del gioco; in parallelo, si potrà portare a termine un altro obiettivo, facoltativo ma non meno importante, se non altro per la longevità che conferisce al titolo. Nell’area di gioco, nella quale ci si muoverà liberamente, sono sparse infatti 11 monete che permetteranno di accedere a un artefatto del tutto nuovo, il Rubino della Regina, braccialetto che segnalerà ogni volta la vicinanza di uno dei collezionabili a cui ci avvicineremo durante il nostro cammino: un oggetto molto utile ai cacciatori di trofei, che eviterà loro la perdita di tempo di battere ogni area di gioco alla ricerca di puntini luccicanti in ogni andito nascosto.A parte questi piccoli elementi, le novità sono ben poche: il gameplay rimane fedele a quello a cui la saga ci ha abituati, con le aggiunte già viste nel quarto capitolo, dal rampino al chiodo da scalata sino al verricello installato sulla jeep. Il sistema di gioco Naughty Dog in questo senso è ampiamente rodato e, pur soffrendo di una certa ripetitività di titolo in titolo, risulta come sempre snello, dinamico e di facile approccio. Lo sviluppatore americano conferma la volontà di venir incontro a un pubblico più largo, offrendo un gameplay avvincente ma al contempo mai frustrante, adatto a chiunque voglia divertirsi senza incorrere in situazioni troppo ostiche e consentendo al contempo di godersi la storia come ci si trovasse davanti a un film di genere.Proprio in termini di screenplay si trovano però forse le maggiori debolezze di questo DLC: la storia ha certamente una sua solidità, attestandosi come sempre sul canone classico dell’action-adventure di stampo cinematografico, con dialoghi da film hollywoodiano alternati a spettacolari momenti di azione. Ma in L’Eredità Perduta Naughty Dog mostra un po’ di svogliatezza creativa, proponendo varie situazioni già viste – non ultima una lunga sequenza in treno – e non offrendo scene da ricordare, chiudendo il cerchio della storia anche con un po’ di retorica di troppo.
Se la storia si mostra dunque un po’ sottotono rispetto ai precedenti capitoli, nulla può eccepirsi invece sul piano tecnico: The Lost Legacy offre infatti paesaggi mozzafiato, in cui la natura rigogliosa dei Ghati Occidentali si affianca alle imponenti costruzioni Hoysala. Vi è una decisa prevalenza di spazi aperti di certo non facili da gestire, ma il motore grafico di Naughty Dog è ormai una garanzia, e le immagini scorrono lisce a 30 fps senza alcun calo, offrendo una risoluzione nativa di 1080p su PS4, che arriva ai 1440 su PS4 Pro per la gioia di tutti gli amanti della grafica.The Lost Legacy è, a conti fatti, un titolo che non stupisce, ma rimane un tassello da non perdere per tutti gli appassionati della saga, offrendo 8 ore di divertimento e alta qualità visiva, e conservando il merito di non far rimpiangere l’assenza dell’iconico Nathan Drake, su un cui ritorno i fan sembrano non aver mai lasciato ogni speranza.




Wulverblade

Wulverblade narra la storia della Nona Legione Hispania, un vero e proprio esercito formato dai veterani delle legioni di Cesare scelti dall’Imperatore Augusto. La legione comparve misteriosamente tra le foreste della Caledonia (Gran Bretagna) nel 120 D.C., dopo esser stata inviata per ampliare i territori romani al Nord. Non ci ritroveremo nei panni di uno dei soldati romani, ma vestiremo i panni dei Bretoni . Non fatevi trarre in inganno però dalla grafica cartoonesca del titolo: questo gioco ha ben poco di infantile, lasciando spazio a copiosi spargimenti di sangue e a extra con racconti e approfondimenti storici. Wulverblade è un arcade vecchia scuola d’azione a scorrimento laterale, composto da 8 livelli molto ostici che ci portano attraverso antiche foreste, fiumi fragorosi, boschi illuminati dalle torce e fortezze romane. Passando tra questi livelli sarà possibile trovare documenti che raccontano le leggende e approfondiscono il folkore britannico e non solo.[/dropcap]

Nel gioco avremo a disposizione tre personaggi appartenti alle tribù locali, ognuno differente per caratteristiche. Caradoc è un guerriero che dispone di un’uniformità delle abilità, Brennus è il tipico omaccione immortale molto lento nei movimenti ma dai colpi letali. Infine, l’unico guerriero dal sesso femminile, Guinevere, molto agile nei movimenti e negli attacchi che non dispone di una grandissima forza. I nostri eroi dispongono, inoltre, della rabbia e della possibilità di poter chiamare in loro soccorso (1 volta per livello) tre lupi pronti a venire in loro soccorso. Come detto poco prima, il gioco è molto brutale: durante i combattimenti sarà possibile mutilare teste, braccia, mani che poi potranno essere pure utilizzate come armi da lancio. Infine, durante il le missioni, sarà possibile trovare armi pesanti con una durabilità variabile. Eseguendo delle esecuzioni sui nemici o uccidendoli caricheremo la barra della rabbia, che trasformerà il nostro guerriero in una macchina da guerra furiosa ed estremamente letale per poco tempo.

Gli sviluppatori hanno fatto un ottimo lavoro anche sul piano grafico: infatti,  i livelli hanno una resa del paesaggio “dinamico”. La grafica cartoonesca rende il fattore “massacro” molto divertente e meno stressante (vista la difficoltà del gioco). Il comparto sonoro è ben strutturato e orecchiabile, tale da rendere le ore di gameplay molto più rilassanti, ad onta dell’efferatezza su schermo. Le cutscene sono ben fatte e possono essere riviste.

la trama è praticamente ridotta all’osso portando il tutto a una vera e propria “sagra” del massacro. Il team di Fully Illustrated ha fatto un ottimo lavoro con la versione per Nintendo Switch, che raggiunge i 1080p. Inoltre, all’interno del titolo è presente la modalità co-op in locale che riesce ad aumentare il divertimento.
Il titolo è davvero consigliabile, anche il relazione a un prezzo di lancio congruo (16,99€), e vista anche le emozioni nostalgiche che un titolo del genere può portare nel cuore dei veterani del mondo videoludico.




Kholat

Dopo gli avvenimenti del 1959 sul passo di Djatlov, molti autori hanno preso spunto dall’accaduto per scrivere opere e sceneggiature, come il film Devil’s Pass, diretto da Danny Harlin o Il mistero del passo Djatlov, romanzo scritto da Anna Matveeva, e nel 2015 uscì anche un videogioco, ispirato proprio alle misteriose morti avvenute la notte del 2 febbraio 1959.

Una doverosa premessa

Durante il rigido inverno dell’anno 1959, un gruppo di 10 ragazzi organizzò un escursione attraverso gli Urali settentrionali. I ragazzi arrivarono a Ivdel’, cittadina della Russia Siberiana, in treno, e pochi giorni dopo partirono per l’escursione.
Tutti i ragazzi avevano molta esperienza alle spalle, avevano effettuato scalate, escursioni in montagna, ma la notte del 2 febbraio qualcosa sembrò non andare per il verso giusto.
Al rientro, il gruppo doveva informare la propria associazione sportiva del buon esito dell’escursione e rassicurare le famiglie, ma questo non accadde; giorni dopo i parenti delle vittime, non avendo più notizie dei propri cari, chiamarono i soccorsi, che iniziarono subito le ricerche.
Dopo settimane di ricerche, il 26 febbraio furono ritrovati i primi 5 corpi, distanti quasi 500 metri dall’ultima tenda, la quale, come sostengono le indagini, aveva subito uno squarcio dall’interno, indicando che gli sciatori erano scappati dalla tenda in preda al panico, come se qualcuno o qualcosa avesse bloccato l’entrata. Dopo quasi due mesi dal ritrovamento dei primi cadaveri, i soccorritori riesumarono altri 4 corpi sepolti sotto quasi due metri di neve: l’unico a salvarsi fu il decimo escursionista, il quale poco prima dell’inizio della spedizione ebbe un malore improvviso che gli impedì di partire.
A rendere molto più inquietante la storia, fu lo stato dei corpi degli escursionisti, ritrovati in condizioni alquanto strane e misteriose: uno dei cadaveri aveva subito una grave frattura cranica, due corpi avevano la gabbia toracica gravemente fratturata, uno anche privo di lingua, di occhi e di parte della mascella, gli altri avevano subito delle gravi lesioni agli organi interni, ma i loro corpi non avevano segni di violenze e questi danni furono paragonati agli stessi causati da un incidente d’auto.
Secondo delle analisi forensi, i vestiti delle vittime risultavano contaminati da un alto livello di  radioattività.
Una scena abbastanza inusuale e inquietante per un semplice incidente di montagna.
Su questo incidente, non ancora risolto, furono elaborate teorie di tutti i generi; molti sostenevano che le cause della morte dei ragazzi fossero d’origine paranormale, anche perché alcuni studiosi del luogo, proprio la notte del 2 febbraio, avrebbero visto delle sfere arancioni in cielo, che in seguito si rivelarono dei lanci di missili balistici R-7; altri sostenevano che il tasso di radioattività fosse riconducibile a esperimenti del governo, altri ancora credevano che gli indigeni Mansi avessero attaccato il gruppo per aver invaso il loro territorio. E sono queste le teorie che ci accompagneranno in Kholatsurvival horror sviluppato da IMGN.PRO, che prende ispirazione dai fatti precedentemente raccontati.

Narrazioni in soggettiva

Il protagonista è un uomo, non sappiamo se un semplice ricercatore o un investigatore, e non sappiamo nemmeno cosa lo abbia spinto sul luogo dell’incidente.
La scelta da parte degli sviluppatori di creare un protagonista anonimo non sembra essere delle migliori, anche perché la storia viene narrata attraverso dei ritrovamenti di pagine di giornale, registri  o diari che raccontano grossolanamente la storia, accompagnati dalla profonda voce del narratore fuori campo (Sean Bean) che ci guiderà per tutta la nostra avventura, rendendo ancora più impersonale la storia.
All’inizio del gioco, come racconta la storia ci ritroveremo a Vizaj, l’ultimo posto in cui i ragazzi si erano fermati prima di intraprendere il loro lungo viaggio, ed è da lì che inizieremo la nostra escursione per il Passo di Djatlov.
Per arrivare al primo rifugio bisognerà superare un sentiero innevato che condurrà direttamente alla tenda da cui partirà la tetra avventura narrata in Kholat.
La tenda servirà sia per salvare la partita, sia per utilizzare i viaggi veloci da un accampamento all’altro per raggiungere facilmente una tenda già visitata fra le nove presenti sulla mappa.

Perdere la bussola

Il gameplay è abbastanza scarno, quasi inesistente: il gioco ci darà l’opportunità di recuperare solo delle pagine del diario di viaggio del gruppo, pagine di registri e articoli di giornale, nient’altro.
Avremo a disposizione solamente una torcia, che utilizzeremo in poche occasioni, una bussola e una mappa. Per rendere più verosimile il gioco e avvicinarlo ancora di più alla realtà, nella mappa non è stata inserita un’icona giocatore, ma dovremo essere bravi a orientarci tra la neve, per riuscire a trovare la giusta direzione. La bussola è uno strumento che potrebbe sembrare utile per potersi orientare, ma molte volte complica solo le cose, facendo prendere vie sbagliate o facendo ritornare il giocatore al punto di partenza. Anche l’orientamento risulta molto difficile, visto che l’ambiente non ha particolari punti di riferimento a cui affidarsi.

Il nemico silenzioso

I ragazzi di IMGN.PRO hanno però pensato di agevolare il giocatore posizionando delle coordinate su alcuni massi, che indicano la posizione in cui si trova il protagonista. Questo metodo aiuta un po’ il giocatore a capire quale strada stia percorrendo e a evitare che si smarrisca, come succede la maggior parte delle volte.
Durante il nostro vagare tra i percorsi desolati e pieni di pericoli potremmo incontrare degli spiriti arancioni, i nostri nemici, che ci rincorreranno per qualche metro per poi desistere dall’inseguirci. Se dovessero catturarci non avremo via di scampo, non potremo colpirli con un arma o scacciarli via, potremo solo correre e sperare di non cadere in qualche dirupo o moriremo e ripartiremo dall’ultimo salvataggio o dall’ultima pagina trovata. Altro lato negativo è la mancanza di una soundtrack specifica o effetti audio ogni volta che si incappa in loro, l’incontro sarà talmente rapido che molte volte non si è in grado di capire da dove siano sbucati e come ci abbiano ucciso. Sarebbe stato molto gradito un qualche effetto sonoro che possa avvertirci della presenza di questi esseri o un audio ambiente atto a suggestionare e a creare quella tensione che caratterizza qualsiasi horror.

Suoni e visioni dalla Montagna dei Morti

I comparti sonoro, grafico e artistico sono molto buoni: il sonoro offre una serie di effetti che, se giocato con delle cuffie (vi suggerisco delle cuffie con surround 7.1), il gioco gode di un’atmosfera perfetta, piena di mistero e al contempo tetra e malinconica. È consigliato l’uso delle cuffie per potersi immergere quasi del tutto nell’avventura, e anche per rintracciare e raccogliere facilmente le pagine che troveremo durante il nostro vagabondare nelle fredde montagne russe.
Il comparto artistico, invece, impressiona parecchio: per essere un gruppo di sviluppatori indipendenti, IMGN.PRO è riuscito a creare un paesaggio molto caratteristico, con il colore bianco che domina sulle scene e una serie di colori freddi utilizzati per il paesaggio, accompagnati da sfumature di rosso per rappresentare le torce, fuoco e soprattutto le sagome arancioni che incontreremo durante il nostro viaggio.

Indagine sugli Urali

Kholat non è un semplice gioco, ma una ricostruzione atta a far rivivere l’incidente e a far sentire l’angoscia e il terrore che provarono gli escursionisti, la paura dello sconosciuto, la paura del non rientrare a casa, il terrore che ha spinto i ragazzi a scappare dalla tenda squarciandola dall’interno.
Kholat non è sicuramente un capolavoro, ma riesce a incuriosire, con una storia che forse non gode della migliore narrazione ma che crea quella tensione degna di un buon horror: all’inizio potrebbe sembrare frustrante non poter sapere dove si sta andando, se si sta prendendo la strada giusta e non sapere cosa ci attende alla fine del percorso, ma, con l’avanzare del gioco, la storia intriga parecchio e ciò invoglia non solo ad andare avanti, ma anche a documentarsi sull’accaduto, sia online che con i documenti che troveremo sparsi per la montagna.
Kholat si dimostra un’opera di respiro ampio, che va oltre gli standard di un gruppo indipendente: l’uso del motore grafico ha contribuito parecchio, anche se il titolo pecca non poco nella narrazione e presenta qualche piccolo difetto tecnico, tra bug o alcune imperfezioni che potrebbero essere risolte con qualche patch.
Rimane comunque un prodotto da giocare per ricostruire uno dei più suggestivi e criptici avvenimenti degli Urali, sul quale tutt’oggi si continua a faticare a stabilire una verità definitiva.

Processore: Intel Core i5-6500
Scheda video: Nvidia GeForce Gtx 1060 6GB Gigabyte G1-Gaming
Scheda Madre: MSI Z170A Gaming M3
RAM: Corsair Vengeance LPX 8GB 2400MHz DDR4
Sistema Operativo: Windows 10