God Wars: Future Past

Se pensavate che gli RPG a scacchiera basati sui combattimenti a turni non avrebbero più visto la luce dopo titoli come Disgaea, Final Fantasy Tactics o Fire Emblem, vi sbagliavate. Ce lo vuole dimostrare infatti il team di Kadokawa Games con il suo nuovo lavoro God Wars: Future Past, gioco attualmente sviluppato come esclusiva per PS4 e PSvita, che rimane fedele ai suoi consimili utilizzando le più stereotipate e navigate meccaniche di combattimento ma che presenta anche interessanti novità che analizzeremo in seguito.

Yin e Yang

“L’errore comune del mondo occidentale consiste nell’identificare queste due forze, yin-yang, come dualistiche, considerando quindi yang come opposto a yin e viceversa. Nel migliore dei casi, vedendo le due forze come causa ed effetto, ma mai abbinate come il suono e un eco, o la luce e l’ombra.”

(Bruce Lee, Pensieri che colpiscono)

Giappone feudale, un unico grande continente chiamato Mizuho, 3 grandi nazioni: Fuji, Izumo e Hyuga. I popoli vivevano in pace tra loro, erano rispettosi della natura e riverenti verso gli antichi spiriti.
Ma lo Yin non deve mai travalicare lo Yang o viceversa.
Con il passare del tempo e la scoperta delle nuove tecnologie, le popolazioni iniziarono a fronteggiarsi rompendo in questo modo quella quiete che prima regnava su Mizuho: cominciarono a farsi guerra, a distruggere la natura e a rinnegare i loro spiriti ancestrali.
L’intero continente iniziò quindi a soffrire sotto l’effetto di disastri ambientali: inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche vessarono la Terra.

Per evitare la distruzione del mondo la regina di Fuji, Tsukuyomi, convinta ormai che gli dei si stessero ribellando a causa dei recenti avvenimenti, si trova costretta a sacrificare la sua amata primogenita Sakuya all’infuriato Spirito del Vulcano di monte Fuji – un cliché, ma fortunatamente la storia andrà ben oltre questo dettaglio – mentre la seconda figlia più piccola, Kaguya, viene confinata dalla madre in un alloggio sigillato e ben protetto dai soldati, qualora l’ira del vulcano fosse riesplosa. Fatto ciò, la regina Tsukuyomi scompare non lasciando tracce di sé.
Passano 13 anni e la principessa Kaguya, divenuta ormai donna, riesce a fuggire dai propri alloggi durante una rivolta grazie all’aiuto di Kintaro, un abile guerriero e amico di infanzia. Così ha inizio un viaggio gremito di pericoli alla scoperta della verità dietro le azioni sconsiderate della madre, la regina Tsukuyomi, e della sua scomparsa.

Un classico innovativo

Come dicevamo, stiamo parlando di uno strategico a turni basato su un terreno a scacchiera, niente di più classico. Ma come rendere qualcosa di talmente scontato e banale, originale è differente dai suoi simili? Questa è la domanda alla quale i ragazzi di Kudokawa Games hanno lavorato per dare una risposta.
In effetti God Wars: FP riesce a distinguersi per alcune peculiarità non da poco. Certo, i combattimenti di per sé rimangono come da copione: turni, movimenti su scacchiera, scelta tra colpo normale o speciale, utilizzo di svariati item in battaglia, posizione di guardia/difesa, etc. Ma è una volta aperto il menù sulla mappa che si apre un mondo di scelte e possibilità di personalizzazione che fa la differenza in God Wars: sembrerà, infatti, quasi di stare giocando a un vero e proprio GDR, a partire dagli alberi delle skill fino all’equipaggiamento dei personaggi (arma, scudo, testa, busto, stivali etc.).
L’aspetto più interessante è la gestione delle abilità dei nostri numerosi protagonisti: ognuno di loro possiede le proprie caratteristiche, ma avrà la possibilità di imparare molto altro nel corso dell’avventura. infatti ognuno dei personaggi, oltre alla propria specializzazione di base (quali potranno essere: prete, guerriero, mago etc…) potrà apprenderne una seconda (job) e una terza (sub-job), che si potranno sempre e comunque sostituire a piacimento con le altre disponibili, quindi si potrebbe verificare anche di avere un guerriero che al contempo lancia magie di distruzione e guarisce i propri compagni in battaglia; senza considerare il fatto che con l’avanzare dei livelli si evolverà anche la specializzazione principale, e quindi un prete potrebbe diventare uno “spiritualista” così come un mago un “incantatore”.

La “raccolta punti”

In God Wars: Future Past è necessario “skillare” come si deve le abilità dei personaggi, impegnandosi a trovare anche una buona sinergia di gruppo e selezionando battaglia per battaglia la miglior squadra da schierare. Per far sì che ciò avvenga, bisognerà eliminare svariati nemici per poter guadagnare EXP, in modo da sbloccare nuove skill, e JP (job point), che serviranno appunto per far evolvere gli alberi abilità delle skill che abbiamo scelto per i nostri personaggi.
Insomma, non è un gioco semplice. Anche il livello di difficoltà è molto equilibrato sin da subito e i nemici molto agguerriti e con un IA degna di nota: infatti i loro attacchi non saranno mai casuali, ma saranno diretti ai più deboli o ai guaritori in primis, per poi passare gradualmente agli altri, e proprio per questo motivo bisogna scegliere bene “dove” schierare “chi”.

BGM? No, grazie!

La colonna sonora ritengo che sia uno degli aspetti fondamentali di un videogioco, importante quasi tanto quanto lo siano una buona giocabilità o un buon comparto grafico. L’udito è uno dei nostri sensi principali e come tale non dovrebbe essere trascurato. In questo caso la colonna sonora, è parecchio striminzita, poco ricercata e per niente curata, che non va oltre melodie orecchiabili che, alla lunga, ripetendosi, finiscono con l’annoiare.

Bello, ma non troppo!

Se dovessi valutare God Wars solo per alcuni aspetti, come la Lore o la struttura dei suoi menù, direi che è uno dei migliori tattici mai giocati, ma purtroppo globalmente non è così. La strada è ancora tanta da fare per poter raggiungere i livelli di titoli come Fire Emblem: Echoes, che pur essendo stato sviluppato e concepito per una console portatile, ha un potentissimo comparto grafico rispetto a God Wars, il quale invece, pur essendo stato sviluppato per PS4 e PSVita, non ha sfruttato le potenzialità che avrebbero potuto offrire le 2 console di casa Sony, capaci di supportare ben più del lavoro di Kudokawa Games, che ci lascia invece fra le mani un titolo mal curato, con animazioni di combattimento penose, una pessima grafica “low poly” e una bella guarnitura di texture piatte e approssimative.




Rocket Wars

Rocket Wars è un titolo indie action in 2D, sviluppato da Archon Interactive e pubblicato da Rooftop Panda su Steam. Armati della nostra navicella spaziale, dovremo fronteggiare all’interno di un’arena altre navicelle per riuscire infine a completare l’obiettivo prefissato.
Rocket Wars dispone di un gameplay abbastanza semplificato: per riuscire a contrastare i nemici dovremo disporre di un’elevata capacità nell’usare le armi che abbiamo a disposizione. Ogni navicella disporrà di un’arma base, alla quale potremo affiancare anche un’arma speciale che si potrà acquisire tramite power-up all’interno dell’area di gioco. Potremo quindi disporre di cannoni, mine, bombe nucleari e cosi via. Questo titolo è stato creato principalmente come shooter-arena con pvp locale, ed è infatti possibile giocare con altri utenti (fino a un massimo di 4).
Il titolo però è tutta via privo di pvp multiplayer, e questo è un difetto non da poco, che rende il gioco noioso se non si hanno amici con cui giocarlo.

Nel corso del gioco sarà possibile affidarsi alla coppia tastiera-mouse oppure utilizzare il joypad. Vi consiglio vivamente di usufruire di un joypad, se possibile, la precisione al contrario ne risente molto.
Il gioco possiede un numero sufficiente di modalità di gioco, da scegliere tra sette differenti: Deathmatch (free for all), Survivor (nella quale ogni giocatore avrà a disposizione 5 vite e dovrà riuscire a tenersele strette il più possibile), Nuke King (dove vince chi ottiene il punteggio più alto), Team Deathmatch (dove vince il team che ottiene il maggior numero di uccisioni), Team Survivor (ogni team ha 10 vite a disposizione e l’obiettivo è quello di non terminarle prima del team nemico), Team Nuke King (dove per vincere, bisogna far conseguire al proprio team il maggior numero di punti) e Free Play (dove il giocatore può giocare all’infinito senza alcun obiettivo).
Rocket Wars dispone soprattutto di un’intelligenza artificiale davvero ben fatta che riuscirà a metterci sempre in difficoltà. La grande intelligenza dei bot rende le partite molto combattute e intriganti.
All’interno del titolo sono presenti ben 12 navicelle completamente diverse l’una dall’altra. Sarà possibile sbloccarle con l’avanzare dei livelli. Ogni navicella che sbloccheremo avrà un vantaggio e uno svantaggio: ad esempio, alcune avranno una cadenza di tiro maggiore ma avranno una vita minore, altre avranno una velocità superiore a scapito della maneggevolezza. Sbloccare una skin sarà inutile, cambierà l’aspetto  della nostra navicella ma non avremo nessun vantaggio in battaglia.
In sé, Rocket Wars ha una grafica molto scarna e una colonna sonora abbastanza rilassante e piacevole, che riesce a rendere il gameplay in singolo di certo più avvincente. La mancanza del multiplayer penalizza però non poco un titolo che sarebbe potuto risultare molto più interessante, e la presenza della coperativa locale colma solo in parte questo vuoto che lascia il gioco globalmente monco.




Perception

«Quando si è ciechi si imparano un paio di cose sulla fiducia». Cassie lo sa sin da bambina, e con questa frase ha inizio il rapidissimo racconto che dall’infanzia di Phoenix, Arizona, ci porta al giorno della sua partenza alla volta di Gloucester, nel Massachusetts.
È lì che si trova, infatti, la villa che ricorre nei frequenti incubi che non le danno pace negli ultimi mesi, ed è proprio dal vialetto della fantasmatica e antica magione di Echo Bluff che ha inizio l’avventura della nostra protagonista, animata da un unico, irrefrenabile imperativo: «I need to do this».

«Looking on darkness, which the blind do see»

Cassie varca la soglia della dimora in cui è interamente ambientato Perception impugnando l’unica arma di cui dispone, un bastone con il quale ha imparato fin da piccola a “vedere” il mondo attorno a sé. La sua vista si compone di un tratteggiarsi di linee chiare sullo sfondo di tenebra dei suoi occhi, nel quale le forme si delineano a ogni vergata e a ogni rumore di passi. La nostra protagonista ha imparato fin da piccola a distinguere gli oggetti e gli spazi in relazione al suono prodotto, facendo del proprio bastone un sonar e dell’udito il suo senso principale.
Esploreremo dunque la casa in prima persona «osservando l’oscurità che i ciechi vedono» e cercando di capire la composizione delle stanze in un percorso che ci porterà a ricostruire le storie sepolte tra le mura della casa, che apprenderemo sotto forma di audiolognote e documenti. Ed ecco che qui subentra il secondo strumento a disposizione di Cassie, lo smartphone, grazie al quale riusciremo a conoscere il contenuto di ogni testo trovato in giro.
Da buona figlia del suo (nostro) tempo, Cassie ha infatti a disposizione le app che servono a facilitarle la vita quotidiana, e che diventano fondamentali per poter ricostruire la storia celata nella villa di Echo Buff: il Delphi, app “text-to-speech” per mezzo della quale avremo la lettura di un testo dopo averlo fotografato, e il servizio “Friendly Eyes“, nel quale un operatore verrà in nostro soccorso nei casi in cui per Delphi sia impossibile la lettura, “prestandoci” i suoi occhi e descrivendoci ciò di fronte a cui ci troviamo.

Presenze

«Lottare è sempre stata, più o meno, una forma di cecità»
(José Saramago, Cecità)

Armati di smartphone e bastone vagheremo, dunque, tra stanze e storie che porteranno Cassie alla rivelazione di atroci verità, ma non saremo soli: la casa, in apparenza disabitata, è in realtà infestata da una misteriosa entità chiamata “La Presenza” alla quale il nostro curiosare non piacerà affatto, e dalla quale dovremo fuggire per evitare il game over.
Il gameplay di Perception è sostanzialmente tutto qui: divisa in quattro atti, la trama si dipana in un percorso nel quale andremo avanti per obiettivi e ascolteremo tutti i documenti che ci permetteranno di ricomporre l’intero puzzle della storia mentre stiamo attenti a non farci catturare dalla Presenza.
In assenza di una scelta tra livelli di difficoltà, l’unica selezione possibile all’inizio sarà fra “Chatty Cassie” (“Cassie chiacchierona”) e “Silent Night” (“Notte silenziosa”), modalità, quest’ultima, scremata da molte spiegazioni inerenti il plot, nella quale trovano spazio prettamente le linee di testo utili ad andare avanti nel gioco.
Il consiglio è quello di scegliere senz’altro la prima modalità, sia per non perdersi una storia per molti versi interessante, sia perché molto del resto del titolo lascia a desiderare. Pur prendendo, infatti, le mosse da un concept indubbiamente affascinante e in gran parte originale, Perception mostra i propri evidenti limiti proprio sul piano del gameplay. Il titolo di The Deep End Games è un survival horror in prima persona che richiama lavori come Amnesia e Outlast, con un’impostazione da walking simulator e una ricostruzione a ritroso dei tragici accadimenti degli abitanti della casa che ricorda il recente What Remains of Edith Finch. Pur non raggiungendo lo spessore del titolo di Giant Sparrow, l’impianto narrativo risulta comunque molto godibile, nel pieno rispetto della tradizione del genere; sul piano della giocabilità, invece, quel che penalizza Perception è, da un lato, la presenza di meccaniche ripetitive e poco avvincenti, ma soprattutto, dall’altro, la mancanza di un basamento di vera tensione, la quale va scemando con l’abituarsi ai routinari meccanismi che caratterizzano il gameplay.
Il titolo inizia bene, specie se giocato in cuffia e con la giusta atmosfera: ci si sente isolati, indifesi nell’oscurità e insicuri del fatto di poter sfuggire all’imprevedibilità della Presenza, la quale potrebbe coglierci impreparati in ogni momento e in ogni stanza. Col progredire del gioco si prendono però ben presto le misure e ci si accorge che, in realtà, La Presenza non è poi così presente: si capisce ben presto che è infatti difficile che questa si manifesti (se non in determinati punti del gioco o solo in seguito a una dose massiccia di rumore) e, anche in questo caso, sfuggirle non risulta particolarmente problematico, grazie anche ai numerosi nascondigli piazzati nelle varie stanze. Insomma, alla lunga vengono a mancare livelli di imprevedibilità e di rischio che, in titoli del genere, diventano il sale della sfida (e chi ha giocato a titoli come Clock Tower Haunting Ground questo lo sa bene).
C’è da aggiungere che Cassie possiede un’altra skill, un Sesto Senso che le permette ogni volta di sapere verso quale obiettivo andare, facilitando non poco il nostro compito all’interno della casa e risparmiandoci molta fatica sul piano esplorativo, a meno che non si abbia l’intento di trovare tutti gli audiolog e i documenti utili a ricostruire l’intera storia (approccio, ripeto, caldamente consigliato a chi voglia godere dei contenuti).
Concettualmente l’operazione di Perception potrebbe ricordare Beyond Eyes, adventure game in terza persona nel quale si vestono i panni di una ragazzina immersa in una bianca cecità che ricorda quella di Saramago e che crea attorno a sé un mondo a colori col progredire del gioco, mentre qui l’effetto del bastone di Cassie richiama molto più quello di Scanner Sombre, nel quale si cammina in ambienti totalmente bui nei quali gli oggetti si ergono nei loro contorni tramite uno scanner atto a rilevarli.

Tutti i colori del buio

«La capacità sensoriale del cieco dotato di qualche residuo di vista può essere, di volta in volta, magica e inquietante. Non hai niente davanti, niente alle spalle; ed ecco emergere dalla nebbia un’ombra di forma umana: quanto è incantevole e tremenda! È una visione folle e sacra, l’ininterrotto apparire e scomparire del mondo fisico» (Stephen Kuusisto, Tutti i colori del buio)

A causa di tutti questi accorgimenti, il gioco globalmente non sembra restituirci con efficacia l’esperienza della cecità, la quale sembra a tratti un mero pretesto.
Dobbiamo dunque abbandonarci alla sospensione dell’incredulità e goderci un comparto grafico di certo perfettibile, ma la cui resa è comunque suggestiva, tra onde sonore di radio e giradischi, bambole in movimento, fasci di luce esterna che intuiamo dallo sferzare del vento fino ad alcune scoperte inaspettate in cui incapperemo nel nostro oscuro tour. Sullo schermo nero i contorni si tingono di azzurro, «il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare», mutuando le parole del cieco protagonista di Almost Blue; ma in realtà i colori cambiano in prossimità della Presenza, tingendo la vista di giallo quando questa si trova nelle vicinanze, gradandosi di arancione intenso e infine di rosso con il suo progressivo avvicinarsi, rappresentando così il livello di tensione di Cassie.
Suono e visione hanno dunque una stretta correlazione ma, se la grafica ci offre dei risultati gradevoli e di una certa suggestione, lo stesso non può dirsi del comparto sonoro che dà del suo meglio in alcuni jumpscare (affidati praticamente solo all’architettura sonora) ma risulta nel complesso poco curato, al punto che la trasposizione visiva del suono diventa più importante del sonoro stesso, il quale dovrebbe essere invece il fondamento dell’intero gameplay, essendo la fonte della vista di Cassie e l’elemento di maggior suspense del titolo. Quel che davvero manca è il bilanciamento tra le parti: perseguendo l’intento di offrire al giocatore una maggior possibilità visiva, si penalizzano tutte le potenzialità che un audio design ben congegnato avrebbe potuto offrire, allontanando il giocatore da un’autentica esperienza di cecità in un contesto orrorifico. Ciò che Perception ha di ammaliante perde il proprio fascino e la propria potenza evocativa dopo circa mezz’ora di gioco, quando la casa comincia a essere percepita come un luogo “da ricostruire” piuttosto che come uno spazio reale da tirar fuori dal fondo pozzo dell’ignoto, sensazione ulteriormente accentuata dalla luminescenza degli obiettivi che possiamo mettere letteralmente in luce ogni volta tramite un sesto senso che trova poca giustificazione.

Percezioni

«Ora che ho perso la vista, ci vedo di più»
(Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso)

Sviluppato da una parte di quel team di Irrational Games che ha lavorato su BioShockPerception nasce da un’idea originale e suggestiva che ha permesso allo sviluppatore di raccogliere più di 150.000 dollari su Kickstarter. Il titolo doveva uscire nel giugno del 2016, ha subito un ritardo di quasi un anno e in questi casi si spera che più tempo si traduca in migliori risultati, ma evidentemente non è bastato.
Il gioco mette davvero in atto uno spreco di tanto buon potenziale, considerando che alla base vi è un impianto narrativo ben congegnato, un buon doppiaggio e anche un meccanismo di ecolocalizzazione globalmente ben architettato.
Ma ci si ferma lì: il resto si perde nella routine che porta ciclicamente il giocatore a camminare, toccare, prendere un oggetto, ascoltare un ricordo, attivare il sesto senso, andare avanti e poi ripetere tutto da capo, con qualche intermezzo da brivido offerto dall’avvento della Presenza e qualche piccolo jumpscare. Troppo poco sul piano della suspense, troppo poco in termini di sfida per un survival horror di questo genere, e i contenuti non sono buoni abbastanza da compensare, non raggiungendo questi uno spessore autoriale ed essendo rimaste inespresse anche alcune intuizioni sulle quali sarebbe stato interessante lavorare, come quella di creare un racconto leggendario attorno alla proprietà di Echo Bluff, idea nata e morta nei 5 minuti di un singolo mockumentary che avrebbe potuto invece costituire la base di una serie di storie, creepypasta e leggende urbane sulle quali costruire un’aura di mistero tra finzione e realtà attorno alla villa. Un peccato anche per Cassie, personaggio ben costruito del quale emergono personalità e carattere e che quindi avrebbe meritato un altro sviluppo, mentre qui si limita a quasi a subire il fluire degli eventi e al mero ascolto delle singole storie.
Ad aggravare un quadro retto dunque quasi esclusivamente da una linea narrativa ben curata e da una grafica comunque accattivante sono inoltre i non pochi bug e glitch presenti nel titolo, alcuni dei quali bloccano di fatto l’avanzamento del giocatore, costringendo a ripartire dall’ultimo checkpoint (che per fortuna è quasi sempre abbastanza vicino): nella versione per PS4 che abbiamo giocato, mi sono ritrovato in una stanza dalla quale era impossibile uscire a causa di un dislivello nel pavimento che coinvolgeva tutta la mobilia attorno, insensatamente sollevata da terra (e no, non era un effetto di telecinesi spiritica).
Anche la traduzione italiana sembra essere figlia di una certa fretta e di approssimazione, non solo per l’evidente mancanza di cura della trasposizione nella nostra lingua, ma perché non di rado i sottotitoli italiani si alternano a quelli inglesi o addirittura si ritrovano intere sequenze in cui la voce scorre senza essere accompagnata da alcuna didascalia. Il linguaggio non è così complesso da non essere inteso da chi mastichi un po’ di inglese, ma qualunque backer nostrano che ha contribuito al finanziamento dell’opera avrebbe ragione di arrabbiarsi.
Titolo dedicato «a chi sia stato incompreso, mal giudicato, sottovalutato, a tutti quelli che non sarebbero mai riusciti a far qualcosa» e in parte ispirato a una storia vera accaduta alla fine del XVII secolo, Perception rappresenta una grossa occasione mancata, tradendo ottime premesse dal punto di vista del concept e della storia e rivelandosi un gioco certamente godibile ma globalmente privo di spessore, povero di sfida e mal congegnato dal punto di vista del gameplay, in un genere – quello del survival horror – che offre oggi omologhi ben più degni d’attenzione.




Black Desert Online

Durante la conferenza Microsoft all’ultimo E3, è stata annunciata l’uscita di Black Desert Online, titolo che accompagnerà la nuova Xbox One X al suo lancio e che dovrebbe sfruttarne a pieno il potenziale; il gioco è già uscito per PC, e non ci siamo fatti sfuggire l’occasione per provarlo.
Il genere degli MMO si sta espandendo a dismisura: dopo il grande successo di World of Warcraft il mondo dei videogame ha sfornato una miriade di titoli simili o dello stesso genere.
Nello specifico, Black Desert Online è un sandbox MMORPG sviluppato dalla software house coreana Pearl Abyss per PC, ma che presto arriverà su PS4 e, come già detto, Xbox One.
In attesa dell’uscita della versione su console, vediamo qual è la resa del gioco in ambiente Windows.

Appena aperto il gioco, ci si trova dinanzi alla più importante e difficile scelta: che forma dare al personaggio da utilizzare. Black Desert Online ha, infatti, al suo interno ben 14 classi legate a un personaggio predefinito, con sesso ed età specifica, eccezion fatta per la classe Wizard e Witch, con stessa classe, dotate delle medesime abilità, differiscono solo per sesso; a parte le 3 comuni classi – Guerriero, Arciere e Mago – se ne possono scegliere altre quali Ninja, Valkyrie, Dark Knight, Berserker, e altre ancora.

Prima di iniziare la nostra avventura, come in ogni RPG che si rispetti, anche Black Desert ci dà l’opportunità di creare il nostro alter ego tramite uno dei migliori character creator che si possono trovare in circolazione. Già questa fase ci terrà incollati allo schermo per molto tempo per creare il nostro personaggio al meglio, magari ispirandoci a protagonisti di altri videogame o personaggi di serie tv, o facendo sbizzarrire la propria creatività.Il creator, molto semplice e intuitivo, ci permette di modificare anche i minimi dettagli del nostro personaggio, dai capelli alle gambe, dai più piccoli particolari del viso alla sua muscolatura; non a caso dicevamo come Black Desert Online abbia il miglior creator rispetto a qualunque altro MMORPG.
Quel che mi ha lasciato perplesso riguarda la scelta, da parte della software house, di non poter modificare il sesso dei personaggi: possiamo infatti modificare solo l’aspetto lasciando invariato il loro potere, scelta azzardata, che rende la creazione del personaggio alquanto proibitiva.
Subito dopo aver concluso con il creator, saremo catapultati in una terra senza nome, in cui inizierà il nostro viaggio.

Il gioco, per nostra sfortuna, non ha ottenuto alcuna traduzione italiana, e per questo la storia e le varie quest possono risultare poco comprensibili per chi non conosce benissimo l’inglese, ma con un po’ di intuito e grazie alle indicazioni che il gioco stesso offre si possono concludere facilmente.
Purtroppo, ad aggravare la situazione, ci si mettono anche l’HUD di gioco e l’UI che, già dai primi minuti, ci bombarda con menù a tendina, pop-up e informazioni di vario genere che danno molto fastidio.
Il gameplay si mostra confusionario, e questo non è un bene, rendere i primi momenti di gioco semplici ai nuovi utenti dovrebbe essere la priorità di ogni MMO; Black Desert Online invece li complica, complice il fatto che alcune importanti meccaniche non vengono spiegate, e al giocatore tocca andare nei vari forum a documentarsi.
Passando al combattimento, Black Desert Online gode di un combat system molto articolato, alle comuni mosse fisiche e magiche si affiancano combo e mosse speciali molto difficili da sferrare ma di estrema potenza, che mettono a dura prova i riflessi dei giocatori e ne esaltano la bravura.
Le battaglie sono molto articolate, vista la presenza di sprint, magie, salti; grazie a un’ampia libertà di movimento, in Black Desert Online è permesso anche accovacciarsi, scalare edifici, salire sui tetti e sfruttare tutto il potenziale dinamico a nostro vantaggio, soprattutto in fase di schivata e attacco dei nemici, visti i parecchi danni che questi infliggono a ogni colpo.

La storia e tutta la lore si basano su delle strane e misteriose pietre nere che si trovano nel sottosuolo di un vasto deserto, il deserto del regno di Valencia; la storia è però un’aspetto secondario, e infatti risulta banale e poco articolata, poiché il gioco si basa prevalentemente sull’economia, sulla compravendita di oggetti e sulla costruzione di una vera e propria economia in-game.

Black Desert Online è un gioco molto particolare, non si basa sulla semplice dinamica del “parla con gli NPC, prendi le quest, uccidi i nemici, completa le quest, riscuoti la ricompensa e ripeti poi tutto”: il gameplay del gioco ruota infatti principalmente attorno al commercio.
Per guadagnare monete che possono servire per comprare armamenti vari dai vendor che si incontreranno per le città, il gioco ci consente di acquistare delle fattorie e delle case, nonché di pescare, di coltivare terre, di tagliare alberi etc..
Questi lavori, però, potrebbero sottrarre tempo prezioso che potrebbe essere impiegato a farmare, a uccidere nemici, a completare quest, ed è per questo che il gioco ci viene in aiuto permettendoci di assumere dei dipendenti. Questo è uno degli aspetti più interessanti del titolo: il gioco ci farà infatti dirigere un’attività commerciale, con tanto di guadagni e tasse da pagare, come in un vero e proprio gestionale. Tutto questo business frutterà a mano a mano che compreremo attività e terreni da arare; i soldi serviranno a ricoprire i costi delle spedizioni nonché tutte le spese di gestione dell’attività. Per fortuna non dovremo pagare i salari ai nostri dipendenti, i quali sono alla stregua di veri e propri schiavi, acquistabili dai vari mercanti all’interno del titolo.
Il gioco ci permette inoltre sin da subito di comprare case arredabili (proprio come in The Sims) e che potranno essere utilizzate per qualunque scopo, come alloggio per noi o per i nostri sottoposti, o anche per ospitare negozi.
Il commercio riveste una parte molto importante, e chi non ha molta dimestichezza con l’inglese troverà non poca difficoltà ad affrontare alcune quest o gestire i nodi commerciali, importantissimi per l’economia.
Ma come detto in precedenza, il gioco spiega a stento tutte le proprie meccaniche, portando il giocatore verso la confusione, data anche dalle innumerevoli cifre, impostazioni e descrizioni poco chiare del titolo.

Il team di sviluppo ha fatto un grandissimo lavoro per quanto riguarda la grafica, creando un motore appositamente per lo sviluppo di Black Desert Online chiamato, appunto, Black Desert.
La grafica è uno degli aspetti più riusciti del gioco: durante la nostra avventura l’engine ci offrirà degli scenari molto suggestivi, dall’alba, di un’arancione intenso, al tramonto, con cromatismi che vanno dal rosso al giallo, alberi e piante si mostrano sempre con colori vivaci e sgargianti.
Questo livello di dettaglio andrà ovviamente a influire sulle prestazioni, e non tutti i PC potranno reggere il peso di caricamento del gioco. Anche con un PC di fascia media, in determinate circostanze, in città molto affollate o comunque dove vi siano molti elementi su schermo, il frame rate si abbasserà drasticamente, ma con le giuste impostazioni grafiche si potranno ridurre al minimo questi problemi.

Il sonoro, da qualche anno a questa parte, è diventato un’aspetto molto importante su cui puntare per ogni titolo, sul mercato abbiamo ormai videogame con un comparto sonoro da premio, come The Last of UsHorizon Zero Dawn, o Killzone. Altre software house si sono concentrate più sulla componente artistica e visiva, tralasciando l’aspetto uditivo come nel caso di Black Desert Online.
Ovviamente il gioco non ha un comparto audio pessimo, ma si ha l’impressione che non ci sia stato un lavoro di cura teso alla qualità: i rumori ambientali, soprattutto nelle città, diventano molto ripetitivi, col progredire del gioco, quasi ciclostilati. Ciò nonostante, durante l’esplorazione del mondo le musiche di sottofondo e rumori riescono comunque ad accompagnarci in maniera gradevole, senza sferzate verso l’alto, né particolari sbavature.

Black Desert Online ha molti lati positivi e altrettanti negativi, partendo dalla grafica e dal character creator sino ad alcuni aspetti del gameplay – inutilmente complesso e noioso a lungo andare – e a un sonoro senza particolari impennate.
Tralasciando questi difetti, nel complesso, bisogna dire che Black Desert Online è un MMORPG molto diverso da tutti gli altri, ovviamente per la modalità di creazione dei personaggi, ma anche per tutto un comparto gestionale che fa della compravendita di immobili e oggetti preziosi una meccanica fondante che impreziosisce il mondo di gioco.
Come tutti gli MMO, anche per Black Desert Online è consigliato giocare con un gruppo di amici, vista la presenza di gilde che molte volte dichiareranno guerra ad altri clan, ma è possibile giocare anche in solitaria.
Gli amanti del genere apprezzeranno sicuramente questo titolo, ricco di quest e con un mondo di gioco molto vasto; chi volesse entrare da novizio nel mondo degli MMORPG faticherà non poco all’inizio ma, dopo qualche ora di gioco, potrà riuscire a orientarsi tra i vari menù di un gioco complesso, a volte dispersivo ma globalmente solido.

Processore: Intel Core i5-6500
Scheda video: Nvidia GeForce Gtx 1060 6GB Gigabyte G1-Gaming
Scheda Madre: MSI Z170A Gaming M3
RAM: Corsair Vengeance LPX 8GB 2400MHz DDR4
Sistema Operativo: Windows 10




Tokyo 42 – Citazioni ne Abbiamo!?

Ogni tanto si assiste a un ritorno agli anni ottanta: che sia per la moda, sui libri, film o videogiochi poco importa; in qualche modo quegli anni ci hanno lasciato qualcosa e riviverne i momenti migliori mette una pezza alla nostalgia. Proprio in ambito videoludico abbiamo avuto molti esempi di revival che, prendendo spunto da film di genere come Dredd, Blade Runner o Robocop, hanno fatto saggiare le peculiarità di sceneggiatura e messa in scena tipica di quegli anni. Basti citare il DLC di Far Cry 3 denominato Blood Dragon, un’enciclopedia della fantascienza più trash anni ottanta, fino al titolo protagonista di quest’oggi, Tokyo 42. Anch’esso recupera tutte le caratteristiche dei lungometraggi di quegli anni, le situazioni, i dialoghi e il design, impacchettando un titolo divertente e di intrattenimento, pur non privo di qualche difetto.

Cyberpunk 2042

Impersoniamo qualcuno la cui vita cambia improvvisamente. Veniamo a scoprire dalla TV che siamo stati incastrati per un omicidio accaduto per le strade di Tokyo. L’unica cosa da fare è scappare e cercare risposte su chi è stato e perché. Inutile dire che le parole assumeranno forma di proiettile. Questo è insomma l’incipit di Tokyo 42, di certo non una trama cervellotica, ma comunque adatta al tipo di contesto. È un pretesto, qualcosa che ha la funzione di introdurci al mondo di gioco e di guidarci verso il finale. Anche i comprimari subiscono una caratterizzazione anni ottanta, con dialoghi sopra le righe e colpi di scena abbastanza forzati. Nel corso della storia interagiremo con diversi personaggi, tutti con uno stile di vita abbastanza discutibile, ma che saranno utili per scoprire la verità su quanto successo. La trama si sviluppa come se fosse il primo GTA (con il dovuto metro di paragone): nel peregrinare da un capo all’altro di Tokyo troveremo, in parallelo alle missioni principali, quest secondarie legate ai diversi personaggi, oltre a un sistema – che potremmo definire “di contratti a termine” – che ci permetterà di acquisire reputazione e denaro. Proprio la reputazione diventa il fulcro del gioco: maggiore sarà, più avremo a che fare con i pezzi grossi della mala e, di conseguenza, avremo modo di acquisire informazioni cruciali.
Insomma, Tokyo 42 non è altro che un’accozzaglia di cliché anni ottanta, piena di riferimenti a film, manga (uno su tutti Ghost in the Shell), e tanto altro di quanto sfornato in quegli anni. E proprio per questo ci piace.

Se non hai un gatto non sei nessuno

Tokyo 42 è innanzitutto uno sparatutto-sandbox. Le varie missioni che sceglieremo hanno una buona dose di varietà d’approccio: sfruttare la mappa sarà essenziale in ogni frangente, non solo se si vuole affrontare il tutto in stealth, ma anche se si vuole intraprendere la strada di uno Steven Seagal qualunque. Il nostro arsenale è molto vario, e va dalle classiche pistole ai fucili di precisione, sino al bazooka e a una katana che regala grosse soddisfazioni. Quando si comincerà a fare sul serio inizierà una vera e propria guerra: capiterà molto spesso di trovarsi da soli contro decine di nemici e centinaia di proiettili visibili a schermo; proprio quest’ultima caratteristica sarà essenziale dato che ci permetterà di schivare letteralmente i colpi nemici e di rispondere di conseguenza, magari sfruttando la scarsa IA degli avversari.
Particolare è anche il sistema di puntamento – un po’ macchinoso, a dir la verità –nel quale diventa essenziale mirare con attenzione ma, complici alcuni problemi di prospettiva, può risultare frustrante, soprattutto durante i momenti più concitati. Qualora le cose si mettessero davvero male, entrerà in scena anche un simpatico sistema di mimetizzazione olografica: consumando l’energia di una batteria non meglio specificata, potremmo cambiare aspetto e mischiarci così tra la folla. Anche questo sistema dovrà essere pianificato e bisognerà controllare se nelle vicinanze sia posizionato o meno un sistema di ricarica dell’energia. Una volta perse le tracce, i nemici riprenderanno il proprio pattugliamento. È un titolo che non risulta per nulla semplice, grazie anche al fatto che basta essere colpiti soltanto una volta per ritrovarci all’altro mondo. Oltre a questo avremo a che fare anche con le Nemesi, colleghi assassini che desiderano farci fuori; anche loro possono mimetizzarsi tra la folla per cui, potenzialmente, ogni cittadino di Tokyo può diventare una minaccia. Fortunatamente potrà venire in nostro soccorso – una volta sbloccato – un gattino modificato geneticamente che, con il suo potere di rilevazione, può aiutarci a trovare la Nemesi e quindi rispedirla al mittente.
Un elemento cardine del gameplay di Tokyo 42 è la prospettiva, nel bene e nel male. Tutta la mappa può essere infatti ruotata a intervalli di 90° permettendoci di vedere tutto ciò che rientra nel nostro interesse. Il rovescio della medaglia si ha però quando ci troviamo in spazi stretti, magari tra un palazzo e l’altro, dove diventa praticamente impossibile vedere la strada da percorrere o individuare eventuali ripari. Peggio ancora quando si è alla guida di un mezzo di per sé già difficile da governare che, con l’aggiunta di un cambio prospettico di questa portata, diventa una delle parti più frustranti del titolo.
Tokyo, comunque, si presenta molto colorata, con un design che si rifà in parte a opere come Ghost in the Shell: grattacieli colorati, enormi schermi continuamente animati e alcuni sistemi tecnologici ci proiettano direttamente nel futuro; è liberamente esplorabile a piedi ma è possibile utilizzare anche – una volta sbloccati – i vari punti d’interesse, un sistema di teletrasporto in tempo reale molto utile, data la dispersività e caoticità della mappa. Particolare è anche la scelta di annullare completamente i danni da caduta, anche da altezze proibitive.
Lungo la città sarà possibile fare acquisti in punti specifici, soprattutto di armi e munizioni, ma anche di alcuni oggetti di dubbia utilità, come ad esempio un casco di banane. La mappa presenta anche dei piccoli segreti da raggiungere, oggetti rari che, una volta recuperati, entreranno a far parte del nostro arsenale.
Durante il gioco si sente comunque la mancanza di una reale omogeneità tra le varie parti del titolo, si ha l’impressione che mondo di gioco e narrazione siano completamente slegate e anche alcune meccaniche risultano ancora grezze.
Anche l’audio generale e le musiche non fanno gridare al miracolo, ed è un vero peccato perché proprio sul piano sonoro potevano essere inserite delle chicche davvero niente male. Il titolo è completamente tradotto in italiano.

In conclusione

Tokyo 42 si presenta come un titolo dall’alto potenziale mal sfruttato: l’approccio alle missioni è sicuramente il punto forte del titolo ma il sistema di puntamento impreciso, la mappa molto carina ma caotica e, soprattutto, i già citati problemi di prospettiva, rendono questo indie game spesso frustrante. La sfida data dalle missioni può comunque intrattenere e un contesto che non si prende molto sul serio aiuta molto a non focalizzarsi su alcuni difetti narrativi e di design. Chi è amante della fantascienza anni 80-90 troverà comunque modo di apprezzare le scorribande per le vie di Tokyo.




Drifting Lands

In un’epoca futura non meglio precisata, la società è collassata e il pianeta Terra è stato ridotto in frantumi da un cataclisma che ne ha lasciato soltanto grossi pezzi sparsi fluttuanti nell’universo, fra i quali navigano i pochi umani sopravvissuti. Fra contrabbandieri, ingegneri, mercenari, piloti ed emarginati di ogni risma noi ci troveremo fra i rifugiati di una gigantesca navicella chiamata “L’Arca” a fronteggiare corporazioni che hanno preso il controllo e che intendono accaparrarsi le risorse rimanenti. Al nostro protagonista spetta il duro compito di guidare la controffensiva contro i loro eserciti robotici e di proteggere la propria comunità riconquistando i territori un tempo retaggio dei terrestri.
Scaldate i motori, e pronti a partire.

Isole nel vento

L’ambientazione ricorda subito quella della serie animata Skylands – e non è peregrino pensare che questa sia stata fonte d’ispirazione, essendo entrambi i titoli di produzione francese – ma, a parte l’idea di base, lo sviluppo della trama è totalmente diverso: Drifting Lands segue e sviluppa infatti una propria storyline che tenta di raggiungere una sua profondità, presentando complotti, personaggi ambigui, rovesciamenti e una lieve caratterizzazione dei personaggi che non guasta, ma finisce col perdersi nella banalità di alcune scene ritrite e in una serie di scelte narrative che a volte risultano fumose, troppo repentine, con scene talvolta insignificanti, talvolta criptiche, e dialoghi piatti, non rendendo giustizia a un comparto RPG che è la vera novità del gioco e che avrebbe meritato una storia migliore – e non sarebbe stato difficile continuare a ispirarsi alla serie animata che, pur non godendo di una trama di particolare impatto, quantomeno fila sul piano narrativo, e avrebbe aggiunto qualcosa in termini di resa emotiva.

Role Playing Space

Dal punto di vista del gameplayDrifting Lands è uno shooter a scorrimento orizzontale con marcati elementi RPG.
Sviluppato dai francesi di Alkemi, il titolo pone subito al giocatore una prima scelta tra due livelli di difficoltà: “Normal“, in cui il fallimento della missione comporta la perdita del carico trasportato o addirittura della stessa astronave, e “Forgiving“, modalità esente dalle punizioni descritte, dove la sconfitta non comporta dunque la perdita di quanto raccolto.
In seconda battuta, bisognerà invece scegliere il velivolo con cui iniziare l’avventura tra un Interceptor (fragile, ma agile e potente), un Sentinel (meno potente ma corazzato) e un Marauder (una via di mezzo dei due).
Nel corso del gioco sarà possibile aggiornare la propria nave, acquistare nuove parti e scegliere addirittura le abilità speciali da utilizzare in combattimento, da pagare con la valuta accumulata nel corso di ogni livello. Tutto ciò viene fatto nell’hangar, in una pausa fra una missione e l’altra, dove si potrà sfruttare il denaro raccolto per rivoluzionare la propria nave, dotarla di nuove parti meccaniche e soprattutto sfruttare l’albero delle abilità, nella strutturazione del quale si giocano scelte che risulteranno importanti e strategiche nel corso delle missioni. In fase di combattimento sono disponibili 4 abilità d’attacco e 2 power-up passivi, da far corrispondere ad altrettanti pulsanti del controller (o della tastiera), skill che permettono una maggiore velocità, o di creare piccole esplosioni intorno alla nave, o di rilasciare mine, assorbire i proiettili, e così via; il numero di abilità selezionabili – che aumenta a mano a mano che si va avanti con le missioni, di pari passo con l’avanzamento di rango – è notevole e costituisce davvero un ottimo punto di forza del gioco. Le skill sono utilizzabili all’infinito durante ogni livello, ma richiedono ovviamente un tempo di ricarica dopo ogni utilizzo, come accade in svariati MMORPG.

Fly (game) over

Il rapporto tra l’aspetto role-playing game e quello shooter gioca un ruolo fondamentale nel gameplay di Drifting Lands, diventando gli aspetti dell’uno funzionali all’altro e viceversa.
L’aspetto RPG del gioco è molto ben studiato, dicevamo, e conferisce al titolo una sua profondità, permettendo di selezionare navicelle già abbastanza diverse fra loro per caratteristiche e personalizzarle tramite apposite implementazioni. Durante il combattimento verranno rilasciati svariati loot da alcune navi avversarie sconfitte che daranno al giocatore vantaggi di vario tipo.
Il lato propriamente shooter – che è poi l’aspetto cardine del gameplay – è però certamente meno mirabile, a cominciare dal movimento delle navicelle, dove anche le più veloci risultano a volte un po’ legnose rispetto agli avversari; ma il vero punto dolente è dato dalla ripetitività del titolo: dopo un paio di ore di gioco, le mappe di Drifting Lands cominciano a ripresentarsi inesorabilmente, così come alcuni nemici, che a volte aumentano in termini di resistenza ma che conservano sempre le stesse modalità di attacco. Nonostante la storyline ci provi, il gioco non dà inoltre alcuna ebrezza o il trasporto necessario per andare avanti, né quel senso di vera tensione che alimenta la sfida durante le missioni e che rende poi gli shooter di questo genere davvero divertenti nel lungo periodo.
Non che Drifting Lands non lo sia, anzi, i combattimenti vengono ravvivati dalle nuove skill che ogni volta non si vede l’ora di provare ma, senza questo aspetto, sarebbe un gioco con ben poco da dire. Quel che sbilancia questo titolo è infatti che il giocatore è troppo spesso portato a interessarsi più all’implementazione delle navicelle che agli scontri aerei che, come è chiaro, sono il cuore vero del gameplay del titolo.
Ciò nonostante, la sfida non manca: le armi a nostra disposizione non sono quasi mai così potenti da distruggere una navicella nemica con pochi colpi, portando l’utente a ricorrere alle abilità speciali per semplificarsi il lavoro, e persino a evitare con abilità gli scontri diretti nei momenti più ostici. In alcuni frangenti con un alto numero di nemici sullo schermo, infatti, capiremo che sarà il caso di ritirarsi per non perdere tutto il carico – se si gioca in modalità “Normal”, come consigliamo – e si potrà utilizzare un sistema di fuga rapida che ci farà letteralmente scappare dal campo di battaglia e porrà fine alla missione.

Equilibri tecnici

Se in termini di gameplay troviamo uno sbilanciamento tra le due anime del gioco, l’intero comparto tecnico risulta invece bilanciatissimo.
Dal punto di vista grafico, Drifting Lands fa la sua dignitosissima figura con disegni a mano dettagliati dotati di uno stile piacevole e calibrato che, nonostante i colori accesi, non fa scivolare l’atmosfera nel cartoonesco o nel fumettistico giocoso; le sequenze nelle quali si dipana la trama richiamano abilmente alcuni giochi e film di genere trasposti per l’occasione, e le navi in ​​combattimento sono molto ben realizzate, restituendo forme ben disegnate e aerodinamiche, che ben s’inseriscono negli sfondi molto ben curati e nelle ambientazioni delle missioni, che anzi risultano piacevoli e in linea con lo stile del gioco, e il cui unico problema è, come dicevamo, quello di essere utilizzate troppo spesso.
Un punto a favore va certamente per la colonna sonora, dove all’interno dell’Arca, si hanno sonorità che richiamano la giusta atmosfera mercantile, mercenaria, a tratti steampunk, con un utilizzo di linee di basso che a tratti ricorda la decadenza desertica delle sequenze di Full Throttle, mentre durante le missioni si ha invece un ventaglio di temi musicali davvero di pregevole cura, che vanno da sonorità sintetiche anni ’80 alla pura elettronica passando per brani in cui si sentono gli echi dei riff di chitarra elettrica dei primi Iron Maiden o addirittura ritmi prog-metal e scale in stile Dream Theater.
A voler essere pignoli, la colonna sonora ha l’unico difetto di coprire gli effetti sonori del gioco, che risulteranno quasi azzerati a meno che non vengano settati dalle impostazioni in modo che le armi da fuoco, le detonazioni di certe skill, le esplosioni delle astronavi nemiche possano distinguersi dalla musica di sottofondo.
Da questo punto di vista non si può non ammirare l’ottimo lavoro di Alkemi la quale ha unito un comparto grafico che, seppur poco vario e non particolarmente complesso, risulta elegante, piacevole e ben curato, e una colonna sonora che dà al gioco il giusto mood, compensando alla mancanza di mordente della trama.

Terre alla deriva

Drifting Lands è un titolo che presenta dunque svariati aspetti interessanti, che lo rendono un gioco molto buono ma che non arriva a compiutezza perché gravato da alcuni aspetti deboli.
Come già accennato, le funzionalità RPG arricchiscono il titolo ma compensano solo in parte un aspetto shooter che, pur non essendo gravato da grosse sbavature nei combattimenti, risulta comunque scevro di elementi degni di nota e non supportato da una storyline che gli conferisca mordente; a grafiche ben curate che però non fanno della varietà il proprio punto forte, fa da contraltare una original soundtrack senz’altro azzeccatissima.
In ragione di quanto detto, la longevità del titolo (che offre varie ore di sfida prima di giungere al termine della storia) diventa quasi un difetto, perché la mancanza di mappe, la ripetitività dei livelli e il conseguenziale scemare della sfida avrebbero anche reso più sensata (e più adeguata) una durata più corta: più di una volta, nella seconda metà del gioco, mi sono ritrovato a pensare di non veder l’ora di arrivare alla fine, e forse avrei lasciato perdere prima, se non fosse stato a fini recensori.
Agli appassionati del genere che apprezzano l’ibridazione RPG potrà comunque piacere l’ambizioso progetto di Alkemi, a patto di concentrarsi sulla strategia e sull’utilizzo delle numerose abilità nei combattimenti e di infischiarsene della debolezza della storyline e della ripetitività del gameplay che costituiscono i veri e propri punti deboli di un gioco globalmente ben congegnato.




Beholder

Prendete This War of MinePapers, PleaseFallout Shelter mescolateli bene e ambientateli in un futuro distopico con un pizzico – ma anche un pugno, perché no – di 1984 di Orwell.
Uno Stato totalitario che controlla tutto e tutti, leggi oppressive, sorveglianza totale. Noi vestiamo i panni di Carl Shteyn, vigilante al soldo del regime, responsabile di un edificio che consta di diversi appartamenti. L’incarico è semplice: spiare gli inquilini. Si hanno a disposizione diversi strumenti, dalle telecamere di sorveglianza ai mezzi più classici come la possibilità di introdursi in ogni appartamento e rovistare, a patto che l’inquilino di turno non si trovi in casa, o ancora la semplice conversazione per raccogliere indizi sulle abitudini dei nostri amati vicini di casa e le prove della loro colpevolezza. Sì, perché anche Carl e la sua famiglia vivono in quello stesso palazzo e, mentre nel gioco siamo impegnati a raccogliere informazioni e redigere rapporti per denunciare le attività sospette o antigovernative degli inquilini ai nostri superiori, allo stesso tempo potremo assistere alle tragicomiche vicende dei nostri familiari.
Il fulcro del gioco è dunque la storia, nella quale potremo interpretare di volta in volta diversi ruoli, decidendo di sottostare allo Stato e comportarci da buoni vigilantes o sovvertire lo stato delle cose cominciando ad approfittare della nostra posizione di autorità, scegliendo di fare doppio o triplo gioco a seconda delle possibilità che ci si presentano.

Il sistema di gioco è quello tipico delle avventure grafiche punta e clicca, anche se vi troviamo innestati diversi elementi sottratti agli strategici e ai gestionali. Il gioco, basandosi come già detto sulla storia, è zeppo di conversazioni tradotte a dire il vero abbastanza male e, anche se ciò non rappresenta tutto sommato un vero e proprio handicap, questo aspetto limita non poco l’esperienza poiché gran parte della bellezza del titolo risiede appunto nell’immedesimazione del giocatore, che si troverà a dover operare delle scelte che influiranno sul destino dei personaggi non giocanti, ai quali ci affezioneremo in un modo o nell’altro. Anche le vite dei membri della famiglia del protagonista se non quella del protagonista stesso potranno essere messe a repentaglio per mano nostra o di altri personaggi.
Gli obiettivi di gioco saranno molteplici e per portarli a termine a volte sarà necessario soltanto raccogliere del denaro, altre volte invece avremo un tempo a disposizione limitato. Ciascuna delle nostre scelte porterà a un diverso susseguirsi degli eventi e necessariamente a un diverso finale. Non è tutto oro ciò che luccica, però, e, anche se gli obiettivi sono differenti, non si può fare a meno di notare che il modus operandi risulta da subito abbastanza ripetitivo. Tutto ciò va unito a un persistente senso di ansia addosso dato dallo scorrere incessante del tempo e dalle numerose attività da svolgere; elementi, questi, da non sottovalutare per il giocatore che cerca soltanto una narrazione più rilassata.

Il titolo è uscito su PC poco prima dell’inizio dell’anno e su Steam è già disponibile il primo DLC Sonno Beato che vede come protagonista Hector, personaggio di cui facciamo la – breve – conoscenza all’inizio della storia principale. Noi abbiamo giocato Beholder su un Ipad Air 2 approfittando della più recente conversione su mobile e rimanendo abbastanza soddisfatti delle prestazioni.




TumbleSeed

Creato dal piccolo gruppo di sviluppatori indie Aeiowu, TumbleSeed trae ispirazione da meccaniche piuttosto diverse: l’estenuante difficoltà che contraddistingue il genere roguelike e un classico gioco arcade meccanico noto come Ice Cold Beer. Nonostante il particolare connubio, la combinazione rende il gioco straordinariamente singolare.Proprio perchè TumbleSeed dispone di pochi punti chiari, non è facile fare una breve descrizione e spiegare quel che il gioco vuole rappresentare. In ogni caso, le novità che presenta TumbleSeed  in termini di gameplay lasciano il giocatore con delle sensazioni di “prima esperienza” e al contempo eccitazione.La storia è alquanto minimale: in TumbleSeed si assume il ruolo di un seme che vive insieme a molti altri semi in un piccolo villaggio nella foresta, più precisamente alla base di una montagna. Mentre il villaggio sembra pacifico, sulla cima della montagna qualcosa si sta agitando. Una certa forza sta causando l’apertura di buchi giganti lungo tutto il sentiero che conduce al villaggio, e questo ha comportato il conseguente risveglio delle creature abitanti che sicuramente non sprizzano di gioia. L’unica soluzione è quella di salire sulla montagna e di compiere “La Profezia” prima che il villaggio sia distrutto.Ho detto che si assume il ruolo di un seme, ma non è del tutto preciso: quel che si controlla è piuttosto una lunga barra che si estende da un lato all’altro dello schermo e che deve essere utilizzata per spingere verticalmente il seme lungo la mappa. I lati della barra vengono controllati in maniera indipendente, così da sollevare soltanto il lato sinistro per far scorrere lentamente il seme a destra e viceversa.Non è per niente una sfida da sottovalutare ma, detto questo, non sono ancora sicuro che alla lunga risulti molto divertente. Personalmente, mentre passavano le ore di gioco la mia abilità andava crescendo, spingendomi a salire la montagna più velocemente rispetto alle prove precedenti, ma non ho mai provato il reale desiderio di essere competitivo nella classifica di questo gioco. C’erano sempre momenti in cui mi sono ritrovato a giudicarne male la fisica ma, soprattutto, nelle fasi più ardue del titolo, trattandosi di un “procedurale” mi son dovuto affidare più alla fortuna del seed che alle mie abilità: questo mi pare anche una scorrettezza nei confronti del player da parte di uno sviluppatore.L’abilità non si limita ovviamente solo nell’evitare buche o mostri. È anche necessario serpeggiare attorno il sentiero per raccogliere i frammenti di cristallo che servono come valuta nel gioco, e che, una volta presi, possono essere piantati scorrendo su appositi buchi nel terreno per ricevere una ricompensa a seconda della forma assunta attualmente dal proprio seme.La capacità di cambiare le forme è la chiave per TumbleSeed. Avviate una run con quattro diversi tipi di semi che si possono scambiare ogni volta a nostro piacimento; la bandiera permette di piantare un checkpoint casomai si cada in un buco; piantare le spine creerà una piccola lancia che inizierà a ruotare intorno al seme al fine di danneggiare i nemici, la terza forma provvederà a un piccolo rifornimento di cristalli e la forma del cuore incrementerà i nostri punti vita. Al di là di questi tipi di semi iniziali, è possibile trovare forme nuove e più complicate nascoste nel sottosuolo man mano si progredisce.Questo elemento di strategia e pianificazione è il pezzo più interessante della formula di TumbleSeed, dove si è spesso costretti a prendere decisioni difficili. Devo piantare una bandiera perché ho paura di cadere in un buco e perdere tutti i miei progressi oppure dovrei piantare un heartseed perché ho solo un cuore e potrei morire del tutto? Anche dall’inizio di una nuova run ho trovato molta soddisfazione nel testare nuove tattiche, scegliendo se concentrarmi sull’offensiva, sulla difesa o su una combinazione di entrambe.L’esperimento è divertente, ma TumbleSeed rende ogni errore costoso e doloroso. Come già detto, il gioco porta la struttura di un roguelike, e dunque, quando si muore, si torna alla base della montagna e si ricomincia senza alcuno degli upgrade precedentemente acquistati o valute guadagnate col sudore della fronte. Per non farci cadere in una facile frustrazione, in TumbleSeed si inizia ogni run con tre cuori, ognuno dei quali permette di ricevere un danno da caduta a causa di un buco o prendere un colpo da un nemico. È anche possibile guadagnare più cuori attraverso il già citato heartseed ,creandoci meno pressing psicologico tra le eventuali insidie che nasconde la montagna.Che TumbleSeed ti costringa a ricominciare quando si muore non è un grosso problema: tra le meccaniche che compongono un roguelike, esiste quella di ricevere oggetti o simili quando si ricomincia una run dopo essere morto rendendo il gioco non solo più accattivante ma anche piuttosto longevo. Qui questa meccanica non esiste e, inoltre, quel che rende Tumbleseed veramente frustrante è quanto il gioco ti punisca per ogni singolo danno ricevuto: quando accade, si vedranno resettati tutti i progressi fatti dal seme in uso, vanificando tutti i nostri sforzi.Un esempio: una volta ho deciso di spendere gran parte dei miei cristalli, costruendo uno strato protettivo di lance. Avevo anche un’aura, un bonus passivo che puoi raccogliere; ho fatto in modo che mi colpissero fino a rimanere con un solo cuore. Grazie all’aura, e con un solo cuore, avevo la possibilità di piantare gratuitamente i semi. Muovendomi nelle profondità della giungla – il secondo bioma del gioco – cominciavo a sentirmi invincibile. Ma, mentre stavo risanando un punto vita, ho avuto un attimo di distrazione e sono accidentalmente rotolato verso una piccola mosca che, muovendosi in maniera innaturale e spasmodica, è riuscita miracolosamente a evitare le mie lance e a colpirmi. Un singolo danno mi ha fatto perdere tutte le lance, l’aura e i cristalli, distruggendo tutto quello che avevo costruito fin dall’inizio della run.In conclusione posso dire che Tumbleseed è un gioco dedicato sia a chi ama le alte difficoltà ma soprattutto a chi è ricco di pazienza, poiché questa è la principale abilità su cui gli sviluppatori pare abbiano puntato per sfidare i proprio giocatori, e forse per far inserire una sottile, inconscia morale nel gioco.




Virginia

Il recente annuncio di Transference VR durante la conferenza Ubisoft all’E3 ci ha dato ancora una volta dimostrazione di come il mondo cinematografico e quello videoludico vadano sempre più intrecciandosi, nutrendosi dei rispettivi mezzi tecnici, linguaggi e suggestioni formali e sostanziali. Il meccanismo è in atto da tempo, il sempre maggior ricorso nel settore agli attori hollywoodiani è un segno di ulteriore ibridazione, e quando titoli come Virginia si affacciano nel panorama dei videogame abbiamo la misura di quanto la settima arte sia un’influenza di rilievo per certi autori e game designer, anche in termini di regia e sceneggiatura.
Sviluppato da Variable Games, Virginia segue la storia di Anne Tarver, neo agente FBI assegnato al caso della scomparsa del giovane Lucas Fairfax e, al contempo, incaricato di riferire agli Affari Interni del comportamento della collega Maria Halperin, con cui si trova in coppia sul caso. Da questi presupposti, piuttosto classici, prende le mosse un intreccio che si complicherà progressivamente, mostrando risvolti complessi che porteranno il giocatore in un dedalo di misteri nascosti dietro la quieta immagine dell’ordinario.

Richiami seriali

Pur godendo di una trama complessa, sul piano narrativo Virginia prende le mosse da stereotipi classici del cinema e della fiction televisiva. Come se non bastassero i riferimenti agli UFO che aleggiano nel corso della storia, a rievocare X-Files si aggiunge la collocazione dell’ufficio della Halperin in un seminterrato, che ricorda quello del buon vecchio Fox Mulder, l’agente meno amato dai vertici del FBI. Seppur i richiami sono estremamente ricorrenti, non è la serie di Chris Carter il principale riferimento del titolo: le dinamiche della provinciale Kingdom (immaginaria cittadina della Virginia), ricordano molto da vicino quelle dell’altrettanto immaginaria Twin Peaks, ed è proprio nell’opera di David Lynch che troviamo il basamento concettuale di Virginia. A partire dal soggetto dell’indagine, quel Lucas che con la sua scomparsa diventa la mano atta a scoperchiare il Vaso di Pandora delle esistenze dei miti cittadini di Kingdom, svolgendo quindi una funzione simile a quella di Laura Palmer in Twin Peaks, e diventando il fulcro attorno al quale si srotola l’inconscio della stessa protagonista, Anne. Virgina non è infatti la classica detective story: l’indagine diventa anzi quasi un pretesto per mostrare la polvere nascosta sotto il pesante tappeto di Kingdom, ma soprattutto per leggere dietro le vite dei due personaggi principali, gli agenti Anne e Maria. In Virginia non sono presenti enigmi, neanche sotto forma di piccoli puzzle, e per questo possiamo definire il titolo come una “visual novel”. Il puzzle è probabilmente la personalità stessa della protagonista: in parallelo all’indagine sulla scomparsa del giovane Lucas, è evidente come Anne conduca una silenziosa ricerca su alcuni aspetti del proprio passato che non hanno mai trovato risposta.

Ricordo, cammina con me

Il gioco alterna infatti una narrazione lineare – cronologicamente ordinata nel susseguirsi dei singoli giorni che compongono la settimana in cui si colloca l’indagine – a rapidi flashback, visioni, sequenze oniriche, figlie del linguaggio lynchiano che pervade l’intero titolo. Le memorie e le visioni di Anne tendono sempre più a confondersi col piano del reale, i simboli sono talmente vividi da lasciare più di una volta il dubbio sulla loro veridicità. È un impianto che ricorda Twin Peaks, ma anche Blue Velvet, altro film di David Lynch dal forte apparato simbolico, anch’esso ambientato in una piccola cittadina americana, al punto che, nell’unica sequenza del videogame ambientata in un Roadhouse, non mi sarei stupito di sentire il pezzo di Bobby Vinton che dà il titolo al lungometraggio del regista di Missoula.
Simbolismo e tendenza all’astratto per un titolo ambizioso, dunque, ma non sempre questi elementi sono ben calibrati: Virginia gode infatti di un immaginario surreale espresso in sogni e allucinazioni che dà spesso luogo a un’ambiguità a volte confusionaria. Ma, se è vero che la realtà è talvolta contaminata dalla finzione, è altrettanto vero che la finzione rivela a sua volta scampoli di verità nascoste nelle profondità della coscienza, e questo meccanismo riesce a volte a fornire in maniera efficace vari indizi su cosa agiti il subconscio di Anne. Più di una volta però questo procedimento non risulta efficace, con la conseguenza che il flusso simbolico perde in potenza e armonia, risultando caotico, claudicante e solo parzialmente apprezzabile. Elemento che si fa tanto più delicato nella misura in cui non sono presenti dialoghi o linee di testo a contribuire alla spiegazione della storia: Virginia opera infatti una scelta di campo coraggiosa e che, in ogni caso, dà i suoi frutti in fase di regia, la quale riesce a offrire ottimi momenti di cinema, con un montaggio serrato e improvvisi salti scenici non solo nelle cinematiche, ma soprattutto nei momenti di gameplay.

Il bisonte, la scatola, il cardinale

Lo stile cinematografico di Virginia è uno degli aspetti più riusciti del titolo, capace di dare al giocatore una narrazione essenziale ed efficace e abile nel giocare con gli stilemi di un certo cinema d’autore statunitense. Siamo ovviamente lontani dalle vette simboliste di registi del calibro di Lynch, Cronenberg o Ferrara, la regia è qui molto più acerba, talvolta ingenua, ma è innegabile come Virginia sia uno dei migliori esempi del genere in campo videoludico, raccontando una storia che regge pur in assenza di dialoghi, affidandosi al montaggio e alla potenza di immagini popolate da simboli poderosi che vanno dal bisonte (animale americano per eccellenza) al cardinale rosso (uccello detto “cardinale della Virginia“, che ritorna come un ossessivo redde rationem della protagonista con il proprio passato), i quali ricorrono nelle visioni e nei sogni di Anne unitamente a simboli quotidiani, quasi banali, che scandiscono il tempo e il ritmo della storia.
Assume forte valenza simbolica la chiave spezzata che Anne porta sempre con sé, simulacro attorno al quale ruotano il proprio vissuto irrisolto, il rapporto col padre, i misteri sepolti, la paura d’affrontarli e l’impossibilità d’aprire una scatola nascosta in interiore che serba verità che spesso si preferirebbe non conoscere.

Suoni e visioni

Virginia non è certo un titolo elaborato sul piano grafico, con modelli tridimensionali in cel shading che conservano comunque un proprio stile e che danno il loro meglio negli ambienti aperti, nei quali predominano i colori chiari. Nell’opera dominano inoltre i cromatismi, con un ricorrere del rosso che ricopre un valore certamente simbolico, e che fa il paio con l’erubescenza del cardinale della Virginia.
Un punto a favore va alle animazioni prodotte da Terry Kenny – abilmente affiancato dal Pink Kong Studios – le quali rivestono un ruolo molto importante nel dettagliare una storia che, in assenza di dialoghi, risulta esaltata dai particolari visivi, dalle espressioni, dalle movenze dei corpi, atte a rendere atteggiamenti o particolari stati d’animo dei personaggi.
Sul piano tecnico si riscontrano un po’ di problemi di frame rate, nonostante il titolo sia stato giocato a 30 FPS come consigliano gli sviluppatori sin dal menù iniziale; nulla che risulti troppo fastidioso, considerando soprattutto che non vi sono particolari esigenze di precisione, ma sono comunque piccoli difetti presenti nel titolo riscontrati da più di un giocatore.
Il vero capolavoro dell’opera è però il comparto sonoro, una raffinatissima colonna sonora composta da Lyndon Holland ed eseguita dall’Orchestra Filarmonica di Praga che non sfigura nel confronto con i suoi omologhi della settima arte, accompagnando l’azione con perfetta coerenza e restituendo in maniera magistrale quel senso di sospensione proprio del contesto onirico, giocando a volte su una dialettica oppositiva suono-ambiente che regala risultati di straordinaria armonia (vedi la traccia Roadhouse nella sequenza al locale notturno); Holland, classe 1987, dà prova di grande perizia e di una consapevolezza sul piano armonico affatto scontate per un compositore così giovane, spaziando da chiare influenze di genere – una su tutte quella di James Newton Howard e dei suoi primi lavori quali Il Fuggitivo, Linea Mortale e Virus Letale, dalle quali eredita soprattutto la commistione fra suoni orchestrali e sintetizzatori – ad alcune più recenti OST di Cliff Martinez, e creando un ponte fra la musica classica e le sonorità sintetiche ’80-’90 che ben si presta ad accompagnare le sequenze di un titolo come Virginia.

Finali senza fine

Nel saggio Tipologia del romanzo poliziesco, il critico Tzvetan Todorov distingueva due narrazioni all’interno delle storie appartenenti al macro-genere del giallo: la storia del delitto e quella dell’inchiesta condotta dal detective, che altro non è che un mezzo per ricostruire la prima storia. Nel caso di Virginia, il delitto (ovvero la scomparsa del giovane Lucas) è un mero pretesto per un viaggio multiforme, che attraversa i tortuosi sentieri dell’inconscio delle due protagoniste e che finisce col costruire un grande affresco d’intrighi, complotti, società segrete e misteri governativi racchiuso nel microcosmo di una piccola cittadina americana. Come molti suoi corrispettivi cinematografici (e non), quel che Virginia lascia al giocatore è un senso di stordimento e disorientamento di fronte a una storia dal forte impatto visivo (e visionario) e non pochi quesiti aperti. Il titolo si affida a una potenza di immagini basata su simboli, icone e simulacri i cui significati sottesi si dipanano tra salti temporali e narrativi, diacronie, flashback che aprono uno squarcio sul passato dei personaggi principali e flashforward che prefigurano scenari futuri probabilmente irrealizzati fino all’apoteosi lisergica della sequenza finale. Come nel Doppio Sogno di Schnitzler, il dualismo fra realtà e immaginazione lascia il giocatore nell’incapacità di distinguere il vero dal falso, quel che Anne ha realmente vissuto e quel che invece è frutto di sogni e visioni; se questo non è un difetto in sé, lo è però il suo contenuto, quel piano surreale del titolo che da un lato conferisce a Virginia una gran forza immaginifica ma, dall’altro, finisce col risultare troppo carico, talvolta ridondante, spesso frammentario, penalizzando una trama i cui risvolti si perdono in un insieme astratto e indefinito.
Il lavoro di Jonathan Burroughs e soci rappresenta comunque un pregevole unicum in ambito videoludico, strizzando l’occhio ai grandi maestri del cinema surreale sul piano icastico e, per scelte formali, ai noir più visionari di metà ‘900, da The Third Man di Carol Reed a Laura di Otto Preminger, con i quali ha in comune le atmosfere rarefatte e una doppia articolazione narrativa in cui tutti i personaggi, gli oggetti, i simboli assurgono a simulacri guidati da una voce senza corpo.
Titolo difficilmente incasellabile in ambito videoludico (a meno che non ci si voglia fermare spregiativamente e semplicisticamente a una definizione di “walking simulator” che non tiene conto di contenuti e forme), Virginia è una detective story che non presenta enigmi o elementi di difficoltà per il giocatore, il quale non dovrà far altro che immergersi in una narrazione di genere dai risvolti metafisici e psicologici che, pur non risultando priva di difetti, indurrà i più curiosi a rivivere una seconda volta le circa 3 ore di gameplay per vedere la storia da un’altra angolazione, nella speranza di decifrare, nel marasma di simboli sfuggiti a un primo sguardo, la chiave spezzata atta ad aprire la cassetta dei significati nascosti dell’opera.




Samurai Warriors: Spirit of Sanada

Sebbene sembri, a un primo sguardo, il solito musou che Koei Tecmo Omega Force ci propinano da circa 20 anni, Samurai Warriors: Spirit of Sanada offre delle chicche che, a suo modo, lo rendono unico.
Il gioco in questione è uno spinoff della serie Samurai Warriors, che a sua volta è uno spin-off della serie Dinasty Warriors (Shin Sangoku Musou in Giappone, da quì ha origine appunto la parola che ne identifica il genere di appartenenza).

Storia

La storia è incentrata sulla vita di Masayuki Sanada, e ne percorre le varie fasi fino alla morte, per poi incentrarsi sulla vita del più famoso figlio Yukimura; verremo a conoscere quindi il loro punto di vista nella guerra per il dominio del Giappone dell’epoca Sengoku, oltre a molte personalità del periodo che potremo utilizzare come alleati, o che saranno nostri nemici nelle battaglie secondarie (in tutto ci sono 61 personaggi giocabili). Di ogni personaggio potremo leggere una scheda dettagliata che ci racconterà la loro storia, e peccato che nel gioco non sia disponibile la lingua italiana, perché una simile mole di testo in sola inglese può rappresentare un vero problema per chi non ha dimestichezza con la lingua.

Gameplay

Le novità principali rispetto agli altri musou consistono nell’esplorazione di villaggi o città e nei mini giochi all’interno di esse: si può pescare, coltivare, visitare il dojo per imparare nuove tecniche, prendere il tè con un alleato per rafforzare il legame, visitare l’archivio per rivivere eventi passati, visitare il fabbro per aumentare la potenza delle armi e, infine, visitare vari negozi.
Un’altra importante novità è rappresentata dai cosiddetti “six coins (che raffigurano il simbolo del clan Sanada): parlando con gli alleati a volte guadagneremo dei punti che riempiranno le sei monete, ognuna delle quali rappresenta uno stratagemma da usare in battaglia, il quale ci faciliterà la missione che stiamo affrontando, a volte curando le nostre ferite o quelle degli alleati, a volte dandoci un bonus alla velocità, e via dicendo.
Il combat system invece è quello a cui siamo abituati da sempre, che si incentra più sulla spettacolarità che sulla tecnica vera e propria: sebbene sia possibile imparare tantissime tecniche, si può completare il gioco facendo sempre le stesse combinazioni di mosse, il che può risultare alla lunga monotono per chi è nuovo al genere o non lo ama.

Grafica e Sonoro

L’aspetto tecnico del gioco non è dei migliori: la modellazione dei personaggi è discreta, mentre tutto il resto è piatto e con una densità poligonale bassa, le textures sono spesso in bassa risoluzione, insomma, se non fosse per la presenza di centinaia di nemici presenti contemporaneamente, per il frame rate solido e per la spettacolarità degli scontri, ci troveremmo ampiamente sotto la sufficienza.
Il gioco è disponibile su PC e Ps4 e gira a 1080p su PS4 e 4k nativi (uno dei pochissimi giochi a supportarli) su PS4 pro.
Per quanto riguarda il sonoro: è stato fatto un discreto lavoro sulle musiche, epiche al punto giusto ma nulla di trascendentale.
I dialoghi sono di buona fattura e ben recitati, anche se disponibili solamente nella lingua giapponese, e gli effetti sonori durante le battaglie sono quelli classici, fra suoni di mischia, cavalli e sferragliare di armi e armature.

Conclusioni

Samurai warriors: Spirit of Sanada è un gioco ricchissimo di contenuti ed è caldamente consigliato a chiunque sia appassionato di storia giapponese e ami il genere musou (e conosca la lingua inglese); la storia principale ci terrà impegnati per una ventina di ore ma, se si vuole completarlo al 100%, ce ne vorranno almeno il doppio.
Se non si ama il genere invece conviene starne alla larga, le novità che apporta il titolo in questione non sono abbastanza a renderlo appetibile a un pubblico più eterogeneo.