Gravity Rush 2

Il mio primo giorno di lavoro estivo: al ristorante, addetto alla sala. Era l’estate del 2007, un’isola nel bel mezzo del Mar Mediterraneo, caldo asfissiante e un pizzico di tregua nemmeno dopo il tramonto. Avevo sostituito il ragazzo che adesso lavorava come barman nel locale situato un numero civico più avanti, coi tavoli piazzati proprio sullo stesso marciapiede in cui erano sistemati i nostri. A fine serata un cliente, un signore distinto dagli occhi a mandorla, turista straniero ovviamente, habitué col senno di poi, mi fa un cenno chiedendomi il conto. Arrivato al tavolo, mi guarda e, molto lentamente, con un marcato e inconfondibile accento giapponese à la Haruhiko Yamanouchi mi fa: «Sapete qual è il problema di voi italiani?». Sorrido imbarazzato e aspetto che continui, sperando in cuor mio di non aver commesso errori, durante il servizio, che potrebbero averlo infastidito e che potrebbero mettere a repentaglio il lavoro appena trovato,  «In Giappone,» prosegue «lavoriamo ogni giorno per migliorarci in ciò che sappiamo fare»; lì per lì non riesco a capire a cosa esattamente si riferisca e mi si dipinge sul volto quell’espressione tipica di attonimento di chi vorrebbe replicare ma non ha ancora colto il senso e però rimane a bocca aperta, in silenzio. Lui, voltandosi per la proverbiale, impercettibile frazione di secondo, posa lo sguardo sul ragazzo che sta lavorando al bancone del locale accanto al nostro ristorante, quel ragazzo di cui io oggi sono il sostituto; poi si rivolge nuovamente a me e continua: «Voi italiani, invece, non vedete l’ora di fare qualcosa di nuovo ogni giorno. Oggi siete qui, domani vi trovate lì.»

Japan Studio, Project Siren, Keiichiro Toyama e il suo Team Gravity: è il 2012 e Gravity Daze (questo il titolo originale), partito come progetto PS3 fa invece la sua apparizione come esclusiva su PS Vita, la console portatile di Sony. Nel giro di pochissimi mesi ne diventa vox populi la killer-app, per quanto il titolo rimanga poco conosciuto in Occidente, viste le scarse vendite della console.
Il gioco, un action adventure in cel-shading che sfrutta appieno le potenzialità del dispositivo, ci introduce a un mondo fantastico e fluttuante nel quale la protagonista – la bella, ingenua e smemorata Kat – si ritrova a girovagare alla ricerca dei propri ricordi in compagnia di un misterioso gatto che, a quanto pare, è causa del potere che le permette di manipolare la gravità e di aiutare i bizzarri cittadini di Hekseville, minacciati da tempeste gravitazionali e sinistre creature, fino a diventarne la beniamina.
Devo dire la verità: prima di cominciare a giocare questo secondo capitolo ho deciso deliberatamente di non provare la remastered per PS4 a cura di Bluepoint Games, ho preferito invece rispolverare PS Vita per rinfrescarmi un po’ la memoria come si deve. A distanza di cinque anni, Gravity Rush rimane un gioco di tutto rispetto, così come la console che lo ospita, che nel tempo è stata – da me – messa da parte in favore dell’handheld di Nintendo (quando si dice che sono i giochi a fare la fortuna di una console e non la tecnologia hardware, come invece in molti sostengono di questi tempi), un titolo, dicevo, ancora in grado di divertire, un gioco che trova la sua giusta dimensione su quella console portatile.

In questo secondo episodio, la storia riprende esattamente da dove si era interrotta, con una Kat catapultata in un nuovo scenario, attorniata da nuovi personaggi e priva dei propri poteri: il pretesto giusto insomma per poter reintrodurre le meccaniche di gioco, a beneficio di chi si approccia per la prima volta alla saga, e nuovi comandi sul controller della Playstation 4 per chi invece, come me, proviene da un’esperienza su portatile.
Ed è proprio qui che nascono le prime perplessità: i comandi sembrano essere peggiorati rispetto al predecessore, se non fosse che effettivamente è possibile regolare/disabilitare alcune funzioni assegnate al controller, si direbbe comunque che non è stato fatto alcun passo avanti in tal senso. Man mano che Kat va riacquisendo poteri e abilità durante il primo e il secondo capitolo della storia ci si rende conto di quanto possa diventare sempre più frustrante – specie poi nelle fasi avanzate di gioco – gestire i movimenti a mezz’aria della protagonista, che di libertà ne ha veramente tanta visti i poteri di cui dispone. Complice di tale, annunciato disastro è una telecamera anch’essa per nulla migliorata rispetto al primo episodio, che ci darà del filo da torcere durante le 20 ore abbondanti in cui si svolge la parte principale della storia. La narrazione, a causa di alcune ingenuità in fase di scrittura, come ad esempio il dar per scontato molti degli eventi accaduti in Gravity Rush o durante i quasi venti minuti dell’anime Ouverture – pubblicato gratuitamente sul canale Youtube di Playstation un mese prima del lancio, doppiato nello stesso idioma di fantasia che caratterizza i dialoghi del gioco e sottotitolato anche in lingua italiana – non tende certo all’eccellenza e, pur ribadendo i buoni spunti che caratterizzavano il primo episodio, li riduce a una a tratti sbiadita imitazione.

Ma veniamo ai lati positivi: a partire dall’eccellente realizzazione artistica, ispirata tanto a Mœbius quanto a certe produzioni manga, continuando per le sublimi animazioni e la straordinaria colonna sonora, un framerate piuttosto stabile, una rosa di missioni secondarie, sfide, cacce al tesoro, un sistema di potenziamento delle abilità accompagnato dall’uso di speciali talismani che più in là nel gioco possono anche essere fusi fra loro per crearne di nuovi, aggiungendo così una buona dose di personalizzazione ai propri poteri, non dimenticandoci inoltre di una modalità foto migliorata, dell’implementazione delle gestures, dei costumi (quello di 2B direttamente da Nier: Automata su tutti), del DLC gratuito che espande la storia e ce la fa vivere dal punto di vista di Raven, dei sempre piacevoli dialoghi in stile fumetto in parallasse e di alcune memorabili bossfight, risulta evidente che gli aspetti di rilievo di questo titolo non sono certo pochi. Lodevole è anche lo sforzo fatto per rendere un po’ meno ripetitive alcune di queste attività, se si gioca con una connessione a internet attiva, dando la possibilità di poter sfidare e raccogliere sfide, giudicare scatti fotografici e a nostra volta venire giudicati dagli amici o da simpatici sconosciuti.

Jirō Ono è un arzillo vecchietto di 92 anni. Il suo piccolo ristorante conta meno di dieci posti a sedere e per poter gustare il suo menu 3 stelle Michelin bisogna prenotare mesi prima e avere in tasca almeno 300 dollari in contanti. Sin dall’età di 9 anni si sveglia ogni mattina con un solo proposito: migliorare il proprio sushi.
Ciò che accomuna il grande chef di Tokyo e i membri di Project Siren  oltre al non essere italiani – è la minuziosa dedizione al proprio lavoro. Probabilmente, offrendo a questi ultimi l’opportunità di migliorare quegli aspetti che non hanno del tutto convinto in Gravity Rush 2, sono certo che i prossimi capitoli potranno tendere naturalmente ad avvicinarsi di più a quell’idea di perfezione che ogni buon giapponese insegue.




Cooking Witch

Ingredienti di Cooking Witch: una scopa volante, un calderone gigante, e vari bambini da cuocervi dentro.
I ragazzi di VaragtP (team di sviluppo del gioco) credo abbiano centrato l’obiettivo fornendo al pubblico un titolo divertente e al contempo super economico: si trova in vendita a circa 1,50 €. Certo non ci si aspetta un tripla A, ma in realtà – utilizzato per brevi periodi – risulta essere un ottimo passatempo. Proprio per questo motivo mi chiedo se la scelta di sviluppare il gioco esclusivamente su piattaforma Steam – non optando direttamente per i dispositivi mobili – sia stata la più azzeccata.

Breve ma intenso

L’endgame di Cooking Witch si raggiunge praticamente in meno di 2 ore: una volta sviluppata una certa manualità con i movimenti della strega – praticamente si gioca solamente con il mouse – tutto viene molto più semplice e, inoltre, acquistando i potenziamenti nel giusto ordine, la durata del gioco verrà ulteriormente penalizzata.

Cosa bolle in pentola?

Cooking Witch si limita a farci svolazzare a cavallo della nostra scopa al di sopra di un parco in cui degli innocenti bambini stanno allegramente festeggiando Halloween: rapire i pargoli e gettarli nel calderone sarà la nostra missione. A metterci i bastoni tra le ruote ci penseranno i “daddy” (i papà), che cercheranno di fermarci con dei colpi di fucile a pallettoni che dovremo abilmente evitare. Per ovviare al problema, si potrà lanciare un bambino sulla testa di uno dei daddy che, una volta stordito, potremo gettare a sua volta nel nostro calderone. Una volta completati tutti i potenziamenti avrete terminato il gioco, che difficilmente riavvierete senza uno scopo.

In conclusione

Ribadendo che è davvero un peccato che non sia ancora presente una versione per device mobili, Cooking Witch rimane un simpatico giochino che ci farà trascorrere un paio d’ore di spensieratezza senza grosse pretese ma sicuramente prive di noia.

Videorecensione




Dirt 4

Trascorsi 6 anni dal predecessore Dirt 3, e quasi 2 anni da Dirt Rally, Codemaster torna alla ribalta facendo mostra della comprovata esperienza nel campo e proponendo Dirt 4, un titolo che sembra puntar dritto al trono come miglior simulatore di rally sul mercato. Gli anni di stop molto probabilmente hanno giovato alla struttura del gioco, che adesso pare più solida e strutturata, rendendo Dirt 4 molto più fruibile anche agli amanti della guida simulativa, come la maggior parte degli ultimi racing game. Il gioco sembra esser stato progettato per dare il massimo utilizzando volante e pedaliera, possibilmente anche con un pedale frizione, vista la presenza in-game di alcune funzioni specifiche come lo stacco frizione per una partenza perfetta.

Mangiare la polvere

Gli sviluppatori non sembrano essersi risparmiati nei dettagli: il comparto grafico di Dirt 4 gode, infatti, di ottimi modelli poligonali, texture di alta qualità e shader che rendono incredibilmente realistica ogni superficie. Gli effetti particellari (come fumo, acqua, polvere, ghiaia, terra, neve…) la fanno da padrone, donandoci un’ottima esperienza visiva, e tutto ciò si nota ancor di più nei replay, nei quali, senza dover stare attenti alla gara, possiamo apprezzare l’intero environment.

Simulazione per passione

Alcune delle nuove peculiarità di Dirt 4 rendono il gioco molto più avvincente e simulativo del precedente capitolo:

  • Danni: adesso molto più caratterizzati (incideranno sensibilmente sull’esperienza di guida).
  • Foratura gomme “dinamica”: una volta forata la gomma sarà la nostra abilità alla guida a far sì che non esploda il copertone, lasciandoci poi con il cerchio scoperto.
  • Riparazioni: avverranno a ogni intermezzo tra una gara e l’altra, grazie agli ingegneri della squadra che potranno essere più o meno capaci nel risolvere i problemi.
  • Condizioni climatiche variabili: a volte ci renderanno difficile abituarci al fondo dei tracciati.
  • Commissari di gara: si dovrà interagire con loro a ogni finale di tappa.
  • Partenza con stacco: usufruendo della frizione di una pedaliera, si potranno effettuare partenze brucianti al centesimo di secondo.
  • Regolazione assetto: decine e decine di impostazioni – anche abbastanza complesse – per creare il vostro preset ideale per ogni tipo di gara.

Inutile sottolineare chem per godere a pieno del gioco, è consigliabile escludere gli aiuti alla guida e impostare la modalità simulativa.
Sarà necessario capire sin da subito se si preferiscono le auto 4WD (a trazione integrale) o le 2WD,  anche se è consigliabile avere dimestichezza con entrambe, visto che offrono due esperienze di guida totalmente diverse.
Inizialmente verrà un po’ dura abituarsi al controllo dell’automobile ma, grazie ai primi tracciati (composti per lo più da curve larghe) e alla Dirt Academy (che ci impartirà le prime lezioni di guida sportiva), affonderemo già le basi della nostra carriera in Dirt 4.
È interessante e altrettanto innovativa la parte manageriale del gioco: potremo sin da subito fondare il nostro “team corse”, impostando nome, colori e livrea personalizzata, tra le poche – purtroppo – disponibili. Da qui in poi potremo iniziare a creare la nostra squadra: ci serviremo di diverse figure, tra cui ingegnere capo, ingegneri e PR che ci procacceranno sponsor e nuovi contatti per lo staff; più alto sarà il rango del nostro staff, più alti saranno i costi per mantenerlo, ma anche i benefit che avremo saranno direttamente proporzionali. Sviluppare una base operativa ci darà accesso anche ai nuclei di ricerca, che provvederanno a fornirci nuovi componenti sempre più performanti.

Rumoroso è bello

Non è da meno il comparto audio del gioco: non c’è nulla di più bello che ascoltare, a volume sostenuto, degli effetti sonori ben riprodotti: rombi da paura, con motori aspirati che urlano o turbinati che sibilano, accompagnati da tutti i vari scoppi delle valvole a farfalla (tipico delle auto da rally), ghiaia che sdrucciola sotto i copertoni, asfalto che stride a ogni derapata e tanto altro (chiunque abbia mai visto una vera corsa di rally sa di cosa sto parlando).

Una campionato tira l’altro

Dirt 4 offre uno svariato numero di contenuti che lo rendono alquanto longevo. Escludendo le modalità “multiplayer” e “gioco libero”, fini a se stesse, ci rimangono a disposizione:

  • Carriera: la principale, nella quale affronteremo moltissimi campionati con ognuna delle 4 diverse discipline:
    • Rally
    • Land Rush
    • Rally Cross
    • Historic Rally
  • Competizione: tramite la quale avremo accesso a eventi giornalieri, settimanali o mensili sempre diversi.
  • Dirt Academy: qui potremo imparare le nozioni di guida.
  • Asso del volante: per superare le sfide “prova a cronometro” e “autoscontro”.

Il punto della situazione

Insomma Dirt 4 ci terrà impegnati sicuramente per parecchie ore, senza lesinare divertimento e frustrazione in egual misura. Vi capiterà sicuramente di esplodere in qualche esultanza completando una gara senza commettere errori, facendo un tornante perfetto o una frenata a pendolo, sono momenti che vi faranno essere fieri di voi stessi: godeteveli fino in fondo.




Cooking Mama: Sweet Shop

Cooking Mama non è sicuramente una delle IP Nintendo più famose e vendute, essendo una saga principalmente indirizzata a un tipo di pubblico ben preciso, di solito molto giovane; non possiamo però negare che un po’ tutti siamo affezionati ai giochi dove sia possibile pasticciare in cucina. In questo capitolo ci ritroveremo a vestire i panni di un dipendente di Mama, e avremo il compito di cucinare per il suo negozio di dolci. Non ci sono grandissime novità dal punto meccanico e grafico, si è mantenuta un’impostazione classica, tutta d’impronta nipponica, e lo scopo è sempre quello di cucinare ricette affascinanti e appetitose: questo titolo è interamente dedicato ai dolciumi, dei quali bisognerà eseguire passo per passo tutte le lavorazioni entro un dato limite di tempo; che sia cuocere pancakes o tagliare la cioccolata, le nostre mansioni andranno terminate entro il minor tempo possibile e con molta accuratezza, per ricevere da Mama una medaglia d’oro. Quasi tutti i passaggi sono facili, anche fin troppo: in molti casi basterà, infatti, premere sul touchscreen con la stilo o farla semplicemente ruotare. Ci sono poi passaggi un po’ più complessi, che con il minimo errore potrebbero rovinarvi il piatto e, di conseguenza, farvi ottenere una medaglia di bronzo. Dopo aver terminato le preparazioni, potremmo personalizzare la maggior parte dei nostri dolci, e dopo la personalizzazione ci comparirà il punteggio ottenuto. Il punteggio può variare da 0 a 100, 0 se si otterranno tutte delle medaglie di bronzo, 50 se si otterranno tutte d’argento e 100 se si otterranno tutte d’oro.

Oltre ai normali minigiochi, una novità di questo capitolo risiede nella possibilità di allestire e gestire una pasticceria nella quale vendere le nostre delizie culinarie. I soldi guadagnati potranno essere utilizzati per comprare degli oggetti come vestiti, tovaglie e così via. La vera novità del capitolo è però la possibilità di aprire la propria catena, con svariati negozi in molte parti del globo. In ogni negozio ci sarà un minigioco diverso nel quale potremmo cimentarci a cercare di stabilire un ottimo punteggio o un record. La modalità multigiocatore locale è molto divertente, visto che ci permette di poter “affrontare” un altro aspirante cuoco. Come già detto in precedenza, la grafica e anche gli effetti sonori/musiche non sono molto diverse dai titoli precedenti, creando un’atmosfera che si confà all’ambiente e al gioco in sé. Bisogna di certo riconoscere che questo mix di grafica di tipo cartoonesco in stile giapponese ed effetti sonori giocosi rendono il titolo rilassante e carino.

Cooking Mama: Sweet Shop è insomma una garanzia, offrendo quasi del tutto le stesse funzionalità dei titoli precedenti; ha semmai un limite nelle ricette, le quali risultano ripetitive perché ricomprese in un range abbastanza ristretto, trattandosi solo di dessert. Ma, a parte questo particolare, è un titolo che può divertire i più piccoli e regalare momenti di leggerezza e relax anche ai giocatori più adulti.




Alienation

La Housemarque produce da anni titoli twin-stick arcade molto curati, e giochi stimolanti come Dead Nation e Resogun hanno avuto molto successo, ed è per questo che gli appassionati del genere non potevano che attendere con trepidazione la release di Alienation.
Alienation non è solo un eccellente shooter arcade, ma è un titolo nel quale gli elementi rpg  sono gestiti in pieno stile Housemarque, ovvero in maniera eccelsa. Ora vi illustrerò perché, a mio parere, questo gioco dovrebbe essere considerato un must-have.

I cugini di X-com

Vorrei iniziare dal suo più grande difetto, che è la totale assenza di originalità. La Terra è attaccata dagli alieni, e voi fate parte di un’unità speciale che deve fare il lavoro sporco nel corso di una serie di missioni per respingere l’assedio extraterrestre. Abbiamo troppo spesso visto in altri giochi come X-COM questo tipo di storia ma, a differenza di quest’ultimo, qui la trama viene raccontata tramite audiolog e schermate di caricamento, tenendo sempre a una certa distanza il giocatore in termini di coinvolgimento. Alienation si gioca esclusivamente per il gusto della frenesia, ed era ovvio che la Housemarque concentrasse tutto sull’azione e gameplay.
In Dead Nation il meccanismo di gioco portava a un rilascio graduale di nuove armi, ma Alienation si basa più su un sistema rpg vecchio stampo; durante le missioni si può giocare da soli o in co-op, si ottiene più o meno bottino per sviluppare le proprie abilità attive e passive. Per la prima missione è possibile scegliere tra tre classi, ognuna caratterizzata dal proprio stile e albero d’abilità: lo specialista biologico, il Sabotatore e il Tank. i diversi stili di gioco forniscono più varietà nel gameplay, cosa che dà la possibilità di giocare la partita tre volte godendo ogni volta di un’esperienza diversa.

RPG: old, but gold

Lo Specialista Biologico possiede tutti i tipi di tecniche per aiutarlo nella lotta; l’abilità più importante è che questi può ricostituire la salute di tutta la squadra con la semplice pressione di un pulsante, e può anche avvelenare gli alieni o distruggerli con uno sciame di nanomacchine. Il Sabotatore ha una splendida abilità che gli permette di creare un attacco aereo devastante quando la squadra è circondata da nemici. Ultima, ma non meno importante, classe d’eccellenza è il Tank, utilissima per andare in prima linea. La sua abilità principale consiste nel creare uno scudo per tutta la squadra. Tutte le abilità hanno la possibilità di svilupparsi grazie ai punti che si ottengono “livellando”.

Le abilità passive sono uguali per tutte le classi, ma sta a voi trovare maggiore efficienza nella distribuzione per ognuna. Il sistema offre la scelta di concentrarsi su un’abilità o operare un’equa spartizione tra le attive e le passive, dando la possibilità di rendere il personaggio più eclettico. Si tratta di un sistema RPG raffinato con un albero delle abilità non troppo profondo, ma che funziona bene.
Questo aspetto si riflette anche nelle armi: giocando le varie missioni, si guadagnano nuove armi e, più alto è il livello di difficoltà, migliori sono le ricompense. L’armamentario del gioco è piuttosto esteso, in quanto svaria tra SMG, lanciafiamme, vari fucili, lanciamissili e altro ancora. Queste armi possono essere equipaggiate con degli aggiornamenti alle statistiche che si trovano nel mondo di gioco. Ciò incentiva al proseguimento della storia e all’esplorazione dei livelli.

Procedurale che non stanca

Quando, più avanti nel gioco, si vorrà scegliere un livello di difficoltà più elevato, ci si potrà accorgere quanto le prime 15-20 ore di gioco possano essere servite come tutorial. I livelli già incontrati non saranno mai gli stessi poiché la proceduralità creerà sempre diverse sotto missioni, alieni o ostacoli differenti: ciò porta i giocatori a dover fare molta pratica, non avendo la possibilità di attingere allo schema del livello “a memoria”. Esistono inoltre, tra le possibile missioni secondarie, la possibilità di affrontare mini boss, strutturati perfettamente come i mostri elite di Diablo 3, ognuno dei quali avrà degli status atti a fortificarli, ogni volta generati casualmente. Il contenuto metagame pare più sostanzioso rispetto al resto del gioco, fattore che regala una discreta longevità.

Frenesia senza confusione

Molto spesso si ci troverà a usare il multiplayer co-op (il matchmaking funziona perfettamente fortunatamente) poiché si ci renderà conto che il numero di nemici sorpassa nettamente la vostra potenza di fuoco. In Dead Nation accadeva a volte che l’azione risultasse un po’ caotica; Alienation consente numerose personalizzazioni sul personaggio, dal cambio di colore dell’armature o del laser, consentendo sempre di capire quale sia la posizione anche nei momenti di mischia. Riassumendo, il gameplay, le possibilità e le varietà supplementari nelle combinazioni sono sublimi, così come l’esperienza di gioco. Lo stesso si può dire per la qualità audio-video.

Niente è così soddisfacente nel gioco come eseguire un attacco aereo di successo, assistendo successivamente allo smembramento ben realizzato del gruppo di alieni appena massacrati. Ottimi particellari dipingono lo schermo regalando molta soddisfazione ai vostri occhi. Poi, naturalmente, c’è il suono, che si rende spesso protagonista del gioco: le armi hanno un suono forte e chiaro, come dovrebbe essere in tutti i titoli del genere. Non mancano neanche i colpi di classe, sul piano sonoro, come nel caso della ricarica della propria arma, della quale si può sentire il rumore attraverso l’altoparlante del proprio joypad. Gli effetti in termini di grafica e audio sono ben realizzati, senza tralasciare la colonna sonora, che si abbina perfettamente l’avventura.

Conclusioni

La Housemarque con Alienation ha ottenuto un ottimo risultato in termini di gioco. Un titolo che fornisce ore di divertimento, di cui si apprezza ogni secondo, soprattutto la dinamica di gameplay mentre si cercano ovunque orde di alieni e nuovi bottini per sviluppare il nostro personaggio. L’azione e la giocabilità sono “ricercate”, rendendo il tutto una gioia per l’esperienza. Aggiungete il fatto che difficilmente si trovano bug e difetti, lasciando l’esperienza sempre godibile sia in modalità solista che in co-op.
Concludendo, possiamo definire Alienation un must nel genere sparatutto arcade twin-stick, un titolo che mi sentirei di consigliare a tutti gli appassionati del genere.




Prey – Ottimo Direi

Dopo aver giocato e recensito il primo Prey, datato 2006, abbiamo messo le mani su l’ultima fatica di Bethesda che, dopo abbandonato lo sviluppo di Prey 2, si è lanciata verso un totale reboot del franchise. Il nuovo Prey è un opera complessa e ricca di sfaccettature. Vediamo assieme quali sono i suoi pregi e i suoi difetti.

Total recall

Il mondo come lo conosciamo è fondamentalmente diverso: ci troviamo infatti in una timeline alternativa dove, nel 1963, J.F. Kennedy è riuscito a sfuggire all’attentato di Dallas e ad avviare così una massiccia corsa verso lo spazio. Per questo nel 2032, anno in cui sono ambientate le vicende raccontate nel gioco, siamo su Talos I, una gigantesca stazione spaziale in orbita intorno la Luna, dove le più grandi menti scientifiche sono riunite per portare l’umanità su un livello più alto. Talos I per certi versi potrebbe ricordarvi la Rapture di Bioshock e le somiglianze di certo non si fermano qui: Prey prende infatti spunto da diversi capolavori – videoludici e non – di genere fantascientifico ma, ciò nonostante, riesce a serbare una sua identità, creando una trama avvolgente, ben strutturata e ricca di colpi di scena da maestro.
Proprio la corsa allo spazio ha attirato l’attenzione dei Typhon, una razza aliena avanzata con in dote diversi poteri. Dal loro studio si arriverà alla creazione delle Neuromod, oggetti che permettono a chiunque di acquisire qualunque abilità, se sprovvista, e che ovviamente avranno un grosso peso all’interno del gioco. Ma qualcosa durante i test va storto, e Talos I diventerà vero e proprio palcoscenico della prima invasione aliena.
Toccherà a Morgan Yu trovare la soluzione al problema.
Nulla è ciò che sembra e proprio grazie alla sceneggiatura di Chris Avellone, famoso per aver contribuito alla creazione di Fallout 2 e, soprattutto, di Planetscape: Torment (e al momento al lavoro su System Shock 3), Prey diventerà un bellissimo concentrato di storie personali che si integreranno perfettamente al plot principale, come tanti pezzi di puzzle atti a regalare un finale appropriato a ogni percorso intrapreso. Proprio un punto forte del titolo – e non è cosa da poco – è il coinvolgimento generale: tutto ciò che vediamo e sentiamo è in perfetta armonia e addirittura gli audiolog che, non solo hanno rilevanza ai fini narrativi, ma sono anche molto interessanti, veridici e intrecciati tra loro. È uno dei pochi titoli che spingono ad approfondire e soprattutto rigiocarlo visto, come detto, la presenza di finali multipli che non saranno mai banali.
Siamo abituati a vedere le scelte magari con un cambiamento di colore in una linea di dialogo o gesti ancora più palesi. Qui no, ed è proprio questo a conferire a Prey quel qualcosa in più dal punto di vista narrativo: siamo liberi, soggetti pensanti in grado di usufruire del libero arbitrio, al punto che anche elementi che potrebbero non sembrare importanti – magari inerenti al puro gameplay e al vostro stile di gioco – influenzeranno il corso della storia.

Chi e cosa sono io?

Prey è un titolo complesso sotto diversi aspetti, non solo per una trama stratificata, ma anche per un gameplay ben strutturato e che probabilmente avrà pochi rivali nel corso di quest’anno. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli, a cominciare dal level design, tra i migliori visti negli ultimi anni, dove ogni ambiente è ricco di percorsi diversi, ricordando per certi versi i recenti Deus Ex. Possiamo dire che tutto ciò che troviamo in Prey può essere espresso in una sola parola: libertà.
Possiamo approcciare le situazioni come meglio vogliamo, decidere se essere elusivi o andare spediti verso l’obbiettivo, sfruttare l’ambiente per mimetizzarci, nasconderci o addirittura attaccare i nemici e tanto altro. Tutto ciò aumenta non poco il livello di immedesimazione, permettendo non solo di conformare ulteriormente il gameplay alla narrazione ma anche il nostro tipo di approccio, e soprattutto la nostra capacità d’adattamento. Come da titolo, infatti, saremo una costante preda dei Typhon, la razza aliena che sembra aver preso possesso di Talos I, diversi tra loro per tipologia e poteri a cominciare dai Mimic, che possono prendere le sembianze di qualunque oggetto poiché di massa simile. Questo significa che potenzialmente la maggior parte degli oggetti potrà attaccarci, aumentando le possibilità di un attacco cardiaco per lo spavento. Come se non bastasse vi sono gli Spettri, Typhon che hanno preso possesso di esseri umani inconsapevoli, di diversa tipologia e con punti di forza e deboli ben precisi. È da qui che ha inizio la profondità del gameplay di Prey: ogni nemico è infatti scannerizzabile attraverso lo Psicoscopio, permettendoci non solo di studiare il nostro obbiettivo e, di conseguenza, di capire come approcciarlo, ma anche di sbloccare diversi poteri alieni che potremo apprendere grazie alle Neuromod, molto simili per funzione ai plasmidi di Bioshock.
Anche qui si apre un enorme ventaglio di possibilità: lo schema dei poteri è suddiviso in sei sezioni, dove i primi tre raffigurano poteri che potremmo definire classici, come la possibilità di spostare via via oggetti più pesanti, potenziare la salute, la tuta e così via. La parte più interessante riguarda però le potenzialità aliene, grazie alle quali potremo utilizzare i poteri dei nostri antagonisti: onde psichiche, vortici elettrici e di fuoco e addirittura prendere le sembianze di alcuni oggetti come fanno i Mimic. Sbloccare tutte le abilità in una sola run è praticamente impossibile, per cui servirà scegliere con attenzione quale skill sarà in grado di adattarsi al nostro stile di gioco.
Ma in Prey nemmeno il potenziamento del personaggio renderà le cose più facili: innanzitutto, più poteri dei Typhon utilizzeremo, maggiore sarà la probabilità che i sistemi di sicurezza di Talos I ci prendano di mira scambiandoci per per uno di loro. Sarà dunque indispensabile fare attenzione anche a questo aspetto, poiché il gioco non è per nulla semplice: poche munizioni, pochi medikit e nemici estremamente reattivi e cattivi scoraggiano un approccio alla Doom, per cui bisognerà esplorare a fondo la stazione se si vuole sopravvivere. L’esplorazione è direttamente correlata al geniale sistema di crafting, perfettamente contestualizzato, che richiederà la raccolta di materiali diversi, il loro compattamento attraverso dispositivi di riciclo e infine il loro assemblaggio in un altro macchinario per poter creare ciò che serve, ma solo se prima abbiamo trovato gli appositi schemi di realizzazione.
Prey è dunque un RPG in tutto e per tutto, che prende il meglio dai capisaldi del genere e li mescola sapientemente in qualcosa di unico e completo sotto tutti i punti di vista, a parte le fasi incentrate sulle sparatorie: è proprio l’aspetto shooting il punto dolente del titolo, a volte macchinoso e impreciso e davvero frustrante in alcune situazioni. I movimenti non risultano fluidi e davanti a un nemico estremamente rapido usare i proiettili può diventare inutile. Ma come detto ci sono tante strade, e in una di queste è previsto l’utilizzo dell’arma iconica del gioco, il Cannone Gloo, un vero e proprio fucile spara-colla che ci sarà davvero utile in diverse situazioni, come quando dovremo immobilizzare temporaneamente i nemici, assorbire incendi e addirittura costruire muri o scale per arrivare in zone altrimenti inaccessibili. Insomma, quelli di Arkane Studios hanno veramente pensato a tutto e, se aggiungiamo il fatto che è possibile potenziare armi e torrette, riparare oggetti guasti e interagire con la maggior parte degli oggetti di scena, non immagino davvero quale lavoro migliore potremmo aspettarci per quest’anno in questa tipologia di titoli.

È bello ciò che piace

In mezzo a tutte queste vette d’eccellenza, la parte che fa meno strabuzzare gli occhi è il comparto tecnico che, pur utilizzando il CryEngine, fatica a regalare il cosiddetto “effetto wow”. Nonostante la buona modellazione di oggetti, personaggi e scenari, tutto è un po’ sporcato da texture e shader a volte a bassa risoluzione e luci ed ombre in qualche caso imprecise. Fortunatamente, il motore grafico – che ha fatto le gioie di Crytek – fa un buon lavoro sui particellari: fiamme, scintille, scariche elettriche e persino l’acqua sono ben rese mitigando così le sensazioni provenienti dallo schermo.
Ma a mitigare ancor di più, se non addirittura a far chiudere un occhio su alcune deficienze, è il comparto artistico che, prendendo spunto da quanto visto nei due Dishonored, gode di un sapiente uso di filtri particolari e di colori che rendono il tutto simile a un dipinto a olio, cosa che aiuta molto a non focalizzarsi sui dettagli di minor valore. Proprio questa direzione artistica è in grado di regalarci scorci mozzafiato, grazie anche al miscuglio di elementi diversi, dall’Art déco al Retrofuturismo che, come in Bioshock, rendono Prey un titolo memorabile per gli anni a venire. Anche i nemici sono davvero ben realizzati e, se è vero che siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, i Typhon sono probabilmente fatti della stessa materia di cui sono fatti gli incubi: ombre in perenne movimento accompagnate da suoni sinistri che nel contesto risultano davvero suggestivi.
Un ulteriore elemento distintivo è poi il comparto audio: nel corso dell’avventura saremo per lo più accompagnati dai rumori all’interno della stazione spaziale con una bella distinzione tra le zone in assenza di gravità, quelle in cui è presente e lo spazio aperto. Tutto è campionato con dovizia, anche nella realizzazione dei suoni prodotti dai Typhon nelle loro varie connotazioni.
Ovviamente non mancano le musiche, soprattutto d’accompagnamento, in stile stile retrofuturistico con una punta di post-rock, perfette per introdurci in determinate sezioni o per enfatizzare i momenti più concitati. La colonna sonora è stata affidata a Mick Gordon, già compositore per Bethesda delle OST di Doom e Wolfenstein: the new order. 
Anche il doppiaggio, infine, completamente in italiano – così come tutta la parte testuale – risulta ben realizzato, ben recitato e, soprattutto, studiato con le giuste tonalità nei momenti adatti. Questo fa la differenza soprattutto negli audiolog, davvero piacevoli da ascoltare e che soprattutto invogliano il giocatore ad approfondire non solo il plot principale, ma anche le storie personali dell’equipaggio di Talos I.

Commento finale

Prey è un titolo riuscito in quasi tutti i suoi aspetti: Arkane Studios è riuscita a trasportarci nei meandri di Talos I come se ci avesse portato al cinema a vedere un gran film di fantascienza. Titoli come Bioshock, Half Life, System Shock, Total Recall, Dishonored e tanti altri sono presenti in questo lavoro Bethesda amalgamato in modo sontuoso e che, come dicevamo, conserva una propria, forte identità.
Peccato solo per una fase di shooting poco accurata e per un impianto tecnico non all’altezza di altre produzioni tripla A, difetti che non minano comunque un’esperienza assolutamente positiva.
Questo Prey risulta forse un titolo meno “unico” dell’originale, ma è di certo un’avventura che difficilmente troverà concorrenti all’altezza tra quelli di quest’anno e che probabilmente sarà ricordato come uno dei migliori giochi di questa stagione.




Tales from the Borderlands

Abbiamo approfittato dei titoli gratuiti del PS+di maggio per provare quello, a nostro parere, più interessante: Tales from the Borderlands, uno spin-off della famosa saga Borderlands prodotta da Gearbox Software e pubblicata da 2K Games. Questo capitolo si inserisce dunque al di fuori della saga ordinaria, ed è stato affidato a Telltale Games.
Pubblicato nel 2014, Tales from the Borderlands è un’avventura grafica a episodi – in totale se ne contano 5 – basati su una grafica cartoonesca che ricorda quella di altri due lavori di Telltale: The Walking Dead e The Wolf Among Us.
La storia è ambientata sul pianeta Pandora e narra le vicende di Rhys, un impiegato alla Hyperion, e Fiona, un’abile truffatrice, il primo affiancato dal migliore amico, mentre la seconda dalla sorella, anch’essa ladra di professione.

Il gioco comincia in medias res: i due protagonisti si ritrovano a raccontare le proprie gesta a uno sconosciuto che li ha catturati e legati e la storia si dipana in flashback, narrata proprio dai protagonisti.
Tutto inizia con Rhys che viene richiamato dalla propria nemesi – nonché capo della Hyperion – Vasquez. Durante il dialogo con Vasquez, Rhys scopre che sta per essere demansionato, ma viene interrotto da una chiamata: è qui che Rhys sente parlare di un’affare da 10 milioni di dollari che consiste nell’acquisto della chiave di una cripta. Per vendicarsi e far in modo di cacciare via il nuovo capo – il quale ha ucciso il precedente – Rhys e il suo amico Vaughn decidono di mandare all’aria i suoi affari.
La storia è raccontata con molta enfasi, grazie anche alla caratterizzazione dei personaggi e i loro caratteri in bella vista, dall’ego smisurato di Jack il Bello  alla diffidenza delle due sorelle Fiona e Sasha. Alcuni dei personaggi provengono dalla saga principale: Jack il Bello, Loader Bot, Bassanova, il cacciatore della Cripta Zer0, Scooter e tanti altri che sono stati mutuati dai precedenti capitoli. Durante la nostra avventura dovremo fare attenzione alle scelte che faremo, perché i personaggi ne saranno condizionati e si comporteranno di conseguenza, ricordandosi di alcune scelte fatte, frasi dette o segreti tenuti nascosti.
Il gioco è accompagnato da una soundtrack di rango – che comprende pezzi del calibro di Kiss the Sky dei Shawn Lee’s Ping Pong Orchestra insieme a Nino Mochella o Busy Earnin’ dei Jungle – sulla quale si pone l’accento durante le molte cinematiche presenti e che a sua volta valorizza le sequenze a cui fa da sottofondo.
La grafica, come detto prima, si avvale di uno stile fortemente cartoonesco e, accompagnata dalla narrazione sempre incalzante, non risulta affatto male. Telltale ha sfornato altri due titoli, utilizzando lo stesso motore grafico un po’ datato, ma ancora utile.
Tales form the Borderlands è un gioco che diverte non poco, con una narrazione ben strutturata e con dialoghi molto coinvolgenti e allo stesso tempo ironici. Essendo uno spin-off, non è necessario giocare ai titoli della saga principale: cosa aspettate?




Distraint

Ogni creazione artistica racconta sempre qualcosa dell’epoca in cui è scritta: alcune opere portano con sé solo lo spirito del tempo, altre raccontano per scelta la propria contemporaneità. Se è vero che la letteratura ci ha narrato le storie di ogni tempo, il cinema ci ha restituito il ‘900, la musica continua a parlare ai cuori di interi popoli e le arti visive – dalle prime iscrizioni nelle caverne a oggi – hanno immortalato fatti e accadimenti della storia umana, probabilmente tra un secolo (o anche meno) le opere videoludiche contribuiranno a raccontare l’epoca in cui viviamo.
Il fatto che nel 2015 un giovane sviluppatore finlandese abbia prodotto un’avventura grafica a tinte fosche dall’ambientazione horror chiamata Distraint (e quindi intitolata al pignoramento) potrà dirla lunga su questi anni figli della grande recessione e della crisi dei Subprime.

Esecuzione forzata

“Each house is a story of failure — of bankruptcy and default, of debt and foreclosure”
(Sunset Park, Paul Auster)

Se il mio professore di diritto privato leggesse quanto sto per scrivere chiederebbe la revoca della mia laurea ma, semplificando, possiamo dire che il pignoramento è un mezzo con cui si sottrae qualcosa a qualcuno che ha avuto la cattiva idea di indebitarsi. Ogni cosa è pignorabile, anche le action figures che tenete sulla vostra scaffalatura. Ma se vi pignorassero un Funko Pop sarebbe forse più facile farsene una ragione (a meno che non abbiate quello di Clockwork Orange da 12.000 €) che se vi pignorassero la casa in cui abitate. Il pignoramento del proprio focolare è probabilmente una delle peggiori prospettive per chiunque: un’idea da incubo, ideale per un horror. Con la crisi l’aumento delle esecuzioni forzate sugli immobili è stato inevitabile e il game designer Jesse Makkonen si è forse chiesto come ci si deve sentire a non avere più una casa, ma soprattutto si è messo nei passi di chi ha l’onere di togliere la casa a qualcuno, strapparla via con tutto il suo deposito di ricordi, esperienze e momenti vissuti. Invece del cinico affarista privo di remore in simili situazioni, qui abbiamo il signor Price, un uomo dotato di coscienza ed empatia, caratteristiche non ideali quando ci si trova in un simile ruolo. Eppure Price dovrà andare fino in fondo nel suo viaggio tra stanze, corridoi, uffici, androni e soprattutto abitazioni da confiscare. Un percorso che è un susseguirsi di gironi danteschi in una storia dalla struttura vagamente dickensiana, un Canto di Natale fuori stagione che porterà Price a confrontarsi con i propri spettri nel corso di ogni espropriazione (che, per inciso, sono 3, proprio come i fantasmi di Natale del racconto dickensiano) e che lo vedrà in bilico tra i morsi della sua coscienza e la sua voglia di far carriera: intuiamo fin dall’inizio come il nostro protagonista non sia proprio un esempio di cinismo, a differenza dei suoi capi, gli sprezzanti McDade, Bruton & Moore, che appaiono di tanto in tanto a ricordargli le regole del successo. Il fatto che a presiedere ai pignoramenti vi sia un’azienda privata di cui Price è un semplice agente suona come un’incongruenza, visto che di solito quest’attività è di competenza dello Stato: ho pure cercato come vengono effettuate le esecuzioni forzate in Finlandia e in altre parti del mondo occidentale e pare che anche in questi paesi sia competenza di enti o agenzie governative, che non hanno un marchio privato come nel caso in questione. Sotto questo aspetto è dunque necessario fare uno sforzo di sospensione dell’incredulità, e francamente non viene difficile considerando l’ambientazione cupa e straniante e la tecnica di racconto non lineare, che ricorre a improvvisi salti temporali, a scene oniriche che raccolgono i frammenti del franto inconscio di Price e a sequenze surreali che rafforzano il senso d’angoscia trasmesso dal racconto, improntato sulla scia di un simbolismo che sembra unire David Lynch a Silent Hill in un unico titolo.

Nebbie in pixel art

Distraint è un’avventura grafica bidimensionale a tinte fosche in pixel art ideata da Jesse Makkonen, dicevamo, game designer finlandese già autore dell’interessantissimo Silence of the Sleep. Il gameplay è essenziale, trattandosi di un’avventura a scorrimento laterale nella quale l’obiettivo è risolvere enigmi non troppo complessi e che ha al centro storia e ambientazione atte a restituire il senso di angoscia e lacerazione interiore del protagonista. Come in un classico punta e clicca, si dovranno raccogliere oggetti che saranno raggruppati in un inventario dotato di tre soli slot (che non arriverete mai a riempire) e utilizzarli in modo da poter andare avanti.
Parlare di level design sarebbe troppo, trattandosi di un indie game dalla grafica basilare che risulta comunque buona, essendo questo uno speed project (lo stesso Makkonen scrive d’averci impiegato “82 giorni, 620 ore, tazzine di caffè 155/54 litri”) ma sul piano artistico la resa centra in pieno l’intento, grazie anche a piccoli, decisivi innesti come una nebbiolina d’effetti particellari atta ad accentuare l’atmosfera onirica e un effetto grana che contribuisce ad atemporalizzare la storia raccontata. Il sonoro completa questo quadro, insinuandosi in maniera delicata e appropriata e contribuendo in maniera decisiva a restuire un’ambientazione ansiogena e il dramma psicologico del protagonista.

L’elefante nella stanza

«Quel momento segnò la mia rovina: questa è la mia storia, e questi sono i miei rimpianti»
(Distraint)

Distraint è un’avventura grafica che potrebbe anche passare per una visual novel gotica, tanto il peso della trama è maggiore di quello degli enigmi; fosse letteratura sarebbe un racconto horror nemmeno tanto breve (ma neanche lunghissimo: il gioco dura circa un paio d’ore) dal buon ritmo, dai temi solidi e con qualche sbavatura: Makkonen calca probabilmente troppo la mano sugli elementi onirici, preme l’acceleratore del surrealismo e ogni tanto rischia di andare fuori strada. Nel tentativo di rendere più potente il piano simbolico dell’opera, alcune sequenze appaiono sovraccaricate e rischiano di risultare in parte poco funzionali al racconto, che a volte ne subisce il peso: la stessa scena dell’elefante (che resta comunque una delle più intense del titolo) non fa eccezione, e alcuni momenti simili rischiano di non giovare al risultato finale, mentre altri sono inseriti con grande equilibrio nel tessuto narrativo.
Ciò nonostante, Distraint resta un’opera interessante, nella quale l’autore ci restituisce una storia a più livelli, ottimamente resa nonostante gli stretti tempi di produzione, e nella quale il messaggio passa forte e chiaro, portandoci al finale in un climax di angoscia, ambiguità, claustrofobia onirica, ambientazioni surreali in cui non si lesinano i jumpscare.
Un’opera videoludica che denota una certa forza di contenuti e sapienza narrativa, e che piacerà agli amanti dell’horror psicologico e autoriale.




Beat Cop

Pixel, Droga & Rock’n Roll!

Pixel Crow, piccola software house indipendente polacca, quest’anno ha regalato allo sconfinato panorama videoludico una bella ventata di freschezza con Beat Cop, un simpaticissimo gioco completamente in pixel-art 8-bit con il quale i giocatori con qualche anno in più alle spalle avranno l’impressione di stare giocando a un titolo per Commodore64 o Amiga.
Il titolo viene sviluppato con un mix di elementi ben distinti e shakerati tra loro, che fanno di Beat Cop un titolo in bilico tra un punta e clicca, un action dagli elementi investigativi con alcuni tratti propri dei GDR che lo rendono ancor più interessante considerando che il tutto si dispiega su una trama da film poliziesco.
Tra i vari personaggi si instaurano dialoghi che spaziano da quelli più seri a simpatici siparietti con battute scottanti e “nonsense”.

Storyline

Nel gioco, ambientato nella città di Brooklyn degli anni ’80, ci ritroveremo a vestire i panni del detective Jack Kelly che, in seguito a una rapina sventata nella villa di un senatore, viene implicato e accusato della scomparsa di alcuni preziosi tesori che erano contenuti all’interno della cassaforte nella stessa casa.
Il detective Kelly si vedrà revocare il tesserino e verrà declassato a semplice poliziotto di quartiere, a combattere la microcriminalità per le strade di New York. Da quel momento avrà a disposizione solo 21 giorni per dimostrare la propria innocenza e uscire riabilitato e con le mani pulite da questa sporca faccenda, muovendosi oculatamente tra malavita newyorkese e lealtà alle forze di polizia.

Gameplay

Il gioco inizia subito dopo il trasferimento in un nuovo dipartimento del NYDP, nel quale l’ex detective Kelly farà la conoscenza dei colleghi che, tanto per cambiare, mostreranno quel particolare carattere pungente e quel linguaggio irriverente e sboccato di ogni film poliziesco che si rispetti.
Ogni giorno dovremo scrivere sul nostro taccuino i comandi del sergente e successivamente scendere in strada a svolgere il nostro lavoro che si evolverà in relazione alle azioni compiute. Potremo far crescere, o decrescere, infatti, la nostra fama fino a 100 punti tra 3 diverse fazioni: polizia, mafia o crew (che rappresenterebbe il cartello della droga della città di Brooklyn). Una volta raggiunto il massimale in positivo si avranno dei bonus economici o investigativi, mentre raggiunta la soglia limite minima, nella maggior parte dei casi verrete “fatti fuori” e il gioco si concluderà con un bel Game Over, facendoci ricominciare dall’ultimo giorno lavorativo.
In Beat Cop le giornate saranno scandite da un orologio: allo scoccare delle 18:00 ritorneremo infatti al quartier generale per fare rapporto e raccogliere quello che abbiamo seminato in bene o in male. Durante le nostre ronde quotidiane, in parallelo allo sviluppo della storia principale, potremo decidere liberamente il da farsi: saremo liberi, infatti, di seguire tutte le missioni secondarie che vogliamo, ma si dovrà sempre tenere in considerazione il tempo a nostra disposizione, che scorrerà inesorabile. Qualora la giornata dovesse concludersi senza aver completato tutte le mansioni, riceveremo dei punti di penalità per ogni missione incompiuta.
Multe alle automobili in sosta vietata, con fari rotti o pneumatici consumati, oppure arrestare ladri, spacciatori e mafiosi, sventare suicidi, omicidi e rapine: tutti le mansioni del poliziotto “buono” con molteplici possibilità di interpretare anche il ruolo del cattivo, così tante che potrebbero non annoiare mai, se non fosse che a volte il gioco può diventare frustrante perché a causa di un errore si potrebbe dover ripetere l’intera giornata lavorativa, soprattutto se siete molto esigenti nei vostri confronti e pretendete di svolgere tutto come si deve.
Il gioco, per essere un indie, è discretamente longevo, specie considerando il fatto che Beat Cop ha diversi finali.

A suon di synth

La colonna sonora è semplicemente eccezionale. Sotto questo aspetto il team di Pixel Crow ha studiato una OST magnifica, perfettamente attinente ai suoni sintetizzati 8-bit e all’epoca in cui è ambientato il gioco. Sembrava di essere Axel Foley in Beverly Hills Cop e tutto ciò mi esaltava non poco, verrà probabilmente voglia anche a voi di farne la colonna sonora delle vostre giornate.

Tirando le somme

Beat Cop è, al momento, uno degli indie più divertenti e ben sviluppati che io abbia mai giocato. Non sono davvero riuscito a trovare dei difetti nel gioco, probabilmente anche grazie alla sua semplicità, ma soprattutto perché i ragazzi di Pixel Crow hanno davvero svolto un ottimo lavoro. Unico neo potrebbe essere la mancata localizzazione in italiano che per, chi non mastica molto la lingua inglese, potrebbe risultare un problema non da poco, anche perché il linguaggio utilizzato e ricco di abbreviazioni e slang che rendono difficile la lettura per i meno ferrati in materia.
Ad ogni modo Beat Cop è un gioco validissimo e che consiglio assolutamente di giocare: saranno soldi ben spesi che vi regaleranno ore di “pixeloso” divertimento.




Prey – Quando l’Originalità non Paga (in Senso Stretto)

In queste ultime settimane uno dei titoli che ha attirato maggiormente l’attenzione del pubblico videoludico è certamente Prey. Sviluppato da Bethesda, questo titolo è da considerarsi come un vero e proprio reboot del Prey del 2006, con alle spalle una storia molto diversa da quello che vediamo quest’oggi. Ci sono voluti ben undici anni di lavoro e di gestazione travagliata: il tanto acclamato sequel era stato infatti annunciato nel 2011 e poi cancellato nel 2014, per poi essere ripreso da Bethesda che decise di rilanciare il brand nonostante molti estimatori storcessero un po’ il naso.
Il gioco del 2006 è davvero migliore rispetto alla controparte moderna? Vediamo assieme di cosa si tratta.

Cherokee in space

L’inizio è di quelli che colpiscono. È una giornata come tante altre dove Tommy, il nostro protagonista e nativo americano Cherokee, lotta con il proprio retaggio e le sue origini, nella stazione di servizio insieme a suo nonno Enisi e la sua ragazza, Jen. Un elemento distintivo di Prey è proprio la caratterizzazione di Tommy: un uomo stanco di vivere come un Cherokee e che sogna di potersi godere la modernità e la libertà del XX secolo anche se, in fondo, capisce l’importanza delle radici e la propria cultura in via d’estinzione. Questi pensieri troveranno una brusca interruzione quando una nave aliena rapisce la maggior parte degli abitanti terrestri, compresi lui, Jen e suo nonno Enisi. Le priorità e sogni cambieranno improvvisamente: importerà solo sopravvivere e salvare ciò che si ama di più.
La storia di Prey è permeata prima di tutto da un percorso di crescita del protagonista, un semplice meccanico che si ritrova invischiato in qualcosa molto più grande di lui, che non diventa un mero espediente per andare da un punto A a un punto B ma un’occasione per accettare se stessi con il fardello delle decisioni difficili da prendere. Una volta arrivati sulla nave aliena, dopo esser stati prelevati da un raggio traente, quello che ci appare davanti è qualcosa di atroce: esseri umani fatti a pezzi e ridotti in poltiglia e la paura che ci soffoca e confonde dove l’unica cosa che ci farà andare aventi sarà Jen, che dopo la morte di Enisi, diventerà il nostro faro e unico motivo per continuare a vivere. Ma la morte forse è solo il principio e qui troverà risposta attraverso un piano esistenziale diverso, profondamente legato alle tradizioni Cherokee che sembra far a pugni con quanto vediamo a schermo, ma che invece regala una delle esperienze più originali del mondo videoludico.
Nonostante le premesse e le ottime idee di fondo, però, nella seconda parte dell’avventura si assisterà a una brusca accelerazione delle vicende e a un finale, sicuramente importante e simbolico, ma che probabilmente avrebbe necessitato di un maggiore approfondimento.
Una scena che fa male è quella post-credits, nella quale si assisterà al palese incipit di quello che avrebbe dovuto essere il secondo capitolo che, come sappiamo, non ha mai visto la luce.
Come detto, un punto forte è la caratterizzazione di Tommy, ma trovano risalto anche Jen e soprattutto Enisi, ultimo legame del protagonista alle sue origini. Grazie a lui sarà possibile interagire con l’aldilà, elemento che sarà molto utile in termini di gameplay, come vedremo in seguito.

Non solo preda

Prey si presenta come un FPS senza fronzoli e diretto discendente di Doom ma, a differenza di quest’ultimo, sono state aggiunte alcune feature interessanti che rendono questo titolo almeno peculiare, mouse o pad alla mano. Sono disponibili diverse armi, tutte di natura aliena e quindi una versione fantascientifica delle tipologie che tutti conosciamo. Ogni arma ha una doppia modalità di fuoco, il che approfondisce le fasi di shooting e rende adattabili alcune strategie in base ai nemici incontrati. Capiterà, ad esempio, di utilizzare il classico fucile d’assalto per falcidiare i nemici vicini ma ecco arrivare spari da molto, molto lontano: click destro del mouse e il nostro fucile diventerà automaticamente un fucile di precisione per colpire anche dalla lunga distanza. Probabilmente oggi non gridereste al miracolo vedendo qualcosa del genere ma state certi che un’introduzione di questo tipo amplia di gran lunga le possibilità di fuoco – e quindi d’approccio – alle diverse situazioni.
Ma oltre alle sparatorie c’è di più, a cominciare dai pavimenti anti-gravitazionali che spesso cambiano completamente l’approccio alla battaglia: trovarsi a testa in giù è abbastanza straniante, soprattutto agli inizi diventa difficile non provare un po’ di mal di mare. L’utilizzo dei pavimenti anti-gravitazionali diventa però strategico, dato che dipenderà spesso da noi se utilizzarli o meno. In ogni caso saranno indispensabili per la risoluzioni di piccoli enigmi e sezioni platform che ovviamente non sono il punto centrale del titolo.
Un’altra cosa ad attirare l’attenzione è l’uso dei portali spazio-temporali, che ricordano molto quelli presenti in Portal del 2007 (addirittura gli stessi colori). Sono visivamente suggestivi perché permettono di passare repentinamente da zone del tutto aperte a corridoi e viceversa, molto spesso con differenti centri gravitazionali.
Un altro tocco innovativo è il cosiddetto sistema Anima: come detto precedentemente, Enisi sarà soprattutto una guida spirituale per il nostro protagonista, al quale verranno insegnati i fondamenti delle cultura Cherokee, come in questo caso l’interazione con un piano esistenziale differente. Alla sola pressione di un tasto, la nostra anima diventerà del tutto indipendente dal corpo (sistema ripreso alla larga da Middle Earth: Shadow of Mordor) e quindi utilizzabile per accedere ad alcuni passaggi altrimenti inaccessibili e, grazie a un arco spirituale, sarà possibile colpire i nemici favorendo una bozza di sezione stealth. Ogni colpo consumerà la barra dedicata e sarà possibile ricaricarla assorbendo l’anima dei nemici sconfitti. Il suo utilizzo dipende molto dalla situazione in cui ci troviamo poiché, una volta abbandonato il corpo, esso stesso sarà un bersaglio facile. Proprio l’anima ci permetterà di essere virtualmente immortali in quanto, ricevendo un colpo critico, saremo sbalzati in un limbo dove potremo ricaricare la salute e la barra dedicata a questo potere colpendo determinati bersagli. Proprio un simile sistema è probabilmente l’unico vero difetto di Prey: non c’è una reale sfida in quanto, dopo essere usciti dal limbo, tutto riprenderà come se nulla fosse accaduto. Si ha veramente la sensazione che la morte non abbia conseguenze, dato che i nemici sconfitti rimarranno tali e chi ha perso molta salute continuerà in quello stato. Forse in questo caso sarebbe stato più furbo fare un passo indietro e lasciare il classico sistema dei checkpoint.
Un altro collegamento al mondo spirituale è Talon, un falco che Tommy possedeva durante la sua infanzia e che qui sarà utile (e del tutto indipendente) per distrarre e attaccare i nostri nemici e a indicarci l’obiettivo.
Infine, sarà possibile utilizzare anche delle navette che ampliano ulteriormente le possibilità offerte in termini di gameplay: saranno presenti in zone prefissate, come degli spazio-porti, e serviranno soprattutto per proseguire nel corso dell’avventura.

Prey ottimo direi

Prey utilizza lo stesso motore di Doom 3 e Quake 4 ma qui ulteriormente potenziato. L‘id Tech 4 regala degli ottimi scorci, e con modelli poligonali ricchi di dettagli: personaggi, ambienti, nemici e soprattutto le armi aliene con le loro continue animazioni, portano questo titolo ai vertici della qualità grafica non solo su PC, ma anche su Xbox 360.
Una nota di merito va al comparto degli effetti speciali, davvero ottimi, soprattutto se si pensa all’anno di uscita di questo videogioco: molto spesso capiterà infatti di essere abbagliati da quanto vediamo su schermo, non solo per il buon sistema di luci, ma anche grazie al contorno di esplosioni, scintille, dissolvimento dei nemici e ancora una volta nell’uso e nella visione delle armi.
Il lato artistico mostra, invece, un po’ il fianco a eccessive somiglianze con lo stesso Doom 3, soprattutto negli ambienti, molto simili tra loro, e su alcuni nemici – ma solo alcuni – per niente ispirati. Piccole macchie in un mondo che comunque risulta credibile e in una società aliena che basa la propria tecnologia sulla biomeccanica e su alcuni espedienti puramente fantascientifici che, come abbiamo visto, oltre che funzionali, sono alche molto interessanti da vedere.
In un titolo di questo livello non può ovviamente mancare un comparto audio eccellente a cominciare dalle musiche, create da Jeremy Soule, già famoso per aver composto brani per i vari lungometraggi di Harry Potter e dei vari The Elder Scrolls. Ognuno di essi avvolge sapientemente la situazione che stiamo vivendo, dalla caotica alla più drammatica, aggiungendo quel qualcosa in più al percorso di Tommy. Anche il doppiaggio si attesta su ottimi livelli (inglese con sottotitoli) non solo riguardo i protagonisti ma anche riguardo le varie voci aliene dei nemici e dei comprimari. La qualità si vede anche da questi dettagli em se ancora non bastasse, ogni suono alieno – che siano armi, i passi sui pavimenti anti-gravitazionali e persino la semplice apertura di una porta – è stato campionato apposta, proprio in nome della credibilità citata poc’anzi.

Commento finale

Il Prey del 2006 è un agglomerato di storie tristi, non solo per la trama ricca di tragedie, ma anche per la sua realtà commerciale e di sviluppo che ha visto nella cancellazione del sequel il suo apice.
Prey appartiene a un’epoca profondamente diversa da quella odierna, un tempo dove c’era ancora spazio per qualcosa di nuovo non solo in termini di gameplay ma anche di narrativa, mischiando generi diversi magari a un primo sguardo in contrasto ma proprio per questo dando vita a un risultato originale e accattivante. Nonostante l’alta qualità raggiunta in tutti i settori, Prey fu un flop commerciale e questo non fece altro che mettere una pietra tombale sull’intero progetto che, come sappiamo, è stato ripreso in questi anni da Bethesda.
In conclusione, è davvero migliore del titolo del 2017? Probabilmente sì: la voglia di osare di Human Head Studios, il team di sviluppo originale, rende il Prey del 2006 sicuramente più memorabile. Il Prey di Bethesda è senza alcun dubbio uno dei migliori giochi che potrete giocare quest’anno, eccelle in molte cose, gli puoi voler bene ma in fondo non lo ami. Consiglio a tutti di recuperare il primo Prey, capostipite di un’epoca che di lì a poco avrebbe visto l’entrata in scena di titoli come Bioshock, Mass Effect, Gears of War, Dead Space e altri entrati di diritto nella storia dei videogame.Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10