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Dark Souls 3: The Ringed City

Dark souls III giunge alla conclusione con questo secondo DLC, dopo un Ashes of Ariandel che non ha convinto soprattutto a causa della troppa brevità.

In questo The Ringed City le cose cambiano anche se non troppo, la sua lunghezza non può certo essere paragonata ai DLC dei precedenti capitoli a meno che non si includa anche il già citato Ashes of Ariandel, del quale rappresenta per certi versi anche un continuum.

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Un inizio non proprio esaltante

Cumulo di rifiuti: così è chiamata la prima area visitabile prendendo il nuovo falò – luoghi ben conosciuti dai fan della serie come checkpoint, punti di ristoro della salute, ma anche di teletrasporto – situato nella zona finale di Dark souls III (è anche possibile raggiungere la zona dal nuovo falò aggiunto nella stanza in cui viene sconfitto il boss finale del dlc precedente), ambientazione che assomiglia alla fornace della prima fiamma, in cui si fondono i mondi dei capitoli precedenti.

Sin dall’inizio il giocatore verrà bombardato da angeli che non ci daranno nemmeno il tempo di esplorare l’ambiente circostante – a meno che non si elimini il loro vero corpo (nascosto) – e sarà costretti quindi a ripararsi dietro rocce o mura sperando di non morire durante la corsa; ovviamente bisognerà anche affrontare vari tipi di nemici fino al raggiungimento del tanto agognato falò.

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La città ad anelli

Se siete sopravvissuti, accederete alla seconda zona, uno scenario artisticamente stupendo, caratterizzato da un level design di prim’ordine: piena zeppa di segreti, scorciatoie ,pareti illusorie, una vera boccata d’aria rispetto alla precedente, soprattutto perché finalmente ci si potrà dedicare all’esplorazione senza il timore di essere sottoposti al costante bombardamento dei nemici.

Dopo questa fase toccherà al giocatore attraversare la città e raggiungere il Letto di liquido abissale per poi salire su una torre per accedere alla zona finale del dlc, sulla quale riservo ogni sorpresa ai giocatori.

In questo DLC si ha modo di affrontare nuove tipologie di nemici, tra cui giganti che evocano arcieri spettrali, cavalieri maledetti, locuste e via dicendo.

I nuovi nemici rilasceranno nuove armi, che sono certamente tra le più spettacolari tra quelle mai apparse nella serie souls ,con movesets inediti e letali.

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I boss

I tre boss presenti nel DLC (più un quarto segreto, opzionale) offrono un buon tasso di sfida, non sono estremamente difficili per i giocatori avvezzi alla saga ma terranno impegnati per diversi minuti: unica nota dolente riguarda probabilmente il boss finale che, pur offrendo una bella sfida in termini di combattimento, manca del carisma per essere all’altezza dei suoi predecessori.

Conclusioni

Tirando le somme, The Ringed City è un dlc di buona fattura, dotato del giusto carico di alternanza tra frustrazione e stupore, ma che purtroppo non riesce a convincere a pieno a causa di una longevità non eccelsa e di molti quesiti lasciati ancora irrisolti, chiudendo il cerchio della storia lasciata aperta da Ashes of Ariandel ma lasciandone in sospeso altre.




For Honor

Ok brava gente di Nottingham è tempo di bilanci (???) e di nuove (e buone, e cattive) notizie quindi eccoci a parlare della nuova fatica Ubisoft, chiedendoci: sarà ancora la solita tempesta di merda e bug dei loro precedenti lavori e, in tal caso, sotto tutto quanto, ci sarà qualcosa di buono?
(Se ve lo state chiedendo: sì, la frase introduttiva è totalmente inutile)

Uh, mi ricorda qualcosa?

For Honor, nuovo gioco targato Ubisoft, pone la risposta a un quesito che nessuno si è mai veramente posto: il sistema di combattimento di Assassin’s Creed, potrebbe essere utilizzato per un gioco di combattimento online? E se si quanto ci possiamo marciare sopra?
Nato nel lontano 2000 – non ci interessa davvero ricordarlo – la serie di Assassin’s Creed (che rispondeva ad altre domande mai veramente poste a proposito di Prince of Persia) ci portava tra stradine polverose, torri, mura di pietra e minareti a guidare un muslim-nigga-ninja-parkour tra le strade di Medina (no, Medina non credo sia stata nemmeno mai menzionata, ma va bene come nome per luogo esotico e mediorientale) squarciando gole a irritanti figure politiche locali e mettere in atto nuovi e divertenti modi per morire o castrarsi arrampicandosi un po’ ovunque.
E mostrando, in mezzo a tutto questo, un sistema di combattimento tanto semplice quanto effettivamente accattivante e divertente.
No, davvero, quel sistema di parate a tempo che si traduceva in perfetti colpi mortali, quel meccanismo di colpi susseguiti con il giusto tempismo per inanellare esecuzioni letali (più preciso era il tempo, più velocemente terminava il duello), un sistema per rompere la guardia dell’avversario che aggiungeva quel gusto di tattica in più, rendevano veramente piacevole affrontare nemici armati di spade d’acciaio brutalmente affilate e protetti da armature rose dalle sabbie dei deserti in un gioco che in teoria puntava tutto sull’esplorazione dinamica e sulla corsa fra tetti e minareti morendo in modi buffi e divertenti.
Il sistema di combattimento rimase sostanzialmente invariato per la quasi decina di capitoli della saga principale, a parte alcune stronzate nel mezzo poi eliminate con uno “scusate-ci-siamo-sbagliati-fate-finta-di-niente”, mietendo regolari apprezzamenti (via via in quantità minore, ma solo perché a secco di novità dagli esordi) finché alla Ubisoft probabilmente qualcuno avrà detto: ma farci un gioco di combattimenti su?

E così fu

Alla Ubisoft quindi si chiesero: ok, abbiamo, chissà come, un sistema di combattimento all’arma bianca in un videogioco semplice e accattivante per alcuni, ma che pretesto usiamo per far scannare la gente tra sé?
Ipotesi 1) Un reame magico vuole invadere il nostro mondo, allora, per scongiurare il pericolo, vengono indetti una decina di tornei dove i nostri campioni dovranno affrontare i lor…
No no, già fatto, cazzo dici…
Ipotesi 2) Un tizio a capo di un’organizzazione terroristica o di ecoterroristi – non abbiamo ben capito questa parte ancora – va in giro per il mondo a fare danni e tizi palestrati da ogni parte del mondo si menano a cas…
No, no! Già fatto anche questo.
Ipotesi 3) Ok, sentite qua: padre, figlio e il figlio del figlio, quindi il nipote, si menano e, non si sa perché, cercano di ammazzarsi da quarant’anni, peggio di Beautiful, ma per farlo scomodano multinazionali, organizzazioni terroristiche cyborg, burdell…
No! Già visto cazzo!
Ipotesi 4) Allora. Medioevo basso, Rinascimento, non abbiamo nemmeno mai capito questo, una spada maledetta va in giro a seminare il caos per il mondo e un manipolo di guerrieri da ogni parte del mondo cerca di impossessarsene per motivi personali finc…
NO! Già visto! Ottima storyline, comunque.
Cerchiamo qualcosa di più semplice!
Mmh… Pirati vs. Ninja?
Ma non dire cazzate.
Cavalieri vs. Barbari?
Mh, forse ci siamo, ma manca ancora qualche cosa…
Cavalieri vs. Barbari vs. Samurai?
GENIOH!

E così nacque questo gioco

Questo gioco, in buona sintesi, si basa su un meme medio-grosso dell’internet, su due meme distinti volendo, e cerca di ricavarci sopra un qualcosa di robusto e soprattutto credibile.
Le basi del gioco sono le seguenti:
Uno dei meme più vecchi del panorama ludico della nostra generazione – parliamo di anni ottanta, roba molto vecchia, roba da D&D prima edizione – si basa sul conflitto tra la figura del cavaliere in armatura massiccia e spadone a due mani, da un lato, e il barbaro mezzo nudo con ascione bipenne e tanta frenesia di sangue, dall’altro; è un po’ un sottotesto nemmeno troppo esplorato che può apparire in qualsiasi tentativo di creazione artistica di genere, partendo da D&D, appunto, con la conflittualità tra la classe guerriero vs classe barbaro, e su quale sia la migliore (guerriero ovviamente, lo dice la parola stessa, guer-rie-ro, se c’è una tecnica o un modo che serve per accoppare meglio un’altra persona in combattimento allora lui DEVE conoscerla), ma anche passando in maniera nemmeno troppo evidente per Warcraft, con, per esempio, i paladini dell’Alleanza in armatura spada e scudo contro gli orchi selvaggi dell’Orda, fino ad altre decine di giochi di ruolo e produzioni artiche e letterarie di genere: in Conan, ad esempio, dove vediamo il nudo cimmero disprezzare armature e orpelli mentre massacra decine di cavalieri di Aquilonia.
Un principio volendo anche più profondo della natura narrativa moderna affondando le sue radici culturali nel passato, quando gli ordinatissimi e disciplinati soldati romani si scontravano contro le tribù barbariche del nord che calavano nude, feroci e gioiose nella battaglia, i romani vincendo solitamente, perché andare nudi in battaglia era un po’ un’idea del cazzo di solito.
Fino alla figura estremamente antica del cavaliere cristiano, che, erede del mondo apollineo greco, schiavizzato nella Sacra Chiesa Romana, si scontrava contro i Berserker indomiti e sanguinari, invasati da Odino, nelle estreme regioni del nord dell’Europa Medievale.
Ecco, un tema così ricco, vasto e potente per la nostra memoria collettiva risolto in venti secondi di pretestuosità videoludica.

E i samurai invece?

Ecco, se per il primo conflitto For Honor attinge da un’idea che affonda nella radice stessa della nostra cultura il secondo conflitto è basato su un meme molto più moderno e molto più fesso che è: “ma è migliore la spada occidentale o la katana?”, dove legioni di bimbominkia che compongono la fanbase di questa ultima – che ha l’unico pregio di aver avuto un’ottima campagna pubblicitaria– si scontrano contro la dura realtà dei fatti, cioè che una spada Reitschwert ad una katana la distruggeva sempre e comunque.
Con tali e tante premesse creative che genere di gioco salterà fuori direte voi?
Boh, onestamente ce lo stiamo chiedendo anche noi.
For Honor si basa sostanzialmente su alcuni conflitti e meme nati o portati su internet e un sistema di combattimento divertente ma di certo non innovativo, che punta sostanzialmente tutto sulle dinamiche di puro gameplay tra giocatori tesi a volersi scannare nella maniera più caciaronissima e metallara possibile, quindi, al netto di una cornice narrativa apparentemente ancora più scarna, e che definire pretestuosa pare addirittura già pretestuoso in partenza, il fulcro del gioco pare essere quello di menarsi solo e menarsi duro. E a questo punto conviene addentrarci in quello che è il sistema di gioco.

Classi e poste

Allora molte altre considerazioni del gioco, a questo punto sono partite a parlare per prima cosa del sistema di classi che, come abbiamo detto più sopra, dovrebbe incarnare quello che è l’anima del gioco.
Noi noi, a noi c’è rompe er cazzo partire così perché A) non lo reputiamo interessante, lo sappiamo già, tre tipi diversi che se vojono menà B) il vero punto di interesse, per me, in un gioco di combattimento è il sistema di combattimento.
For Honor si avvale, come abbiamo già detto, di un sistema di combattimento preso di peso da Assassin’s Creed in generale (anche perché è bene ricordare che nemmeno il sistema di AC è rimasto sempre coerente con se stesso), con alcune importanti innovazioni, diciamo che, anche se non uguale, se avete giocato ad AC vi troverete con la sensazione di stare provando qualcosa di già conosciuto.
La base principale del sistema di gioco sono le pose, che, mutuando un termine dalla scherma reale, potremmo chiamare “poste”, per utilizzare un termine più specifico e caro ai ricostruttori della scherma storica o, più semplicemente, e per farlo meglio comprendere a tutti potremmo utilizzare il termine “guardie”, sicuramente più usato e riconoscibile e legato alle arti marziali in generale, anche se originario proprio della scherma.
Il gioco quindi pone la scelta fra tre “poste” o “guardie” principali. Si parte da una modalità che potremmo definire “a riposo”, dove potremmo semplicemente correre, camminare ed arrampicarci, a una modalità di “puntamento” dove designeremo un bersaglio specifico da aggredire e colpire in tutta similitudine rispetto ad AC dove, appunto, si passa da una modalità di corsa ad una modalità di combattimento. Una piccola nota di gameplay fatto di non poter puntare i “minions” ovvero i NPC di basso livello presenti nel gioco, i soldati semplici, insomma, il cui unico scopo designato è fare da carne da macello per i nostri avatar per raggiungere determinati obiettivi di gioco (far avanzare il nostro fronte e far arretrare il fonte nemico), per ricaricare abilità personali o per semplice sadica soddisfazione personale.
Quindi, tolti i minions da macellare con spensierata allegria, ci troveremo a puntare solo i soldati di più alto livello, ovvero quelli gestiti dagli altri giocatori o, in mancanza di questi, da una IA decisamente più aggressiva e agguerrita.
Ed è nella scelta della “guardia”, della “posta” che si impernia tutto il nucleo del gioco. L’aspetto principale di questo gameplay risiede, come dicevamo, infatti nel poter scegliere tre guardie differenti, una guardia alta che intercetta i colpi portati dall’alto, una guardia sinistra ed una guardia destra che intercettano rispettivamente i colpi portati lateralmente a destra e a sinistra; ed è principalmente qui che ruota tutta la meccanica di gameplay perché noi, in uno scontro 1 contro 1, dovremo cercare di intercettare l’esatta direzione dei fendenti che ci verranno scagliati contro cercando di prevedere, anticipare e gareggiare in riflessi contro il nostro oppositore.
Tutto qui.
Questa innovazione diciamo che tanto innovazione non è, un sistema del tutto simile lo si può trovare ad esempio nell’indie game War of the Roses, uscito nel 2013 e sostanzialmente con le stesse basi di For Honor, se si esclude un’ambientazione storicamente accurata e ricercata, una profondità di spirito maggiore, e un’esecuzione frenata però da un’inevitabile mancanza di mezzi, duelli all’arma bianca in multiplayer tra schiere di cavalieri con visuale in terza persona. Dove la dinamica dei duelli era determinata dal dover intercettare la direzione della lama dell’avversario muovendosi nella sua stessa direzione. Reso molto molto più complicato da un gioco dal tempismo più dinamico e con nessun tipo di sistema di “avviso” se non quello puramente visivo.
Quindi l’idea di dover intercettare la direzione dei colpi di spada non è nemmeno così nuova come si potrebbe pensare, ma sicuramente in questo gameplay viene resa in maniera dinamica e divertente.
Un’altra nota piacevole è che, partendo dal primissimo tutorial, si potrebbe essere indotti a pensare che il giochino di intercettare la direzione dei colpi sia estremamente semplificato, visto che la traiettoria del fendente ci viene indicata non solo dall’animazione, ma anche dal grosso h.u.d. centrale, i cui tre settori si coloreranno di rosso in corrispondenza della direzione del colpo; ecco, niente di tutto ciò – la velocità dei colpi del nostro avversario e la rapidità con cui potrebbe cambiare direzione – può rendere la sfida decisamente impegnativa, come è facilmente intuibile fin dalle primissime missioni di tutorial.
Questo si traduce, almeno da come si è visto nelle prime esperienze con le demo e le beta, ad esempio in una ricerca del puro attacco, nell’essere i primi a colpire, una situazione dinamica del tutto vicina a quella di uno scontro reale dove, mancando la capacità tecnica di intercettare o schivare i colpi (considerando comunque che è più semplice passare all’attacco che cercare di parare oltre un certo limite di tempo) si preferisce attaccare forsennatamente e con foga.
Ora, che questa modalità di gioco sia frutto solo dell’inesperienza dei giocatori nuovi a questo tipo di gameplay, e che magari in futuro un sistema di gioco più tecnico venga maggiormente impiegato e premiato non possiamo saperlo, ma sarà sicuramente un ottimo punto di partenza per dinamiche di gameplay più particolari e studiate.

L’arte della guerra

Un buon motivo per sperare per il meglio, da questo punto di vista, è il sistema di perks e talenti che è stato allestito attorno al gioco: ci riferiamo al così detto sistema “arte della guerra”, un sistema che, in teoria, dovrebbe permetterci di calibrare la potenza dei nostri colpi, la cadenza e la velocità, anche in merito a un preciso metodo di gioco (ad esempio difensivo, rispetto a uno offensivo.)
Staremo a vedere.
Bisogna ammettere che, a questo punto dell’esperienza di gioco, sia l’hype che l’effettivo divertimento tendono a salire parecchio: le prime esperienze beta, i primi scontri all’arma bianca contro un IA o un’altra persona reale dall’altra parte regalano un divertimento che da molto tempo non si provava, il cercare la tattica giusta, allenare l’occhio a prendere le misure dell’avversario, crearsi la propria build personale ottimizzando nella maniera più efficiente il proprio sistema di gioco, sono esperienze che al primo impatto possono ben definirsi esaltanti ma resta da vedere se dopo la fase di esaltazione iniziale rimanga qualcosa di solido. Penso che solo il tempo potrà dirlo.
Quello è un ottimo sistema di bilanciamento se possibile.
Per intenzioni e realizzazione, For Honor sembra non avere falle nelle sue ambizioni; se poi ci spostiamo su considerazioni meramente grafiche, non ci vengono riservate brutte sorprese nemmeno lì, anzi.
Il motore AnvilNext sembra dare il meglio di sé dopo le numerose esperienze, anche molto negative, con i precedenti AC, le animazioni sono assolutamente fluide e dinamiche, le texture nitide, l’environment e lo sviluppo dei modelli 3D è, ovviamente, tutto all’altezza di casa Ubisoft, forse una delle migliori software house dal punto di vista della creazione artistica di personaggi e ambienti virtuali. Certo il concept design (essendo anche l’idea alla base non proprio originale) non brilla per innovazioni, anzi, in molti punti fa proprio pesare una sensazione di già visto ma alla fine è, indubbiamente, un “già visto” come dio comanda e un assoluta gioia per gli occhi.
Unica nota possibile di scazzo per quanto riguarda il comparto tecnico possiamo farla su come alla Ubisoft abbiano deciso di strutturare il multiplayer, con un sistema di hosting server riservato esclusivamente ai giocatori, dispensando quindi mamma Ubisoft dal mettere a disposizione dei server per i suoi, si prospetta, numerosi giocatori, ma le partite saranno di volta in volta hostate dai giocatori, con tutte le crisi isteriche e l’ internet rage che è possibile prevedere e che fanno nascere seri, serissimi dubbi, sulla longevità del brand che la Ubisoft sta evidentemente cercando di creare.

Huzzah! Huzzah! Huzzah!

Tirando le somme For Honor sembra essere un gioco che vuole puntare dritto al sodo, senza perdersi per strada in obbiettivi che non intende evidentemente raggiungere e con l’onestà, bisogna dirlo, di non voler nemmeno fare finta di provarci o di voler abbindolare qualcuno. É un gioco di combattimento puro e semplice dove si chiede al giocatore semplicemente di godersi l’esperienza nel miglior modo possibile. Se è quello che cercate (e sono in molti a cercarlo) allora avrete il vostro gioco dell’anno.
E per il futuro magari non è detto che si possa evolvere in qualcosa di ancora più profondo al quale potervisici affezionare meglio.
In alto le spade e che il sangue scorra a fiumi allora, e speriamo che basti per sostenere il tutto.




Nioh

Tredici anni dopo il suo annuncio e a distanza di poco più di dodici mesi dalla prima presentazione al Tokyo Game Show nel 2015, Nioh arriva sulle Playstation di tutto il mondo pronto a far bestemmiare di sé.

Il gioco di Team Ninja ha avuto modo di presentarsi – e anche molto bene – sin dalla sua prima apparizione sullo store Sony, attraverso l’alpha rilasciata nella scorsa primavera.
Da allora molto è cambiato, dal comparto grafico all’affinamento dei sistemi di combattimento e di utilizzo delle armi, ma il nocciolo è rimasto lo stesso: Nioh è un gioco difficile.
E non si tratta dell’ennesima copia di Dark Souls, questo salta subito all’occhio: il gioco imbocca la propria strada facendoci dimenticare tutti quegli elementi che effettivamente sì, sono mutuati dalle meccaniche del più famoso titolo di From Software ma che, d’altra parte, si combinano benissimo con la naturale evoluzione di tutto ciò che ha contraddistinto Ninja Gaiden. E parliamo del reboot a cura di Team Ninja ovviamente, dal quale questo gioco eredita molto più di quanto faccia dai Souls.

La Storia

Nioh narra la storia di William Adams, un soldato/navigatore/samurai inglese: alto, biondo e sicuramente parente di Geralt di Rivia. Un eroe, William, che sembra avere qualcosa in comune anche col Gatsu di Kentaro Miura e non soltanto per via dello spadone “bastardo” che raccoglie proprio all’inizio del gioco (dopo essersi liberato a pugni e calci da una cella di prigione sita nella torre di Londra) ma anche per lo spiritello alato e colorato pronto a dispensargli consigli sin dalle prime battute. Così, con un pretesto narrativo degno di ogni incipit nipponico che si rispetti, il nostro beniamino parte, nel 1600, alla volta di Zipangu (nome con il quale Marco Polo si riferiva al paese asiatico di Nihon, a noi conosciuto come Giappone) per trovare le famose pietre “amrita”, a quanto sembra capaci di veicolare poteri sovrannaturali che investono anche il nostro eroe.

Il Combattimento

Ma a far da traino al gioco non è tanto la storia, seppur inizialmente ispirata da una bozza di sceneggiatura del maestro Akira Kurosawa, quanto la profondità del gioco in sé: il sistema di progressione delle caratteristiche tipico degli RPG, unito a quello di combattimento che porta con sé numerose variabili e al complesso albero delle abilità che si possono acquisire tramite due diversi tipi di punti (Ninja e Magia Onymo), oltre alle affinità con le proprie armi e con il proprio spirito guardiano, rendono l’esperienza di gioco particolarmente personalizzabile: ci ritroviamo dunque a poter sviluppare, oltre al personaggio stesso, stili di combattimento completamente diversi tra loro. Ciò è dovuto principalmente al possibile utilizzo di due armi da mischia e di altrettante armi a distanza che spaziano dalle spade alle asce, dai martelli ai kusarigama e dagli archi ai fucili a scoppio, oggetti che possono essere ulteriormente potenziati e personalizzati insieme alle tantissime armature disponibili.

È nel sistema di combattimento però che Nioh offre il meglio di sé, regalandoci delle meccaniche facili da comprendere ma estremamente complesse da padroneggiare. Mentre infatti ci da la possibilità di scegliere fra tre diverse – e facilmente intercambiabili – posizioni di combattimento (alta, media e bassa) il gioco ci insegna a utilizzare il Ritmo Ki, una meccanica che mette alla prova costantemente la nostra abilità e che, se eseguita correttamente, ci permette di ricaricare più velocemente la barra della stamina favorendoci quindi nell’inanellamento di ulteriori combo. Grazie a queste possibilità di scelta ci ritroviamo di fronte a vastissimi orizzonti di interpretazione del gameplay: mentre qualcuno preferirà giocare un hack’n’slash votato alla frenesia del combattimento, qualcun altro deciderà di affrontare la sfida in maniera più ragionata infliggendo danni maggiori ai nemici a scapito della rapidità di movimento del personaggio. Ai giocatori più abili non è precluso il piacere di poter utilizzare tutti gli stili di gioco possibili contemporaneamente, alternando a seconda del nemico e della situazione la posa, l’arma, le magie e i trucchetti del ninja.
La campagna risulta lunga e impegnativa, costellata da missioni principali e secondarie che portano l’esperienza di gioco ad allargarsi oltre le quaranta ore, in più è presente una modalità “crepuscolo” nella quale ci ritroviamo ad affrontare le missioni in una salsa più piccante, ovvero con demoni da combattere al posto dei semplici nemici e una modalità PVP che il Team ha promesso di implementare presto.

Tecnica

Per quanto riguarda la parte tecnica, il gioco soffre della travagliata gestazione che ha dovuto subire, e ciò si traduce in un comparto grafico e in delle animazioni non proprio al passo coi tempi; difetto d’altra parte ampiamente ripagato dal fatto che si mantiene costantemente sui 60 fps anche nelle fasi più concitate, scegliendo la modalità azione che ci è sembrata anche l’unica possibile viste le caratteristiche tipicamente action del titolo. A questo si aggiungono la bellezza delle ambientazioni e le scelte artistiche che riguardano la caratterizzazione dei boss ed i combattimenti, elementi che fanno di Nioh un gioco sicuramente piacevole da guardare.
L’unica nota negativa, se così può essere definita, è certamente la difficile accessibilità. Come già detto nella premessa, Nioh è un gioco impegnativo che richiede particolare pazienza e voglia di imparare da parte del giocatore inesperto e ciò può rendere frustrante l’esperienza per chi cerca nel videogioco soltanto un passatempo divertente e non è in vena di accettare questo tipo di sfida.
Tutto sommato però, in un’epoca videoludica in cui titoli di natura narrativa e molto spesso semplici da giocare dominano gran parte del mercato, il successo di un gioco come Nioh rappresenta la prova che gli hardcore gamer sono nuovamente pronti a conquistare il mondo.




Resident Evil 7: Biohazard

«Per fare un fantasma occorrono, una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa.»

Questa frase di Fantasmagonia di Michele Mari potrebbe essere il postulato di partenza per i creatori di questo nuovo capitolo di Resident Evil.
Dopo due episodi sottotono – che hanno fortemente scontentato la fandom e che, al contempo, non hanno esaltato i giocatori meno intransigenti – in casa Capcom si è optato per un ritorno al passato sotto vari punti di vista, a partire dall’ambientazione: abbandonare le strade di Raccoon City e tornare a circoscrivere l’orrore tra le mura di una casa. O, per meglio dire, tra i confini di una tenuta, dato che l’ambiente di gioco di questo capitolo si estende all’intera proprietà della famiglia Baker, nella quale viene a trovarsi Ethan Winters dopo aver ricevuto un messaggio dalla moglie, Mia, creduta morta da anni.
In quest’amena proprietà rurale sita a Dulvey, Louisiana, si svolgono i fatti di Resident Evil 7: Biohazard.

Beginning Hour

Il gioco è ambientato ai giorni nostri, anche se la casa sembra essersi fermata agli anni ’80, fra mangianastri, VHS e tv con tubo catodico. Il gioco si svolgerebbe in realtà ai giorni nostri, 4 anni dopo Resident Evil 6 e 3 anni dopo la demo, Beginning Hour, con la quale RE7 è stato a tutti gli effetti presentato il 14 giugno 2016 agli utenti Plus del Playstation Store. Un assaggio di questo capitolo era stato dato all’E3 di Los Angeles del 2015 con KITCHEN, breve demo nella quale ci si trovava a impersonare un non meglio specificato personaggio legato a una sedia che finiva col fronteggiare una demoniaca Mia. Pochi minuti nei quali ci si limitava a mettere un piede nella cucina dei Baker. Beginning Hour è invece il primo vero approccio al gameplay e alle dinamiche di Resident Evil 7: Biohazard, pur non comprendendo alcuna parte del gioco finale (ad eccezione di una VHS, la prima in ordine di comparizione in quest’ultimo capitolo Capcom). Anche qui si vestono i panni di un non meglio specificato protagonista, ma le storie importano poco: quel che è importante è testare la reazione del pubblico di fronte alla nuova ambientazione e alle nuove dinamiche. Forse proprio per questo la demo è molto elaborata, rigiocabile, con ben quattro finali e con la possibilità di raccogliere alcuni degli oggetti principali del gioco, comprese le armi. E la risposta degli utenti, con oltre 2 milioni di download, è più che positiva, al punto che Capcom rilascerà successivamente le versioni Twilight e Midnight, che contengono altri enigmi e permettono di giocare altre aree della casa. Nessun cenno ai personaggi che faranno parte di Resident Evil 7: Biohazard, tra i quali, nelle presentazioni al pubblico, pare avere attenzioni solo Mia, che ritorna in Lantern, altra breve demo presentata alla Gamescom di Colonia del 2016 che contiene la sequenza della seconda VHS del gioco, nella quale la donna si trova alle prese con l’amabile Marguerite Baker, con la quale avrà a che fare anche il nostro protagonista, Ethan.

“Rise and Shine, Sleepyhead!”

E così si entra nel vivo di questo Resident Evil 7: Biohazard: dentro la casa Ethan riuscirà a trovare Mia, ma si ritroverà ben presto prigioniero dell’orribile famiglia Baker, i cui componenti gli daranno la caccia per tutta la durata del gioco. L’ambientazione cupa, la casa desolata nelle sperdute campagne del sud americano, quella famiglia decadente, sordida, malata e quel senso di impotenza che si prova nell’essere rinchiusi senza via di fuga in un simile contesto richiamano scenari da film horror anni ’70-’80 – The Texas Chainsaw Massacre, da noi meglio conosciuto come Non aprite quella porta, su tutti – che lo stesso director Koushi Nakanishi ha dichiarato letteralmente di adorare. La scrittura di Richard Pearsey (F.E.A.R., Spec Ops: The Line) si innesta perfettamente in questo quadro, suggellando un’opera horror dal grande ritmo narrativo che gioca sui migliori cliché del genere senza mai banalizzarli.

Inside The House

Una simile struttura narrativo, che onora i classici senza cadere nel già visto, è il perfetto specchio di un gameplay che riesce nell’impresa di far rivivere un franchise un po’ inceppato rinnovandone le dinamiche (ottimo l’espediente delle VHS, le quali spezzano sia la storia dal punto di vista narrativo, sia la tensione, seppur momentaneamente, e permettono una maggior immedesimazione nella storia, essendo giocabili) e rivisitando elementi già visti nei precedenti capitoli: così come la casa – ricordiamo tutti le stanze oscure e tortuose in cui si perdeva la squadra S.T.A.R.S., no? – un elemento visivo che salta subito all’occhio è il sistema di apertura delle porte, il quale è una “versione in real-time” delle clip del primo capitolo, e dunque un esplicito richiamo atto – come ha dichiarato Nakanishi – a rievocare quel brivido che portava il giocatore a chiedersi (e temere) ogni volta cosa potesse nascondersi dietro la porta; tornano inoltre come elementi dei punti di salvataggio un po’ retrò (in questo caso il mangianastri al posto della macchina da scrivere), il cardiofrequenzimetro da polso che indica l’energia residua, i bauli in cui conservare gli oggetti per i quali non si trova spazio nello zaino (quantomeno finché non se ne trova uno più grande) ed elementi come le erbe, che si innestano in un interessante sistema di crafting che porta il giocatore al compimento di scelte importanti: meglio combinare il solvente con le erbe mediche per ottenere soluzioni curative o con la polvere da sparo per avere una maggior scorta di munizioni? O forse sarà meglio tenere con sé degli psicofarmaci che ci facciano trovare i vari oggetti nascosti per la casa?
Il gameplay in questo caso si fa estremamente interessante, soprattutto se teniamo conto del fatto che le armi non sono poi così potenti (si parte con un coltello, si recupera una pistola, poi un fucile e poco altro, poche armi ma con un buon sistema di mira) e che le scelte riguardo il nostro equipaggiamento si fanno fondamentali per la nostra sopravvivenza. Specie perché i nemici si fanno anche più ostici di quanto non sembri all’inizio.

Biohazard

Ma gli elementi classici della saga non finiscono qui: è vero che quanto detto finora in termini narrativi, ci riporta, come detto, ai film horror anni’80, e si è indotti a pensarlo fino a un certo punto del gioco. Fino a quando poi d’improvviso si apre una porta e – puf! – ci si ritrova in ambienti più familiari ai classici Resident Evil e, soprattutto, dinanzi a personaggi più consoni a quanto ci ha abituato la seria. Proprio in questo contesto si trovano gli ulteriori nemici, i Molded (o Micomorfi), creature possenti, mefitiche e catramose con le quali bisognerà fare i conti in parallelo ai Baker, e che ci daranno ulteriori indizi riguardo quel che sta dietro la storia di questo Resident Evil.
Dal punto di vista grafico sono fra gli elementi più pertinenti del gioco, essendo realizzati da dei make-up artist che li hanno assemblati utilizzando modelli composti con carne vera per poi riportarli su schermo tramite la fotogrammetria.

I denti non bastano

Ma se i Micomorfi sono fra i risultati più felici di questo capitolo, lo stesso non può dirsi per gli altri elementi, almeno sul piano del design. Alla domanda di Kotaku sul perché i denti dei personaggi umani di Resident Evil 7 risultino così perfetti, il produttore Masachika Kawata ha risposto che questa è dovuta anche in questo caso ai miracoli della fotogrammetria (e al fatto che gli attori avessero bei denti, ovviamente). Viene da chiedersi allora perché il risultato riguardo la definizione dei volti e dei corpi non presenti risultati egualmente soddisfacenti, così come si può dire per gran parte degli ambienti di gioco e degli oggetti imbracciati da Ethan, i quali presentano una definizione minimale e un numero di poligoni ridotto all’essenziale, alcuni movimenti sembrano mancar. L’unica spiegazione che siamo riusciti a darci è che il lavoro sulle texture non volesse essere troppo elaborato per non stressare esageratamente il VR della PS4, che avrebbe forse potuto risentire di un livello di definizione troppo alto. Anche perché c’è da aggiungere che il RE Engine non dà praticamente alcun problema, anche indossando il casco della realtà virtuale l’esperienza risulta fluida, godibile ma soprattutto immersiva come poche.

Virtual Horror

E qui veniamo a uno dei punti più felici di Resident Evil 7: Biohazard, il quale ad oggi si è rivelato il vero banco di prova per la nuova generazione VR appena lanciata da Sony (la quale, c’è da dirlo, ha il merito di essere la prima a rendere accessibile la realtà virtuale agli utenti). Pur risultando un ottimo gioco anche nella versione standard, è innegabile che questo RE7 su visore dia il meglio di sé: trovarsi in quegli ambienti oscuri, ostili, in cui un non piacevole ignoto può trovarsi sempre dietro l’angolo instilla già ansia e paura davanti a un televisore, figurarsi a trovarsi totalmente dentro una simile esperienza e con delle cuffie alle orecchie. Certo, se dal punto di vista del design denotavamo alcune mancanze nella versione su schermo, su VR tutto ciò peggiora, i difetti che normalmente passano inosservati saltano all’occhio (parti di ambientazione grossolanamente tagliate, definizione che si fa ancora più scarsa negli ambienti non chiusi, etc.) e anche nell’utilizzo di alcuni oggetti (dalla cornetta mal posizionata quando si parla al telefono al modo in cui si rompono le casse etc.) le imprecisioni grafiche non sono poche. Certi difetti sul piano visivo non sono da poco, ma questa tecnologia è agli albori e certamente le software house devono ancora prendere le misure. D’altro canto, l’esperienza di gioco giova tantissimo del surplus che il VR può dare in termini di atmosfera e immedesimazione, sublimando la visuale in prima persona propria del gioco, amplificando il senso di terrore e tensione ad ogni passo nella tenuta, rendendo ancora più vividi gli scontri coi nemici e valorizzando l’impianto narrativo dell’opera. Non è da poco il dato che, come riportato da ResidentEvil.net, su 660.000 utenti iscritti al sito oltre 63.000, quasi il 10% degli utenti, avrebbero utilizzato il PlayStation VR.
L’esperienza risulta totalmente immersiva, restituendo ancor più il meglio di quanto l’ambientazione e la scrittura di questo capitolo possono dare e questo si prospetta essere il vero trampolino di lancio per un gaming sulla realtà virtuale che non potrà far altro che crescere negli anni.

Il Male Residente

Tirando le somme, non si può non accogliere positivamente questo Resident Evil 7: Biohazard. Il ritorno a un luogo conchiuso, una vecchia villa nido e ricettacolo di un male inenarrabile è stata una scelta più che positiva, punto di partenza di un’opera che racconta l’orrore senza far leva su facili scarejump, con gran dignità di genere sul piano narrativo, ottima giocabilità, soddisfacente e adeguata longevità (circa 12 ore), basata su meccanismi della tensione sottili, le cui atmosfere ansiogene compensano pienamente gli svariati difetti sul piano grafico e una colonna sonora azzeccata per far da cornice al quadro.
Non è un caso che le vendite stiano già dando ottime risposte a Capcom riguardo un gioco ottimo in entrambe le versioni, che ha in più il merito di essere la vera prima “killer application” della nuova generazione VR, quella che Sony sta portando nelle case dei giocatori. E anche solo per questo Resident Evil 7: Biohazard merita già un suo posto di riguardo nella storia dei videogames.