La prima iterazione di Tom Clancy’s The Division ha lasciato tutti quanti un po’ interdetti: dopo una presentazione in pompa magna, tra trailer suggestivi e campagna marketing aggressiva, quello che arrivò tra gli scaffali fu un titolo “monco”, pieno sì di potenziale e di buone speranze ma che si perdeva in alcune ingenuità come alcune feature inaccessibili da subito e nemici in grado di assorbire ingenti quantità di proiettili. Ubisoft e Massive Entertainment hanno gradualmente imparato la lezione, portando grossissimi miglioramenti al pacchetto, anche se forse un po’ troppo tardi. Il secondo capitolo dunque, è frutto degli insegnamenti appresi in precedenza, presentandosi in maniera poco velata come un ottimo “more of the same”.
Una Divisione per gli Stati Uniti
Sono passati sette mesi da quando una devastante epidemia ha colpito gli Stati Uniti il giorno del Black Friday. Se, come abbiamo visto, New York non è rimasta indenne dalla caduta della società, non se la passa di certo meglio la capitale, una Washington D.C. contesa da diverse fazioni divise per ideologia, tutte alla ricerca di ascendere al potere. Anche qui La Divisione è chiamata a riportare l’ordine, cercando di ristabilire un governo che possa rimettere in qualche modo le cose a posto. Il compianto Tom Clancy ci ha regalato negli anni, storie al cardiopalmo, thriller politici e colpi scena come se piovesse, ma qui, purtroppo, nonostante dei buoni asset narrativi, tutto risulta dannatamente piatto e di certo l’eccessiva frammentazione delle quest non aiuta il giocatore a interessarsi di una trama molto debole. Tutto suona di pretesto, un contesto in cui qualsiasi giocatore possa collegare il suo agire con una qualsiasi motivazione narrativa. L’amaro in bocca rimane, soprattutto per una scrittura che di per sé non è neanche male, contando su dialoghi talvolta ispirati.
Cosa resta dunque? Molto poco, ed è un peccato perché tutto il resto funziona, e molto bene.
Sbagliando si impara
Tutto ciò che abbiamo visto nel precedente capitolo, qui viene riproposto con diverse migliorie e novità, a cominciare da una maggiore personalizzazione di armi e poteri tecnologici, in grado di rendere unico il proprio alter ego. Proprio sulle armi è stato eseguito un lavoro certosino, moltissime per numero e tipologia ed estremamente diversificate. Ogni arma ha le sue caratteristiche, un proprio rinculo, un proprio rateo e così via, rendendo l’esplorazione di queste peculiarità parte attiva del gameplay, alla ricerca dello strumento di morte adatto a noi. L’aggiunta di nuovi armamenti poi, ha ampliato a dismisura le possibilità da gioco di ruolo del titolo ma soprattutto una maggior ricercatezza tattica; questo perché anche l’intelligenza artificiale è degna del nome che porta, garantendo una sfida adeguata, già a partire dai primi frangenti di gioco: accerchiano, stanano e si coordinano, sfruttando ripari, torrette o postazioni sopraelevate. Inoltre è sparito il fastidioso effetto di “bullet sponge” dei nemici, che tanto aveva afflitto la precedente iterazione. Di fronte a tutto ciò, è qui che il giocatore deve prestare maggiore attenzione, cercando di utilizzare tutte le risorse a disposizione, tra armi e gadget. Il loro potenziamento è dunque vitale, così come lo è l’avanzamento di livello sino ad arrivare alla fatidica soglia di trenta, momento in cui le cose a Washington cambieranno drasticamente.
Nonostante si presenti come titolo da day one, l’offerta è già abbastanza completa, rendendo disponibile sin da subito anche la componente multiplayer competitiva che però mostra il fianco a diverse critiche: prima di tutto il matchmaking, capace di far competere un livello cinque contro un livello venti – non c’è partita ovviamente – e una struttura che ben funziona in singolo o in cooperativa ma che lascia qualche perplessità nel competitivo, in cui la differenza è fin troppo lasciata all’equipaggiamento in dotazione.
Tralasciando questo però, The Division 2 regala grosse soddisfazioni, con un ottimo feedback dalle armi e dei movimenti, di molto migliorati rispetto alle beta: ci troviamo sempre di fronte a un classico TPS con coperture attive, ed è qui che il level design mostra i muscoli, sia all’aperto che all’interno: l’attenzione dedicata a questo aspetto è encomiabile, con ambienti non solo ricchi di dettagli puramente estetici ma anche ricco di elementi che potremmo utilizzare come ripari adatti a tutte le situazione e sfruttabili tatticamente. La libertà d’approccio è quasi totale e conoscere gli anfratti di Washington a menadito può risultare spesso un grosso vantaggio. Nonostante la capitale degli Stati Uniti non vanti lo stesso fascino e suggestione di New York, è comunque una meraviglia, viva, variegata e che soprattutto invita all’esplorazione. Andare alla ricerca di equipaggiamento via via sempre più performante è un elemento chiave ma anche un piacere in questo caso.
Le cose da fare di certo non mancano, con un’elevata mole di missioni principali e secondarie in cui perdersi, ma in grado di fornire ricompense adeguate, che invogliano il giocatore a intraprenderle, approfondendo in senso lato anche la narrazione.
Massive Entertaiment ha già promesso importanti update gratuiti nel corso dell’anno e di fronte a una base di partenza così solida siamo curiosi di vedere come questo titolo possa migliorare, magari facendo da maestro ad altre produzioni simili ma che faticano a “tirare avanti”.
La forma segue la funzione
Vista la sua natura, il compito di lasciare a bocca aperta gli utenti attraverso il comparto tecnico, non è stato nelle priorità di Massive Entertainment; nonostante ciò, il titolo si mostra abbastanza bene, con ambienti e contorno che si discostano molto dalla New York del capitolo precedente. Una palette di colori molto accesa accompagna il giocatore attraverso una Washington sfaccettata, ricca di dettagli ed estremamente varia, segno che dal punto di vista artistico si è fatto un gran lavoro. Su PC il titolo non mostra alcuni segni di cedimento per quanto concerne il frame rate anche se vi è da segnalare un eccessivo pop-up di texture e alcuni elementi a bassa definizione. Per il resto, The Division 2 riesce a regalare scorci mozzafiato, soprattutto in zone avanzate della mappa. Sul fronte audio si segnala un buon doppiaggio italiano, che cerca in qualche modo di far risaltare quanto viene narrato, accompagnato da musiche sempre adatte al contesto: nulla di memorabile, ma in grado, in certi frangenti di esaltare alcune sezioni di gameplay. Ottimo lavoro per quanto concerne invece l’ambiente sonoro, capace di caratterizzare una città in decadenza ricordando a tratti i fragorosi silenzi di “Io Sono Leggenda”. Il buon lavoro eseguito sul mixaggio audio inoltre – apprezzabile soprattutto se dotati di headset 7.1 – aiuta tantissimo la nostra percezione dell’ambiente e soprattutto dei nemici, fondamentale in molti frangenti.
In conclusione
Tom Clancy’s The Divisionè dunque un titolo riuscito, capace di intrattenere come pochi nel suo genere, dimostrazione di come sia importante inciampare per poter rendere al meglio successivamente. Tutto ciò che è stato apprezzato precedentemente viene riproposto in versione migliorata e potenziata, riducendo il più possibile i difetti tanto criticati dalla community. È il miglior loot shooter sul mercato? Probabilmente sì: tutto funziona a dovere, regalando fin da subito varietà d’approccio, un gran senso di libertà al videogiocatore, che mai come adesso, si sente protagonista nella riconquista della civiltà andata perduta.
Processore: Intel Core I7 4930K Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition Scheda Madre: MSi X79A RAM: Corsair Vengeance 16GB Sistema Operativo: Windows 10
Super Smash Bros. Ultimate
Super Smash Bros. è più di una semplice saga videoludica, è il culmine generazionale di tutto ciò che è Nintendo, la cronaca che registra la storia dei personaggi ad essa legati a questa leggendaria compagnia giapponese. Dall’inaspettato successo del primo gioco su Nintendo 64, all’ottenimento dello status di eccellenza con Melee, al meno fortunato Brawl e ai più o meno popolari Super Smash Bros. for Wii U & 3DS arriviamo a Nintendo Switch, la console che ha preso il mondo di sorpresa grazie alla sua natura ibrida: qui, giusto lo scorso dicembre, è stato rilasciato l’incredibile Super Smash Bros. Ultimate, un gioco che, come ha promesso il creatore Masahiro Sakurai, estrae tutto il meglio dei precedenti giochi, traducendosi nel miglior gameplay, estratto ovviamente daMelee, i migliori stage e ogni personaggio mai apparso nella serie di Super Smash Bros., insieme a tanti nuovi combattenti che prendono parte (e più in là prenderanno parte) al più grande crossover della storia. Vediamo insieme questo nuovo titanico capitolo della saga, oggi più voga che mai grazie anche ai grandissimi tornei che lo vedono protagonista.
Anni di tradizione
Come abbiamo già menzionato, il gameplay è quello del velocissimo Super Smash Bros. Melee, e ciò da per scontato che gli scivoloni casuali, presenti invece in Brawl, qui non sono presenti. Il sistema di combattimento, lo stesso sin dai tempi del Nintendo 64, differisce sia dai più classici picchiaduro 2D che presentano sistemi di combo e mosse speciali (come Street Fighter, per intenderci) che da quelli 3D “free range” alla Tekken o Dead or Alive, basate invece su combo veloci e chain attack: con il tasto “A” possiamo eseguire gli attacchi fisici e gli iconici “smash” anticipando di poco un movimento alla pressione del tasto (gli stessi possono essere richiamati, e caricati, con lo stick destro), con il tasto “B” e direzione possiamo eseguire i 5 attacchi speciali presenti in ogni personaggio, come attacchi a proiettile, colpi caricati, contromosse e molto altro, con i dorsali “ZL” e “ZR” attiviamo lo scudo per proteggerci dai colpi avversari o evitarli se lo richiamiamo insieme a una direzione e con “L” e “R”, in prossimità dell’avversario, potremmo bloccarlo ed eseguire una presa. Ogni personaggio, inoltre, ha anche uno smash finale ma questo sarà eseguibile, con “B”, solo se il giocatore riuscirà a rompere una sfera smash che (salvo modifiche al match in modalità Smash) apparirà casualmente nello stage, oppure riempiendo la barra di energia speciale, come in Street Fighter, in modalità avventura o tabellone degli spiriti (di cui parleremo più in là). Il salto, come tipico della saga, è eseguibile premendo i tasti “X” e “Y” oppure, come tipico di ogni picchiaduro 2D o 3D, inclinando lo stick per il movimento verso l’alto; inoltre, come da tradizione, potrete eseguire dei taunt, 3 per ogni personaggio, premendo uno dei tasti direzionali (o una direzione del pro controller o controller Gamecube, indicato, da sempre, per la migliore esperienza con questi picchiaduro). Super Smash Bros. Ultimate, così come ogni altra uscita precedente, offre una miriade di customizzazioni ma, senza scendere troppo nel dettaglio (credeteci, ci vorrebbe un infinità di tempo), ci sono principalmente tre tipi di incontri: a tempo, in cui nel tempo limite stabilito bisogna mandare più volte possibile l’avversario fuori dal riquadro dello stage, a vite, in cui un giocatore ha un numero di vite stabilito e deve cercare di farle perdere agli altri combattenti, e a energia in cui, come nei più classici picchiaduro, bisogna mandare KO il nostro avversario facendo terminare la sua stamina, indicata nella parte bassa dello schermo. Come appunto anticipato, e come ovviamente vuole la tradizione, a ogni colpo a segno aumenteremo la percentuale di eliminazione del nostro avversario, indicata nella parte bassa dello schermo: più è alta più abbiamo la possibilità di mandarlo fuori dallo schermo (ovviamente ciò non accade con l’incontro a vita).
All’avvio del gioco finiremo sul menù principale, questo diviso in 5 grandi categorie; per darvi un overview benomale completa di questo gioco (credeteci, è immenso) li guarderemo tutti uno per uno, spiegando anche a caratteri generali le particolarità di questo nuovo capitolo di Super Smash Bros.. La modalità smash, che troveremo in alto a sinistra del menù principale, ci permetterà di esplorare, da soli contro il computer o insieme ai nostri amici in locale, tutte le possibili modalità di combattimento che includono anche l’apparizione degli oggetti contundenti, assistenti, sfere poké, frequenza di quest’ultimi, la possibilità di aggiungere agli stage, che presentano sempre 3 versioni differenti (standard, rovine e omega), terreni infuocati, elettrificati, soporiferi, avvelenati e tanto altro ancora; insomma, è veramente impossibile riproporre due volte lo stesso match! In questo menù, visto che è quello che apre gli utenti al multiplayer in locale, potrete avviare gli incontri a squadre, i tornei e accedere alla sezione “mischia speciale” in cui potrete accedere agli incontri “sudden death”, mischia totale, che funziona più o meno come un incontro a vite ma in cui potrete assegnare a ciascuna di essa un personaggio diverso, e mischia variabile, ancora una volta un’altra modalità in cui avrete ancora un’altra miriadi di customizzazioni, stavolta relativi ai singoli partecipanti di un incontro. Tutto questo, diciamo, copre la base del gameplay di questo Super Smash Bros. Ultimate, rispetto ai precedenti più vario che mai.
Inutile a dirlo, potrete usufruire di tutte queste customizzazioni anche in online, dove potrete competere in match casuali veloci oppure creando o partecipando in lobby in cui si stabiliscono tipologia di match, modalità di eliminazione, eventuali modifiche e molto altro ancora. La qualità degli incontri online, al solito, dipende dalla connessione dei giocatori che incontrerete, soprattutto di quelli che organizzeranno la stanza, ma vi possiamo assicurare che il più delle volte non ci siamo imbattuti in problemi che hanno limitato la nostra esperienza esperienza online; giocare online non solo protenderà la vostra esperienza con Super Smash Bros. Ultimate verso l’infinito ma potrete anche collezionale le schede smash, delle vere e propre placchette contenenti i nomi degli avversari che sconfiggerete online e che potrete anche scambiare per dei gettoni da spendere nel negozio in-game, in cui potrete comprare brani musicali, vestiti e accessori per i Mii fighters, spiriti, snack (di questi ultimi due ne parleremo più avanti) e aiuti vari per la modalità tabellone degli spiriti.
Everyone is here
Prima di analizzare le due restanti sezioni principali del menù iniziale, vogliamo dare un attento sguardo all’immenso roster di personaggi di questo nuovo capitolo che comprende letteralmente ogni personaggio mai apparso in questa serie di picchiaduro, anche i personaggi non-Nintendo come Solid Snake, Sonic, Bayonetta o Cloud Strife. In questo gioco sono presenti ben 76 personaggi selezionabili (che si sbloccheranno piano piano ma comunque molto facilmente) e altri sono in arrivo come Joker dalla serie RPGPersona di Atlus e il cubettosissimo Steve direttamente dal popolarissimo Minecraft. Ogni personaggio potrà portarvi alla vittoria in quanto, in linea generale, non esistono disparità di nessun tipo (ma solo vantaggi e svantaggi) o personaggi particolarmente over-powered; Sora Ltd. e Bandai Namco hanno davvero consegnato ai giocatori dei combattenti ben bilanciati in grado di offrire delle sfide sempre eque e ciò non è facile quando si consegna un roster di questa portata. Per ogni personaggio, o meglio per ogni saga presente in questo gioco, c’è una gran bella selezione di stage che ben le rappresentano, molti storici, come il Castello di Peach per la saga di Super Mario, le rapide di Donkey Kong Country, Brinstar di Metroid, Mute City di F-Zero, Onett di Earthbound e lo stage di Pictochat, ma molti nuovi come New Donk City da Super Mario Odyssey, la torre delle origini di The Legend of Zelda: Breath of the Wild o le Torri Cittadine di Splatoon e Splatoon 2.
Fornire un’overview dei temi degli stage (che, come tipico della saga, sono più di uno per stage ed è possibile impostarne la frequenza nel menù delle opzioni), è veramente impossibile in quanto, in proporziona alla grandezza del gioco, tanti sono i personaggi, tanti gli stage, tanti i brani! Nella sezione musica, dove possiamo ascoltare i brani liberamente (con una convenientissima divisione per saghe), possiamo renderci conto non solo della quantità di quest’ultimi ma anche della qualità degli stessi. Come al solito troveremo tanti nuovi temi composti per l’occasione ma a rubare la scena saranno senza dubbio i temi familiari delle saghe dei combattenti presenti, che sia rivisitati per l’occasione che in versione originale; ascoltare per credere!
Sempre nella stessa sezione “musica” è possibile creare delle playlist con i vostri brani preferiti ma anziché fissare come dei vegetali la schermata di selezione durante l’ascolto potrete premere “L” e ”R” insieme per fare andare la console in modalità riposo: in questo modo, in modalità portatile, potrete attaccare gli auricolari alla console e continuare ad ascoltare la musica dal vostro Nintendo Switch come fosse un tablet, l’ideale se la trasporterete all’interno di uno zaino.
La grafica, come al solito, non presenta caratteri di particolare rilievo ma i dettagli dei personaggi, laddove sono richiesti (insomma, ricordiamo che è un gioco dove potrete far scontrare Mario contro Bayonetta o Pac Man con Snake) sono sempre ben accentuati e ben presentati, come la texture a jeans della salopette di Mario o la pelliccia dei “combattenti pelosi” come Fox, Inceniroar, Pikachu o la versione yarn di Yoshi; sia in dock che in modalità portatile la qualità della grafica HD vi restituirà sempre una grafica veramente all’altezza e per nessun motivo l’eccezionale azione di Super Smash Bros. Ultimate calerà dai suoi stabili 60 FPS (fatta eccezione per qualche match online con qualche giocatore con una brutta connessione di rete, ma lì parliamo di lag e non di cali di framerate).
On that day…
Passiamo alla modalità avventura, qui un mix della precedente campagna di Brawl, L’Emissario del Sub-spazio, e la event mode di Melee, caratterizzata da una serie di sfide a tema. Abbiamo anche una storia il cui filmato iniziale, apparso in diretta mondiale nell’ultima direct di Nintendo dedicata a Super Smash Bros. Ultimate prima del lancio, ci mostra una creatura celeste al comando di un esercito di Master Hand. Gli eroi Nintendo, appositamente schierati per combatterli, cadono uno dopo l’altro e una volta catturati vengono clonati; l’unico a salvarsi è Kirby, non a caso la prima creazione di Masahiro Sakurai, e toccherà dunque a lui salvare i restanti personaggi del roster. Come al solito, le tematiche che avvolgono la ormai famosa lore di Super Smash Bros. sono celate dietro a un simbolismo abbastanza complesso che racconta metaforicamente la vita e il rapporto di Masahiro Sakurai con Nintendo e, anche una volta arrivati al termine dell’avventura, non tutto è mai chiarissimo; affronteremo questo discorso in un futuro articolo, a continuazione del precedente (che vi abbiamo linkato qualche riga più su) in cui spiegammo la complessa lore di questo gioco, in quanto ci sembra di aver decifrato i simboli di questa nuova avventura… E vi anticipiamo che i risvolti possono essere abbastanza tragici!
Nella modalità avventura ci verrà spiegato tutto ciò che c’è da sapere riguardo agli spiriti di cui si parla tanto nel gioco. Questi sostituiscono i trofei dei precedenti giochi in tutto e per tutto e dunque viene abbandonato il modellino 3D in favore di un più semplice ma più caratteristico artwork originale; a questi, adesso, vengono attribuiti elementi RPG e diventano dunque degli equip da usare in battaglia in questa modalità. Gli spiriti, oltre agli spiriti del personaggio ottenibili dalla modalità classica (e dal negozio per quel che riguarda i costumi alternativi di alcuni personaggi, come Mario sposo, Alphie o i Koopalings), si dividono in spiriti combattenti e spiriti aiutanti. I primi sono di tre tipi + uno, ovvero attacco, difesa, presa e neutro: fra i primi tre c’è un rapporto triangolare (difesa batte attacco, presa batte difesa e attacco batte presa) e tendono a migliorare quel determinato aspetto (se ci equipaggiamo di uno spirito difensivo dureremo di più in battaglia, con attacco infliggeremo più danni e con quelli presa infliggeremo più danni con le prese) mentre il neutro batte tutti quanti anche se non concede particolari vantaggi. Lo spirito combattente equipaggiatoad ogni battaglia accumulerà esperienza salendo di livello e ciò aumenterà il numero di overall: questo ci permette di capire orientativamente il livello del nostro avversario o squadra avversaria perciò, se vogliamo avvantaggiarci in battaglia è meglio sempre superare quello del nostro avversario e selezionare la tipologia opposta (insieme ad una buona tecnica generale, non sempre il numero più alto e la tipologia inversa assicura la vittoria). Si possono potenziare questi spiriti, inoltre, con i già citati snack, le basi del personaggio, che otterremo quando congederemo uno spirito dal menù congeda, con la palestra di Doc Luis, l’iconico allenatore di Little Mac di Punch Out!!, e le zone di esplorazione di Toadette, Charlie e Linebeck (questi da sbloccare nel corso dell’avventura).
Ogni spirito combattente ha degli slot, da uno a tre, a questi possiamo assegnare gli spiriti aiutanti: questi modificheranno ancora di più l’esperienza di gioco migliorando un nostro determinato aspetto, come l’aumento della potenza degli attacchi fisici, frontali, in corsa, alzare la difesa contro pugni e calci, esplosioni e oggetti contundenti, oppure annullare delle particolarità dello stageo dell’avversario. Gli effetti sono veramente tantissimi e ci è impossibile elencarli tutti ma ciò che vi basta sapere è che tutti questi permettono un tipo di gameplay, in modalità avventura o persino in modalità smash o online se i giocatori vorranno, altamente personalizzabile. Capire tutti questi meccanismi, specialmente con le poche righe di tutorial, è abbastanza difficile e confusionario ma vi assicuriamo che facendo esperienza nella modalità avventura capirete tutto quello che c’è da sapere su questa nuova meccanica RPG.
Il nostro Kirby verrà catapultato in un mondo devastato da questa creatura celeste di nome Kiaran (o Galeem in inglese) e qui, passo dopo passo, incontrerà spiriti dei combattenti da liberare, diventando dunque giocabili in questa modalità, e spiriti combattenti e aiutanti da salvare, incarnati dalle copie generate dalla loro cattura all’inizio del gioco. Gli spiriti, anche se non l’abbiamo menzionato, sono – diciamo – personaggi non giocabili di cui è però presente l’artwork all’interno della lista degli spiriti: pertanto, qualora dobbiamo affrontare uno spirito in battaglia, troveremo il o i personaggi del roster che più somiglia a quello spirito: lo spirito di Baby Bowser (che ricordiamo non è Bowser Jr. ma il Bowser bambino della saga di Yoshi’s Island) sarà rappresentato da un Bowser Maxi (esattamente come nel finale del primo titolo della sua saga), X verrà rappresentato da un Mega Man con un blu più schiarito, Chibi Robo da R.O.B., Meowth da Fuffi (o Isabelle), T. Hawk da un Inceneroar blu e così via. Nonostante l’assenza dal roster principali di questi personaggi (e che forse, apparendo lì, Nintendo ci sta facendo intendere che non usciranno più tardi come DLC… Spiacente fan di Waluigi di tutto il mondo!) è veramente interessante vedere come gli sviluppatori abbiano fatto di tutto pur di offrire al giocatore una lotta, seppur scarna, con questi ipotetici personaggi al di là del semplice colore: la lotta contro Rocky, uno dei nemici/amici di Kirby che permette la trasformazione in roccia nella sua saga, è rappresentata da una battaglia contro più Kirby ma l’unico attacco che questi faranno è solamente la mossa speciale in basso, la trasformazione in roccia, esattamente il potere che conferiva questo nemico a Kirby nei suoi giochi! È davvero uno spasso riconoscere tutti questi segnali, specialmente per i “nintendari” più affiatati!
In questo overworld, costruito all’incirca sulla falsariga dei Super Mario in 2D, incontreremo questi spiriti sotto forma di aura luminosa e una volta superata la sua battaglia lo otterremo e sarà disponibile nel nostro arsenale degli spiriti. A ogni modo, il vagare per l’overworld alla ricerca di spiriti non è di certo tutto, né l’esplorazione sarà così lineare come pensiamo: al di là dei semplici incroci troveremo le palestre per attribuire ai nostri spiriti combattenti ulteriori abilità, le zone di esplorazione, empori dove poter comprare spiriti esclusivi, ma anche sentieri bloccati dalle rocce, ponti rotti, ferrovie, laghi da attraversare ma soprattutto sub-aree tematiche, importantissime per procedere nell’avventura.
A ogni battaglia riceveremo inoltre delle sfere abilità da spendere nell’albero delle abilità del menù di pausa della modalità avventura: similarmente a Final Fantasy X o Fist of the North Star: Ken’s Rage (l’iconico spin-off della saga di Dynasty Warriors basato sulla saga di Ken il Guerriero per Xbox 360 e PlayStation 3) avremo una mappa delle abilità in cui espanderemo le nostre abilità spendendo le sfere, dal centro verso fuori. I giocatori potranno cominciare a sbloccare le abilità più avvantaggianti rispetto al loro stile di gioco, come per esempio migliorare le prese se ne sono grandi utilizzatori, ma una volta riempito il 50% delle abilità di questo albero (e ci vorrà del tempo) il nostro stile di gioco, inevitabilmente, diventerà un po’ troppo over-powered e ciò lederà un po’ alla fruizione della modalità avventura visto che le battaglie, nonostante gli avversari diventano sempre più forti, diventeranno molto facili, anche impostando la difficoltà a difficile. Nonostante tutto, questa modalità ci porterà a milioni di sorprese e proprio quando pensiamo che l’avventura stia volgendo al termine, ecco che ci sorprende con qualcosa di inaspettato (vogliamo rimanere più no spoiler possibili), sensazioni paragonabili al trovare il castello inverso in Castlevania: Symphony of the Night. Provare per credere!
L’ultima modalità del menù spiriti è il Tabellone degli spiriti. Qui si possono trovare grossissima parte degli spiriti che non siamo riusciti a trovare nella modalità avventura (e ve ne accorgerete guardando l’elenco degli spiriti nel sub-menù collezione) ed è di base, diciamo, un proseguo parallelo alla modalità avventura: in questo menù c’è un tabellone con 10 spazi, ognuno contenente uno spirito, dunque una battaglia alla fine della quale parteciperemo a un minigioco che ci permetterà di ottenere effettivamente lo spirito. La particolarità sta nel fatto che questi 10 spazi hanno un tempo limite, 5 minuti per slot (15 se si tratta di uno spirito leggenda, uno raro), e perciò, anche qui, bisogna agire con astuzia e dar dunque precedenza agli spiriti che non abbiamo o ci servono per evocare gli altri spiriti nella modalità evocazione. In questa modalità, come possiamo aspettarci, gli spiriti appariranno casualmente e anche se troveremo spesso tanti spiriti che possediamo già vi garantiamo che quasi sempre troverete almeno uno spiriti che non avete; diciamo che la probabilità, nel tabellone degli spiriti, gioca a vostro favore, diversamente dalla vecchia macchinetta dei premi/slot machine di Melee e il flipper/pachinko di Brawl.
L’ultimo modo, invece, per ottenere gli spiriti è evocarli dall’apposito menù: qui troveremo ancora molti altri spiriti, molti dei quali non appariranno né nel tabellonedegli spiriti né nell’overworld dell’avventura, e per ottenerli dobbiamo semplicemente sacrificare almeno due spiriti dalla nostra collezione. All’inizio sarà difficile scegliere quale e addirittura se evocare uno spirito, tanto che l’istinto naturale è quello di aspettare di collezionare dei doppioni per poi evocare uno degli spiriti, ma il nostro consiglio è tuttavia quello di buttarvi: anche se si perdono due o a volte anche tre, quattro spiriti l’importante è riempire la collezione, che non si priverà mai di uno spirito perduto, e anche se si perdono certi spiriti alla quale potreste essere particolarmente affezionati vi basterà sapere che quello che evocate sarà superiore in tutto rispetto a quelli che sacrificherete. Perciò non vi preoccupate, riempite la vostra collezione generale anche perché vi garantiamo che, a differenza di tutte le precedenti entrate della serie Super Smash Bros. in cui per ottenere tutti i trofei spesso e volentieri si ricorreva a Game Shark e Action Replay, sarà possibile collezionare tutti 1303 spiriti presenti nel gioco (perora), giusto per mostrare il vostro “spirito nerd” al mondo intero!
Ultima azione che potrete fare nel sub-menù collezione e congedare gli spiriti. In questo menù potrete liberarvi degli spiriti che non vi piacciono oppure dei doppioni, facendoli trasformare in basi e ottenendo dei punti spirito, che permettono il potenziamento coi snack degli spiriti combattenti e possono essere spesi per comprare gli oggetti in vendita negli empori della modalità avventura. Una base può esservi utile per il potenziamentodegli spiriti combattenti ma in realtà sono ancora più ultili per le evocazioni: nel caso avevate già congedato, per farvi un esempio, un doppione, e dunque ottenuta la sua base (che rimarrà legata al personaggio dalla quale viene ottenuta), qualora serva il suo spirito per una evocazione potrete usare questa anziché sacrificare uno spirito.
Una nuova pietra miliare
Anche per questa generazione Sora LTD. e Bandai Namco, insieme a Nintendo e tutte quelle compagnie esterne che si sono offerti di partecipare a questo incredibile crossover come Sega, Konami, Capcom e persino Yacht Club Games e Way Forward (che hanno garantito la presenza di Shovel Knight negli spiriti e nel roster degli aiutanti e di Shantae solo negli spiriti), si sono letteralmente superati consegnando un gioco capace di offrire a un giocatore un quantitativo di ore infinite di gioco fra campagne single player, multiplayer locale e online. Non ci sono pecche in questo eccellente picchiaduro che non mostra alcun segno di invecchiamento… Se non un accorgimento (personale) che vorremo fare. L’unico punto a sfavore, secondo noi, di questo incredibile Super Smash Bros. Ultimate è proprio il sistema e la sezione degli spiriti. Per quanto funzionante, funzionale e chiara possa essere questa veste RPG nelle modalità in cui è applicabile essa, in parte, snatura ciò che è la serie in sé, ovvero un gioco picchiaduro in cui ogni secondo conta: per quanto ciò non intacchi il gameplay in generale e sia giustamente innovativa in un gioco del genere, essa è difficile da comprendere ed è un qualcosa che secondo noi, per quanto interessante, possa essere quanto di più lontano c’è da questo genere videoludico. E, in conclusione, vorremo anche sottolineare quanto abbozzata sia stata la scelta di soppiantare i trofei in favore degli spiriti, che sono in sé degli artwork originali dei giochi da cui provengono. Sì, sono molto belli, sì, è molto bello guardarli e inserirli stato senza dubbio molto più conveniente di creare dei modellini 3D da zero risparmiando tempo, denaro e spazio in memoria – sarà bastato buttare a casaccio una serie di file png – ma perché togliere le descrizioni che accompagnavano i trofei in Melee e Brawl? I vecchi giochi, sotto questo aspetto, non erano solo dei giochi competitivi ma erano anche delle vere e proprie enciclopedie dalla quale era possibile conoscere la storia di ogni trofeo, e dunque personaggio (o oggetto), rappresentato nei trofei, una vera e propria celebrazione della storia di Nintendo. Super Smash Bros. Ultimate è certamente un titolo inarrivabile… Ma forse non riesce ancora a detronizzare un gioco come Melee che, a distanza di quasi diciotto anni, risulta ancora incredibilmente attuale.
A ogni modo, come il titolo ci suggerisce, è il titolo definitivo di questa immensa saga che a sua volta ne abbraccia tante altre, il culmine del gameplay, il coronamento generazionale della “nintendosità” che ha soddisfatto in toto le aspettative degli appassionati. Decisamente un titolo obbligatorio per chi possiede un Nintendo Switch, un titolo che ancora ha ancora molto da dire grazie ai DLC che ancora devono addirittura essere annunciati.
Just Cause 4 – Un calcio alla Ragione per far Spazio all’impossibile
Il mondo dell’intrattenimento è ormai suddiviso in così tante categorie che non basterebbe questa recensione per elencarle tutte. Se il mondo del cinema pullula di film che riescono a intrattenere e divertire senza pretese particolari, il campo videoludico – paradossalmente – soffre la mancanza di titoli di questo tipo e, eccezion fatta per gli sportivi, se ne trovano meno di quanti dovrebbero forse essercene: il “divertiti e basta” a volte viene accantonato in favore di una ricercatezza narrativa che però risulta, la maggior parte delle volte, difficile da gestire, andando quindi verso una direzione molto lontana rispetto quella prevista dagli autori. Ben vengano dunque i titoli à la MichaelBay di cui la serie Just Cause è fiero portavoce. Perché avere una trama e una caratterizzazione degna di nota quando si possono usare liberamente dei razzi per far volare una mucca nell’iperspazio? Just Cause 4 porta tutti i principi della saga su nuovi livelli, in un un mondo di gioco cui ignoranza fa rima con benessere psicofisico.
Per noi italiani, poi, questo titolo ha anche un sapore particolare: Francesco Antolini, game director di Avalanche Studios, dimostra come un designer nostrano, immerso in un contesto che funziona, può far grandi cose.
Stessa storia, stesso posto, stesso bang
L’intera Isola di Solìs può essere considerata il nostro hub, nel quale si svolgono vicende vicine al lungometraggio con protagonista Gerard Butler – tra l’altro perfetto come protagonista per un eventuale adattamento cinematografico della saga Avalanche – Geostorm: per Rico Rodriguez è tempo di capire chi è, esplorando il proprio passato, alla ricerca di risposte ad ataviche domande. Peccato che la Mano Nera, nome altisonante per la classica organizzazione malvagia di turno, metta i bastoni tra le ruote insieme a tornado e tempeste di vario tipo. Tutto ruota infatti sul controllo del clima, vista come arma vera e propria, che diventa mezzo e oggetto di sequenze davvero spettacolari capaci di far dimenticare la piattezza di una trama che fatica a decollare è che diventa – come ovvio in questi casi – un pretesto per permettere ai giocatori, attraverso Rico, di sbizzarirsi nel favoloso parco divertimenti di nome “Just Cause Land”. Inutile dunque soffermarci su caratterizzazione di personaggi e qualità dello script: tutto è funzionale, come un film di Michael Bay ben riuscito – so che è difficile immaginarlo, ma fate uno sforzo.
Spara che ti passa
Just Cause 4 non è che l’ennesima evoluzione di un gameplay riuscito sotto diversi aspetti, aperto alle più diverse fantasie dei videogiocatori. Tutto rimane sostanzialmente invariato, con Rico capace di effettuare qualunque tipo d’azione à la Steven Seagal che vi venga in mente: paracadutarsi sparando all’impazzata? Si può; lanciarsi da 10000 metri in picchiata verso il vostro obiettivo, aprendo la tuta alare all’ultimo secondo mentre lanciate una granata a un serbatoio di carburante sfruttando la spinta ascensionale dell’esplosione per riprendere quota? Anche. Utilizzare un pallone aerostatico su una mucca per poi farla precipitare sui vostri nemici? Ma ovviamente sì.
Paragonato ad alcune produzioni attuali come Red Dead Redemption 2, Just Cause 4 è una soddisfacente sveltina: semplice, diretto e perfetto per tutte le occasioni. Le novità introdotte nel nostro arsenale prevedono Sollevatore (mutuato direttamente da Metal Gear Solid V: The Phantom Pain), Riavvolgitore e Booster. Questi potenziamenti per il nostro rampino aumentano a dismisura la libertà d’approccio permessa al giocatore, trasformando tutto in un’orgia di “roba” senza precedenti: se come già citato, il primo produce palloni aerostatici per sollevare qualsiasi cosa, il riavvolgitore consente di attrarre qualsiasi oggetto verso un altro, con il booster, fiore all’occhiello del titolo, a far da lanciatore universale e che Elon Musk approverebbe seduta stante. Questi dispositivi possono essere utilizzati in contemporanea, con tre diversi gradi di potenza: senza giri di parole, se confrontato al titolo Avalanche, Sharknado è un film di Sorrentino.
Le varie personalizzazioni dei gadget vengono sbloccate attraverso decine di missioni secondarie abbastanza ripetitive, sparse per la vasta isola di Solìs, che spazia tra villaggi, città ultra moderne e immense distese di natura incontaminata, dalle calde spiagge alle vette innevate, che purtroppo non portano ad alcuna variazione in termini di gameplay, ma una varietà d’ambienti invidiabile. Se tutto vi sembra “rose e fiori”, correggiamo subito il tiro: il problema principale di Just Cause 4 è infatti la reale mancanza di progressione in quanto tutto ciò che possiamo fare sul finire dei gioco è possibile già sin dalle prime battute. Se non fosse per una manciata di quest principali dalle quali bisogna obbligatoriamente “passare”, nulla ci vieterebbe di andare al quartier generale nemico per farlo saltare in aria senza troppe domande; se poi aggiungiamo che attraverso mirate missioni secondarie potremmo avere a disposizione quasi sin da subito carri armati, elicotteri armati di tutto punto e F-22 come se non ci fosse un domani, capite bene che l’equilibrio di gioco non è dei migliori, volendo essere diplomatici. Il “carico da novanta” arriva però quando da uno dei menu presenti, possiamo scegliere quale equipaggiamento possiamo farci recapitare, grazie allo sblocco di piloti, che lanceranno da aeri cargo qualunque cosa di cui abbiamo bisogno e che, al 95%, coincide con la lista di poco sopra.
Dunque cosa abbiamo? Un gioco in cui ci si diverte tanto ma che alla lunga, in mancanza di una reale sfida, tende spegnersi come un fiammifero in una bufera di neve.
Com’è? Simpatico
Dal punto di vista puramente tecnico, a un primo colpo d’occhio Just Cause 4 si presenta abbastanza bene, con scorci mozzafiato, quasi da cartolina. Purtroppo però lo sguardo sullo schermo si posa molto più che il tempo di una fugace occhiata e basta poco per accorgersi che qualcosa non quadra, come un’ottimizzazione tutt’altro che perfetta ma soprattutto l’utilizzo di texture, shader e filtri che suonano forse un po’ superati. Fortunatamente – e a ben donde – l’effettistica svolge un egregio lavoro e tra esplosioni, fulmini e tempeste ci si sente tra tanti green screen cinematografici. Ovviamente, ma in certi casi si può anche chiudere un occhio, sono presenti alcuni problemi legati alla fisica, come oggetti che passano tra pavimento e la Luna in un istante, senza apparente motivo e compenetrazioni tra le più suggestive mai viste. Ma in un titolo come questo, dove anche i fili d’erba possono saltare in aria, è un miracolo che tutto funzioni senza particolari incidenti di percorso.
Se il comparto tecnico non brilla dunque per qualità, al contrario l’audio mostra i muscoli, con un ottimo doppiaggio italiano capace di comprendere la natura scanzonata del titolo ma che a volte fa a pugni con una scarsa sincronia col labiale. Effettistica molto nella norma (un peccato) ma musiche in grado di spaziare tra diversi generi, decisamente orecchiabili.
In conclusione
Just Cause 4 è forse l’ultimo della saga ad avere queste caratteristiche: benché diverta, intrattenga, permettendoci di utilizzare un’arma per richiamare fulmini dal cielo – roba che Gael in Dark Souls IIIlevate proprio – a conti fatti rappresenta un “more of the same” dei lavori Avalanche Studios. Ma Francesco Antolini può andarne fiero, diventando (si spera) un apripista per molti talenti italiani presenti sul territorio, quelli che il nostro Bel Paese spreca, e che speriamo trovino la voce che meritano.
Nota: nessuna mucca reale è stata lanciata nella stratosfera per la realizzazione di questa recensione.
Processore: Intel Core I7 4930K Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition Scheda Madre: MSi X79A RAM: Corsair Vengeance 16GB Sistema Operativo: Windows 10
RimWorld
Un’emergenza galattica. Una nave di linea viene distrutta, ma tre passeggeri riescono a salvarsi finendo nel pianeta più lontano della galassia. Questa è solo una delle storie di RimWorld, complesso colony sim ideato da Ludeon Studios sul modello di una vera e propria istituzione del genere come Dwarf Fortress.
Partiamo con ordine, visto la complessità del titolo: la schermata iniziale di RimWorld ci pone due scelte, ovvero il tutorial, consigliato ma non indispensabile per capire i meccanismi di gioco, e il fulcro di tutto, la nuova partita. Qui potremo decidere uno dei quattro scenari che il gioco ci offre: lo scenario base, ovvero quello dei tre sopravvissuti al disastro della nave di linea, la tribù perduta, con cinque umani sopravvissuti allo sterminio delle macchine, il ricco esploratore che vuole provare il brivido della sopravvivenza, e la cosiddetta naked survival, con un solo personaggio da controllare, ma completamente nudo e senza provviste. Quest’ultimo è lo scenario più difficile di tutto il gioco ed è consigliato solo a chi voglia provare un’esperienza davvero tosta, mentre crashlanded, il primo scenario, è consigliato ai novizi del titolo e a chi abbia avuto esperienze con giochi simili come Dwarf Fortress o Banished.
Il prossimo passo è quello di scegliere uno dei tre narratori, che fungono anche da selezionatori di difficoltà della nostra partita: abbiamo la “normale” Cassandra Classic, adatta a un’esperienza di gioco tradizionale con una difficoltà crescente, Phoebe Chillax che, come suggerisce il nome, è adatta a una partita più rilassata e concentrata sul building puro, e Randy Random, un vero e proprio anarchico capace di farci soffrire già nell’early game anche alle difficoltà più basse!
La meccanica dei narratori è uno dei punti di forza del titolo, regalando al giocatore una rigiocabilità davvero ampia, soprattutto se consideriamo che RimWorld è un titolo molto aperto alle mod di ogni tipo. Non ci sorprenderà vedere scenari pesantemente story-driven, come quelli ispirati a H.P. Lovecraft (dove troveremo il solitario di Providence come narratore) o al Signore degli Anelli, con protagonista J.R.R. Tolkien.
Dopo aver deciso l’ampiezza del nostro mondo, quest’ultimo generato da un seed casuale, sistema visto in giochi come Minecraft, e aver deciso il nostro bioma desiderato (si va dal deserto fino alla lastra di ghiaccio senza alcuna forma di vita), oltre alla nostra scelta di personaggi, rigorosamente casuali e ognuno con i vari pregi e difetti, sia fisici che mentali, si inizia finalmente a giocare!
In base allo scenario scelto, e soprattutto al bioma, si comincerà ad agire di conseguenza: sarà fondamentale raccogliere della legna o materiali analoghi sparsi per la mappa (e ce ne sono) per poter creare un rifugio, dei letti e soprattutto un armamentario di tutto punto. Quest’ultimo punto ricopre un ruolo fondamentale in RimWorld: che si parli di armi da melee come mazze o coltelli, oppure armi a lunga gittata come archi o pistole di ogni tipo (e la dotazione armamentaria del gioco è davvero vasta!), sarà importante per i nostri coloni avere qualcosa da usare per cacciare animali o, soprattutto difendersi dai raid di altre comunità. Proprio loro ricoprono un altro punto davvero importante del pianeta, visto che a ogni partita e a ogni generazione del mondo, verranno generate anche delle tribù con tanto di rapporti, siano essi amichevoli, neutrali o, nella maggior parte dei casi, vista la presenza di pirati, negativi. Ogni rapporto è mutevole nel tempo, in base a ogni nostra azione fatta: se attacchiamo una carovana mercantile di una certa tribù dovremo prepararci a subire tutta la loro ira, oppure, se cureremo e libereremo un prigioniero, potremo ottenere un aumento nell’amicizia col gruppo dato.
Descrivere ogni cosa possibile in RimWorld sarebbe veramente difficile, data la mole di contenuti disponibile nel titolo di Ludeon Studios: il sistema di combattimento ricalca quello di Dwarf Fortress, nessun exploit grafico particolare (anzi, lo stile grafico ricorda molto quello di Prison Architect), ma una libertà testuale letteralmente infinita. Potremo leggere per filo e per segno i colpi fatali messi a segno dal nostro tiratore scelto ai danni di un tacchino da cacciare, oppure di una cicatrice all’orecchio causata dal crollo di un tetto. Tutto è possibile!
E l’obiettivo finale? Pur potendo scegliere di poter affrontare una partita in modalità sandbox, il nostro destino è quello di riuscire ad arrivare all’astronave capace di farci tornare a casa. E se è dall’altra parte del mondo, come di solito succede? Nessun problema: possiamo fare tutto da soli, sfruttando i materiali e passando notti insonne al tavolo di ricerca, scoprendo nuove tecnologie per sbloccare oggetti più avanzati e migliorare il nostro tenore di vita.
Tirando le somme, dopo anni di lavoro e una lunga fase early access, finalmente RimWorld arriva tra noi in forma completa, facendo centro sotto ogni aspetto. Grafica e colonna sonora risultano semplici ma molto efficaci, e ben si sposano con il mood sci-fi misto western che abbiamo visto in serie televisive come Firefly oppure Westworld. Il gameplay è uno dei punti di forza, una vera evoluzione di Dwarf Fortress, che, grazie al motore grafico, tira fuori tutti i suoi punti di forza, con sessioni lunghe e che vi costringeranno a pronunciare la sempiterna frase “altri cinque minuti e poi stacco”. Il mostruoso supporto alle mod, poi, dona una longevità davvero impressionante al titolo tra miglioramenti delle meccaniche di gioco e scenari narrativi unici.
Se per anni il titolo di Bay 12 Games ha rappresentato un vero e proprio baluardo del colony sim roguelike, ora è arrivato il passaggio di consegne: RimWorld è l’evoluzione di Dwarf Fortress, ed è il momento che i fan del genere attendevano da almeno dieci anni.
Devil May Cry 5 – I Tre dell’Ave Maria
Devil May Cry è un brand che non ha bisogno di presentazioni ma, qualora vi servissero, be’… tornate indietro, recuperate almeno i quattro titoli principali e poi tornate qui; sicuramente leggerete questa recensione con un piglio un po’ diverso. Hideaki Itsuno è tornato, e il suo Devil May Cry 5 sembra raccogliere quanto di meglio la serie abbia prodotto nel corso degli anni: c’è un bel po’ del quarto capitolo, la freschezza del terzo, le idee dell’originale e qualche piccolo dettaglio ispirato anche dal DMC – Devil May Crydi Ninja Theory, lavoro tra i più sottovalutati del settore ma apprezzato dai designer originali. Il secondo capitolo, invece, vanta soltanto qualche accenno, come se tutto fosse accaduto durante una bella sbronza.
Insomma, detta così Devil May Cry 5 sembra un “more of the same”, un titolo che cerca di accontentare i fan della serie con del fan service banale in ricordo dei tempi andati; ma fortunatamente c’è molto, ma molto di più, tanto che l’ultima fatica Capcom si candida automaticamente a essere uno dei migliori giochi di questo 2019.
Bastardi senza gloria
Benché non sia l’elemento principale del franchise, gli sceneggiatori hanno avuto comunque l’onere di completare linee narrative rimaste in sospeso. Ma a far la differenza – come sempre del resto – non è “cosa” si racconta ma il “come“. Nelle dodici ore circa necessarie a completare la campagna verremo avvolti da sequenze al cardiopalmo e contornate dal solito mood nonsense, tamarro e diretto che ci ha accompagnati soprattutto a partire dal terzo capitolo. Oltre a Nero, che ritorna da Devil May Cry 4, e ovviamente Dante, fa la sua comparsa un terzo protagonista misterioso: V (una lettera, un perché). Oltre a essere un personaggio funzionale alla narrazione, questi è anche il motore che dà il via alle vicende, con lo scopo di fermare il Qliphoth, un ancestrale Albero Sacro. Del suo modo di combattere parleremo successivamente ma, nonostante un’eccessiva rapidità, quasi repentina, nel suo cambiamento di stato, V riesce a far centro, con la sua dose di carisma necessaria all’interno di un roster che vede per protagonista un mostro sacro come Dante e il riuscitissimo Nero. Le vicende si susseguono con ritmi incalzanti, a volte con ritmo frenetico, altre con il giusto tempo, per darci modo di entrare “in intimità” con il personaggio in questione. Tralasciando qualche piccola ingenuità, come le prevedibili reali identità di Nero e V, tutto procede spedito, con una narrazione non lineare e ben congegnata e su più livelli temporali, ricca di riferimenti ai capitoli precedenti e ad altre opere come l’anime, ripreso più volte grazie anche all’ingresso in-game di Morrison (“agente” di Dante), che nel frattempo ha subito un cambio di etnia. Il passato di Dante e dei suoi trascorsi sono sviscerati a più riprese, mostrando anche piccoli traumi e debolezze che arricchiscono ancor di più il background di un personaggio ormai iconico. Non si tratta certo di una scrittura da premio Oscar, sia ben chiaro, ma è comunque sufficiente a rendere Devil May Cry 5 il migliore dal punto di vista narrativo. Ovviamente non potevano mancare Trish e Lady, accompagnate in questa occasione da Nico, la compagna d’avventura di Nero senza peli sulla lingua che svolge funzione di principale di comic relief ma anche da amica fidata, oltre che un ruolo chiave all’interno del gameplay.
Col sorrisetto, sulla faccetta
È chiaro come in un hack ‘n’ slash il gameplay svolga un ruolo chiave. Devil May Cry 5 riprende lo stile e le meccaniche del precedente capitolo ma reinterpretandole in una nuova salsa, sfruttando anche la maggiore potenza dell’hardware attuale. Abbandonata la telecamera fissa, ci si ritrova all’interno di un’orgia adrenalinica di colori, suoni e botte da orbi che Capcom ci ha saputo regalare spesso, anche se qui siamo su ben altri livelli. Aver tre personaggi giocanti significa avere tre differenti approcci al combattimento: partendo dal nuovo arrivato V, ci troviamo ad avere a che fare non con il “solito” mezzo demone armato di lama ma con un evocatore, in grado di richiamare due creature più una speciale, vecchie conoscenze del capitolo originale. Lo stile di V è totalmente diverso rispetto a qualunque altro personaggio della serie: a combattere saranno i demoni evocati, mentre “l’uomo misterioso” starà a distanza, agendo solo in caso di colpo di grazia. Ma ricordiamoci che si tratta pur sempre di DevilMay Cry e anche qui le cose si fanno interessanti: come da abitudine (e vale anche per Nero e Dante) abbiamo a disposizione una caterva di combo e colpi speciali da sbloccare grazie all’ausilio di Gemme Rosse (la moneta in-game); ne consegue che la varietà di abilità presenti tange i picchiaduro più affermati, dovendo di volta in volta imparare le combinazioni presenti, accordare il più possibile armi e combo, annullare l’animazione del personaggio e così via. Con V tutto questo risulta forse un po’ troppo facilitato, raggiungendo molto spesso il Grado SS senza particolari difficoltà. Non che manchi tecnicismo, ma l’utilizzo di più creature, unita alla capacità di effettuare un eliminazione dopo l’altra, facilità un po’ le cose. Nero è semplicemente Nero. Persa la possibilità di utilizzare il Devil Bringer, è costretto a usufruire di protesi speciali costruiti dalla sua fedele Nico. I Devil Breaker, diventano così un’idea geniale, in grado di variare l’approccio ai combattimenti come raramente visto in altre produzioni: essi hanno abilità diverse ed è possibile portarne sino a otto se sbloccati gli slot necessari; ognuno di loro ha capacità uniche come la possibilità di lanciare scariche elettriche in grado di stordire i nemici, fermare il tempo o trapanare per bene. La loro varietà è molto ampia possedendo a loro volta un’abilità speciale devastante che se usata causerà la distruzione dell’arto meccanico. Proprio la loro distruzione diventa un elemento attivo del gameplay di Nero in quanto l’unico modo per cambiare Devil Breaker è quello di sacrificarlo. Se a prima vista questa scelta può sembrare limitante, giocando ci si accorge come tutto abbia un senso logico: oltre a portare un certo tatticismo nella scelta delle protesi da utilizzare a inizio missione, le esplosione hanno sempre un effetto attivo, danneggiando i nemici, aiutando quasi a non interrompere le combo. Inoltre c’è da considerare che inserendo la possibilità del cambio, Nero sarebbe stato sin troppo simile a Dante, capace di cambiare stile, influenzandone il moveset. Ma lo vedremo dopo. Ogni Devil Breaker è dotato di un rampino, capace di far attrarre verso di noi ogni nemico e sbilanciarlo oppure di lanciarci verso il malcapitato con tutta la nostra furia.
Ma che Devil May Cry sarebbe senza una spada? La Red Queen di Nero torna più in forma che mai, con la sua peculiarità di poter essere caricata (sino a un massimo di tre volte) rendendola ancor più potente. La combinazione di Red Queen e dei Devil Breaker trasforma Nero in una macchina di morte quasi esilarante: Nero si diverte e con lui ci divertiamo anche noi. Pad alla mano, l’utilizzo del nuovo ammazza demoni è una gioia per gli occhi e per il cervello, restituendo feedback puramente adrenalinici capaci di assuefare ogni videogiocatore. E non siamo ancora arrivati alla parte migliore.
Ovviamente Dante riesce a regalare le migliori soddisfazioni, non migliori rispetto a Nero ma semplicemente diverse, probabilmente per l’affezione all’iconico personaggio. Dante è in tutto e per tutto il figlio di Sparda che conosciamo, capace di intercambiare in tempo reale armi e stile come solo lui sa fare. Passare dalla Rebellion (la celeberrima spada di Dante) alla Balrog (una sorta di armatura per gli arti) e Cavaliere R, in poche parole uno “moto – sega” (!) è puro piacere, intenso come un Ferrero Rocher fondente (molto buono). Tutto diventa, dopo aver fatto un po’ di pratica – soprattutto ne Il Vuoto – pura tecnica e istinto, una combinazione che raramente, ma molto raramente troverete in altre opere simili.
È un titolo che come da tradizione predilige l’attacco più che la difesa e ovviamente non ci si può staticamente difendersi: l’importanza alla schivata è infatti relativa e seppur presente, attraverso una combinazione di tasti, difficilmente sarà un opzione presa in considerazione.
L’attenzione riservata al puro combattimento è andata anche verso la realizzazione di ambienti strutturati con cognizione di causa e benché presentino il più delle volte il sistema classico di “corridoio-arena”, il level design riesce a sorprendere, invogliando in qualche modo l’esplorazione alla ricerca di oggetti utili alla missione. Questo in certi frangenti diventa fondamentale in quanto in questo capitolo sono state completamente rimosse le Stelle di cura e di ricarica del Devil Trigger. Dunque la barra vita che abbiamo è quella che ci dobbiamo tenere, sfruttando eventualmente la trasformazione in demone per rigenerarla. A far da contraltare però vi è una maggiore disponibilità di Gemme Dorate (una sorta di vita in più) oltre a un numero infinitamente più alto di gemme rosse, visto anche la presenza dei tre personaggi giocabili. Il titolo è estremamente equilibrato e nonostante sia presente la possibilità di effettuare degli acquisti attraverso microtransazioni, non se ne sente mai il bisogno.
Piccola nota anche all’aggiunta del cosiddetto Cameo System, in cui uno o più giocatori reali possono intervenire in partita, trasformando in certi frangenti, DMC in un cooperativo online. Questo sistema, però, benché discretamente interessante, è un elemento quasi superfluo e che non incide in alcun modo sull’andamento della partita, se non per qualche piccolo aiuto in caso di numerosi nemici.
In ogni caso Devil May Cry 5, in ogni sua traslitterazione di gameplay, è puro piacere e se non vi diverte, allora il problema siete voi.
Un Giappone che funziona
Il RE Engine si mostra in tutta la sua potenza, rendendo Devil May Cry 5 una gioia per gli occhi, soprattutto su PC. La modellazione dei personaggi, così come le animazioni rendono il tutto molto verosimile, enfatizzato da animazioni facciali tra le migliori viste finora. Tutto risulta pulito e fluido e su PC perfettamente ottimizzato, segno che in Giappone forse stanno cominciando a prendere a cuore la comunità di “pcisti”. Proprio questa versione risulta essere di gran lunga la migliore rispetto alla versione console, garantendo una maggiore cura per i background e soprattutto per gli effetti, dal motion blur all’occlusione ambientale, tra l’altro presenti con opzione “variabile” nel menu apposito, permettendo una gestione adeguata di questi anche per macchine non performanti. Spiccano, come già accennato, i modelli e le animazione dei personaggi, non solo durante le cutscene (splendide, coreografiche e ricercate) ma anche durante il gameplay, tra evoluzioni pittoresche e violenza inaudita.
Anche la componente audio non è da meno, con l’ormai iconica Devil Trigger del duo Casey e Ali Edwards e le musiche d’accompagnamento diverse per ogni personaggio ma che hanno in comune il crescendo parallelamente al livello di stile ottenuto. Ne consegue che la musica accompagna direttamente, ma in maniera naturale, l’azione, creando un mix perfetto e adrenalinico. Rispetto al reboot di Ninja Theory (DMC – Devil May Cry) il gioco non è doppiato in italiano ma soltanto in inglese e giapponese, con sottotitoli. La sincronia con il labiale è perfetta in entrambi i casi, piacevole e godibile in entrambe le lingue.
In conclusione
Devil May Cry 5 è l’ulteriore conferma del periodo d’oro di Capcom: nonostante sia un sequel di una saga quasi ventennale riesce nell’intento di accontentare tutti, dai fan più esagitati ai neofiti, che magari potranno recuperare i prequel. Una trama funzionale ma ben sceneggiata accompagna tre differenti gameplay di altissimo livello, rendendo questo quinto capito forse il migliore hack ‘n’ slash degli ultimi dieci anni. Soltanto qualche leggero difetto sporca un titolo da eccellenza assoluta e che forse aprirà le porte a un nuovo remake sulla falsa riga di Resident Evil II: quello dell’originale Devil MayCry.
Processore: Intel Core I7 4930K Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition Scheda Madre: MSi X79A RAM: Corsair Vengeance 16GB Sistema Operativo: Windows 10
Shadow of the Tomb Raider – Bellezza Letale
Il reboot di una delle serie più importanti della storia dei videogame, con l’intrinseca riscrittura di un’icona pop come Lara Croft, è stato un successo. Con l’ultimo capitolo di questa ideale trilogia, Shadow of the Tomb Raider, possiamo dirlo ma, diciamocela tutta: era più semplice sbagliare che fare bene.
Sin dal 2013, anno di debutto della nuova archeologa e delle sue avventure, TombRaider ha saputo a poco a poco abbattere i pregiudizi dei fan, portando capitoli interessanti dal punto di vista qualitativo (ricordiamo infatti l’eccellente Rise of theTomb Raider) e soprattutto nella ricostruzione di una Lara Croft più umana, con un percorso di crescita che l’ha portata a essere (quasi) l’eroina che tutti conosciamo. Con Shadow of the Tomb Raider, il focus è incentrato sui tratti caratteriali e conseguenze negative dell’agire dell’archeologa, in un viaggio attraverso i suoi traumi infantili e insicurezze che finora, ha ben mascherato.
E se poi te ne penti?
Da quando Lara era formata da pochi e spigolosi poligoni, il suo agire non ha mai portato a conseguenze particolarmente fatali per il genere umano: si trovava una reliquia e la si prendeva, senza far troppe domande. Ma come Indiana Jones insegna, non è tutto oro ciò che luccica e questa volta, le conseguenza si faranno sentire. Sin dal prologo, assistiamo a un lato che poco si era visto nella trilogia: la superbia, il credere di essere fondamentale per il destino del mondo, unica protettrice dell’umana stirpe. Inutile dire come le cose prenderanno una brutta piega, dopo aver creduto di aver fatto la scelta giusta. L’avverarsi di un’antica profezia Maya getterà nel caos Messico e Perù e Lara, non potrà far altro che sentirsi in colpa per quanto sta avvenendo.
Comincia così un lungo cammino di redenzione per la protagonista, esplorando se stessa, la sua infanzia e il suo ruolo nel mondo, un cammino, come da tradizione, intriso di pericoli, a cominciare dalla Trinità, una presenza costante ma forse fin poco tangibile. L’avventura, tra esplorazione, stealth e azione frenetica, riesce a intrattenere anche grazie a una rinnovata regia non solo nelle cinematografiche cutscene ma anche in game, mostrando sempre i tratti più spettacolari o struggenti dell’azione. Da questo punto di vista Shadow of the Tomb Raider dà il meglio di se, trasponendo una campagna completa, suggestiva e contornata da missioni secondarie presenti nelle località che potremmo utilizzare quasi come degli hub. Queste missioni (forse un po’ troppo vecchia scuola), permettono, alla loro conclusione, lo sblocco di nuove armi ed equipaggiamento ma con l’effetto collaterale di frammentare fin troppo la narrazione. In qualche modo infatti, purché non obbligatorie, queste rallentano, sino quasi ad arrestare le quest principali, che appesantiscono ulteriormente il vero problema (e forse unico) di questo titolo: il ritmo. Se è vero che ci troviamo di fronte a un racconto maturo, con i giusti colpi di scena e la giusta dose di pathos, la narrazione non procede mai con ritmi costanti risultando veramente interessante solo in alcuni frangenti. In qualche modo, con le modifiche di gameplay adottate, non si è riusciti a bilanciare il tutto, anche perché allargare la natura del franchise verso l’open world, non sembra la scelta azzeccata.
A mostrare il fianco – a tratti – è anche la sceneggiatura, che riesce a esaltare molti momenti chiave ma anche a neutralizzare alcuni dei momenti più empatici della protagonista e dei comprimari, svolti forse con troppa fretta e superficialità.
Nonostante tutto però – soprattutto se avete giocato i due prequel – Shadow of the TombRaider vi terrà incollati allo schermo, proprio per poter vedere con i vostri occhi come una ragazza fragile, ingenua ma con tanti sogni nel cassetto, sia riuscita a divenire un donna forte, in grado di cambiare il proprio destino.
Sangue e Fango
Come prevedibile Shadow of the Tomb Raider è l’evoluzione (finale?) di quanto visto finora, dal 2013 a Rise of the Tomb Raider. Il cambio di location ha permesso alcune implementazioni, a cominciare dall’uso del rampino, necessario per raggiungere appigli altrimenti inaccessibili, agganciandosi alle pareti o permettendoci di salire o scendere in sicurezza. Questo attrezzo si dimostra utile anche nelle fasi stealth, in cui potremmo letteralmente impiccare il povero malcapitato tra i rami degli alberi, alla stregua di quanto avveniva in Assassin’s Creed III con protagonista Connor Kenway. Ma l’agire nell’ombra è facilitato anche dall’uso di altri nuovi elementi, come trappole da innestare nei cadaveri o speciali frecce in grado di mandare in delirio i nemici, uccidendosi a vicenda. L’approccio rimane dunque abbastanza libero e anche l’ambiente circostante arriva in soccorso, tra innumerevoli alberi e vegetazione in grado di fornire il giusto riparo. All’interazione ambientale consona, si aggiunge anche la possibilità di poter utilizzare del fango per ricoprire il corpo di Lara, rendendola invisibile (soprattutto la notte) a fugaci occhiate. È in questi frangenti che ci si toglie le grosse soddisfazioni, potendo sfruttare tutto l’ambiente a nostro vantaggio tra alberi, cespugli, pareti, alture e acqua. In questi frangenti Lara Croft è la cacciatrice, disposta a tutto pur di fermare la Trinità che, in questi frangenti, può contate su un’intelligenza artificiale leggermente sopra la media, in grado di stanarci con l’utilizzo di granate e di accerchiarci prendendoci alla sprovvista.
Come già accennato, l’avventura di Lara può essere arricchita da incarichi secondari più o meno interessanti, presenti all’interno delle città che visiteremo. In questi ambienti regna la tranquillità dove, interagire con gli abitanti, diventa fondamentale non solo per sbloccare nuovo equipaggiamento ma anche per scovare segreti e tesori sparsi per la mappa. Il problema di queste sezioni, benché ben congegnate, è che hanno l’effetto collaterale di diluire fin troppo la narrazione con elementi che in fin dei conti, non sono fondamentali. Aggiungere tali elementi, quasi da “open world”, in un’avventura nello stile di Tomb Raider è il problema più evidente: manca l’amalgama necessaria per apprezzare queste “pause” dalla narrazione principale e purché si tratti di location suggestive, la voglia di proseguire è fin troppo più grande rispetto a quella di eseguire piccoli incarichi secondari. Fortunatamente però, tornano, più grandi, più complesse e artisticamente più ispirate, le Tombe della Sfida e le Cripte. In questo terzo capitolo, esse assumono un ruolo attivo nello sviluppo della protagonista sbloccando, alla loro risoluzione, equipaggiamento (soprattutto vestiario) ma soprattutto abilità bonus e accessibili solo in questo caso, come la possibilità di trattenere maggiormente il respiro sott’acqua. Questo, regala finalmente la giusta importanza all’esplorazione delle tombe, ovviamente il punto focale dell’intero franchise, rispondendo alle critiche verso i capitoli precedenti in cui tutto ciò risultava del tutto secondario. Le abilità di Lara comunque, sono molteplici e suddivise in tre branche principali; la diversificazione delle capacità è la chiave per la sopravvivenza e in questo Crystal Dynamics ed Eidos Montreal hanno svolto un egregio lavoro dando l’opportunità al giocatore di “lavorare di fino” per personalizzare la nostra eroina. È tutto il gioco a invogliare a esplorare e a potenziale le abilità di Lara, sfruttando le capacità acquisite eventualmente nel new game + e nei contenuti aggiuntivi.
Dal punto di vista meramente action, dove la fasi shooting la fanno da padrone, non vi sono novità rilevanti: probabilmente il punto più debole del pacchetto, non riesce a risaltare quanto dovrebbe, contando su animazioni dedicate troppo legnose; cambiare arma, mirare, sparare e ricaricare non avviene con la giusta fluidità, finendo alle volte per preferire di gran lunga eliminare in silenzio i vari nemici. Nulla che intacchi l’avventura, ma forse è arrivato il momento di “svecchiare” queste sezioni, magari prendendo spunto dal suo rivale maschile (Nathan Drake, ndr).
Sinestesia
Come accaduto soltanto per la recensione di Hellblade: Senua’s Sacrifice, anche questa volta si parte dall’audio, un lavoro eccellente sotto tutti i punti vista. Le musiche, composte e dirette da Rob Bridgett, sono sempre adatte al contesto, creando atmosfere uniche non solo nei momenti riflessivi o nostalgici ma anche quando l’azione si fa via via più frenetica. Tutto viene enfatizzato anche dall’ausilio di alcuni strumenti tipici Maya, atti a ricreare probabilmente una delle migliori colonne sonore di questo 2018. Ma anche il doppiaggio (come da tradizione) non è da meno: l’ormai storica voce di Benedetta Ponticelli riesce a trasporre una Lara in costante conflitto con se stessa, attanagliata dai sensi di colpa senza andar mai sopra le righe. Tutti i dialoghi dell’archeologa restituiscono un personaggio reale, così come lo sono i comprimari, a cominciare dal suo fedele Jonah (Diego Baldoin), amico, guida e fratello maggiore di una Lara in via di maturazione. Ma il lavoro che lascia più di stucco è quello eseguito sugli effetti sonori e la loro tridimensionalità (consigliato vivamente l’utilizzo di un buon paio di headset). Tutti i suoni risentono delle varie superfici presenti, con un contrasto netto tra interni ed esterni; tutto è al posto giusto e in grado di generare ancor di più un forte senso di immedesimazione.
La parte meramente visiva invece spicca come una delle produzioni migliori degli ultimi anni e sicuramente il miglior Tomb Raider visto sinora. Tutti gli ambienti di gioco, dai piccoli villaggi alle intricate foreste godono di innumerevoli particolari, con l’attenzione minuziosa per i dettagli. Che siano baracche o semplici alberi, tutto è realizzato con cura, così come i modelli dei personaggi principali (Lara ovviamente splendida), esaltati da una regia che raramente è visibile in un videogioco. Il salto di qualità a livello narrativo, come detto, è forse mancato, ma il modo in cui vengono raccontate le vicende hanno subito un boost eccezionale, non solo per quanto riguardo le scene più adrenaliniche, mostrando ampie panoramiche in grado di risaltare l’impatto empatico con quanto avviene, ma anche un’attenzione particolare per i primi piani e durante alcuni momenti costruiti ad hoc per rimanere impressi per sempre nella mente dei giocatori. Tutto questo ben di dio, è purtroppo macchiato da qualche imprecisione nella fisica degli oggetti, qualche piccolo glitch e compenetrazione di troppo, quasi a segnalare un ultimo mancato intervento di “pulizia”. Nulla comunque che possa minare l’eccellente lavoro svolto da Crystal Dynimics.
In conclusione
L’ultimo capitolo della trilogia reboot dedicata a Lara Croft, riesce anche questa volta a fare centro. Nonostante la struttura narrativa soffra di alcuni cali di ritmo, dovuti anche all’introduzione di alcuni elementi di gameplay che forse mal si sposano con le caratteristiche dell’avventura proposta, il cammino di redenzione dell’archeologa più famosa al mondo riesce a trasmettere le giuste emozioni e il giusto grado di empatia. Il lavoro svolto da Crystal Dynamics dunque è di ottimo livello, riconfermando quanto di buono svolto dai precedenti capitoli, migliorando in toto tutta la parte tecnico-artistica, in cui spiccano audio e regia. Shadow of the Tomb Raider chiude il cerchio su una Lara molto diversa dall’icona pop degli anni ’90, ma sicuramente più vicina a noi, tralasciando ricchezza, l’atletismo di Ercole e la bellezza afrodisiaca. Anche questa Lara, ci piace.
È possibile lanciare sul mercato un videogioco utilizzando degli asset base? Un videogioco che miscela trama horror, investigazione e azione in un composto forse troppo confusionario. Il paranormale è una bella attrattiva, così come il sistema di investigazione, semplicistico ma ben realizzato, al contrario di quanto avviene con le dinamiche di combattimento. Hellsign, un esperimento di BallisticInteractive, risulta un po’ troppo confusionario su diversi fronti: partendo dai comandi, molto macchinosi e poco precisi, fino ad arrivare alla gestione dei menù e sottomenù annessi per lo sviluppo del personaggio e la raccolta dati.
Perché Hellsign
A causa di una voglia sulla pelle, il nostro personaggio sarà destinato a divenire un “Hunter”, notizia che sembra non preoccupare minimamente il nostro alter-ego (come se fosse normale essere dei predestinati) ma, mancanza di pathos a parte, la strada è lunga e tortuosa prima di poter accedere ai privilegi di essere un vero cacciatore. Inizieremo il percorso facendo da “scout” a un team di Hunter professionisti ed è proprio da qui, che parte l’avventura di Hellsign. Dopo un brevissimo tutorial, vieni abbandonato a te stesso senza alcuna cognizione di causa: non avrai un “questlog“, né un riassunto dei compiti da svolgere durante le missioni (il ché è già abbastanza frustrante di suo) in più, anche nelle missioni che richiedono il “ranking” più basso, si affrontano nemici difficili da eliminare; tutti elementi questi, non fanno altro che portare a frustrazione, portandoci non riprovare mai più l’incarico.
Il Gameplay
Le meccaniche di combattimento sono semplici, si spara e si schiva, ma il sistema di puntamento impreciso e scomodo, va a discapito della giocabilità in un’opera con visuale isometrica. Capiterà spesso e volentieri di far fuoco in un punto piuttosto che in quello desiderato. In Hellsignsono previsti diversi tipi di missioni o “contratti”, accessibili comodamente da una mappa riassuntiva della città, capaci di indurci a esplorare in cerca di indizi o cacciare a seconda dell’incarico, spesso in abitazioni abbandonate e infestate da entità sovrannaturali delle peggiori specie. Abitazioni che però, sin da subito, daranno l’impressione di essere identiche le une alle altre, il ché rende il tutto monotono e ripetitivo.
È presente anche un albero delle abilità da poter sviluppare per riuscire meglio nelle nostre imprese: è da notificare però, la difficoltà eccessiva per riuscire ad acquisire “skill point” adatti ai nostri scopi.
Tecnicamente parlando
Il comparto grafico di Hellsignè interessante, ma non va oltre. Una grafica pulita che con i giusti giochi di luce e ombra si colloca benissimo nella scena horror in cui vuole posizionarsi il gioco. Le animazioni invece, sembrano esser state utilizzate senza lavori di ottimizzazione: praticamente semplici asset, davvero basilari e scialbi.
Durante i nostri incarichi saremo accompagnati da un tappeto musicale composto di sonorità “ambient and noise”, accompagnato a sua volta, da “magistrali” FX come il suono dei nostri passi completamente aritmici e buttati lì a casaccio.
Concludendo
Hellsignsarebbe un ottimo free-to-play, ma purtroppo non lo è. Su Steam si trova a 14,99 euro, tanto quantoFallout4 di Bethesda sulla stessa piattaforma per intenderci –mi pare sia abbastanza ovvio l’impossibile paragone no? –. Purtroppo è un tentativo fallito di proporre qualcosa di nuovo: pur carina e originale l’idea di base, rimane il fatto che sia stata completamente corrosa da una cattivissima gestione dei contenuti del gioco.
Book of Demons
Sviluppato da Thing Trunk, Book of Demons, oltre a essere il primo titolo della software house polacca, è un Hack & Slash che ha, inoltre, una componente principale basata sulla costruzione di un deck. Il titolo narra le vicende di un’eroe che dovrà salvare il mondo dalla recente minaccia. Inoltre, il videogioco è apertamente un tributo al primo Diablo.
Dopo aver concluso l’introduzione guidata ci ritroveremo all’interno della “lobby” principale. Quest’ultima sarà la città che, appunto, riunirà i quattro principali personaggi attraverso cui eseguiremo determinate azioni: tramite il Saggio potremo identificare delle carte “sconosciute”, aggiungere uno slot per poter posizionare più carte e sarà possibile accedere anche al bestiario di un nemico dopo averlo sconfitto; parlando con la Locandiera sarà possibile accedere a un calderone magico che si riempirà di oggetti dopo ogni missione completata (attenzione avventurieri, in caso di morte questo si svuoterà completamente); tramite il Guaritore sarà possibile recuperare salute, mana e, inoltre, per la modica cifra di 100k d’oro, potremo acquistare la Furia Mortale (che consiste nel poter tornare in vita una sola volta a carica); infine, grazie alla Cartomante sarà possibile ricaricare il numero di utilizzi delle carte e, inoltre, attraverso alcune rune, potremo potenziare tutte quelle a nostra disposizione.
All’interno dell’hub noteremo in lontananza una cattedrale dalle sembianze malefiche. Una volta aver cliccato su di essa, ci troveremo di fronte a una vera e propria porta dell’inferno. Quindi, la nostra avventura attraverso gli inferi verrà rappresentata da una discesa che terminerà una volta arrivati al combattimento finale contro l’Arcidemone. Qui gli sviluppatori hanno avuto un’idea geniale, con l’introduzione del Flessiscopio in cuigli utenti, potranno giocare entro i loro limiti di tempo: una volta selezionato il livello infatti, ci verrà chiesto di scegliere una delle varianti di tempo a disposizione; più sarà lunga la durata della quest, maggiori saranno le ricompense e i nemici da affrontare. Questo è uno degli aspetti che abbiamo preferito: il fatto di essere in grado di modificare la durata della missione ha permesso più volte di poter avanzare semplicemente in una quindicina di minuti. I livelli, generati proceduralmente, presentano nemici di vario tipo, il ché porterà a modificare il nostro mazzo in base alle varie situazioni.
Il titolo presenta una grandissima quantità di nemici, ognuno dei quali possiede poteri speciali come la possibilità di rallentare, congelare, ecc. Inoltre, durante la nostra permanenza all’interno dei dungeon è possibile trovare carte di diverso tipo, che si dividono in tre tipologie: Consumabili, Carte Magia e Carte Potenziamento. Nemico dopo nemico, morte dopo morte, guadagneremo esperienza che ci permetterà di avanzare di livello e, successivamente, sarà possibile scegliere se aumentare la nostra salute o il mana.
Book of Demons ha un comparto sonoro che si mantiene sulla media, senza eccellenze particolari. Invece, il comparto grafico risulta molto carino: l’utilizzo di una struttura completamente “cartacea” ha reso il tutto molto originale. Infine, consigliamo vivamente questo titolo a chi è un’amante del genere hack & slash vecchia scuola e che, sopratutto, vuole affacciarsi a qualcosa di diverso. Il titolo è finalmente disponibile su Steam con anche disponibile una versione demo così da verificare se, come dice il detto, “il gioco vale la candela“.
Mothergunship
Grip Digital e Terrible Posture Games ci avevano già provato nel 2014: con Tower ofGuns erano riusciti, seppur in parte, a creare un connubio tra bullet hell, roguelike e FPS, catapultando il giocatore in un mondo davvero singolare, con livelli creati casualmente e un comparto grafico abbastanza grezzo e cartoonesco.
Quest’anno però, Grip Digital e Terrible Posture Games ha deciso di rilasciare Mothergunship, un FPS con meccaniche da roguelike e bullet hell, proprio come il suo predecessore, ma a questo si affianca una maggior cura e un gameplay piuttosto divertente. Mothergunship è riuscito a conciliare tutti questi tre generi senza snaturare quello che è l’obiettivo principale del gioco: divertire.
Mothergunship non è basato sulla storia, avendo una trama abbastanza banale e fragile: la Terra è stata attaccata dagli alieni e noi dobbiamo salire sulla loro nave madre per sconfiggerli. Una storia semplice che serve a dare un contesto a quello che incontreremo durante tutti i livelli.
Come già detto i nemici saranno degli alieni, ma non aspettatevi i soliti omini verdi dalla testa ovale; gli antagonisti saranno delle vere e proprie macchine da guerra che dovremo distruggere per salvare il mondo e l’intero Universo.
La peculiarità di Mothergunship è sicuramente il gameplay, più nello specifico il crafting delle armi. In game non esistono classi o set di armi predefinite, ma saremo noi a creare il nostro arsenale. Un crafting fuori dal comune che permette la creazione e la combinazione di armi davvero uniche. Nei vari livelli si potranno ottenere, sconfiggendo i vari nemici, delle monete d’oro che serviranno per acquistare degli elementi per modificare e potenziare la nostra arma. Si potranno equipaggiare solamente due armi, una nella mano destra e una nella sinistra ma, grazie all’editor, si potranno accoppiare moltissimi elementi per forgiare l’arma definitiva.
Si avranno a disposizione dei connettori, che serviranno a collegare le varie bocche di fuoco, le canne, che potranno essere accoppiate tra loro grazie ai connettori e degli upgrade che aumenteranno la potenza di fuoco, diminuiranno il rinculo e altro.
Le armi che si potranno creare saranno infinite; l’unico limite sarà la nostra fantasia e ovviamente il costo delle singole parti. Mothergunship oltre ad avere un gameplay molto frenetico, essendo un bullet hell, contiene anche la possibilità di potenziare la nostra armatura, fornendogli un salto aggiuntivo – sbloccandone circa cinque si potrà letteralmente fluttuare a mezz’aria –, una difesa maggiore, una resistenza al rinculo delle armi e molto altro, ma anche se non si utilizzeranno queste feature, non se ne sentirà la mancanza. Nella maggior parte delle volte si porrà l’attenzione alla pura potenza di fuoco delle varie armi.
Nota dolente per quanto riguarda i nemici, perché dopo aver giocato per qualche ora e aver creato delle armi potentissime, i nemici saranno facilmente abbattibili: molte volte è capitato di non esser nemmeno sfiorati dalle pallottole degli avversari. Il bilanciamento tra armi e nemici dunque, non è dei migliori; è sufficiente creare delle armi OP per poter proseguire senza problemi al livello successivo.
Mothergunship non possiede un mondo di gioco vasto, ma per proseguire si dovranno attraversare stanze piene di nemici – che equivalgono a un livello – e dopo averle superato tutte, si arriverà a un boss, una macchina gigante, più difficile da sconfiggere ed equipaggiata con armi molto più potenti.
Come in Tower of Gun, nell’ultimo gioco di Grip Digital i livelli saranno creati casualmente, anche se questo meccanismo costruisce livelli molto simili tra loro o con gli stessi nemici. Fortunatamente i casi sono limitati, ma può risultare comunque ripetitivo.
Inoltre, in Mothergunship si può giocare in coop online, ma manca quello in LAN, una feature che poteva allungare la longevità del titolo e divertire ancor di più i giocatori, fornendo la possibilità di creare un party LAN o semplicemente di giocare a schermo condiviso. La grafica è senza dubbio migliorata rispetto a Tower of Gun, risultando molto più dettagliata e con una caratterizzazione delle armi che ricorda l’art style di Borderlands. Anche gli scenari sono ben definiti, con colori né troppo accesi né troppo spenti, quasi metallici, proprio per ricordarci che in fin dei conti, siamo all’interno di una nave spaziale. Il comparto sonoro invece, non è nulla di particolare: la soundtrack e i suoni ambientali sono discretamente realizzati; il rumore degli spari, a lungo andare, risulta ripetitivo, visto che continueremo a premere il grilletto per quasi tutta la durata del livello, ma nel complesso fa il suo lavoro, quello di far sentire il giocatore all’interno di una navicella spaziale aliena, con suoni metallici e robotici.
Tecnicamente Mothergunship – noi abbiamo provato solo la versione PlayStation 4 Pro – ha dei problemi legati al frame rate. Gli FPS calano drasticamente quando a schermo sono presenti parecchi elementi, come i proiettili. L’unico modo per risolvere questo problema è semplicemente quello di sconfiggere i vari robot e liberare lo schermo.
Not a Hero: Super Snazzy Edition
C’è chi dice che 3D e 2D sono due mondi separati e in quanto tali non convergono in nessun modo. Nella storia dei videogiochi spesso delle meccaniche proprie del 2D sono state riproposte 3D, non sempre con risultati eccellenti, ma il processo inverso è veramente raro, tanto che è difficile riportare degli esempi concreti; non siamo qui per farvi una top 10 dei giochi che hanno sfidato le leggi della bidimensionalità, però possiamo parlarvi di Not a Hero: Super Snazzy Edition, un gioco interamente 2D che implementa, con risultati davvero ottimi, il cover system tipico dei più frenetici third person shooter 3D come Gears of War o Uncharted. Questo frenetico sparatutto, uscito originariamente nel 2015 su PC e arrivato su Nintendo Switch soltanto quest’anno, è un mix di azione, tatticismo, violenza e follie alla Quentin Tarantino con una spruzzata di humor e parlate inglesi che donano all’intero gioco una veste unica e veramente eccezionale. Vediamo insieme questo gioco sviluppato dallo studio inglese Roll7 e pubblicato da Devolver Digital che, ancora una volta, mette nella sua immensa libreria un gioco veramente audace e innovativo come i già visti Minit e Crossing Souls.
Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta…
Siamo a 21 giorni da un’elezione in una città del Regno Unito e il singolare Bunnylord, un coniglio viola antropomorfo venuto dal futuro, vuole a tutti i costi diventare sindaco per scongiurare il crimine che, a detta sua, farà affondare la città in una crisi irreversibile. Con il poco tempo rimasto, Bunnylord attuerà una campagna anticrimine per mano delle peggiori canaglie del Regno Unito, sociopatici senza il minimo scrupolo quando si tratta di far fuori qualcuno; cominceremo utilizzando Steve, il migliore amico di Bunnylord, ma piano piano, una volta diminuiti i crimini, salirà il consenso e perciò sempre più folli esaltati, come Mike, Samantha e Cletus, cominceranno ad appoggiare il coniglio viola; ma andiamo con ordine. I livelli proposti in Not a Hero sono fatiscenti palazzi di periferia a più piani dove si nascondono intere bande di criminali: ci sarà sempre un obiettivo principale, come uccidere uno specifico NPC, rubare degli oggetti, piazzare bombe, salvare ostaggi e altri tre obiettivi secondari, come chiudere un livello in un tempo limite, uccidere tutti i nemici o chiudere una determinata sequenza di uccisioni senza essere colpito e tanti altri (a volte anche precedenti obiettivi principali) e, più obiettivi completiamo in un livello più crescerà il nostro consenso (che servirà appunto per sbloccare più velocemente tutti i personaggi). Il primo livello spiegherà la meccanica portante di Not a Hero, ovvero il sistema di scivolata, con “b”, seguita dalla successiva (quasi assicurata) copertura dietro a un oggetto del background, dalla quale rimarremo coperti dal fuoco nemico e potremo sparare quando questo non sarà nascosto come noi; capire questa meccanica è fondamentale per compiere delle run senza sbavature ma anche per sopravvivere al meglio fra le orde nemiche e dunque completare il livello. Scivolare, in fondo, è l’unico modo per trovare copertura e perciò, piano piano, dobbiamo capire come funzionano queste strane (ma interessanti) meccaniche allenandoci a premere e rilasciare il tasto al momento giusto per finire nel punto più strategico dalla quale far fuoco. Importantissimo, oltre allo scivolare, nascondersi e sparare, è ricaricare l’arma al momento giusto e nel punto giusto, possibilmente nascosti dietro a un oggetto del background e quando il fuoco nemico si fa meno denso.
I personaggi variano a seconda dell’arma che usano, il che influirà sul tipo di fuoco in sé (la pistola spara un colpo dritto e preciso, il fucile un colpo ampio ma con caricatore meno ampio e il mitra, con ampio rateo di fuoco ma scarsa precisione), la velocità di movimento, il tipo di esecuzione (di cui parleremo a breve) e possibilmente altre abilità uniche di uno specifico personaggio. L’esecuzione è un tipo di uccisione che potremo compiere quando andremo incontro a un nemico in scivolata facendolo cadere: una volta che sarà a terra, premendo il tasto del fuoco, il nostro personaggio ucciderà il nemico, chi con colpo di pistola e chi con una mossa particolare o un oggetto contundente come un coltello o una katana. Nei livelli, inoltre, possiamo trovare delle armi secondarie, molto utili per liberare le schermate più affollate e degli upgrade per i proiettili della nostra arma, che li renderanno infuocati, esplosivi, perforanti, rimbalzanti e molto altro ancora. Ogni personaggio offrirà dunque un gameplay diverso e pertanto, per via delle molteplici variabili che contraddistinguono ognuno di loro, si vengono a creare delle spiacevoli disparità portando il giocatore a preferire giusto una cerchia di personaggi più vicini al suo stile di gioco senza necessariamente provarli tutti; tuttavia, tanti stili significano anche un gameplay veramente vario già solo sul piano della scelta e perciò il sottolineare la disparità fra i personaggi non è un fattore necessariamente (forse anche per niente) negativo nell’intero. Not a Heroè di base uno shooter che mischia elementi da alcuni giochi classici come Elevator Action Return, Contra e in parte alcuni altri classici per computer sulla scia di Persian Gulf Inferno ma si comporta nelle meccaniche come un modernissimo sparatutto sulla scia di Gears of War; ciò permette un gameplay infuocato il cui tempismo tra far fuoco e copertura è fondamentale se si vuole sopravvivere alle orde di nemici, che faranno fuoco manco fossero dei napoletani a Capodanno. Grazie alla suddivisione in tre capitoli, in cui in ordine faremo fuori una mafia russa, una gang di afro-britannici e una triade panasiatica, possiamo gradualmente approcciare questo singolare sistema e capire qual è lo stile di gioco che più ci aggrada, ovvero quale fra quello più casinista e cruento o quello furtivo e tattico. Più il giorno delle elezioni si avvicina più i livelli si faranno sempre più irti di nemici più forti, che sfoggeranno nuove armi o più coriacei da eliminare; in questo Not a Hero, offre una learning curve veramente piacevole e anche se gli obiettivi si faranno sempre più difficili (che dovranno essere soddisfatti tutti in una run di un livello) il gameplay non porterà mai il giocatore alla frustrazione.
In aggiunta alla campagna principale, è possibile trovare in alcuni livelli delle porte rosse che ci porteranno in delle aree bonus e la campagna “me, myself and Bunnylord”, precedentemente rilasciata come DLC (il che ne fa la particolarità di questa Super Snazzy Edition), in cui controlleremo in prima persona il politico che non si fa alcun scrupolo nella lotta contro il crimine. Peccato solamente che una volta completati tutti gli obiettivi delle 21 missioni (che servono per ottenere i finali migliori), più quelli della campagna aggiuntiva che includono solamente tre missioni extra, non ci rimarrà più niente da fare, accorgendoci di quanto il gioco sia abbastanza breve nonostante il buon livello di sfida e i numerosi livelli; sarebbe bastata anche una semplice partita +, magari utilizzando il solo Bunnylord oppure con obiettivi secondari del tutto nuovi, ma l’unica cosa che rimane è solamente l’opzione di azzerare il file di salvataggio e ricominciare un nuovo file se proprio vogliamo rigiocare da capo questo titolo (che lo merita parecchio nonostante tutto).
Menomale che Bunnylord c’è!
Not a Hero mischia grafiche vintage, principalmente quelle di Atari 2600,Nintendo Entertainment System e dei computer Commodore 64 e Atari ST, presentando delle tonalità retrò comunque “remixate” e animate a modo per appellarsi al meglio ai giocatori odierni. Lo scenario riesce a essere immediatamente chiaro e ciò è fondamentale per il giocatore in quanto, bisogna capire sin da subito quali sono i punti in cui si possa cercare riparo. La grafica riesce a essere funzionale al giocatore e al gameplay e ciò non può che essere un punto a favore per la fruizione di questo gioco in quanto, in sostanza, ogni punto che ci sembra un riparo lo è per davvero. I personaggi sono ritratti con uno stile un po’ più “atarieggiante” ma ciò non toglie la possibilità di distinguere tutti i tratti distintivi di ogni personaggio come una collana, un occhio schizzato, una determinata capigliatura, una sigaretta o altro ancora. Inoltre, per i fan de IlGrande Lebowsky, in questo gioco potrete giocare con un Jesus molto simile a quello del film, con dei capelli neri raccolti, pizzetto, una camicia viola e un “gioco d’anca costante” – diteci come si fa a non amare questo gioco! –. Tutti i personaggi sono abbastanza “singolari” e ciò lo si può evincere dalle loro esilaranti linee di dialogo, rigorosamente prodotte con accenti inglesi veramente incomprensibili; sebbene tutte le linee testuali sono tradotte in italiano e i giocatori, per la maggior parte, possono ritrovarsi con una buona esperienza d’inglese ciò non basta per capire gli astrusi accenti che per altro sono parte dello humor delle one-liner qui prodotte. Insomma, per capire buona parte dell’umorismo delle linee di dialogo dei personaggi (e dei nemici) conviene allenare le vostre orecchie guardando un bel po’ di puntate di Monty Python’s Flying Circus, per intenderci! Impossibile poi non notare la forte componente satirica del gioco che tende principalmente a ridicolizzare ed esagerare le mire politiche e la losca vita di alcuni personaggi politici del mondo attuale, supportati per altro da gente psicopatica come tutti i personaggi che useremo per “attuare” la politica di sicurezza di Bunnylord basata sulla forza bruta e il terrore (se questo gioco fosse stato ambientato in Italia sicuramente avremo potuto stilare qualche particolare analogia…).
Parlando invece del comparto sonoro, Not a Hero propone una colonna sonora che mischia molti generi prettamente elettronici, fra cui il synthpop, la musica elettronica inglese e la chiptune, ma ciò che fa da padrone è certamente la componente dubstep. Sebbene ci sia un richiamo nostalgico nelle melodie, il gioco vuole proporre comunque qualcosa che tutti possano apprezzare e pertanto viene offerta una colonna sonora di tutto rispetto, fatta con bisunti chip sonori e con sintetizzatori moderni: ogni livello, ha un suo brano originale, perciò possiamo affermare che è stato fatto davvero un bel lavoro, anche perché i temi sono veramente graziosi.
Vota Bunnylord!
Ancora una volta i giochi proposti da Devolver Digital non si smentiscono e abbiamo di nuovo un piccolo capolavoro fra le mani. Not a Hero: Super Snazzy Edition è certamente un titolo da tenere in considerazione, specialmente in vista di qualche periodo di saldo in cui potremmo aggiudicarcelo per un prezzo ancora più basso di quello standard (12,99€). Questo insolito e, in parte, sconosciuto titolo potrà certamente regalare tantissime ore di sano divertimento a qualsiasi giocatore, specialmente quelli più abituati a vedere questo tipo di giochi in tre dimensioni, pur accettando la sua veste retrò e il suo humor pungente. Nonostante qualche lieve bug è sempre un vero peccato che questo titolo non si annoveri fra gli indie più gettonati del panorama recente; diamo a Bunnylord il rispetto che merita (o altrimenti ci manderà a casa uno dei suoi killer psicopatici!).