F1 2018

Ormai è come una specie di appuntamento fisso, ogni anno un dovere morale spinge a giocare il nuovo Formula 1, anche se ormai, personalmente, verso la competizione non ho più la stessa attrattiva di una volta, complice il nuovo sistema eccessivamente elettronico, oppure una serie di auto che ormai sono tutte maledettamente uguali. Intere gare in cui le bagarre sono talmente scontate che sembrano essere state pianificate a tavolino. Non so se vi ricordate, ma a me sembrano quasi macchinine Polistil su binari. Nonostante il calo di appeal verso i piloti in carne e ossa, per fortuna non ho mai perso la voglia di giocare i titoli di Codemasters, sicuramente nella top delle software house che sviluppano titoli automobilistici, vuoi per la voglia matta di potermi trovare dentro una monoposto, vuoi perché le passioni sono dure a morire.

La “formula” giusta

Tecnicamente di gran lunga superiore al suo predecessore, F1 2018 regala sensazioni uniche, si avvicina vertiginosamente a quello che potrebbe essere un simulatore di guida, o quasi, per le innumerevoli quantità di modifiche che è possibile effettuare alla monoposto nella fase pre-gara, oltre che per l’enorme albero del settore di ricerca il quale ci permetterà di rafforzare man mano alcuni parametri della nostra monoposto che magari possono essere carenti in quella determinata scuderia di appartenzenza, quali: motopropulsione, resistenza, aerodinamica e telaio. Nel sistema di sviluppo delle migliorie, è presente la così chiamata “fog of war” che non ci permetterà momentaneamente di vedere a cosa porteranno le modifiche che stiamo facendo inizialmente, le quali man mano, andando avanti nella stagione e sbloccando le migliorie già disponibili, renderanno visibili ulteriori parametri da potenziare – per intenderci la “fog of war” sarebbe la nebbia scura che nasconde le parti delle mappe ancora inesplorate, per esempio nei più comuni giochi strategici. Inoltre, andando avanti nel settore della ricerca, riusciremo a sbloccare delle migliorie tecniche da poter sviluppare per la fase finale della stagione o addirittura per quella successiva.

Testato con il volante Thrustmaster T300RS, senza aiuti alla guida, se non il – che sia benedetto – TCS, sono rimasto piacevolmente colpito e soddisfatto dal trasporto che esercita il gioco utilizzando una periferica diversa dal solito joypad. Il force feedback funziona benissimo ed è calibrato alla perfezione, sovrasterzo e sottosterzo non sono messi a caso e sono strettamente legati al nostro comportamento alla guida, dando la massima sensazione di fedeltà al volante, per esempio salendo sul cordolo o sfiorando l’erba a bordo pista.
Perché parlo di “simulatore di guida”? Ci sono molteplici aspetti da tenere in considerazione durante le gare – e no, non sto parlando del cambio gomme e rifornimento carburante ai box – come il cambio di strategia per il pit-stop, che è una variabile strettamente connessa all’andamento della gara, o il tipo di miscela da utilizzare, da secca a grassa per una maggiore spinta negli ultimi giri, e l’elettronica ERS, sempre per rimanere in tema “altissima fedeltà”, tramite l’attenta gestione della quale saremo in grado o meno di poter attingere a quel surplus temporaneo per poter effettuare un sorpasso all’ultimo cordolo (per esperienza personale, vi capiterà spesso di rimanere a secco di energia e dover studiare quindi al volo una strategia di sorpasso per poter conquistare la posizione). Tra le già tantissime modifiche da poter apportare alla monoposto, c’è l’interessantissima possibilità di schematizzare il cambio gomme per tutte le gare a venire in modo da avere una pianificazione quasi totale delle nostre fermate ai box.
Le modalità di gioco presenti in F1 2018 sono davvero tante, ma spicca per interesse ovviamente la modalità carriera, nella quale potremo cimentarci in un intero campionato sostituendo uno dei due piloti ufficiali con il nostro avatar virtuale. Cercando di vincere le gare e rispettando gli obbiettivi faremo crescere la nostra fama tra le varie scuderie, oltre che per quella con cui corriamo. Un altro aspetto altamente variabile è l’atteggiamento del nostro pilota, che potrà oscillare tra “sportività” o “spettacolarità”: dopo ogni gara infatti, si verrà intervistati da una giornalista per rispondere ad alcune semplici domande di rito,  con risposta multipla e proprio in base alle nostre risposte daremo forma alla personalità del nostro pilota. L’intervista servirà anche a far crescere la considerazione dei vari reparti della scuderia: aerodinamica, meccanica etc.

Per i più nostalgici F1 2018 offre diverse gare singole a obbiettivi o campionati storici, eventi  tramite i quali potremo salire nelle vecchie monoposto di un tempo, passando dalla Lotus 72D (1972) alla McLaren MP4-13 del 1998 di Mika Hakkinen fino ad arrivare alla più recente RedBull Racing RB6 (2010).

Tornando a parlare delle varie modalità di gioco, sicuramente non poteva di certo mancare il multiplayer, tramite il quale si potrà affrontare il campionato online, oppure una più semplice gara singola. I server su PS4 sono molto stabili, e non ho riscontrato alcun problema durante il test della modalità multigiocatore. Come per la maggior parte dei giochi, ovviamente il livello dei giocatori online è molto alto, vi suggerisco quindi di imparare bene a domare i vostri bolidi e prendere un po’ di confidenza con il sistema di guida prima di intraprendere la vostra esperienza online, che altrimenti potrebbe risultarvi leggermente frustrante.

Grafica da Pole Position

Graficamente F1 2018 riesce a distaccarsi un po’ dalla versione 2017. Niente di particolarmente innovativo rispetto al predecessore. Stiamo comunque parlando di 2 titoli che si trovano già, a mio parere, nell’eccellenza per quanto riguarda il comparto grafico, con texture ad altissima risoluzione e modelli 3D praticamente perfetti in ogni minimo dettaglio. La miglioria più evidente a livello fisico è il nuovo sistema di luci dinamiche. La loro integrazione, contornate da nuovi effetti volumetrici, regalano una visione più realistica di ciò che vediamo su schermo con una maggiore precisione delle ombre delle vetture e oggetti di scena ma anche nelle variazione dovute ai cambiamenti meteorologici: che sia caldo afoso che pioggia battente, i nuovi upgrade si sentono e, sorprendentemente, senza appesantire in.maniera evidente il sistema. I miglioramenti si allargano alla nuova vegetazione, più dettagliata e realistica, maggiori elementi in pista e nuove cutscene, per rendere il tutto ancor più televisivo.

L’introduzione del sistema di sicurezza “Halo” introdotto dalla FIA quest’anno – che sarebbe la barra montata sopra la testa dei piloti – è una delle novità del 2018 che, come nella realtà però, è odiata da tutti i piloti, e si è fatta odiare anche dal sottoscritto in quanto risulta molto fastidioso vederla utilizzando la visuale in prima persona: fortunatamente per noi piloti virtuali, tramite il menù di gioco è possibile disattivare il sistema Halo, liberando in questo modo la nostra visuale di gioco.

Audio fedele? Fedelissimo!

Potrebbe non interessare molto un focus sull’argomento e per questo non lo farò, ma vorrei darvi giusto un consiglio: il titolo va giocato con le cuffie per una immersione totale nel vostro abitacolo. I suoni ambientali di contorno come la voce del meccanico che comunica con te durante la gara, lo stridio delle gomme sull’asfalto o quello prodotto passando sui cordoli, così come l’urlo del motore ad alti regimi, sono riprodotti davvero fedelmente e tutto questo rende molto più bello e coinvolgente il gioco.

Fermandoci ai Box

F1 2018 è ufficialmente sul podio insieme ai simulatori di guida più acclamati, merita molto per tutto quello che riesce a offrire. Ci si possono passare davvero diverse ore tra una corsa in campionato o in modalità carriera e una partitella online. Giocandolo mi è venuta una gran voglia di provarlo insieme a una di quelle costosissime postazioni di guida da F1: chissà, magari un giorno…




Destiny 2: I Rinnegati

Era il 6 settembre 2017 quando Destiny 2 arrivava sugli store e sugli scaffali dei negozi. Un gioco che prometteva almeno tre anni di vita, eguagliando il predecessore che riuscì a tenere incollati allo schermo milioni di giocatori per un triennio intero. Come molti titoli, Destiny ha vissuto alti e bassi, ma si è sempre ripreso, sfornando DLC e attività sempre più coinvolgenti e sempre più appetibili a un pubblico vasto. Dall’uscita del Re dei Corrotti, infatti, il gioco di casa Bungie ha avuto un’impennata nelle vendite, che hanno aiutato la casa di Bellevue a tenere unita e salda una community che stava pian piano diminuendo. Non è semplice sviluppare un prodotto che possa durare tre anni consecutivi, soprattutto se con una lore strutturata e, allo stesso tempo, un comparto online che aveva il compito di fronteggiare colossi come Call of Duty e Battlefield; per questo Bungie ha deciso di rilasciare contenuti a pagamento, diluiti nei tre anni di vita del suo prodotto.
Molte sono state le critiche, soprattutto riguardo il costo di queste espansioni, vendute tra i 20€ e i 35€, ma altrettanto alto è stato il numero di giocatori – compreso il sottoscritto – che hanno continuato, con entusiasmo, l’avventura che avevano iniziato, dando fiducia al lavoro svolto dagli sviluppatori.
Con l’arrivo di un secondo capitolo della saga, il pubblico (soprattutto i fan della prima ora) sembrava elettrizzato all’idea di giocare a un nuovo Destiny, rincontrare i vecchi personaggi e seguire la storia che, nel primo capitolo, ha lasciato non pochi buchi narrativi, ma anche spaventato dal potersi trovare tra le mani un prodotto ancora poco maturo da non riuscire a portare avanti quello che il primo Destiny aveva fatto.
Le novità apportate in Destiny 2 stravolgevano completamente il gameplay, di cui si è già parlato nella recensione completa: un cambiamento radicale è stato ad esempio quello riguardante le armi, che ha favorito un gunplay un po’ più equilibrato in PvP, a discapito del divertimento e della fluidità. Queste scelte hanno allontanato da Destiny alcuni dei vecchi giocatori, che non hanno ritrovato in questo secondo capitolo quello che invece si aspettavano.
Dopo il disastroso debutto del primo DLC, Bungie è riuscita a ricalibrare il tiro con il successivo, centrando quasi del tutto il bersaglio: accontentando i giocatori e aggiungendo nuove quest secondarie con lo scopo di aumentare le ore di gioco medie.
Con l’uscita, però, de I Rinnegati, Destiny 2 sembra essere resuscitato, Bungie ha letteralmente fatto il miracolo.

Con l’avvento della stagione 4 e della terza espansione, Destiny 2 si è aggiornato alla versione 2.0 (aggiornamento fruibile da chiunque, anche se non in possesso dei DLC). Questo aggiornamento ha apportato delle modifiche al gunplay e al gameplay, le modifiche che fin dal primo giorno, i giocatori, desideravano: un gunplay simile a quello di Destiny. Ma passiamo a quello che è il vero DLC, il motivo per cui, sembra dirci Bungie, Destiny 2 non è affatto morto.
La casa madre ha sempre fatto leva sulla community, resa parte fondamentale della propria politica, ma questa volta ha deciso di provare a scontrarcisi, decidendo di eliminare uno dei personaggi più apprezzati dell’universo creato da Bungie: Cayde-6. Esatto, come è stato anticipato dai vari trailer, Cayde-6, l’Avanguardia dei cacciatori, è morto.
Forse la scelta di Bungie è stata simile a quella di Eiichiro Oda, padre di One Piece: tutti e due hanno scelto di eliminare un personaggio molto importante per la popolarità. Cayde-6 era forse un po’ troppo carismatico, un po’ troppo comico per la narrazione di Destiny, che è sempre stata cupa, oscura, quasi sempre mantenendo toni bassi.
Cayde-6 cadrà per mano di Uldren Sov, fratello della defunta Mara Sov, regina degli Insonni morta nel primo capitolo per mano di Oryx, padre di Crota. Il nostro compito sarà quello di vendicare la scomparsa di Cayde-6, combattendo contro i tirapiedi di Uldren, che ci ostacoleranno nel nostro intento.
La storia si svolgerà in due inedite aree: la Riva Contorta e la Città Sognante. Due territori inesplorati prima d’ora, che vedono la luce con questo nuovo DLC. La Riva Contorta è una zona desolata ai margini dell’Atollo, nella Cintura degli Asteroidi, in cui incontreremo i Baroni, i leader di una casata di caduti, i nemici di questa espansione, chiamati gli Infami; mentre la Città Sognante è una roccaforte sacra per gli insonni, inaccessibile per tutti gli altri, ma che ancora oggi è celata da un velo di mistero.
La Riva Contorta ha una mappa abbastanza vasta, che comprende cinque macro aree, che ospiteranno eventi e missioni secondarie, oltre a due nuovi NPC: il RagnoPetra Venj, la guardia fidata di Mara Sov.

Oltre a vantare una storia davvero buona, con colpi di scena e dalla durata media di circa 3/4 ore, I Rinnegati aggiunge una nuova modalità, un ibrido tra PvE e PvP: Azzardo. Una modalità, anch’essa inedita nel mondo di Destiny, una sorta di miscuglio tra La Prigione degli Anziani e una partita in Crogiolo. Questa nuova attività, 4v4, ci metterà contro a nemici dell’universo di Destiny che, una volta uccisi, lasceranno cadere delle particelle che dovranno essere raccolte e canalizzate all’interno di una torretta, evocando un nemico più potente, in relazione al numero di particelle depositate in contemporanea, che ostacolerà i rivali, i quali faranno lo stesso. Una modalità davvero ben gestita, meccaniche di gioco innovative e divertenti che premiano più il gioco di squadra che il lavoro svolto dal singolo giocatore.
Con l’avvento della versione 2.0, come anticipato, Destiny 2 si è rinnovato in tutti i sensi, soprattutto in ambito gunplay: gli slot delle armi sono infatti rivisti e riprogrammati, in modo da avere più varietà e combinazioni di armi possibili. Facendo così, Crogiolo e tutte le altre attività hanno ricevuto una grossa rivoluzione, rendendo più divertente, e sicuramente meno frustrante, l’intero gioco. Inoltre è stata introdotta una nuova arma: l’arco; che occuperà lo slot delle armi primarie e cambierà l’esito di molti scontri nel Crogiolo.
È stato anche aumentato il level cap che arriva a 50 e il livello di potere, che è aumentato a 600. Ovviamente si potrà salire di livello con l’esperienza ottenuta da taglie, missioni e attività varie, mentre il potere si potrà aumentare con armi e armature ottenute in game.
Una delle novità più importanti, che hanno portato il gioco ad aggiornarsi in maniera corposa, sono state le nove nuove abilità delle sottoclassi, tre per ogni personaggio: Via dei Mille Tagli, Via del Fantasma e Via della Corrente per la classe dei cacciatori, Armonizzazione della FissioneArmonizzazione del ControlloArmonizzazione della Grazia per lo stregone, mentre Codice dei DevastatoriCodice del ComandanteCodice del Missile per la classe Titano.

La retta VIA

Il Cacciatore è il più agile tra le tre classi disponibili, una scelta quasi obbligatoria se si vuole giocare in maniera competitiva in Crogiolo. Con le nuove abilità ottenute con il terzo DLC, si riconferma un’ottima scelta per le sessioni multiplayer.
La Via dei Mille Tagli è una nuova super abilità con danno da Fuoco che permette di scagliare una pioggia di coltelli da lancio infuocati sugli avversari, riuscendo a colpire più di 5 nemici alla volta.
La Via del Fantasma – una delle più forti, sia in Crogiolo che in PvE – è una super abilità con danno da Vuoto, molto simile alla Lama ad Arco di Destiny, ma migliorata e con abilità inedite, come Esecuzione Impeccabile, che ci permetterà di diventare invisibili effettuando delle uccisioni precise.
Mentre l’ultima super è la Via della Corrente, che ha danno ad Arco, una super molto simile al Bastone ad Arco, vista agli inizi di Destiny 2, ma questa aggiunge la possibilità di creare uno scudo con il bastone evocato e, quindi, respingere i colpi oppure sferrare un devastante montante che colpirà più nemici in successione.

Là dove armonizzando il ciel t’adombra

Lo stregone è invece la sottoclasse più versatile, capace di essere devastante in PvE e, allo stesso tempo, tattico in PvP. Anche le nuove super abilità si comportano allo stesso modo, fornendo una più vasta scelta di combinazioni armi-super e una più ampia combinazione con altre sottoclassi.
Armonizzazione della Fissione, super da Vuoto, permette di teletrasportarsi per un breve tratto, così da schivare i colpi e disorientare l’avversario e di creare un’onda d’urto che causerà un ingente danno ai nemici che saranno intorno a noi.
Armonizzazione del Controllo, invece causa danni ad Arco e consente allo stregone di proiettare un raggio mortale a lunga distanza, eliminando i nemici che incontra sulla sua strada.
Armonizzazione della Grazia è l’ultima super abilità con danni da Fuoco che si rivela consigliata soprattutto per il PvE, perché, lo stregone, può evocare una sorgente che cura gli alleati e ne amplifica le capacità d’attacco.

Il Codice è tutto

Il Titano, rispetto a gli altri due personaggi, è pura forza bruta, l’attacco e la difesa sono le sue caratteristiche migliori, a discapito della sua agilità.
Grazie al Codice dei Devastatori, il Titano può evocare un martello gigante infuocato, che schiaccia gli avversari e allo stesso tempo li polverizza. Inoltre, come attacco corpo a corpo, può lanciare un martello contro i nemici e, raccogliendolo, si potrà riutilizzare.
Il Codice del Comandante, invece, è molto simile a Sentinella, una delle nuove abilità introdotte con Destiny 2, poiché il titano può evocare uno scudo da Vuoto e proteggere i propri compagni di squadra, permettendo loro di avanzare senza subire alcun danno.
Con il Codice del Missile, il titano si trasforma in un vero e proprio missile, scagliato grazie all’energia ad Arco sugli avversari causando ingenti danni. Anche a mani nude non se la cava male, con un attacco che ricorda molto l’Assaltatore: si scaglia balzando sugli avversari e infligge danno con un’onda d’urto scatenata dalla sua caduta.

Destiny 2: I Rinnegati sembra essere il punto di svolta per il gioco di Bungie, una scelta che potrebbe ribaltare completamente la situazione per un titolo che, seppur promettente e con delle buone idee, ha subito un calo considerevole di utenza, giocatori che sono rimasti delusi dal titolo e da ciò che offriva, ma che, con una semplice espansione, sta riprendendo vita. Purtroppo il prezzo è considerevole, si parla di 40€, e difficilmente calerà nel corso del tempo, specie in tempi brevi, e ciò ha portato alcuni dei vecchi possessori di Destiny 2 a non acquistarlo o aspettare l’uscita delle recensioni e le prime opinioni, per decidere.
La storia, ma soprattutto la nuova attività ibrida, hanno centrato il segno, riuscendo a interessare i giocatori, portandoli ad approfondire alcuni temi attraverso i Trionfi, una sorta di Grimorio, abbandonato in Destiny 2, che ritorna con una nuova veste, ma con lo stesso incarico: spiegare e accrescere le conoscenze dei guardiani sui personaggi del mondo di Destiny.
Personalmente, sono speranzoso del fatto che Bungie riesca a risollevare del tutto Destiny 2, con aggiornamenti costanti e contenuti gratuiti o quantomeno con prezzi abbordabili, e se continua di questo passo, sono sicuro che ci riuscirà.




The Thin Silence

La depressione è una condizione con la quale è difficile coesistere, rende la vita un inferno e può allontanare dalle persone che si amano e che vorrebbero vederci felici. The Thin Silence è un gioco che vuole ricordare al giocatore che non siamo soli, anche quando potrebbe sembrarci così, che è possibile uscirne imparando a convivere con parti di sé senza condannarsi. Questo piccolo gioiellino dello studio australiano Two PM si pone come una sorta di aiuto per superare questa condizione più che come un divertissment; è anche diverso da titoli come The Town of Light che semplicemente introducono un tema da guardare con gli occhi di uno spettatore, nonostante la riuscita immersione. The Thin Silence ci spinge a guardarci dentro, ci insegna che non è mai tutto perduto e che si può sempre rimediare a una condizione di forte infelicità. Per la serietà dei temi proposti il gioco, sin dal title screen, ci invita a conoscere bene il nostro stato d’animo prima di avviare una run e avverte che, se si soffre di una condizione di depressione, è bene comunque vedere delle persone competenti; il titolo non è un miracoloso rimedio per la depressione, ma giusto un piccolo aiuto per superare mali più grandi, e per ricordare come questi temi non vadano sottovalutati.

Dire basta è possibile

La nostra storia comincia dai momenti più bui di Ezra Westmark, una persona che un tempo ricopriva una carica governativa e che si è in seguito isolato dal mondo. Grazie a un fascio di luce che entra nella caverna dove si trova, qualcosa si riaccende in lui, inducendolo a intraprendere un viaggio alla volta dell’accettazione dei tragici eventi accaduti a causa di alcune sue scelte. Non vedremo mai la storia da una prospettiva diretta, la trama si srotolerà a poco a poco tramite le pagine del libro del dottor Shavi Mantha che parleranno del degrado della società di cui Ezra ricopriva un ruolo importante, ma anche con articoli di giornali, foto e email che ci daranno un accenno della sua vita prima della chiusura eremitica. Un tale Keota ha portato grossi disordini nel mondo del nostro protagonista, il quale si sente responsabile della situazione che si è venuta a creare per via del suo ruolo nel Governo; per colpa di questo falso idolo, il mondo che Ezra sperava di migliorare è adesso avvolto nel caos e nella violenza. Chiaro è ovviamente l’intento degli sviluppatori nel portare alla luce una forte critica alla società odierna, capitanata da Governi onnipresenti intenti a dividere anziché unire e a spingere le persone a guardare al proprio orto favorendo la violenza che in certi Stati  dilaga per le strade per colpa di psicopatici estremisti.
In un mondo del genere, dobbiamo semplicemente rimboccarci le maniche e provare a fare il nostro meglio, sembra dirci il titolo; Ezra potrebbe anche essere solo e triste ma ha comunque una grande mente che lo porterà verso la strada giusta. Il gameplay che ci viene proposto è un’avventura grafica con una buona componente di puzzle solving, per certi versi molto simile a Limbo. Per interagire con il mondo circostante abbiamo a disposizione alcuni oggetti che troveremo in giro ma il raccoglierli non è tutto: una delle meccaniche principali di The Thin Silence è quella del crafting che consiste semplicemente nel combinare un oggetto con un altro (fino a un massimo di tre). L’intento di questa meccanica è chiaramente quello di far funzionare il cervello, cavarcela senza l’ausilio di nessuno e dunque provare e riprovare diverse combinazioni fino a quando da soli non riusciremo a forgiare l’oggetto che meglio potrà interagire con l’ambiente; La componente puzzle solving è ben pensata ma mai criptica e perciò offre un buon livello di sfida, che forse può meglio aiutare chi soffre appunto di una condizione di depressione esistente. Se ci troviamo in una situazione dalla quale non possiamo più uscire, come ad esempio un passaggio bloccato da un nostro errore, siamo fortunatamente muniti di un tasto reset e dunque ricominciare dall’ultimo checkpoint. Tuttavia il tutto è aggravato dai lentissimi, e in un certo senso patetici, movimenti di Ezra; il nostro personaggio si muoverà molto lentamente, il suo salto è davvero ridicolo e pertanto il dirigersi verso un luogo già raggiunto (come per esempio dopo l’aver resettato in un determinato punto di una schermata) risulterà tedioso e snervante. Ad ogni modo, per quanto strano possa sembrare, questa è una scelta davvero interessante in quanto il titolo vuole calare il giocatore in tutto e per tutto nella condizione del malato di depressione e pertanto tutto ciò che faremo sarà, in un certo senso, tirato e trascinato. Il mondo circostante, oltre a offrirci sezioni in cui dovremo interagire con i nostri oggetti, presenta altri elementi per il puzzle solving come l’attivazione di svariati meccanismi, l’apertura di porte tramite carte d’identità elettroniche e l’indovinare password nei terminali tramite una manciata di lettere e qualche indizio.

Un gioco per riflettere

The Thin Silence è un gioco in cui la componente artistica è degna di nota, con una pixel-art che ci mostra degli scenari veramente curati, dai bui sotterranei a dai bellissimi paesaggi naturalistici purtroppo rovinati dalla guerra. Il gioco ci vuole restituire un forte senso di isolamento ma anche di meditazione e ci riesce non solo con le sue immense ambientazioni ma anche tramite il character design proposto, ben diverso dall’art-style scelto per gli scenari; Ezra e gli NPC che vediamo, che si rifanno probabilmente a un periodo a cavallo fra Atari 2600 e i primi computer degli anni ’80, presentano pochissimi dettagli e le loro facce sono praticamente un quadratino bianco. La mancanza di dettagli facciali può anche, in un certo senso, accentuare quel senso di perdizione quando ci si trova in una condizione simile a quella del protagonista e perciò tutto ciò che ci circonda non prende più una forma e tutto ci sembra uguale e piatto; tuttavia la stessa grafica usata per i personaggi non aiuta comunque a seguire la già complessa trama, e perciò non solo è già difficile capire il filo logico della storia ma a volte anche distinguere i character.
L’incredibile colonna sonora è affidata alla band Light Frequency e il risultato è davvero strabiliante. Lo stile proposto si rifà a un’ambient molto tetra ma comunque con un certo bagliore luminoso, un po’ come una candela accesa nel buio; gli appassionati di questo genere troveranno in The Thin Silence una colonna sonora che richiama molto l’Aphex Twin del periodo ambient, fra  spettacolari paesaggi sonori con pad cupi, con aggiunte di sezioni di pianoforte e viola. Una colonna sonora veramente spettacolare.

Un grande messaggio

The Thin Silence non è il classico videogioco d’entertainment: nonostante sia un felice incrocio fra un’avventura grafica e un puzzle platform à la Limbo, non è certamente uno dei migliori prodotti del genere. Gli elementi che compongono il puzzle solving, ovvero il crafting e le interazioni con gli elementi che compongono la scena, sono buoni ma tutto sommato blandi e, in realtà, abbastanza semplici per gli utenti un po’ più scafati e non abbastanza intriganti per chi cerchi una buona sfida. Ovviamente è stata messa molta più anima nella trama e nel rendere gli stati d’animo che meglio descrivono questa terribile condizione e il gameplay, seppur valido, ne risente in parte.
Noi, peraltro, siamo incappati in un brutto bug che ha corrotto il nostro file di salvataggio e ci ha costretto all’avvio di una nuova partita. Dopo aver lasciato il gioco nel piano più interrato della base militare sotterranea e esserci tornati il giorno dopo, il nostro personaggio non si è più riposizionato nel punto di salvataggio ma si collocava in alto “continuando a cadere nel vuoto del bordo dello schermo” (credeteci, è molto difficile da spiegare); così, nel tentativo di rompere questo circolo vizioso (in quanto  si era creato un fastidioso loop in cui il character cadeva nel vuoto e si resettava presentando la stessa situazione), abbiamo praticamente rotto la sequenza degli eventi e siamo capitati in un punto in cui non avevano né gli oggetti necessari per proseguire né quelli per tornare indietro. Un vero e proprio disastro, nulla che però non si possa correggere però da una buona patch.
Se prendiamo questo titolo come un’esperienza il cui fine è trasmettere un messaggio possiamo dire che The Thin Silence centra in pieno il propri obiettivo di, come diceva lo scrittore cinese Lu Xun, «mostrare la malattia per poi curarla». Il gioco parla chiaro in tal senso, e i temi proposti, anche se chiaramente non risultano per tutti, sono trattati con la giusta serietà, sensibilità e anche valore artistico; vale a dire inoltre che parte dell’accessibile prezzo di 9,99€ su Steam va alla fondazione CheckPoint, un’associazione volta ad alleviare, e possibilmente curare, le malattie mentali tramite il gaming (dunque con giochi di questo tipo). Motivo in più per giocare a questo titolo ma, vista l’occasione, anche per ricordare l’importanza delle cure e del sostegno dei professionisti qualificati in simili casi: The Thin Silence, per quanto bello e alleviante possa essere, non risolverà mai totalmente i vostri problemi, come ogni videogame, ma è bello che oggi l’arte videoludica entri sempre di più in certi temi, rifuggendo alla sola funzione di intrattenimento, e facendosi sempre più portatrice di messaggi forti e gettando un fascio di luce sulle realtà più scomode.




The Low Road

1976. La giovane Noomi Kovacs, diplomata al LeCarré Institute for Exceptional Spies viene assunta nella divisione Intelligence della Penderbrook Motors, che presiede alla protezione di importanti segreti industriali (e alla corrispettiva sottrazione ai concorrenti). Noomi è talentuosa e intelligente tanto quanto impaziente, e vuole mettersi alla prova sul campo ma, come ogni nuova leva, viene relegata a compiti di poco conto dal suo supervisore, Barry “Turn” Turner, ex agente governativo dall’oscuro passato. Un’interessante missione è alle porte, l’obiettivo è il recupero di un geniale progettista misteriosamente scomparso nel quartier generale della REV Inc., ma Noomi non è la prima scelta, anzi: il suo capo le dice a chiare lettere che manderebbe lei solo se non ci fosse proprio nessun altro. Ed è così che la nostra agente vedrà profilarsi il suo primo obiettivo personale: fare in modo che ciò accada.

A hard road

Prima di addentrarci nei dettagli del gioco, è bene ripercorrerne lo sviluppo: il lavoro su The Low Road inizia nel 2014 da un’idea dell’allora CEO di Xgen Studios, Skye Boyes e dell’Art Director Scott Carmichael, con l’intento di creare qualcosa di completamente diverso dal precedente Super Motherload.
Viene fatto un investimento in know-how di genere con l’assunzione di Jed Lang come Lead Programmer e Leif Oleson-Cormack come Narrative Designer, e nel 2015 lo studio ottiene il supporto economico del Canada Media Fund. Tutto sembra andare per il meglio, quando il progetto subisce un improvviso stop a causa della prematura scomparsa di Skye Boyes a soli 33 anni, a seguito di un arresto cardiaco.
Superato lo shock e con il lutto nel cuore, il team si rimette al lavoro con al comando la moglie di Boyes, Kaelyn, che lavora assieme al gruppo per portare a termine The Low Road, il quale viene finalmente rilasciato nel luglio 2017 per PC, Mac e Linux, fino ad arrivare la scorsa estate su Nintendo Switch. La versione che abbiamo provato tiene conto della classica combo mouse-tastiera, come si addice a un amante della prima ora delle avventure grafiche punta e clicca.

Il Canto della Missione

Ma ritorniamo alla storia narrata: abbiamo detto che Noomi Kovacs si troverà a fare di tutto per avere assegnata la sua prima missione. Come in ogni adventure game, bisognerà compiere una sequenza di azioni per arrivare al risultato finale. Prima di portare però a termine questo primo obiettivo, la nostra protagonista si ritrova a dover fare una telefonata di prova su incarico di Turn. Viene così introdotta una delle particolarità del titolo, una meccanica quantomeno singolare nell’ambito di  un punta e clicca: la prospettiva cambia, dallo scorrimento orizzontale in stile platform che caratterizza The Low Road si passa a una visuale in prima persona con in primo piano le mani del nostro personaggio, che dovremo muovere con il mouse. La prima prova di questo tipo consiste in una conversazione telefonica (che può produrre svariati esiti) durante la quale dovremo fornire le migliori risposte all’interlocutore basandoci su informazioni presenti in documenti consultabili dentro a un fascicolo. Un’idea intelligente, che spezza l’univocità del gameplay tipica delle dinamiche punta e clicca. Si trovano circa una quindicina di questi momenti in tutto il gioco, mini-game di vario genere che non sempre risultano adeguatamente elaborati, e che avrebbero potuto compensare alla quasi totale mancanza di difficoltà del titolo sul piano degli enigmi: è quasi impossibile rimanere arenati in The Low Road e, se questo agevola la fruizione della narrativa, d’altro canto toglie un po’ di mordente a un gioco che esigerebbe un livello di sfida maggiore. Quando l’architettura del design fa della narrazione la colonna portante (come accade nei titoli Telltale e Quantic Dream, per citare gli esempi più noti), la scrittura necessita di un maggior grado di cura sul piano contenutistico e di un ritmo di racconto che vada di pari passo con le esigenze narrative. The Low Road gode globalmente di una buona scrittura, incarnata in un efficace uso dell’ironia, in dialoghi ben pensati, alcuni dei quali davvero divertenti come lo scambio di battute in rima con Hab (che fa da prodromo a una vera e propria sfida di rima baciata svolta in una modalità picchiaduro che ricorda da vicino Oh…Sir! The Insult Simulator) o alcuni siparietti grotteschi che stimolano una storia globalmente solida, che risulta godibile e diramata pur non riservando momenti di stupore: è infatti utile anche fallire in determinati frangenti, e vedere quali futuri sono riservati ai personaggi dopo quel singolo (falso) game over. Il racconto, in questo caso, sfuma nel nero ed è affidato a semplici scritte che raccontano un finale alternativo ma “parziale”, perché un “forward” da videoregistratore ci riporterà immediatamente al punto in cui avevamo perso, dandoci la possibilità di effettuare scelte alternative, fino a imbroccare quella corretta. I finali possibili in The Low Road sono effettivamente due, e il bivio si presenterà nell’ultimo scenario, che sarà possibile ripercorrere soltanto a seguito di un salvataggio.

Imperfect Spies

In termini di gameplayThe Low Road è quanto di più essenziale ci si possa aspettare da un titolo del genere: privo di qualsiasi interfaccia di scelta con azioni contestuali effettuabili tramite un semplice click del mouse, ci si servirà del tasto destro per l’analisi degli oggetti e del tasto sinistro per le azioni vere e proprie. Il puntatore cambia aspetto e forma ogni qualvolta sarà possibile interagire con un oggetto, che a sua volta verrà messo in rilievo rispetto al background. Proprio nell’interazione con gli oggetti circostanti si può ravvisare uno dei limiti del titolo: sempre per una scelta di game design, si è optato per asciugare il più possibile le interazioni, a favore di quelle con elementi che risultino funzionali alla risoluzione degli enigmi. Se questa è una scelta in favore della snellezza e del ritmo, d’altro canto rischia di lasciare il quadro narrativo un po’ spoglio. In un titolo del genere, l’analisi degli “elementi inutili” da parte di un personaggio ha una funzione ben precisa, quel che risulta dalle interazioni può contribuire a dare forza al contesto o caratterizzare di rimando alcuni personaggi o ambienti, o ancora può aumentare la carica ironica o poetica, o epica, o altro relativo al messaggio veicolato dal gioco, in relazione alla prospettiva e al feel che si vuole restituire all’utente. Questo tipo di interazioni sono qui portate ai minimi termini, e spesso è un peccato, specie davanti a scenari così belli e ricchi di dettagli.
Lo stile grafico è infatti uno degli aspetti più ammirevoli del gioco: ispirandosi alle illustrazioni “gouache“, Scott Carmichael mette in scena ambienti e personaggi di grande godibilità, più improntati allo stile utilizzato da moderni illustratori, fumettisti e cartoonisti che ai pittori classici, creando un ottimo effetto visivo, elegante e vivido al contempo, con un equilibrio non facile fra l’altro da raggiungere, dovendo rendere credibili le animazioni quasi da luna park di personaggi che si muovono come burattini. Ma tutto è così ben realizzato che la credibilità della finzione scenica non vacilla, risultando anche le dinamiche d’animazione perfettamente in linea con l’art-style e con i toni improntati al “comedy”.
A tutto ciò fa da sfondo il comparto sonoro di Eric Cheng, con buoni effetti e un’ottima soundtrack sospesa tra sonorità british e accenti psichedelici che riportano all’epoca di riferimento senza risultare marcatamente retrò. Sarebbe stato un lavoro perfetto sul piano audio se non fosse inficiato da alcuni doppiaggi che, seppur buoni, hanno alcune fastidiose sbavature in termini di resa, tra echi e riverberi poco gradevoli. Roba da poco, comunque, che non rende meno buona un’operazione globalmente di rilievo.

Si vive solo due volte

The Low Road è un titolo lontano dall’essere perfetto, ma è un’avventura grafica degna di essere giocata: una buona scrittura, che non sottovaluta un efficace equilibrio di trama e ironia, valorizzata da un ottimo comparto grafico e da una colonna sonora ben curata, a cui si aggiungono una varietà di mini-game che fanno da valido contraltare a enigmi non impegnativi ma funzionali a entrambi i finali della storia. Il cui risultato è globalmente più che positivo.
Se esiste un paradiso per i creatori di avventure grafiche, Skye Boyes, alla cui memoria il gioco è dedicato, avrà giocato con gusto a The Low Road, e da qualche parte sorride soddisfatto del risultato dei ragazzi di Xgen Studios, che hanno affrontato con successo il banco di prova del primo punta e clicca della loro storia di development.




Russian Subway Dogs

Chi non ha mai sognato di correre per la stazione metro di Mosca, abbaiando e mangiando cibo che cade dalle mani dei passanti? Russian Subway Dogs esaudisce i nostri più oscuri desideri e ci permette di fare tutto questo.
Sviluppato e pubblicato da Spooky Squid Games Inc. lo scorso 2 agosto, Russian Subway Dogs si presenta come un semplice gioco arcade in grafica 2D ambientato nella fredda e lontana Russia, a Mosca, patria di cani randagi che cercano in tutti i modi di recuperare un pezzo di pane dai passanti per evitare la morte. Il nostro compito sarà quello di aiutare un povero cane a sopravvivere, mangiando il più possibile per non rimanere a corto di energie e cadere a terra sfinito.
Per evitare la sciagurata fine del nostro amico a quattro zampe dovremo spaventare i malcapitati pendolari della metro di Mosca per far sì che il cibo cada loro  dalle mani e poterlo ingerire e contrastare l’abbassamento graduale del livello della stamina.
Abbiamo solamente due azioni a disposizione: abbaiare e saltare. Ogni volta che mangeremo  qualcosa ci verranno assegnati dei punti che influiranno sul completamento del livello e sulla quantità di stamina recuperata. Per aumentare i punti ottenuti si dovranno fare delle acrobazie aeree con delle bottiglie di vodka che i passeggeri lasceranno cadere dopo ogni nostro abbaio. Per moltiplicare i punti ottenuti dal cibo si potrà mantenerle a mezz’aria grazie alle nostre capacità canine, quindi sempre abbaiando. Ogni volta che queste rimbalzeranno aumenterà un counter che renderà il cibo più efficace e farà più danno anche agli altri animali che si trovano sullo scenario. Perché non saremo i soli a cercare qualcosa da mettere sotto i denti: insieme a noi ci saranno altri cani, all’inizio, e più in là con i livelli, incontreremo ogni tipo di animale, dagli orsi ai cervi, fino ad arrivare ai piccioni. Ognuno di loro renderà più difficile ottenere cibo o ci colpirà, facendo calare di molto la stamina. L’unico modo per sopravvivere ai pericoli della metro sarà quello di lanciare bottiglie di vodka addosso agli avversari, facendo attenzione ai cibi che ingeriremo, perché ci potrebbero avvelenare o permettere al nostro cagnolino di sparare palle di fuoco, incenerendo i nemici e abbrustolendo pesce e carne.

In Russian Subway Dogs abbiamo due modalità disponibili: Campagna ed Endless. La modalità “Campagna” è strutturata in livelli, ognuno dei quali si sbloccherà solo se avremo raggiunto un certo numero di ossa, ottenibili al completamento di ognuna delle tre missioni di ogni stage, per un massimo di tre ossa per livello. A ogni scenario si aggiungeranno sempre più cibi e nemici, rendendo la sfida molto più avvincente; riuscire a completare uno degli ultimi livelli sarà molto arduo.
Nella modalità Campagna si possono anche sbloccare altri personaggi giocabili, che sostituiranno il cagnolino iniziale. I nuovi animali non avranno delle caratteristiche differenti dal personaggio principale, ma rendono il gameplay più vario, lasciando al giocatore la scelta del personaggio da dover controllare.
La modalità Endless consisterà come è classico in un singolo livello potenzialmente infinito che ci permetterà di guadagnare più punti possibili fino al game over. Il punteggio ottenuto verrà, poi, aggiunto alla classifica mondiale, permettendoci di migliorare sempre di più e battere ogni record.
Purtroppo dopo aver finito la campagna e aver terminato tutte le missioni, Russian Subway Dogs non si presta granché a essere rigiocato, se non fosse per la modalità Endless che regala qualche ora in più a un titolo che non eccelle per longevità.

La grafica è stata realizzata con l’ormai usalissima pixel art da Miguel Sternberg, che ha optato per sagome spigolose e poco dettagliate, ma in linea con l’ambientazione e il gioco in sé. Ogni background è ispirato alle reali stazioni metropolitane di Mosca, anche se non si distingue per varietà, come del resto il comparto sonoro, buono giusto a tenere compagnia durante le partite, senza stancare o cadere nella ripetitività.
Per il poco che offre, Russian Subway Dogs riesce a intrattenere per qualche ora, senza molte pretese. Un gioco con un gameplay solido e ben fatto, ma soprattutto divertente. Consigliato a chi voglia farsi due risate insieme agli stereotipi e ai luoghi comuni russi e chi non cerca un particolare livello di grafica né di complessità nel gameplay.




Yakuza Kiwami 2

Yakuza Kiwami 2 è (come il prequel uscito nel 2017) il remake di Yakuza 2, uscito su PS2 in Giappone nel 2006 e in Occidente nel 2008. A differenza del primo Kiwami questa volta gli sviluppatori hanno usato lo stesso motore di Yakuza 6 ovvero il Dragon Engine, con un risultato è a dir poco spettacolare, specialmente considerando la differenza tra la versione originale e la attuale.

Doppio Drago

Il gioco è ambientato un anno dopo gli eventi di Yakuza Kiwami: mentre Kiryu si trova (insieme ad Haruka) nel cimitero per visitare la tomba del padre adottivo Shintaro Kazama, incontra il nuovo capofamiglia del clan Tojo, Yukio Terada, il quale però subisce un attentato sotto gli occhi del protagonista.
Scoperti gli artefici del crimine, gli esponenti del clan Omi (che opera nel quartiere fittizio di Osaka chiamato Sotenbori), Kiryu si recherà a Osaka per incontrare il capofamiglia: lì conoscerà Ryuji Goda, imponente figlio adottivo del capo clan, il quale viene chiamato il drago del Kansai, tra i due si instaurerà da subito una forte rivalità in quanto può esistere soltanto un drago (ricordiamo che Kiryu è chiamato il drago di Dojima) a detta di Ryuji.
I due si scontreranno diverse volte durante una storia raccontata con maestria e piena di colpi di scena e momenti molto drammatici, rappresentando probabilmente l’apice dell’intera saga.

Un Dragon Engine migliorato

Gli sviluppatori hanno ricreato come nel prequel, oltre all’intero mondo di gioco, anche le cutscene, ma questa volta hanno utilizzato il nuovissimo Dragon Engine, il motore di Yakuza 6, e il colpo d’occhio risulta migliorato anche rispetto a quest’ultimo titolo, in quanto si ha un antialiasing migliore e anche il frame rate risulta molto più stabile, sempre ancorato ai 30 fps; anche la nuova area di Sotenbori (vista anche in Yakuza 0) trae un grande giovamento grazie al nuovo motore, il quale garantisce una migliore gestione dell’open world, adesso come in Yakuza 6 si può entrare negli edifici, e gli scontri non necessitano di caricamenti (che nei giochi precedenti rappresentavano una perdita di tempo e motivo di frustrazione) e possono essere affrontati anche all’interno dei negozi, dove è possibile sfruttare gli environment per eseguire determinate mosse speciali.
Come ci ha abituato la saga, le cutscene sono molto ben realizzate, e le animazioni facciali sono tra le migliori delle recenti produzioni provenienti dal Sol Levante (siamo ancora siamo lontani da un Uncharted, ma la differenza si fa meno marcata).
Una nota negativa è rappresentata dal riciclo di tanto materiale proveniente da Yakuza 6, compreso il modello di Kiryu che è identico, e questo fa un po’ storcere il naso se si pensa che il gioco è ambientato circa 10 anni prima.
Anche la colonna sonora è migliore delle precedenti, con nuovi brani realizzati appositamente e che ben si sposano con ogni situazione di gioco, mentre la qualità recitativa dei doppiatori giapponesi (anche questo titolo ha solamente il doppiaggio in giapponese con sottotitoli in inglese) è sempre ai massimi livelli, in linea con gli altri episodi.

In termini di combat system si ha un’evoluzione di quanto già visto in Yakuza 6, con un solo stile di combattimento, ma molte più mosse che è possibile imparare e scontri adesso risultano molto più impegnativi, che ci spingeranno a utilizzare una più ampia gamma di combo per uscire vittoriosi; è stato anche aggiunto il Colosseo (grossa assenza in Yakuza 6), dove potremo affrontare fortissimi avversari e affinare la nostra tecnica oltre a ottenere diversi premi.
Rispetto al gioco originale manca una piccola zona, ma è stata aggiunta una nuova modalità, in cui controlleremo il co-protagonista di Yakuza 0, il cane pazzo di Shimano, Goro Majima, in una storia in tre atti, in cui scopriremo dei retroscena inediti della storia principale: lo stile di combattimento di Goro, anche se semplificato rispetto a Yakuza 0, risulta molto divertente (anche se un po’ troppo potente).
Inoltre sono state aggiunte moltissime missioni secondarie, alcune delle quali servono al nostro protagonista ad acquisire nuove mosse o vari tipi di equipaggiamento: sono presenti come di consueto una miriade di attività e mini giochi, come i giochi arcade in cui sono presenti Virtua Fighter 2 e Virtual On, oppure potremo gestire un night club in cui potremo guadagnare grandissime quantità di denaro, o potremo aiutare l’impresa di costruzione di Goro Majima in un mini game strategico, o ancora potremo affrontare delle missioni secondarie lavorando come buttafuori in un locale.
Queste sono soltanto alcune delle attività che possiamo svolgere in Yakuza Kiwami 2, elencarle tutte in questa recensione sarebbe praticamente impossibile, il che garantisce una longevità degna di nota per un gioco del genere, un centinaio di ore potrebbero anche non bastare.

Conclusioni

Ci troviamo a mio parere davanti a quello che è l’apice dell’intera saga, sia per quanto riguarda il comparto narrativo, sia per quello tecnico, e l’elevata longevità, unita a un gameplay molto vario e divertente, rende Yakuza Kiwami 2 un acquisto consigliato per tutti coloro che conoscono la lingua inglese e non disdegnano la cultura giapponese, di cui il titolo rappresenta una vetrina molto invitante e ricca di contenuti.




Two Point Hospital

Facciamo un salto indietro nel tempo: 1997, anno d’uscita di Theme Hospital di Bullfrog. Uno dei gestionali più amati di tutti i tempi: sia per il gioco in sé, vasto e profondo per l’epoca, sia per la sua incredibile ironia e leggerezza nel trattare un tema spinoso come quello delle malattie. In quegli anni era la prassi lottare con teste giganti ed imitatori di Elvis Presley, e il gioco fu una delle ultime hit dello studio inglese fondato da Peter Molyneux e Les Edgar, prima di essere accorpato agli studi inglesi di Electronic Arts.
Torniamo al presente: dopo ben ventuno anni esce Two Point Hospital, seguito spirituale di Theme Hospital creato da Two Point Studios, studio di sviluppo che vede nel team due figure fondamentali che hanno partecipato alla creazione del predecessore, i designer Mark Webley e Gary Carr.

Ma andiamo a vedere come si propone questo seguito spirituale…

I’m no Superman

Two Point Hospital ci presenta da subito un sistema di progressione simile a quello visto in giochi come Overcooked: con dei livelli (o meglio, strutture ospedaliere) dove si devono ottenere delle stelle. Per ottenerle, basta seguire delle simil-quest varie per livello, come l’ottenere un’alta reputazione o conseguire un certo numero di pazienti curati. Una struttura che ben si sposa con un titolo del genere, facendo contento sia chi voglia ottenere la singola stella atta a sbloccare le altre strutture nel minor tempo, che i completisti. Vi è anche un minimo di backtracking, visto che è possibile tornare nei precedenti livelli quando si vuole, direttamente dalla mappa di gioco, così da aggiungere stanze e oggetti sbloccati avanti nel tempo e magari ottenere quella tanto agognata terza stella.

Ma passiamo al gioco vero e proprio: il design è rotondo e gommoso, e il lavoro di Ben Huskins e Gary Carr sembra quasi un’evoluzione di Theme Hospital, e ben si sposa con l’atmosfera del titolo. Il gameplay è vario e, nei momenti più concitati, come le emergenze che consistono nell’arrivo di pazienti da curare il prima possibile, offre quel giusto grado di sfida tipica dei titoli del genere, e del predecessore. La costruzione e la pianificazione delle stanze che formeranno il nostro ospedale dei sogni è tanto semplice quanto completa, con un editor che prende a piene mani dal titolo originale e anche da giochi come The Sims di Maxis: in poco più di qualche secondo, avremo creato il nostro ospedale dei sogni, con stanze e oggetti che sbloccheremo man mano nel gioco. Siano esse ottenute tramite ricompensa per le stelle raggiunte, o sbloccate tramite i kudosh, punti accumulabili tramite varie quest lanciate dal nostro staff, una delle novità introdotte in Two Point Hospital.

I cultori dell’originale titolo Bullfrog sanno, però, che la feature più importante del gioco erano le malattie, ricettacolo di incredibile ironia e motivo di divertimento. Per fortuna, nonostante la lunga assenza, le patologie divertenti (per quanto possa risultare un ossimoro) non mancano. I testoni e gli imitatori di Elvis lasciano il posto a uomini-lampadina, pentole incastrate in testa, e soprattutto imitatori di Freddie Mercury e del Tony Manero de La Febbre del Sabato Sera. A tal proposito: un plauso alla localizzazione italiana per l’ottimo lavoro svolto, che ha visto trasformare l’originale “mock star” in “rapsodite”, rendendo più netta e divertente il collegamento riguardante lo storico frontman dei Queen. E non sarà nemmeno l’unica citazione pop nascosta nel gioco! Two Point Hospital offre di tutto, dai Ghostbusters passando a Grey’s Anatomy, il gioco è una continua celebrazione della pop culture dagli anni ‘80 fino ai giorni nostri.

Insomma, concludendo, questo Two Point Hospital è un centro sotto tutti i punti di vista: il titolo è principalmente mirato agli orfani di Theme Hospital che hanno dovuto aspettare ben ventuno anni per avere un altro capitolo della serie, seppur come sequel spirituale. Le sfide sono tante, e tutto ciò va a favore della longevità del gioco, davvero vasto e capace di far pronunciare al giocatore le fatidiche parole “altri cinque minuti e stacco”, come ogni buon gestionale che si rispetti. Ora, si spera solamente di non dover attendere altri vent’anni e passa per un sequel ufficiale… ma, nel frattempo, diamo il bentornato a uno dei capisaldi del genere gestionale!




Immortal: Unchained – La Sindrome di Stoccolma

Quando sei un piccolo team di sviluppo, appena nato, con poca esperienza ma con grande voglia di fare, non è facile varcare il confine che porta al successo. Questo vale per tutti gli ambiti, incluso ovviamente quello videoludico, nel quale Toadman Interactive si è lanciata nello sviluppo di un titolo ambizioso e che sembra fare tanto il verso ai capisaldi di molti generi. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con un souls in salsa fantascientifica (non ultimo The Surge di Deck13), ma Immortal: Unchained è diverso, e pare già essersi fatto conoscere come il “Dark Souls con i mitra“. Effettivamente, unire meccaniche da TPS a un souls like sembra un’operazione folle e un po’ fuori dal mondo, eppure, seppur con qualche scivolone, sembra funzionare.

Da cosa nasce cosa

Approcciarsi alle vicende scritte da Anna Tole (The Witcher) e Adrian Vershinin (Crysis 3, Battlefield 1), come in ogni buon souls like che si rispetti, non è operazione delle più semplici. Salvo qualche eccezione (vedi Nioh), in più titoli del genere l’insieme si presenta in maniera frammentata, raccogliendo manufatti, sbloccando armi o attivando dei “dispensatori di lore“. Eppure, nonostante qualche palese citazione, tutto funziona, fregiandosi della tanto in voga “profezia da compiersi” ma in salsa del tutto nuova.
Tutto, ma proprio tutto, ha inizio da un Monolite misterioso, che con la sua energia dà vita all’Universo e ai nove mondi protagonisti delle vicende. Come da prassi, si scatenano guerre per il controllo di un simile potere, e da questi conflitti sono i Prime a trarne vantaggio, avviando così un’era prospera. Una volta creato il nostro personaggio attraverso un menù avaro di elementi di personalizzazione, saremo chiamati a risvegliare il potere del Monolite per scongiurare l’apocalisse in arrivo, anche se si avranno un po’ di sorprese lungo il cammino, sino a un finale interessante e per certi versi coraggioso.
All’interno del titolo avremmo a che fare con NPC, pochi a dir la verità, ma ben scritti e preziosi per scoprire lati della storia più intimi ed emotivi, ma anche per instillare qualche piccolo dubbio al giocatore sul proprio percorso e sulle proprie azioni.
Molto dunque viene raccontato attraverso dialoghi e descrizioni, ma non mancano alcune cutscene, narrate attraverso artwork interessanti stilisticamente ma che rischiano di distanziare un po’ il giocatore dal racconto; solo l’ultima cutscene è generata con il motore di gioco, fortunatamente. Non è presente un “new game+”, né multiplayer o altri elementi online, ma Toadman ha precisato che molte feature verranno introdotte in futuro, già a partire dai prossimi mesi.
Per la cronaca, il titolo è stato completando in circa 25 ore di gioco, con qualche portale residuo ancora da aprire e qualche boss opzionale da affrontare.

Tra Chuck Norris e Carla Fracci

Tutto ha inizio nel Nucleo, il nostro hub centrale che somiglia vagamente al Nexus di Demon’s Souls. Da qui potremo interagire con gli NPC, personalizzare il nostro equipaggiamento e livellare. Ma, cosa ancor più importante, potremo teletrasportarci verso i tre mondi che è possibile visitare: Arden, Veridian e Apexion. La parte succosa del titolo è il gameplay, un po’ schizofrenico, capace di passare da buone idee e ottimi spunti a scivoloni grossolani. La caratteristica principale di Immortal è di essere un TPS (Third Person Shooter) abbinato alle classiche meccaniche da souls, comportando un approccio completamente nuovo in entrambi i sensi: in primis, la possibilità di colpire i nemici, ed esser colpiti dalla distanza è alquanto straniante al primo approccio, dovendo schivare i colpi in arrivo a più riprese e al contempo – se possibile – aggirare l’avversario per colpirlo alle spalle o destabilizzarlo, situazione simile a Nioh o probabilmente al futuro Sekiro.
Altra meccanica interessante, ma mitigata rispetto alla versione di prova, è il danno localizzato: possiamo colpire arbitrariamente gli arti, smembrando così i corpi dei nostri poveri nemici. Una volta colpito l’arto dove è impugnata l’arma, si attiveranno anche animazioni uniche dove l’avversario cercherà di colpirci come può. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione a risparmiare proiettili in quanto, una volta terminati, saremo in balia dei nemici, che come noi dovranno fermarsi a ricaricare. Fortunatamente, attraverso consumabili – se in nostro possesso – e una volta sbloccati i restanti slot per le armi, questo problema viene molto mitigato.  Il nostro arsenale si compone di diverse tipologie di armi, tutte con caratteristiche proprie: passiamo da carabine a fucili a pompa, per andare da pistole a SMG, fucili di precisione e lanciagranate. Queste armi si suddividono anche per il tipo danno inflitto, cosa che si sposa benissimo con le diverse resistenze dei vari nemici. Sono presenti anche armi corpo a corpo, consistenti in una coppia di lame, asce o martelli utili soprattutto per infliggere il colpo di grazia agli avversari e risparmiare così qualche proiettile. Queste armi purtroppo risaltano il primo dei grossi limiti del titolo: difatti, non possiedono moveset apposito, non vi è possibilità di effettuare combo o di incatenare colpi in maniera bizzarra tra uno sparo e un colpo melee. In fin dei conti è come se non ci fossero, limitando anche la costruzione di specifiche build o anche diversi approcci al combattimento. Le armi bianche, come quelle da fuoco comunque, sono potenziabili attraverso materiali recuperati e i Bit (la valuta del gioco), ma anche smantellabili, recuperando così oggetti per il crafting. Questo sistema, benché semplice, aumenta a dismisura la voglia di sperimentare l’utilizzo di armi diverse, grazie anche a un costo in Bit molto accessibile. A questo, si accostano anche dei perk (simil anelli di Dark Souls), suddivisi tra attacco, difesa e supporto: il loro utilizzo permette di variare leggermente build durante il gioco e, quando la situazione lo richiede, aumentare magari la salute, la stamina oppure la velocità di ricarica delle armi o il recupero di elementi per il crafting. La loro varietà è sicuramente un punto di forza, così come lo è del resto tutta la struttura su cui si poggia il gioco. Però… c’è un però: è possibile configurare tutto questo soltanto una volta attivato e utilizzato un Obelisco (Falò). Questo significa che, una volta trovata un’arma di nostro interesse, potremmo cambiarla soltanto riposandoci, limitando pesantemente il gameplay. Un altro limite è l’assenza di diverse corazze a disposizione, avendone soltanto una che, trovando gli appositi terminali di potenziamento, andrà via via assemblandosi sino al suo completamento; almeno abbiamo la possibilità di personalizzarla, scegliendo il colore e la livrea da applicare, una volta trovati i componenti necessari. Ma qui finora non abbiamo nemmeno scalfito la schizofrenia dei ragazzi di Toadman.

Pad alla mano le sensazioni sono abbastanza positive, con un impostazione simil-Bloodborne abbastanza intuitiva: nessun tipo di parata o di parry, tutto è riservato alle schivate che possono essere migliorate nei frame delle animazioni attraverso il level-up. Inutile dire quanto siano fondamentali. Il tutto, in generale, funziona: sfruttare l’intelligenza artificiale per dividere i nemici e poi colpirli singolarmente può essere una buona soluzione, anche se non sempre praticabile, vista la presenza di avversari capaci di teletrasportarsi che diventano un vero incubo. I nemici che affronteremo sono discretamente vari e suddivisi per tipologia. Il loro limite di aggro è variabile, per cui potrebbe capitare di essere seguiti fino alla fine dei tempi.
Ma il problema principale è l’equilibrio di gioco, il più grande peccato di Immortal, che consta di situazioni al di fuori delle comprensione umana ma anche di sezioni ben strutturate (Apexion su tutte) capaci di far venire il dubbio se un simile sviluppo sia stato portato avanti dalle stesse persone. Capiterà infatti di assistere a veri errori da principianti, come il posizionamento di Obelischi nel ben mezzo di un’orda di avversari che comporta lo spreco di risorse preziose mettendo semplicemente piede fuori da una zona che, da prassi, dovrebbe essere invece sicura. Questi errori si verificano anche nel level design, costruito ad hoc per far provare il brivido della scomunica a qualunque giocatore, creando una difficoltà accessoria dove magari vi sono già dei problemi da gestire. Eppure, anche qui, il level design riesce a volte a sorprendere, con ambienti molto grandi e ben collegati tra loro, ricordando – con la giusta cautela – i fasti di From Software. Anche il ritmo soffre dei medesimi problemi, con sezioni al cardiopalmo una dietro l’altra e momenti di vuoto assoluto, soprattutto verso il finale.
Ma veniamo alle boss fight, tutte abbastanza differenti fra loro, ma che in qualche modo non riescono a risultare memorabili. Se a volte il loro approccio deve essere “studiato”, facendo attenzione ai movimenti e ai tipi d’attacco, altre volte risultano un po’ troppo semplici, in quanto basta appostarsi alle spalle del nemico per finirlo senza alcuna difficoltà. Alcune di esse sono configurate come opzionali, oppure “segrete” sbloccando alcuni portali (tipo Stargate), in grado di trasferirci da un pianeta all’altro. Tutti questi problemi sono figli probabilmente della poca esperienza del team, ma forse anche frutto di una cattiva interpretazione dell’opera di Miyazaki in certi frangenti. C’è da dire però – per correttezza – che alcuni di questi problemi, anche se in misura molto più limitata, esistono anche nei capolavori di genere. Si sbaglia solo con le dosi, quindi.

Disincanto

Nel nostro vagabondare tra i pianeti, purtroppo, raramente troveremo scorci mozzafiato. Forse questo è uno dei limiti più grandi di Immortal: Unchained: sa fin troppo di già visto, tra il design delle costruzioni e persino dei nemici che, in qualche modo, richiamano personaggi di altri brand. Nonostante questa mancanza di idee e un certo piattume generale, ogni tanto il titolo sembra destarsi, regalando momenti di grande impatto visivo e in qualche modo memorabili, ma avviene così di rado che quasi a un occhio meno attento potrebbe sfuggire. Se il comparto artistico dunque non fa gridare al miracolo, figuriamoci quello tecnico in senso stretto, povero di dettagli e con qualche problema di troppo tra glitch, bug, qualche piccolo errore nelle collisioni, nei geo data, pop-up delle texture e nell’intelligenza artificiale. Quest’ultima, a dire il vero, riesce a sorprendere in molti frangenti, accerchiandoci o stanandoci con granate. Insomma, è un titolo che ha sicuramente bisogno di un’ulteriore rifinitura, con molti problemi risolvibili tramite semplici patch riparatorie.
Sul fronte audio, il titolo può vantare un buon doppiaggio inglese, espressivo al punto giusto e capace di caratterizzare adeguatamente gli NPC. Anche le musiche che accompagnano quasi sempre l’azione sono abbastanza azzeccate, dal tono epico ma soprattutto risultano funzionali. Effetti sonori nella media anche se alcuni in certi frangenti, sembrano quasi una tortura.

In conclusione

Una volta concluso Immortal: Unchained sarete chiamati a un’importante decisione: ricominciare, riscoprendo piccoli risvolti di trama a vostro rischio e pericolo o attendere l’uscita di alcune patch, permettendo un NG+ più equilibrato e tecnicamente più curato? Qualunque sia l’esito, la prima fatica di Toadman Interactive, seppur con tanti difetti, risulta un titolo interessante che, con piccoli accorgimenti, può diventare un ottimo spunto per un eventuale sequel. Sa essere molto cattivo, ma volete mettere la soddisfazione di superare tutte le avversità del fato digitale?

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Dead Cells

Sarebbe uno sbaglio definire Dead Cells come “l’ennesimo metroidvania con grafica retro 2D“. Il titolo dei francesi Motion Twin ha qualcosa di diverso dagli altri: Dead Cells è, infatti, il padre fondatore di un nuovo genere, che molte voci autorevoli del settore non hanno esitato a definire “roguevania”, un felice incontro tra uno dei generi più inflazionati degli ultimi anni (il metroidvania, appunto) e il roguelike (dinamico): dopo ogni morte del nostro personaggio, ricominceremo il gioco da capo conservando solamente le abilità che siamo riusciti a sbloccare nel corso delle nostre partite, ma perdendo ogni accessorio, arma o potenziamento trovati in giro per la mappa durante l’avventura, aspetto che personalmente non ho apprezzato affatto, probabilmente perché sono troppo legato alla modalità più classica, ma che effettivamente, per i giocatori più pazienti e caparbi, potrebbe diventare un espediente per non stancarsi di giocare.

Tutto inizia sempre dalla cellula

Come i primi esseri viventi immersi nel brodo primordiale, anche noi all’inizio del gioco saremo solo un ammasso di cellule, con la sottile differenza che le nostre saranno putride. Dopo una brevissimo intro in cui vedremo l’ammasso di cellule impossessarsi del povero cadavere di un soldato senza testa, saremo pronti per iniziare il nostro cammino e sbrogliare finalmente la matassa che cela il mistero della nostra esistenza: chi siamo, dove siamo e perché. La storia sarà una sorta di puzzle da comporre man mano, scopriremo andando qualche porzione, trovando pergamene o altri indizi qua e là nel corso del gioco. La narrativa non è da premio Pulitzer, ed è parecchio marginale: ma poco male, sarete più impegnati a godervi il gameplay che a seguire la storia.

Taglia lì, squarcia qui

Dopo la prima partita, che sarà quasi un tutorial, rinasceremo all’interno di una stanza (stanza che sarà differente ogni volta che ricominceremo la partita), gremita di strane ampolle e vasi pendenti; ogni volta che riusciremo a sbloccare una nuova abilità o arma, verrà inserita in uno di questi contenitori.
Lo scopo del gioco è quello di scoprire la nostra provenienza passando attraverso diversi livelli (13 in tutto, ma per completare il gioco non sarà necessario visitarli tutti). Non mancano le bossfight al termine delle quali potremmo ricevere importanti “drop” dal boss in questione, come armi rare o progetti per la creazione delle stesse. I boss non tantissimi, ma gli scontri sono congegnati in modo da regalare attimi di pura adrenalina, anche perché sappiamo già che essere sconfitti durante un combattimento segnerà la fine della partita in corso.
È interessante il sistema di livellamento delle abilità, acquisibili o potenziabili scambiando con uno strano essere chiamato “Il Collezionista” (che incontreremo in alcuni punti random della mappa) tutte le anime raccolte dai precedenti scontri con i mostri (sì, il discorso della raccolta di anime è un po’ un cliché, ma che volete farci?).
Per quanto riguarda le armi invece, più avanti nel gioco si sbloccherà anche il Fabbro, tramite il quale potremo migliorare quelle che abbiamo in dotazione ma non siate troppo entusiasti, perché non importa quale potentissima spada o arco abbiate trovato o creato: dopo la morte ogni vostra conquista andrà perduta e, volta per volta, quando ricominceremo il livello, potremo scegliere solo le armi base, costringendoci quindi a una sfrenata ricerca di armi più potenti in giro per il livello. Esiste un altro modo per trovare dell’ottimo equipaggiamento, ed è possibile grazie all’acquisto di armi o accessori presso i “mercanti”, presenti in punti sempre diversi della mappa: in questo caso lo scambio avviene tramite il denaro o le gemme preziose raccolte durante la partita. Può risultare frustrante a volte perdere denaro e anime dopo una morte inaspettata, quindi, una volta raggiunta una ingente quantità di materiali preziosi, grazie ai portali che man mano si andranno a sbloccare in giro per il livello, diventerà opportuno teletrasportarsi nei pressi di un mercante o di un “Collezionista”, in modo da poter investire quello che abbiamo faticosamente accumulato prima che sia troppo tardi.

Il Design è tutto

Per il titolo di Motion Twin non si parla di comparto grafico come qualcosa a sé stante, ma di qualcosa che risulta un tuttuno con game e level design.
L’utilizzo degli sprite, che rievoca uno stile retro molto in voga, sembra ormai esser diventato uno degli aspetti più comuni tra le etichette indipendenti, tanto che la medesima scelta è stata fatta anche per giochi come Slain! Back from Hell, Axiom Verge o ancora l’acclamato Bloodstained: Curse of the Moon.
La vera differenza del “moderno” modello retro di Dead Cells sta nelle animazioni degli sprite, fluide e ben dettagliate. I livelli sono molto caratteristici, e ognuno diverso dall’altro, e ci porteranno dalle fetide fogne a dungeon intricati e cupi. La grande varietà e quantità di elementi su schermo lascia intravedere un profondo studio e una cura del dettaglio da parte degli sviluppatori, caratteristica che fa ancor più apprezzare il lavoro svolto dagli sviluppatori.
Il comparto audio è globalmente buono, con una soundtrack abbastanza coinvolgente, anche se alla lunga potrebbe risultare leggermente ripetitiva in alcuni leitmotiv, SFX di armi effetti video ed esplosioni riprodotti in maniera eccezionale, che riescono a rendere bene l’idea della potenza sprigionata dalle azioni del nostro personaggio.

A conti fatti

Dead Cells è risultato essere uno dei migliori metroidvania/roguevania mai sviluppati, niente e nessuno dovrebbe impedirvi di far vostro questo piccolo grande capolavoro videoludico. Abbiamo testato questo titolo su PC (Steam), ma sono fermamente convinto che un gioco del genere veda un’ottima espressione del proprio potenziale su Nintendo Switch, console sulla quale è presente insieme a PS4 e Xbox One.




Detective Gallo

Non di rado, di questi tempi, si sente esprimere a un amico, a un collega o a un avventore qualunque la voglia di andare via da questo paese, vuoi per il poco lavoro, le troppe tasse, i populisti, i terrapiattisti, i no-vax, la disillusione galoppante, va a sapere.  C’è sfiducia nell’Italia, e soprattutto poca stima verso gli italiani. Non che sia un discorso a me incomprensibile, a volte mi sento così anch’io. Quando ho giocato a Detective Gallo, dell’italianissima Footprints, ho provato infatti un senso di piccolo conforto.
Il mio primo incontro con il pingue pennuto avviene nel 2016, in un angolo della Milan Games Week riservato ai soli sviluppatori indie italiani (grazie, AESVI). I giochi erano tanti, e pure interessanti, ma dove volete che cada l’attenzione di uno cresciuto a pane e avventure grafiche? Non solo ho provato il gioco, ma ho scambiato anche due chiacchiere con le due menti creative che hanno presieduto alla sua creazione, i fratelli Francesco (programmatore, nonché script e UI developer) e Maurizio De Angelis (Art director, animator e story editor). Ne era venuta fuori un’intervista interessante andata in onda durante uno speciale su Teleacras, e che poi fu persa assieme ad altri file a causa di un “Millennium bug” che affettò i server dell’emittente in quei giorni, prima che ne venisse effettuato il backup. Un vero e proprio delitto. Un caso forse buono per il Detective Gallo. Che però, almeno in questa interessantissima avventura grafica, ha ben altro di cui occuparsi.

Prima l’uovo o il Gallo?

Ma facciamo un passo indietro: sappiamo che creare un videogame non è facile, tantomeno in un paese come il nostro. Vale quindi la pena raccontare un po’ la gestazione di questo progetto. Prima del gallo, del resto, deve nascere l’uovo. E l’uovo è stato deposto nel 2015, anno di rilascio della prima build del gioco, covato poi assieme all’attuale publisher, Adventure Productions, che ha dato al progetto motivi e sostanza per continuare. Si è arrivati così al crowfunding nella seconda metà del 2016, con una campagna su Eppela che ha fruttato circa 15.500 €, permettendo di lavorare su cutscene, animazioni, localizzazione in altre lingue e un doppiaggio italiano e inglese tuttora presente nel titolo. Il gioco è stato quest’anno rilasciato dapprima per PC e successivamente anche su PS4 e Nintendo Switch, dove è stato distribuito da MixedBag, che ne ha curato anche il porting su console lavorando su Unity partendo dall’engine originario del gioco, Adventure Game Studio. Oggi il titolo sta registrando un buon apprezzamento di critica e pubblico, ed è quasi una storia da fiaba per i developer di Detective Gallo, che hanno messo su non solo un’avventura grafica di grande equilibrio, ma anche trainata da una storia molto ben curata, che vede al centro un protagonista di un certo appeal e ben caratterizzato che andiamo a conoscere subito.

Le 3 P

Professionista, polemico e puntiglioso: chi avrebbe il coraggio di mettersi contro il Detective Gallo? Forse nessuno, tranne un serial killer di piante che semina il terrore fra i proprietari di vegetali della città. Il più sconvolto dalla vicenda è il ricco e stralunato Phil Cloro, botanofilo incallito che dà inizio all’avventura portando il Nostro nella propria villa per constatare lo sterminio di massa delle sue piante rare (un vero e proprio botanicidio) e incaricandolo di scoprire l’efferato autore di simili delitti a fronte di un cospicuo compenso. Detective Gallo ha un vero esperto in materia ad affiancarlo, l’assistente Spina, un fiero e acuminato cactus nano, personaggi non giocabile che diverrà silenzioso contraltare delle arzigogolate deduzioni e convinzioni espresse in un susseguirsi di regole etiche che compongono la singolare weltanschauung dell’investigatore.
Si intuisce bene già da queste scelte la portata di ironia trasfigurante di quest’avventura grafica, che si arricchisce di personaggi caratteristici quali la venditrice di caramelle Candy Bop, eternamente innamorata di Detective Gallo, il baby teppista, il commerciante, il taxista (con la sua singolare evoluzione spirituale), fino all’informatore che non vedremo mai ma di cui emerge nitida la caratterizzazione attraverso i soli dialoghi telefonici intercorsi con l’investigatore.
Insomma, un approccio del tutto “comedy” che si intesse in una struttura narrativa da noir investigativo. Quando si approcciano i generi (non solo videoludici), il rischio di scivolare nel banale del canone è grosso, e i ragazzi Footprint Games mostrano di esserne consapevoli. Detective Gallo gioca bene con i cliché, occhieggia al meta, indulge al citazionismo e non nasconde le influenze alla base dell’opera, e riuscire a fare tutto ciò senza banalizzare è il primo grande merito dei fratelli De Angelis. L’altro è quello di aver curato egregiamente la scrittura: la storia assume un tono umoristico ma non superficiale, apprezzabile da un pubblico eterogeneo per età e cultura, con linee di testo che non sforano i limiti del politicamente corretto senza però risultare rattenute. Equilibrio e qualità, insomma, si ha la sensazione di star leggendo quella che è una storia Disney per toni, scrittura (una scrittura ibridata con l’umorismo delle vecchie avventure della fine dello scorso secolo) e anche nel finale, dove si è messi davanti a un coup de théâtre che fa sorridere. Una simile storia non sfigurerebbe nella collana Disney noir, sia in ragione dei contenuti, sia, come è chiaro già a un primo sguardo, grazie al proprio art-style.

Storie di Paperi

Difficile non pensare agli albi di Topolino, a Mega 2000, a TopomisteryDetective Gallo ha quello stile visivo interamente incentrato sull’universo tanto caro a Don Rosa e Carl Barks. Non sono presenti altre figure zoomorfe, soltanto degli amabili pennuti coi loro becchi di forma varia, dal sardonico sorriso del commerciante alla tonda e bonaria Candy Bop sino al nerboruto e duro proprietario della discarica, senza dimenticare il nostro scontroso protagonista.
Gli scenari sono armonicamente deformati, ricordandoci gli ambienti di alcuni classici della LucasArts come Day of The Tentacle Sam ‘n Max; proprio da quest’ultima iconica avventura grafica sembrano provenire non poche ispirazioni, a partire da quella che è l’atmosfera di fondo del gioco (in merito alla quale si vede chiara anche l’influenza di avventure come Tony Tough Discworld) sino ad alcuni scenari, su tutti quello onirico e surreale in cui Detective Gallo si troverà a dover estorcere preziose informazioni a un personaggio, che ricorda concettualmente il Mistery Vortex dell’avventura di Steve Purcell. Oltre a risultare visivamente bello ed efficace in fase di gioco, lo scenario della dimensione del sogno contribuisce anche a rompere una monotonia che la scarsa varietà di ambientazioni rischia alla lunga di creare, che è uno dei pochi difetti del gioco (pur risultando una buona idea in termini di design, i cartelli direzionali in ogni scenario non sarebbero necessari) alla pari di alcuni enigmi che potevano essere meglio congegnati: difficilmente un utente avvezzo alle avventure grafiche si troverà bloccato, i puzzle sono abbordabili ma non per questo semplificati, il punto debole di alcuni (davvero pochi, in verità) sta nella mancanza di una ferrea consecutio di indizi atti a condurre alla soluzione, ma si tratta di eccezioni ampiamente compensate dal resto delle quest che invece tengono ben presenti questi pattern, e che assicurano un buon livello d’impegno e un ritmo di gioco che non si spegne praticamente mai.
In questo aiuta anche non poco la scelta intelligente di alcune meccaniche: i game designer hanno optato per una grande semplicità di interazione portando al minimo il concetto di “interfaccia ad azioni contestuali“, e che ci vedrà utilizzare i tasti sinistro e destro del mouse rispettivamente per compiere azioni e analizzare ambiente e oggetti, in linea di massima. Questa scelta, assieme alla facoltà di saltare i dialoghi e alla possibilità di intuire quelli già affrontati, alla facoltà di vedere tutti gli hotspot disponibili su schermo premendo la barra spaziatrice e alla “courtesy option” che permette di andare direttamente allo scenario con un semplice doppio click nella direzione prescelta, massimizza la godibilità del titolo e riduce al minimo i tempi morti.
A far da adeguato contorno a tutto ciò c’è la colonna sonora di Gennaro Nocerino che restituisce molto bene le atmosfere da noir investigativo, mantenendosi su stilemi classici ma non stantii, ed elaborando melodie sospese tra il serio e il dilettevole, che contribuiscono a dar ritmo e leggerezza alle sequenze di gioco senza mai astrarre il giocatore dal contesto, e contribuendo a un comparto sonoro di ottimo livello, che unisce SFX appropriati a un doppiaggio di tutto rispetto, dove la voce del Detective Gallo (interpretato in italiano da Federico Maggiore, che dà voce anche a Skinny di The Wardrobe, gioco distribuito dallo stesso publisher e di cui si trova un easter egg) conferisce carattere al protagonista, non sfigurando affatto con l’omologo inglese assieme a tutto il resto del cast.

Potenziale seriale

L’opera prima di Footprints porta a casa un risultato il cui equilibrio non è affatto scontato, né facilmente raggiungibile: una storia godibile e dal buon ritmo, che riesce sorprendentemente a capovolgersi anche quando sembra aver imboccato una soluzione narrativa banale, personaggi  ben caratterizzati, un art-style straordinariamente curato, che sbava solo in alcune animazioni di certo migliorabili, una soundtrack appropriata, enigmi di medio impegno che seguono un’adeguata curva di difficoltà crescente, il tutto incastonato in un sistema di gioco intelligente, semplice ed efficace. Se, oltre a enigmi più elaborati, avessimo avuto una maggior varietà di ambientazioni, Detective Gallo sarebbe un gioco davvero senza sbavature.
Si può poi discutere, sul piano narrativo, della bontà o meno della soluzione finale che, se da un lato può sembrare un po’ facilona, dall’altro ha i connotati rocamboleschi e leggeri delle storie disneyane, e risulta certamente in linea con l’intero mood del gioco, contribuendo all’armonia globale dell’opera.
Se la limitatezza delle ambientazioni deriva certamente dalle risorse disponibili, sul resto si può benissimo lavorare, le basi ci sono tutte, anche per fare di Detective Gallo un personaggio seriale. Il potenziale del personaggio c’è, il talento dei creatori pure: perché non provarci?