Moonlighter

Da giocatori, o più precisamente da avventurieri, siamo stati in una marea di negozi, fra venditori più o meno tirchi per comprare o vendere oggetti. Ma vi siete mai chiesti cosa si prova a stare al posto del venditore? Come fa questi ad avere tanti begli oggettini da vendere? Per la prima volta potremo scoprirlo in Moonlighter, il piccolo miracolo indie della Digital Sun Games pubblicato da 11 Bit che incorpora parti action à la The Legend of Zelda, e dungeon per raccogliere tesori, e parti da business simulator in cui dovremmo vendere, in base alla domanda e al valore, tutto ciò che abbiamo saccheggiato (o parte di esso) e gestire il nostro negozio e il piccolo villaggio dove risiede il nostro Will. Il titolo è disponibile per Playstation 4, Xbox One e PC, e quest’ultima è la versione che prenderemo in considerazione.

Sogno di un commesso viaggiatore

Una notte, vicino al villaggio di Rynoka, appaiono dal nulla delle porte che conducono a dei dungeon, delle cripte in continuo mutamento piene di tesori preziosi; si formano così due squadre di esploratori contrastanti, i mercanti e gli eroi. Di questi non molti fanno ritorno e, con l’aumentare delle vittime, gli abitanti del villaggio decidono di chiuderne tutte le entrate. Senza tesori da vendere, Will, proprietario del negozio Moonlighter, vive giorni molto bui, ma un giorno, armato del suo coraggio e la sua voglia di seguire le orme del suo avventuroso padre Pete, decide di andare di entrare in un dungeon per cambiare la sorte della sua attività ed essere sia un eroe che mercante. Il gioco si alterna in sezioni diurne, nelle quali potremo aprire il negozio al pubblico e guadagnare più soldi possibili, e notturne, che sfrutteremo principalmente per andare a saccheggiare i dungeon. La loro forma richiama immediatamente quella del primo The Legend of Zelda (stanze rettangolari con quattro porte) ma la particolarità di queste cripte, così come accennato nella storia, è che a ogni nostro ingresso troveremo una struttura diversa; i dungeon si comporranno su tre livelli e, più scenderemo nel profondo, più rari saranno i tesori che troveremo (ma anche più resistenti e forti i nemici). Non troveremo mai porte da aprire con delle chiavi: è possibile infatti fiondarci direttamente all’ingresso delle sezioni successive, ma il tempo che dedicheremo all’esplorazione verrà ripagato col ritrovamento di ceste che conterranno dei tesori molto preziosi oppure oggetti che potremo usare per costruire armi, armature, migliorie per quest’ultime o creare delle pozioni. Il nostro inventario è composto da 20 blocchi (disposti a 5×4) ma il disporre i tesori all’interno di esso non è molto facile in quanto tutti gli oggetti che raccoglieremo dalle casse (che saranno sempre quelli che valgono di più o i più utili nel crafting) avranno delle maledizioni o degli incantesimi particolari: alcuni dovranno essere messi obbligatoriamente sul fondo o sulla cima della nostra borsa, altri distruggeranno un oggetto vicino quando usciremo dal dungeon oppure non appena gli troveremo una collocazione nella borsa, altri si romperanno se prenderemo troppi colpi e altri ancora rimarranno oscurati fino alla nostra uscita; a ogni modo, sempre dalle casse, avremo modo di raccogliere dei tesori intrisi da incantesimi che possono distruggere le maledizioni sopracitate (e dunque poter raggruppare un determinato numero dello stesso tesoro in un solo blocco), mandare i nostri ritrovamenti più preziosi direttamente al Moonlighter liberando la nostra borsa oppure addirittura trasformare un tesoro vicino in uno più prezioso. Se proprio non abbiamo più spazio per portare altri tesori possiamo “sacrificare” i tesori allo specchio magico che trasformerà istantaneamente i tesori in denaro; una meccanica semplice e intelligente purtroppo rovinata dall’assenza di un tasto “seleziona tutto”, che si traduce nel dover portare ogni singolo oggetto (o gruppo di oggetti) dallo slot dell’inventario, o cassa, allo slot dello specchio che si trova in basso a sinistra… per ogni singolo tesoro! La gestione dell’inventario, insieme all’azione vera e propria, è decisamente l’elemento più importante e bisogna sin da subito capire il meccanismo delle maledizioni e incantesimi per poter fare uscire dai dungeon più tesori possibili al fine di migliorare il nostro equipaggiamento sin da subito senza perdere troppo tempo; a tal proposito, non ci sono molti tutorial e, per quanto l’inglese utilizzato nel gioco non sia eccessivamente astruso, bisognerà comprendere il prima possibile questi meccanismi per non finire nel logorio di un grinding che potrebbe rivelarsi lungo, talvolta erculeo, in quanto i prezzi del fabbro che crea le armi e la strega che prepara le pozioni sono veramente tarati per un margine d’errore vicino allo zero!
Per questa ragione – dover guadagnare denaro di continuo per ottenere le migliorie necessarie – ci toccherà andare in uno stesso dungeon più volte, con il risultato di un gameplay ripetitivo, ma ciononostante piacevole, in un certo senso molto simile alla meccanica dei 3 giorni proposta in The Legend of Zelda: Majora’s Mask; capiterà spesso che, per esempio, arrivati alla terza sezione non saremo abbastanza forti o non avremo un armatura decente e perciò potremo uscire in qualunque momento offrendo dei soldi al talismano o al catalizzatore (catalyst) che, a differenza del primo, potrà farci tornare nella stessa stanza del dungeon dalla quale siamo usciti (e dunque senza doverlo ripercorrere dalla prima sezione). Gli altri due modi per uscire dai i livelli sono i più classici, ovvero uccidere il boss di fine livello, che ci farà avere accesso ai tesori più preziosi della cripta, oppure l’essere sconfitto in qualunque parte del dungeon, che comporterà la perdita di tutti gli oggetti nella borsa a eccezione dei primi cinque blocchi in alto che rappresentano le nostre tasche (è meglio dunque mettere in queste posizioni gli oggetti più importanti). Per non morire dovremo capire sin da subito che tipo di approccio vogliamo utilizzare: Will potrà portare due delle cinque armi proposte nel gioco, ovvero spada e scudo, lancia, spadone, artigli e arco e frecce, e a ciò consegue che il giocatore potrà scegliere tra stili di gioco diversi. Abbiamo un temperamento audace? Preferiamo sferrare pochi attacchi ma potenti? Contempliamo per lo più attacchi ravvicinati? L’arma di base sarà la spada e lo scudo ma ben presto, come scenderemo nel Golem Dungeon, avremo modo di prendere i primi materiali per poter costruire le restanti armi e capire velocemente quale stile di combattimento ci si addice di più, anche perché Moonlighter non è affatto un gioco facile; fino a quando, procedendo nel gioco e finendo nei dungeon successivi, non avremo un’armatura completa (e possibilmente omogenea visto che possiamo comporre delle armature di stoffa, acciaio o ferro) i nemici ci faranno sempre il cappotto e perciò avere una buona armatura fin da subito è fondamentale. Controllare Will è molto semplice: si muove e attacca esattamente come farebbe Link in titoli come A Link To The Past anche se l’esperienza è rovinata da una sorta di legnosità generale (persino all’interno dei menù); i comandi rispondono bene, ma alternare attacco e difesa risulta un po’ astruso, specialmente se si usano armi diverse dalla spada e lo scudo, che si richiama col tasto B se si usa un controller per Xbox. Con le altre armi, al posto di difenderci con lo scudo, è possibile sferrare degli attacchi speciali (caricati) e dunque mettere al tappeto i nemici in tempi più brevi; l’unica vera maniera per difenderci con le armi diverse dalla spada è il tasto RB che, in perfetto stile Link, farà allontanare Will con una capriola (che funzionerà ugualmente andando contro il nemico o tentando di superare un attacco a proiettile). Nonostante qualche piccola sbavatura, il gameplay puro risulta tuttavia molto piacevole, è molto soddisfacente uccidere i nemici per raccogliere i loro tesori e una volta abituati alla legnosità dei comandi si imparerà a sfruttare al meglio le capacità di Will; tuttavia, il gameplay all’interno dei dungeon non è che il 50% del gioco.

Che vada a lavorare!

Come abbiamo accennato prima, Will è il proprietario del negozio Moonlighter, che di giorno ci toccherà gestire accogliendo i clienti interessati alla nostra mercanzia. Ogni tesoro ha, diciamo, un valore oggettivo ma dovremo venderlo tenendo conto della domanda generale. Quando venderemo un oggetto per la prima volta, e dunque non ne conosciamo il giusto prezzo di vendita, dovremo fare attenzione alla reazione del cliente e, a seconda di questa, potremo ogni volta parametrarci. Ci sono 4 reazioni principali e saranno mostrate sul balloon al di sopra di ogni cliente intento a comprare un oggetto:

  • la prima ci mostra una faccina molto felice con degli occhi “a monetina”; questa reazione ci indica che il cliente ha trovato un oggetto a un prezzo stracciato e dunque, anche se faremo la sua felicità, la prossima volta che rivenderemo lo stesso oggetto ci converrà gonfiare un po’ il prezzo.
  • La seconda è una faccina normalmente felice; beccare questa reazione significa fondamentalmente aver trovato il prezzo perfetto e ci converrà mantenerlo a discapito della domanda.
  • La terza faccia è una faccina triste; solitamente il cliente eviterà di comprare l’oggetto ma è anche possibile che lo prenda ugualmente e lo pagherà per il prezzo stabilito. Tuttavia, se lo farà, farà abbassare la domanda generale e perciò quando vedremo un cliente reagire in questo modo e lascerà l’oggetto sullo scaffale ci converrà cambiare tempestivamente il prezzo prima che si verifichi lo stesso caso con uno che lo comprerà (ovviamente è possibile cambiare il prezzo durante le fasi di vendita).
  • L’ultima faccina è quella oltraggiata; se un cliente reagirà così di fronte a un oggetto significa che il prezzo supera di gran lunga il suo valore effettivo e perciò nessuno comprerà mai l’oggetto.

Tutti i dati che raccoglieremo sui tesori in fase di vendita, ovvero i prezzi correlati alle emozioni che vengono scaturite e il livelli della domanda, saranno segnati sul nostro quaderno del mercante e ciò ci sarà di grande aiuto sia in negozio che nei dungeon qualora ci troveremo nella situazione di dover scartare un oggetto in favore di un altro. A ogni modo, gestire un negozio (così come nella realtà) non consiste solamente nel piazzare degli oggetti sugli scaffali e nell’aspettare che i clienti vengano a comprarli; dobbiamo rendere l’ambiente piacevole e, come si solitamente si dice, avere gli occhi anche dietro la testa. È possibile anche intuire quale tipo di oggetto vogliono i clienti quando entrano (sempre da un balloon che appare sopra la loro testa), così come possiamo capire se qualcuno è intenzionato a rubare; noi non possiamo cacciare i ladri quando entrano ma dobbiamo stare attenti a non perderli di vista in mezzo alla folla e quando allungano le mani e tentano di scappare con la refurtiva dobbiamo fermarli tempestivamente con una capriola. Ai clienti, inoltre, non piace fare shopping in un ambiente scialbo e perciò dobbiamo fare in modo che si trovino a loro agio… così da far in modo che sborsino di più! Avremo modo di abbellire il negozio con oggetti da appoggiare al bancone o sui muri e ognuno di essi avrà un effetto particolare: alcuni faranno sì che i clienti lasciano una percentuale di mancia, altri fanno fanno scorrere il tempo più lentamente, altri diminuiscono i furti o fanno sì che in una giornata entrino più clienti del normale. Tuttavia nulla di tutto ciò è possibile fino a quando non apporteremo la prima modifica al negozio. All’inizio il nostro negozio sarà minuscolo e ci sarà spazio per giusto quattro oggetti per la vendita ma possiamo allargarlo utilizzando la bacheca al centro del villaggio dalla quale è possibile finanziare il proprio negozio per delle migliorie: queste includono l’allargamento del locale, l’aggiunta dei cesti per gli oggetti in offerta, casse più larghe per accumulare gli oggetti invenduti o quelli che ci servono per la creazione delle armi e pozioni, migliori letti, che ci faranno dormire meglio recuperando così della vita oltre il massimo, e migliori registratori di cassa per far sì che i clienti lascino una grossa percentuale di mancia (magari fosse così semplice nella vita vera). Un buon imprenditore però non è tale fino a quando non investe i propri soldi in altre attività; in Moonlighter avremo anche la possibilità di finanziare altre attività e queste ci daranno l’opportunità sia le fasi di vendita che la nostra esperienza nei dungeon. Dalla bacheca potremo finanziare un fabbro, che ovviamente ci costruirà le armi e le armature, un negozio di pozioni, un negozio simil Moonlighter che venderà gli stessi oggetti che troviamo nei dungeon (molto comodo se, per esempio, abbiamo bisogno di un certo materiale per costruire un arma e ci noia andare in un dungeon per un solo oggetto), un negozio per gli oggetti che servono ad abbellire il nostro locale e un banchiere che investirà un po’ del nostro capitale in altre attività e ce lo restituirà dopo sette giorni con gli interessi. L’esperienza commerciale di questo gioco è veramente curata e trasmessa con passione ma, un po’ come accade per le armi e le pozioni, il tutto è sempre collegato ai meccanismi dei tesori dei dungeon perché i prezzi, anche per i finanziamenti, sono tarati per un margine di errore pari a zero.

Venti di cambiamento

In termini di grafica Moonlighter ci delizia con una pixel art veramente deliziosa che si esprime nelle fasi di gameplay e  nelle brevi cutscene che mostrano delle immagini statiche (sempre molto belle). La grafica, in maniera generale, si rifà per lo più a The Legend of Zelda: the Minish Cap e ai giochi Pokémon della generazione del Gameboy Advance e perciò, nonostante la palette da 16/32-bit, personaggi e ambienti risultano molto curati, e dettagliati quanto basta. Non ci sono bug grafici di rilievo, e quelli presenti sono addirittura utili per avere un vantaggio con i nemici; in poche parole, è possibile (specialmente con lo spadone) colpire i nemici dalla parte opposta di un muro e rimanere protetti da (alcuni) attacchi nemici. Il titolo non si pone certamente come un gioco altamente realistico e dunque piccolezze come queste possono essere perdonate senza grossi compromessi e, in questi casi, persino sfruttate. La colonna sonora presentata è veramente deliziosa e tranquillamente accostabile a una di quelle di The Legend of Zelda; nulla al livello di Koji Kondo, ça va sans dire, ma i pezzi sono davvero ben composti, ben caratterizzati e anche ben registrati. Ci sono in totale quattro livelli, il dungeon di pietra, della foresta, del deserto e quello tecnologico, e pertanto i pezzi proposti sono molto vari e riescono a dare la giusta personalità, e persino serietà, ai determinati ambienti; ci sono bei pezzi orchestrali, riprodotti molto fedelmente, sfumature etniche, elettroniche nel dungeon tecnologico… insomma, si riesce a adattare perfettamente a ogni situazione regalando al giocatore un ottima cornice per un’avventura veramente particolare. Ogni dungeon ha sempre il suo tema e man mano si cambia di sezione varierà anche il tema, senza perdere le melodie portanti o il mood generale del pezzo; davvero molto ambizioso per un gioco indie. Unico problema, forse, è che si sarebbe potuto fare di più sul piano delle voci; non si chiedeva certamente un gioco interamente doppiato ma sentire anche un lamento da parte del personaggio principale sarebbe stata una buona implementazione. Abbiamo pertanto un personaggio con, sì, una personalità ben definita ma senza alcuna vera profondità; Will non si dimena quando dà un colpo di spada, non si lamenta quando viene colpito e non urla quando cade. Un po’ deludente come fattore.

Diamo a Will ciò che è di Will

Moonlighter è un gioco veramente curato in ogni dettaglio, è pieno zeppo di obiettivi, personalizzazioni, crafting e tanto altro. Può certamente interessare ai fan di The Legend of Zelda, gli amanti dei dungeon crawler e persino dei gestionali. Il solo problema di questo titolo, che sorprendentemente è al contempo anche il suo punto forte, è l’esubero di contenuti, non tanto perché risulti difficile stare dietro ai tanti obiettivi che il gioco ci pone, ma tanto perché è un po’ come giocare a Jenga! È davvero snervante andare in un dungeon con l’obiettivo di cercare un determinato oggetto che ci servirà per creare o migliorare un arma per poi uscire, ad esempio, con una quantità insufficiente oppure terminare una sessione di vendita e non avere ancora abbastanza soldi per poter finanziare un’attività o comprare qualcosa dal fabbro o dalla strega pur avendo i materiali. Insomma, se si fa qualcosa di sbagliato crolla tutto il resto! È importantissimo inoltre comprendere il funzionamento del sistema di maledizioni e di incantesimi dei tesori per fare più soldi possibili e purtroppo è molto difficile comprenderlo senza un tutorial o una vera guida.
Bisogna appunto essere molto pazienti con questo titolo, sperimentare, stare attenti alle icone e, in fase di vendita, alle reazioni, alle intenzioni dei clienti, e altro. Ci sono molte cose su cui dovremo istruirci, ma in Moonlighter saremo soli contro un sistema un po’ difficile da capire. Ma nella vita non abbiamo un tutorial, e anche per gestire un’attività bisognerà far ricorso a intelligenza e intuito.
È un titolo che o si ama o si odia, Moonlighter. Noi abbiamo più motivo d’amarlo, per la sua marcata personalità, per l’originalità e per meccaniche di gioco che sembrano non aver nulla in comune fra loro ma che in realtà si amalgamano molto bene. È uno Zelda-like molto più efficace e armonico di altri recentemente usciti come World to the West, che semplicemente soffrono di un’identità non troppo marcata. Speriamo solo che Moonlighter possa annoverarsi presto fra i grandi indie come Undertale, Axiom Verge o Limbo. Davvero sorprendente!




The Elder Scrolls Online: Summerset

The Elder Scrolls, è una delle saghe videoludiche più famose di tutti i tempi. Fiore all’occhiello di Bethesda, vide la luce con il suo primo capitolo nel lontano 1994 con The Elder Scrolls: Arena. Esattamente 20 anni dopo, nel 2014 uscì The Elder Scrolls Online, un MMORPG (massive multiplayer online role play game) ambientato nel territorio di Tamriel, la cui storia si svolge circa 1000 anni prima degli avvenimenti di Skyrim e non è in alcun modo legata agli altri capitoli della saga. Inizialmente il gioco prevedeva una “fee” mensile per poter giocare, come altri titoli presenti nel mercato, basti guardare Final Fantasy XIV di Square Enix o il brand plurimiliardario e sicuramente più famoso di World of Warcraft di Blizzard. Probabilmente a causa dello scarso successo del titolo, successivamente Bethesda decise di abolire l’abbonamento e mantenere solamente il costo per l’acquisto del gioco.

Un territorio in continua espansione

In TES Online, Tamriel sarà quasi completamente esplorabile a differenza degli altri titoli della saga in cui era possibile battere solo una determinata provincia: per esempio in Oblivion, il quarto capitolo della saga, era possibile muoversi all’interno della provincia di Cyrodill, mentre in Skyrim, l’ultimo uscito al momento, si ha la possibilità di esplorare solo l’omonima provincia. Al momento le province e le regioni esplorabili (alcune previo possesso dell’apposito DLC dedicato) sono:

  • High Rock, patria dei Bretoni e provincia capitale del Daggerfall Covenant.
  • Hammerfell, patria dei Redguard ed in seguito anche degli Orchi.
  • Morrowind, patria degli Elfi Scuri.
  • Skyrim, patria dei Nord.
  • Cyrodill, patria degli Imperiali. Dedicata al PvP di massa.
  • Black Marsh, patria degli Argoniani. È formata da foreste tropicali e paludi.
  • Elsweyr, patria dei Khajiiti.
  • Valenwood, patria degli Elfi dei Boschi. Di questa, fa parte anche l’isola di Summerset.
  • Summerset, patri degli Elfi Alti.

Nuovi orizzonti

Proprio su quest’ultima isola, Summerset, concentreremo la nostra attenzione. Recentemente infatti, Bethesda, ha rilasciato l’ultimo aggiornamento per TES Online, dopo Morrowind l’anno scorso. Quest’ultima espansione vede l’apertura di una nuova regione completamente esplorabile (un agglomerato di isole, nonché patria degli Elfi Alti), e l’inserimento del nuovo ordine degli Psijic, entrando a far parte del quale, garantirà nuovi poteri e abilità speciali.
Fondamentalmente nessuna novità è stata apportata al comparto tecnico del gioco, tutto è rimasto invariato, ma questo vuole essere tutt’altro che una nota di demerito, perché la scelta fatta dal team è del tutto lecita e più che motivata: tutto funziona perfettamente già così com’è. Il sistema di combattimento è solido e rodato, così com’è ben sviluppato l’albero delle abilità o il sistema di creazione e incantamento di armi e armature.

Acquistarlo o non acquistarlo?

Probabilmente se vi piacciono gli MMORPG, questo lo troverete uno dei più interessanti degli ultimi tempi. TES Online vi assicura un gameplay rilassato e abbastanza vario anche dopo diverse ore di gioco. Purtroppo manca la localizzazione in italiano del titolo, il che potrebbe rendere frustrante la lettura delle copiose quest che si intraprenderanno nel corso del gioco e che, quasi sicuramente, porteranno i meno ferrati nella comprensione della lingua straniera a cliccare sul tasto “skip” il più delle volte. Ovviamente è da considerarsi una mancanza in luce del fatto che normalmente i giochi prodotti dalla stessa casa sono sempre localizzati in Italiano. Tutto sommato però TES Online, rimane un ottimo titolo, che viene periodicamente aggiornato e espanso, una piccola perla che i veri fan del Lore di The Elder Scrolls non dovrebbero farsi sfuggire.




Just Shapes & Beats

Se siete stufi di ascoltare i tormentoni estivi che impazzano in tutte le radio e siete amanti della musica elettronica, dubstep e soprattutto chiptune allora Just Shapes & Beats potrebbe farvi compagnia per un po’ in questa torrida estate.
Sviluppato da Berzerk Studio, team composto da sole 3 persone (Lachhh, Markus ed Etienne), Just Shapes & Beats si presenta come uno stravagante action game che ci impegnerà per circa 3 ore; la scarsa longevità non lascia però scontenti, soprattutto grazie a un gameplay molto elaborato quanto ostico, e per via di una colonna sonora che consta di circa 40 brani composti da alcuni dei migliori artisti del genere, da Chipzel Omnitica passando per Shirobon e molti altri.

La storia è molto semplice, visto e considerato che il gioco attenziona maggiormente il comparto audio, tecnico e grafico. La trama vede come protagonista un piccolo quadrato, che, vedendo il proprio mondo corrotto dal cattivo di turno, un mostro a forma di cerchio rosso, e perdendo un amico a causa di quest’ultimo, decide di andarlo a cercare per vendicarsi superando ogni tipo di insidie, difficoltà e ostacoli. Per far bisognerà superare circa 28 ardui livelli a ritmo di musica rigorosamente elettronica.
Il gameplay è tutt’altro che semplice: il titolo richiede non poca coordinazione e concentrazione per superare tutti i livelli e anche una piccola dose di fortuna. In ogni livello bisogna solamente muoversi e schivare gli ostacoli grazie a uno sprint, il gioco concentra l’attenzione non sui semplici e intuitivi comandi, ma sugli ostacoli che compariranno in maniera spesso casuale sulla mappa.
Il nostro unico scopo sarà quello di sopravvivere a tutti i pericoli che il boss e i suoi scagnozzi rappresenteranno, schivarli e superare ogni ostacolo per raggiungere un piccolo triangolo bianco che segnalerà la fine del livello.
Il gameplay appare a prima vista confusionario, con forme geometriche che vagano per la mappa e che compaiono e scompaiono in men che non si dica, luci e flash ovunque che sembrano distrarre, ma con il pad in mano è tutt’altra cosa. Dopo aver superato il tutorial imparerete a focalizzare l’attenzione sul vostro personaggio e con la coda dell’occhio starete attenti all’ambiente circostante, riuscendo a evitare quasi tutti gli ostacoli.
Il nostro personaggio potrà essere colpito non più di quattro volte per poi finire K.O. e ricominciare dal checkpoint precedente; ogni tre sconfitte ci sarà il Game Over e si dovrà ricominciare il livello da zero.
È presente anche una modalità multiplayer, sia locale sia online, che permetterà di superare, in compagnia di altri tre giocatori, uno dei tanti livelli presenti all’interno del titolo. Avendo a disposizione l’aiuto di tre persone, finire la run sarà abbastanza semplice, fin  troppo. Questa modalità è ottima per chi voglia rigiocare più di una volta un determinato livello, magari in compagnia di qualche amico, o semplicemente per divertirsi un po’ sulle magnifiche note del livello.

La grafica è minimale, una delle caratteristiche principali del gioco sono le forme geometriche che compongono l’intero ambiente, compresi i personaggi, uno stile che ricorda molto giochi come Geometry Dash. I livelli non hanno uno sfondo, il colore nero farà da background, mentre flash, raggi laser, sfere e altre forme fucsia riempiono quasi l’intero schermo, rendendo più difficile l’individuazione del nostro personaggio e soprattutto renderà più arduo schivare tutti gli ostacoli. I principali colori utilizzati sono solamente cinque: nero e le sue sfumature, bianco, turchese, fucsia e giallo. Una scelta singolare, ma intelligente: in un gioco di questo genere, singolarissimo nel suo proporre una modalità quasi da shoot ‘em up senza la componente shooting, troppi colori o colori troppo accesi possono solo essere d’intralcio per la visuale e di conseguenza peggiorare l’esperienza di gioco.
Anche il comparto tecnico è ottimo, durante la mia run non ho riscontrato nessun bug o glitch a compromettere la sessione, solamente un leggero lag in alcune parti di un solo livello e un bug – che credo dipenda da Steam – che riconosceva mouse e tastiera come un giocatore e il pad della PlayStation 4 (collegato con il cavo USB) come un secondo player, per questo, metà del gioco l’ho dovuto affrontare con due avatar controllati da un solo pad (e il gioco è diventato molto più arduo). Ovviamente qualsiasi problema potrebbe intaccare la nostra avventura, rendendola impossibile o troppo semplice, ma non è questo il caso. Il gioco è ben strutturato con livelli sempre diversi tra loro e mai ripetitivi, che offrono un grado di difficoltà diverso da livello a livello. Si possono affrontare missioni “semplici”, che riusciranno in una sola run, o altre molto più ardue, che vi faranno urlare dalle troppe forme a schermo e vi faranno penare per arrivare al tanto agognato “triangolino della salvezza“.

Ma adesso parliamo del soggetto principale del gioco: la soundtrack. Just Shapes & Beats offre ore e ore di ottime canzoni chiptune, che spaziano dalla musica elettronica al dubstep più sfrenato. Da amante del genere le tracce presenti mi hanno fomentato non poco durante la partita, anche perché, per superare alcuni ostacoli si deve seguire il ritmo, potrebbe capitare che a ogni drop della musica si possa incorrere in un’esplosione o in un ostacolo, quindi bisogna prestare attenzioni a tutto, dal nostro personaggio, agli ostacoli, e persino alla musica.
La colonna sonora del gioco si compone di circa 40 brani, dicevamo, composti da alcuni dei più famosi musicisti del mondo chiptune, tra cui i Pergboard Nerds, Chipzel, Tokyo Machine, Noisestorm, e oltre a loro sono presenti anche altri compositori un po’ meno famosi o emergenti, come Plesco, Danimal Cannon e altri artisti.
Il gioco è consigliato a un pubblico che gradisca una simile selezione, ma anche chi si volesse semplicemente mettersi alla prova con un titolo ritmico, dinamico e mai noioso potrà divertirsi sicuramente potendo usufruire anche di una buona rigiocabilità.




Milanoir

Si dice che in un film noir che si rispetti non ci sono “buoni” e “cattivi” ma solamente “cattivi” e “peggiori”, personaggi che potremmo amare in un momento ma che in seguito potremmo persino arrivare a odiare. Le atmosfere dei crime drama e polizieschi noir italiani degli anni ’70, l’epoca d’oro di certi film, riprendono vita in questo nuovo top-down shooter 2D sviluppato da Italo Games; stiamo appunto parlando di Milanoir, un gioco tostissimo, dal carattere originale e dalle tematiche molto forti (tanto che in Europa ha ricevuto il PEGI 18). Tramite gli occhi del nostro protagonista, vedremo il lato oscuro della brillante Milano, nei quartieri in cui il crimine dilaga e il braccio della legge fatica ad arrivare. Il gioco è disponibile su PlayStation 4, Xbox One e da poco anche su Nintendo Switch ma noi prenderemo in esame la versione per PC.

La guerra di Piero

Sin dai primi momenti il gioco ci porta in quella che è la Milano degli anni ’70: una città brulicante di vita ma che cela un animo oscuro nelle sue vie peggiori, strade in cui le piccole gang si contendono il territorio a colpi di pistola e dove pullulano Vespe Piaggio, ubriaconi e prostitute straniere. Il nostro Piero Sacchi, milanese di nascita, sa bene come vanno le cose nei quartieri bassi ma almeno è sicuro di frequentare le persone giuste, ovvero la banda del boss Nicola Lanzetta di cui è il killer numero uno e anche il braccio destro. La cosa lo riempie d’orgoglio e non c’è occasione in cui non sbatta in faccia la situazione al Torinese, il suo rivale giurato; tuttavia, una sera, le cose si mettono male per il nostro protagonista e ben presto si troverà in un guaio che lo macchierà a vita, generando in lui un forte desiderio di vendetta. Sin dai primi momenti verremo catapultati in una Milano malfamata e piena di problemi, per causarne ancora di più in nome del clan dei Lanzetta; col progredire della storia ci troveremo dunque a far fuori altri boss di quartiere, bracci destri e killer spietati ma avremo anche modo di conoscere altri misteriosi personaggi che daranno sempre più profondità alla più che profonda storia che ci viene proposta. I controlli sono più da FPS che da twin-stick shooter, al contrario di quanto ci si aspetterebbe da un gioco che propone una prospettiva bird eye; l’opzione che più si addice a questo tipo di gioco è quella di usare mouse e tastiera per muoverci in ogni direzione (limitate sempre alle otto direzioni concesse dai quattro tasti) e mirare con molta facilità mettendo il puntatore al di sopra del nemico. Col joypad ci si può muovere con più precisione ma mirare non è proprio semplicissimo. Come abbiamo detto prima, ci aspettavamo dei controlli più in linea con i twin-stick shooter ma invece abbiamo un sistema che semplicemente sostituisce il puntamento del mouse con la levetta destra del controller e ci duole dire che non è il massimo. Il mirino non torna in una posizione di default, né funziona come abbiamo visto in giochi come Tower 57 o nella versione per console di Hotline Miami; tuttavia, un sistema di controllo analogo a quest’ultimo lo troviamo durante le sezioni sui veicoli, e ci chiediamo come mai non sia stato implementato nel resto del gioco. Il controllo col joypad non è comunque totalmente debilitante in quanto è presente anche un sistema di mira automatica quando un bersaglio sarà sulla linea di tiro di Piero (e anche visibile); inutile dire che entrambi i metodi sono buoni ma, viste le scelte dei programmatori, è meglio utilizzare mouse e tastiera.
Il gameplay che ci viene proposto è tipicamente da top-down shooter, giusto con una punta di stealth e concentrato per lo più sullo storytelling e non totalmente sull’azione (o tanto meno sul realismo di quest’ultimo); dovremo superare intere orde di sgherri muniti di pistole, fucili, coltelli e quant’altro alternando in maniera più equilibrata possibile copertura e azione. Coprirsi dietro casse, muretti e quant’altro è importantissimo al fine di rimanere vivi poiché a ogni schermata potrebbe presentarsi un vero inferno e noi, con la nostra sola pistola (che nonostante le munizioni infinite dovremo sempre ricaricare manualmente), potremo non farcela. Di fronte a questi scenari possiamo appoggiarci alle armi secondarie ma, dal momento che non appaiono frequentemente, i nostri più grandi alleati saranno i cartelli stradali… Avete capito bene! È possibile che certi obiettivi non siano raggiungibili tramite un colpo diretto e andare in avanscoperta per stanarli potrebbe risultare molto rischioso; perciò, se nelle vicinanze c’è un cartello stradale, è possibile sparargli per far sì che il nostro proiettile colpisca automaticamente un obiettivo con un rimbalzo. È una meccanica che si ripete molto spesso nei livelli, è ben implementata e risulta persino varia: quelli rotondi permettono di centrare un obiettivo, quelli rettangolari due e il segnale dello stop arriva fino a sei bersagli. Lo stesso non si potrebbe dire per ciò che riguarda le armi secondarie vere e proprie, ovvero il revolver, le molotov e le granate: nulla a che vedere con la loro utilità in battaglia dal momento che funzionano a dovere e sono divertenti da usare (soprattutto il primo che permette di far fuori più nemici con un solo proiettile) ma sono generalmente pochi e poco frequenti. E parlando di povertà nel comparto delle armi secondarie ci tocca anche parlare della povertà del gameplay in generale; non fraintendeteci, ci siamo divertiti moltissimo con Milanoir, ma semplicemente è un gioco tendenzialmente statico e le sue sezioni si ripetono troppo spesso. Non che i livelli si somiglino, ma alla lunga si percepisce una forma di monotonia che potrebbe farci completare parte dei livelli un po’ controvoglia, specialmente le sezioni un po’ troppo difficili (come la boss battle contro l’Africana nel Pirellone); in ogni caso, la modalità principale è giocabile per due giocatori e può restituire un po’ di divertimento in più e magari alleggerire alcune parti snervanti. Sempre in due (o da soli) è possibile fare del nostro meglio nella modalità arena: ci ritroveremo catapultati in alcune schermate in cui i nemici arriveranno a orde e a noi toccherà farne fuori il più possibile tentando di sopravvivere più a lungo. Questa modalità è ovviamente collegata con una dashboard online che raccoglie tutti i punteggi migliori e, con un po’ di fortuna, potreste risultare fra questi (noi, al momento, siamo quindicesimi a San Vittore… Mica siamo molli noi)! Comunque, anche se il gameplay non entusiasma particolarmente, ciò che in Milanoir spicca particolarmente è senza dubbio la sua storia; il titolo ha un carattere cinematografico ben distinto ma soprattutto ben implementato, e la sua grafica pixellosa o l’assenza di doppiaggio non saranno ostacoli per godere dello splendido storytelling proposto. Anche se la sua azione è buona ma statica, la sua trama sembra sia stata scritta originariamente per essere un noir italiano degli anni ’70 e ogni scena, che sia un intermezzo o un gelido omicidio, riesce a tenerci incollati allo schermo, ci entusiasma, forse a volte ci sdegna, tanto da voler conoscere a tutti i costi il risvolto della storia; vorremo sapere fin dove Piero sia disposto a spingersi per la sua reputazione (o forse per la sua sopravvivenza), chi sono i fautori dei nostri guai o semplicemente conoscere il luogo della prossima sparatoria (visto che è sempre un piacere giocare con un titolo di cui conosciamo i luoghi). Probabilmente, l’unica cosa in più che si sarebbe potuta fare a livello di storytelling sarebbe stato immettere delle scelte di dialogo e bivi decisionali per ottenere dei finali e livelli alternativi, ma in fondo è stato meglio lasciare una trama lineare; anche se certe volte quasi ci disgusterà utilizzare Piero, questo serve a mantenere intatta la sua “brutta” personalità, a restituire a noi giocatori l’esatta visione dei programmatori dietro a questo spettacolare gioco ma soprattutto a restituire quella magia dei vecchi polizieschi. Insomma, per intenderci, gli amanti di Breaking Bad hanno amato e odiato al contempo Walter White, e questo è quel che probabilmente volevano generare gli sviluppatori nei confronti di Piero.

Gli italiani lo fanno meglio

Il gioco, realizzato col motore grafico Unity, propone una pixel-art veramente deliziosa, molto colorata ma che restituisce ugualmente quel senso di buio e sporcizia di determinate zone di Milano all’epoca del banditismo. Lo stile dei personaggi ha un che di Leisure Suit Larry, magari un tributo per rendere al meglio “quella” scena di nudo all’inizio del gioco; in relazione alla scelta stilistica, i personaggi sono ben disegnati e hanno tante caratteristiche curiose (che potranno essere notate ancora meglio osservando bene gli artwork quando prendono la parola i character). Coloro che annoverano Milano Calibro 9 fra i propri film preferiti, ispirazione fondamentale per la produzione di questo titolo, non potranno fare a meno di notare il giubbotto rosso di Piero, chiaro rimando alla figura misteriosa che seguiva il protagonista Ugo Piazza, o l’innegabile somiglianza fra Tony, il compagno di crimini del nostro protagonista, e Rocco Musco; inutile sottolineare le analogie fra le figure del boss Lanzetta e Ciro con i loro corrispettivi Vito Corleone e Alberto, interpretati da rispettivamente da Marlon Brando e Mark Margolis ne Il Padrino e Scarface. Bisogna dire che Emmanuele Tornusciolo, mente dietro la storia e dietro al game design generale, ha davvero degli ottimi gusti in termini di cinema, così come, sicuramente, il resto del team composto da Gabriele Arnaboldi (codici e direzione tecnica) e Giuseppe Longo (pixel-art e animazione). Gli scenari, in termini di bellezza, spiccano un po’ di più rispetto alle caratterizzazioni dei personaggi; nulla che risulti poco armonico, ma sicuramente gli ambienti risultano più curati, molto chiari e meno limitati in quanto a colori e a dettagli. È senza dubbio un piacere seminare il panico fra molte località famose di Milano come il Viale Monza, il Pirellone, il carcere di San Vittore, le Colonne, il Parco Lambro, il Giambellino e persino i Navigli; ovviamente le strade non sono geograficamente precise, ma tutti i tratti distintivi sono stati correttamente accentuati per restituire in tutto e per tutto le atmosfere tipiche di questi luoghi. Non sarà mai un problema, inoltre, ripararci laddove pensiamo il fuoco nemico non possa arrivare; gli elementi ambientali, come le casse, i bidoni dell’immondizia, i muretti e tutto ciò che pensiamo possa offrirci riparo, funzioneranno a dovere e questo permette un gameplay molto dinamico e intuitivo. Abbiamo trovato solamente due problematiche relative alla codifica di alcuni ambienti: nella zona del mercato ci è capitato di camminare letteralmente su un muro e raggiungere punti della schermata che dovevano rimanere inaccessibili (insomma, indossiamo un giubbotto rosso ma siamo solamente Piero, mica Peter Parker!) mentre al Duomo, durante la battaglia finale, siamo riusciti a far fuoco attraverso un muro rimanendo protetti, regalandoci praticamente un incredibile vantaggio contro il boss finale e i suoi sgherri (e ovviamente non vi diremo qual è!). Speriamo che Italo Games possa riparare presto queste piccole imperfezioni con una semplice patch.
Ad accompagnare queste belle visual c’è ovviamente una solida colonna sonora; anche qui, così come per la storia e per la grafica generale, si tenta di a larghe linee di mantenere lo stile di quelle dei film noir italiani, con un pianoforte dal sound misterioso e sfumature di flauto che rimandano, chiaramente, agli Osanna (gruppo di Progressive Rock napoletano che eseguì la colonna sonora, composta da Luis Enriquez Bacalov, del leggendario film). Bisogna ammettere che molti brani sono ben composti e riescono nell’intento iniziale, quello di farci tornare in quegli anni ’70 di fuoco, ma in alcuni brani ci sembra ci siano alcuni elementi un po’ troppo moderni (o non appartenenti a quell’epoca) che risultano un po’ fuori contesto. Magari sono false sensazioni ma, probabilmente dopo aver giocato a un’altra rievocazione di pezzi d’Italia di un altro tempo come in Wheels of Aurelia, ci aspettavamo un’operazione molto simile.

Un capolavoro mancato

Nel panorama dei videogiochi indipendenti italiani Milanoir ha un carattere fortissimo, un gioco che riesce a mostrare quel marcio che affligge nostra amata penisola senza però utilizzare stereotipi o forzature che troviamo spesso in alcuni film o, ancora più spesso, nelle fiction italiane. Lo storytelling di questo titolo è senza dubbio il punto forte, l’elemento al quale sicuramente è stato dedicato più tempo. Sfortunatamente, anche se la sua azione è molto intensa e gli ambienti molto differenziati, il suo gameplay risulta statico, dicevamo, sostanziandosi in sequenze in cui si cammina, si spara e si va in copertura: oltre c’è ben poco, sul piano  della giocabilità. La meccanica dello stealth e le sezioni in movimento sono graziosamente rese ma purtroppo non riescono a dare ulteriore profondità a un gameplay che non stupisce e non rende giustizia a un’ottima trama. È vero che più avanti la nostra pistola verrà sostituita da un uzi ma ci sarebbe piaciuto poter utilizzare molte più armi, magari scegliendole da un menù, e trovare un gameplay più vario, aver magari la possibilità di interagire con NPC nel tentativo di raccogliere informazioni e oggetti, scassinare porte, poterci trovare di fronte a degli incroci e scegliere un passaggio invece di un altro; il potenziale c’era e il titolo propone meccaniche un po’ troppo semplici che, per quanto statiche, divertono comunque molto. Sarebbe però servito veramente poco per rendere il gameplay di Milanoir un po’ più vario e completare l’opera e rendere il titolo un piccolo capolavoro.
Il prezzo, sia su Steam che nel Nintendo E-Shop, non è per niente proibitivo è con poco potrete portarvi a casa un gioco che merita davvero.
Milanoir è in ogni caso un ottimo punto di partenza per Italo Games, che ci porterà certamente a tenere d’occhio i loro futuri lavori che, sfruttando il potenziale visto in questo primo titolo, potranno risultare certamente interessanti, anche al di fuori del panorama videoludico italiano.




Frostpunk

Estate: calore, sudore, cali di pressione, spossatezza. Mille volte meglio il refrigerio dell’inverno, no? E quindi, quale miglior momento per provare questo Frostpunk di 11 Bit Studios, titolo ambientato in un 1800 alternativo dove l’intero pianeta è stato spazzato da un gelo eterno: a noi l’arduo compito di gestire la nostra colonia di londinesi sopravvissuti alla caduta della capitale britannica, riuniti attorno all’unico oggetto che può dare speranza in questo momento di difficoltà, ovvero, un generatore alimentato a carbone, faro di speranza e portatore di calore ed energia.

At the heart of winter

Frostpunk si presenta con un’interfaccia grafica intuitiva e ben pensata: in alto avremo le nostre risorse divise tra carbone, legna, acciaio, nuclei (fondamentali per la costruzione di alcune strutture), cibo crudo e cibo processato. Al centro troviamo un termostato, forse la parte della UI che controlleremo più spesso, visto che ogni abbassamento della già glaciale temperatura aggiungerà uno strato di difficoltà superiore all’inferno glaciale che stiamo vivendo: sarà fondamentale dare attenzione anche alle previsioni meteo, che monitorano l’eventuale abbassamento o innalzamento dei gradi centigradi.
In basso abbiamo dei tasti menù dedicati alla ricerca delle nuove tecnologie, alla costruzione delle varie strutture e soprattutto il tasto dedicato alle leggi, una delle meccaniche di gioco più importanti del titolo. Sarà nostro compito fare attenzione a mantenere un buon rapporto tra scontentezza e speranza, due barre che si trovano sempre nella parte inferiore dello schermo, e che saranno fondamentali per carpire i bisogni del nostro popolo e soprattutto saranno determinanti a non farlo arrabbiare! Infatti, basta portare la scontentezza al massimo o la speranza al minimo e verremo banditi dalla città, causando il game over.

Il gioco ci lascia sempre in uno stato di tensione continua: le risorse sono esigue, ogni decisione sbagliata viene sempre pagata amaramente. In più, potrà capitare qualche evento casuale, come la morte di una bambina, che causerà il crollo nella speranza del nostro popolo, oppure l’arrivo di una carovana profuga. Il tutto porta il giocatore a pensare più e più volte prima di agire, soprattutto sulla parte legislativa: andando avanti nel gioco si prenderanno decisioni sempre più difficili o controverse. Per esempio, dichiarare legittima l’eutanasia libererà qualche posto nelle strutture ospedaliere, ma il nostro popolo non vedrà certamente di buon occhio la decisione, e potrebbe ribellarsi!
Più i giorni passano nella nostra colonia, e più le difficoltà aumentano: il titolo dei creatori di This War of Mine è crudo come la carne raccolta dai nostri cacciatori. Esattamente come il videogame ambientato nella prima guerra mondiale, questo Frostpunk è uno spaccato del comportamento degli esseri umani durante i momenti di difficoltà e sofferenza, oltre alle varie scelte compiute dal giocatore: le varie leggi e decisioni prese, possono avere uno sviluppo anche drammatico, talmente tanto da portare la colonia a diventare l’avamposto di una nuova religione oppure un’enclave dittatoriale dove ogni minimo errore contro la legge può essere punito anche con la morte.

Tragedies blows at horizon

Nonostante il genere, Frostpunk si difende bene dal punto di vista grafico: gli effetti particellari di neve e ghiaccio sono ben fatti, e il gioco rende bene anche con i settaggi al minimo. La colonna sonora restituisce egregiamente lo stato di emergenza vissuta dai nostri sopravvissuti, con inserti orchestrali tendenti al tragico. Per quanto riguarda il gameplay, il giocatore è costantemente tenuto sulle spine, come succede per titoli del genere gestionale/survival, come Rimworld, Banished e Dwarf Fortress: proprio dall’ultimo gioco prendono ispirazione gli 11 Bit Studios, infatti la filosofia portante è proprio quel “losing is fun tanto caro al freeware di Bay 12 Games. Ogni game over che subiremo sarà fondamentale per imparare la lezione e non ripetere lo stesso errore, aspetto che si riflette sulla longevità: saremo sempre portati a migliorare in ogni partita e in ogni scenario. Se poi aggiungiamo che dopo il raggiungimento di un certo totale di giorni di sopravvivenza verranno sbloccati ulteriori scenari, e la recente inclusione della modalità survival, adatta per i giocatori che vogliono farsi prendere a schiaffi dalle folate di vento gelido, abbiamo tra le mani uno dei migliori titoli del genere usciti nel 2018!

Il lavoro di 11 Bit Studios si pone tra le migliori uscite in assoluto per quanto riguarda il sottogenere del gestionale survival: ogni scenario nasconde sorprese e avvenimenti che possono stravolgere il lavoro certosino dei giocatori più o meno esperti. Frostpunk è un titolo consigliato sia ai neofiti del genere, soprattutto per il suo lato più story driven, che per gli appassionati dei gestionali, che troveranno pane per i loro denti nelle gelide tundre di questo 1800 distopico ambientato tra i ghiacci. A patto di avere una buona dimestichezza con la lingua di Albione, visto che non è presente una traduzione in italiano.




Wreckfest

Se dicessi Destruction Derby, buona parte della nuova generazione di gamer non saprebbe di cosa io stia parlando, ma di sicuro gli “anzianotti” invece – come il sottoscritto – ricorderanno con sommo rispetto uno dei giochi più divertenti di sempre, che si fece spazio nei nostri cuori a suon di sportellate. DD era una delle IP più importanti, per l’epoca, di Ubisoft Reflection: uscito inizialmente su PSOne, potremo considerarlo il capostipite del suo genere, con la sua fisica pazzesca e la gestione dei danni magistrale che fu d’esempio per tutti quelli che furono successivamente i suoi epigoni e surrogati.

Qualcuno di voi ricorderà invece Bugbear Entertainment comela software house che ha sviluppato una delle IP più folli di sempre: Flatout, una serie di corse automobilistiche puramente arcade, pubblicata nel 2004 sui sistemi PS2 e Xbox, per arrivare poi nel 2017 con il quarto capitolo, Fl4tout Total Insanity.

Oggi il team di Bugbear, in collaborazione con THQ Nordic, ci sta riprovando lanciando sul mercato Wreckfest, un motoristico totalmente off-road – o quasi, se non fosse per qualche lingua d’asfalto presente qua e là – che rimane sì in linea con il vecchio brand, ma aggiungendo un po’ di “serietà” racing (più che altro stilistica e fisica) alle sfrenate corse che hanno da sempre contraddistinto le loro produzioni.

A tutto gas!

In Wreckfest esiste un solo mantra: A TAVOLETTA!
Di fatto difficilmente farete uso del freno in questo gioco; infatti basterà semplicemente togliere il piede dall’acceleratore e dosare un po’ di freno a mano per riuscire a sfruttare al meglio la corda della curva (fondamentale, se non vorrete avere nuovamente alle calcagna i vostri rivali).
L’IA dei concorrenti non è niente male, ben bilanciata, bastarda al punto giusto e mai scontata. Frequentemente ci capiterà di venire ribaltati o di finire fuori pista a causa di un comportamento scorretto ma chi si lamenta? Questo è Wreckfest!
Sin da subito avrete la possibilità di lanciarvi nella mischia online ma, vi assicuro, sarà un bell’azzardo: il livello dei player online è infatti altissimo e le auto sono quasi del tutto potenziate, se vi andrà bene ìriuscirete a terminare la gara senza essere doppiati e restando tutti interi. Per questo è doveroso consigliare prima un piccolo training, con l’altrettanto divertente modalità single player/carriera. Un percorso, quello della carriera, che vi condurrà ad affrontare diverse discipline in tantissimi tracciati – anche se sono tanti, alla lunga sembrerà di correre quasi sempre nello stesso luogo, probabilmente a causa dei percorsi off-road che non si distinguono molto l’uno dall’altro – guadagnare stelle in base alle prestazioni in pista e agli obiettivi portati a termine, in modo da poter sbloccare gli eventi successivi. Affrontare le gare è importante soprattutto per iniziare a guadagnare anche valuta di gioco (dollari, nel dettaglio), per poter acquistare nuove e più potenti auto o modificare quelle già in vostro possesso per rosicchiare secondi preziosi sul tempo in pista.
Il gioco risulta molto alla mano anche per chi non è avvezzo ai giochi motoristici.
Personalmente ho giocato il titolo con la mia postazione di guida, con volante Thrustmaster T300RS, e dopo tanta pazienza il gioco si è comportato molto bene; ho dovuto perdere un po’ di tempo per regolare il punto morto dello sterzo che inizialmente risultava essere troppo sensibile, influendo negativamente sulla giocabilità, ma una volta trovato il giusto compromesso Wreckfest mi ha davvero regalato ore di puro divertimento. Per correttezza e completezza, ho deciso di giocarlo anche con il joypad e il risultato è il medesimo, semplice, intuitivo e divertente (sicuramente di più facile utilizzo).

Le gare vanno dalle semplici corse su pista, agli scontri in arena – i miei preferiti – in cui vincerete solo resistendo senza venire distrutti fino alla fine.
La personalizzazione delle automobili è davvero originale, sia per quanto riguarda le livree, perfettamente in linea con lo stile “dirty” del gioco, sia per quelle estetiche, in egual modo interessanti e accattivanti: chi non vorrebbe un V8 con gli scarichi aperti sulle fiancate?

Che bella carrozzeria!

Il comparto grafico di Wreckfest, risulta essere stato molto più curato rispetto alle precedenti produzioni di Bugbear. Il team di sviluppo ha concentrato le proprie energie per cercare di sfornare qualcosa di diverso dal loro standard, pur rimanendo concentrato sul progetto nella sua totalità e devo dire che ci sono riusciti egregiamente. Effetti grafici all’altezza di ogni situazione, scontri, ribaltoni, sportellate ed esplosioni non fanno che aumentare la spettacolarità delle corse per la loro ottima qualità. Difficilmente mi stupisco per certe chicche grafiche, ma se c’è una cosa che è riuscita a colpirmi più d’ogni altra in Wreckfest sono il fango e il comportamento delle gomme delle automobili a contatto con esso, davvero molto realistico, fondamentale su giochi di questo genere. In precedenza solo Mud Runner, altro titolo dal carattere forte e al contempo “ignorante” come pochi, era riuscito ad impressionarmi a tal proposito.

Note positive anche per il comparto sonoro: rombo dei motori molto fedele, pieno e cattivo, riesce a entusiasmare durante le sgasate per mantenere la curva; forse potrebbe diventare “fastidioso” in gare un po’ più piatte, con poche curve e tanti rettilinei, dove la macchina raggiunge in breve tempo la velocità massima facendoci sentire solo il motore a palla. Colonna sonora invece semplicemente pazzesca, si sgomma a suon di punk-rock di prima scelta.

In conclusione tirando… il freno a mano

Wreckfest è un ottimo gioco che sicuramente regalerà parecchie ore di divertimento agli amanti del genere arcade, soprattutto per chi, come il sottoscritto, da tempo attendeva il ritorno di un dignitoso erede di Destruction Derby.
Consigliato a tutti gli amanti delle corse off-road per l’altissima qualità dei circuiti, delle vetture e degli effetti grafici ad hoc.
Ah e mi raccomando! Se doveste acquistarlo… niente freno!




LEGO Gli Incredibili

Gli Incredibili ritorna dopo 14 anni con un nuovo lungometraggio che uscirà in Italia il 19 settembre 2018. Nell’attesa che il film esca anche nelle sale europee e italiane, gli amanti della serie potranno consolarsi con il nuovo titolo LEGO, che racconta in maniera molto precisa e minuziosa quasi l’intera trama del nuovo film.
Il tanto atteso sequel del celebre film Gli Incredibili ha riscosso non poco clamore negli Stati Uniti, ottenendo il primato di film d’animazione più redditizio di sempre, incassando oltre 500 milioni di dollari, solamente negli USA.
LEGO Gli Incredibili è il classico gioco della LEGO, in cui poter dare libero sfogo alla propria fantasia, divertirsi con i famosissimi mattoncini e, nel frattempo, poter seguire la storia che il titolo offre.
Come detto in precedenza, LEGO Gli Incredibili segue la trama del secondo film, ancora inedito in Italia, contenendo non pochi spoiler e creando qualche problema a chi volesse godersi il film appena uscirà nelle sale nostrane.
La trama segue i fatti accaduti subito dopo il precedente capitolo: Bob Parr, Mr. Incredibile, rimane a casa a badare ai figli, Violetta, Flash e Jack-Jack, mentre sua moglie Helen (Elastigirl) prosegue la lotta contro il crimine e alla legalizzazione dei supereroi. Ma in poco tempo si presenta il supercattivo di turno, pronto a conquistare l’intera città: l’Ipnotizzaschermi, che ha il potere di ipnotizzare la gente con l’aiuto di schermi e monitor; subito i membri della famiglia Parr, insieme all’amico di famiglia Siberius, dovranno la nuova minaccia salvando la città.
La storia è narrata da lunghe e divertenti cutscene che spiegano in maniera esaustiva tutti i fatti accaduti.

Il gameplay è molto simile, se non identico, alla gran parte dei giochi LEGO in circolazione, apportando poche novità e mantenendosi molto semplice e intuitivo, per facilitare i più giovani, anche se in alcuni frangenti diventa parecchio difficile e ostico scovare i numerosi indovinelli che, se non completati, non permetteranno di andare avanti con la storia.
Durante alcune missioni si incontreranno enigmi che appariranno tanto contorti quanto evidenti, facendo perdere numerosi minuti al giocatore per riuscire a scovarli e pochissimi secondi per completarli. Ad aggravare la situazione anche l’assenza di messaggi guida, che dovrebbero fornire delle indicazioni su come proseguire, se si rimane bloccati in un punto per parecchio tempo, lasciando il giocatore ignaro sul da farsi.
Tralasciando questo problema (di certo non da poco), il gameplay risulta abbastanza fluido, ma a lungo andare ripetitivo. La storia ci lascerà visitare liberamente Municiberg a bordo della nostra auto o sottraendo i veicoli ai malcapitati cittadini, effettuare acrobazie con l’auto, proprio come in Grand Theft Auto, combattere contro dei malviventi o completare missioni secondarie. Inoltre, durante la main quest si dovranno edificare delle costruzioni speciali e maestose che permetteranno l’avanzare della storia, tutte interamente fatte di mattoncini LEGO. Fortunatamente, però il combat system sembra non dare grandi problemi, con scontri e boss fight non molto impegnative, ma parecchio gradevoli.

LEGO Gli Incredibili contiene moltissimi collezionabili che si troveranno sparsi per la città o finendo determinate missioni, come d’altronde in tutti i giochi LEGO. Durante il viaggio si potranno ottenere ben 200 mattoncini rossi, chiamati MattonIncredibili, che ci permetteranno di sbloccare vari bonus in game e si potranno trovare più di 200 personaggi, che si potranno trovare in alcuni pacchetti, come in FIFA Ultimate Team, che varieranno il contenuto in base alla rarità e al costo.
A risollevare una situazione che non brilla per varietà arrivano i dialoghi e il sonoro. Le conversazioni con altri personaggi sono ben gestite e molto divertenti, piene di esilaranti sketch che strappano sempre una risata, mentre il sonoro è di discreta fattura, con le soundtrack originali del film.
La grafica è migliorata rispetto ai precedenti capitolo LEGO, con un mondo di gioco pieno di dettagli, arricchendo l’esperienza e rendendola molto più gradevole, soprattutto grazie ai colori molto accesi e vivaci utilizzati. Mentre il comparto tecnico non spicca per la sua ottimizzazione, infatti, durante i parecchi caricamenti alcuni richiederanno circa 1 minuto e mezzo, creando un’attesa interminabile.
Tutto sommato, però, LEGO Gli Incredibili si rivela un gioco divertente con cui trascorrere circa 5/6 ore per completare la storia e visitare un po’ la cittadina di Municiberg, un titolo adatto a tutti, dai più giovani agli adulti. Ovviamente se ci si vuole godere il film senza alcuno spoiler sulla trama è sconsigliabile giocare a questo titolo, che TT Games e Warner Bros. hanno certamente immesso subito sul mercato per sfruttare l’hype del lancio americano, ma che non risparmia in tal senso quello europeo, che dovrà attendere ancora qualche mese prima di poter godere della nuova avventura cinematografica de Gli Incredibili.




Crazy Dreamz: Best of

Sviluppato da Dreamz Studio, Crazy Dreamz: Best of è un platform bidimensionale a scorrimento, disponibile su PC, nel quale vestiremo i panni di un gattino intento a salvare la propria nazione dall’assalto dei ratti. Il titolo presenta 100 livelli, la maggior parte, dei quali creati dalla community giocatori tramite il tool free Magicats Builder (disponibile su Steam). Il risultato è complessivamente molto buono, permettendo agli utenti anche di guadagnare qualcosa attraverso le proprie creazioni. Dreamz Studio ha infatti ripagato con parte dei profitti delle vendite chiunque abbia prodotto livelli che siano finiti all’interno del titolo. Fantastico, no? Inoltre, in ogni mondo, che dispone al suo interno di un numero di stage variabili, dopo aver superato con successo 4 livelli sarà possibile combattere il boss.

Dal punto di vista del gameplay, il titolo si presenta abbastanza elaborato: i livelli sono ispirati a grandi classici del platform. Un aspetto negativo riguardo i livelli è che, essendo creati dalla community, non sempre l’insieme risulta ben bilanciato, la difficoltà può variare vertiginosamente, con alcuni livelli facilmente completabili, ma non privi di un ottimo design, e altri che invece richiedono maggior tempo e tentativi mostrando non un livello di sfida ben ragionato, ma limiti derivanti da inesperienza creativa. Un esempio riguarda un livello composto da molte porzioni di terreno fra le quali si girava a caso finché non si trovava l’area che presentava la “casa” che avrebbe portato alla conclusione dello stage. Un altro problema riguarda la sensibilità “sbilanciata” dei salti, portando non poche difficoltà di sopravvivenza in livelli dove si presentavano più salti proprio perché non sempre risulta facile calcolare il punto d’arrivo.

Dal punto di vista stilistico il titolo si presenta invece ben congegnato, con una grafica cartoonesca che è un bellissimo punto in più per il gioco e che si presenta con dei colori ben “marcati”. La colonna sonora è d’accompagnamento, orecchiabile seppur non trascendentale, e, inoltre, i brani sono pochi e scarni artisticamente. Dopo aver terminato uno stage è possibile fare un’offerta all’autore del livello per mostrare il proprio apprezzamento.
Tutto sommato Crazy Dreamz: Best of è un titolo molto accattivante, capace di far trascorrere un paio d’ore di tranquillità con livelli creati da giocatori appassionati e con un art-style piacevole, che difficilmente porterà il giocatore a stancarsi.




Agony – Pacatamente, come non piace a noi

Quando fu annunciato tramite Kickstarter nel 2016, Agony riscosse un certo interesse tra il pubblico, per via della sua visione molto cruda dell’Inferno e soprattutto, di una direzione che mal si sposava con organi di controllo come l’ESRB (Entertainment Software Rating Board). Infatti, Agony, sin dalle prime battute, era così al di là di ogni titolo horror visto finora che l’organo lo valutò come titolo “per soli adulti”. Una classificazione che al team di sviluppo polacco Madmind Studio non è andata giù, al punto da indurli a cercare in tutti i modi di ottenere una categoria PEGI che non fosse rossa. Una volta ottenuta, le cose non sono comunque andate per il verso giusto: Agony è gradualmente divenuto un titolo potenzialmente castrato sotto quasi tutti i punti di vista e alla sua release definitiva fu valutato con diverse insufficienze. Noi di GameCompass ci siamo presi il nostro tempo, attendendo alcune patch riparatorie e giocato con attenzione questo titolo che però – come vedremo – non merita il paradiso ma nemmeno l’inferno nella misura in cui vi è stato scagliato da molte testate.

Attento a cosa chiedi quando preghi…

Riassumere gli eventi di Agony non è operazione semplice: impersoniamo Amraphel/Nimrod (il protagonista viene chiamato in entrambi i modi, ma il perché non è del tutto chiaro), un’anima dannata, arrivata all’inferno dopo una morte probabilmente violenta. Il suo desiderio è quello di tornare in vita, ma solo la Dea Rossa è in grado di esaudire la sua ambizione. La sua ricerca coincide con il nostro obiettivo, anche se non tutto andrà nel verso giusto. E non ci riferiamo soltanto alla storyline del protagonista, ma anche al gioco nel suo insieme. Tutto è riassumibile con la parola “confusione” e lo svolgimento della trama ne è un chiaro esempio.
Il nostro peregrinare tra le lande degli Inferi sembra non portare da nessuna parte, ogni avvenimento risulta abbastanza slegato da quanto accaduto precedentemente. Ogni nostra azione ha delle conseguenze, ma di questo ce ne accorgeremo una volta scoperto che Agony propone ben sette finali diversi, molto “criptici” e di cui probabilmente uno soltanto – almeno secondo il ragionamento di chi scrive – comunica realmente qualcosa. La “questione delle scelte” è uno dei tanti problemi di game design del titolo e, per far capire meglio di cosa stiamo parlando, è bene procedere con metodo comparativo: prendiamo Prey di Arkane Studios, che ha tra l’altro ricevuto un recente aggiornamento; all’interno del titolo possiamo compiere diverse scelte, alcune di queste “invisibili”. Per intenderci, se in Mass Effect la scelta da intraprendere ci viene letteralmente sbattuta in faccia, in Prey tutto è molto più velato e dipendente davvero dal nostro tipo di gameplay. E in Agony? Nel titolo Madmind risultano invisibili nel vero senso della parola, soprattutto perché si ha sempre la sensazione di non possedere alcun libero arbitrio. Non è chiaro cosa influisca e cosa no, e se da un certo punto di vista può sembrare un’ottima cosa – quasi un espediente meta-ludico – la realtà dei fatti è che questo aspetto non è stato progettato nel migliore dei modi, con il risultato che la confusione regna sovrana. Non bastano nemmeno le tante note sparse qua e là, le quali aggiungono informazioni che si fatica a mettere assieme, finendo facilmente nel dimenticatoio, così come tutte quelle citazioni bibliche volte a crear atmosfera, ma che rimangono tristemente fine a se stesse.
L’offerta ludica di Agony si amplia con altre due modalità: Agonia ci porterà ad affrontare il titolo attraverso ambienti generati proceduralmente, mentre la più interessante modalità Succube ci consentirà di impersonare un demone, portando il giocatore a scoprire nuovi percorsi e nuovi modi di affrontare il gioco. Questa modalità secondaria – a conti fatti – è forse quella più gradevole tra quelle offerte dal titolo.

…potresti ottenerlo

Tutta la struttura ludica di Agony si basa sullo stealth. Come survival horror il gioco riprende i canoni classici che ultimamente siamo abituati a vedere nel genere in termini di gameplay: fare poco rumore, nascondersi ove necessario e scampare dalle grinfie di creature di qualsivoglia natura, in questo caso demoni. Il problema però è che alcune meccaniche inserite non funzionano a dovere, rovinando per la maggior parte l’esperienza. La morte – come ci viene detto – fa parte del gioco e, al suo sopravvenire, abbiamo la possibilità di far migrare la nostra anima verso un ignaro malcapitato e prenderne possesso. Se questa meccanica a prima vista sembra interessante, richiedendo di “scappucciare” i dannati per poter trasmigrare – sempre che sia stata attivata l’opzione “possessione facile”, altrimenti… – una volta inserita la possibilità di possedere un demone crolla l’intero castello di carta. Il survival horror diviene tutt’altro, con quasi la sensazione “di aver rotto il gioco”. La possessione di un demone infatti – se usata con astuzia – può liberarvi l’intero campo dai nemici, trasformando gli inferi in una stravagante vacanza. C’è da dire che la possessione ha un limite di tempo, in cui, se non trovassimo proprio nessun corpo da controllare, scoccata l’ora, sarà game over. Ma anche qui, fatta la legge, si trova l’inganno.
È proprio questo il punto. Agony sembra ancora un work in progress in cui nessuno degli elementi proposti funziona a dovere. Un altro esempio è – l’incredibile – gestione dei checkpoint, mal calibrati in termini di distanza e soprattutto utilizzabili soltanto tre volte. Una volta sfruttati tutti i jolly – morti – dovremo utilizzare quello precedente e, di conseguenza, rifare intere porzioni di gioco. Questo si scontra anche con un level design spesso caotico e in cui risulta difficile orientarsi, dato che molti luoghi soffrono dell’eccessiva ripetitività degli asset. Fortunatamente, in nostro soccorso arrivano i fasci di luce – non quelli del ’25 – proiettati dalla nostra mano e in grado di indicarci la via. Di numero limitato e ricaricabili solo nei checkpoint o raccogliendo idoli sparsi per le mappe, che risultano molto utili a districarsi nei diversi percorsi verso la meta, rappresentando la classica “manna dal cielo” anche se, la direzione indicata alle volte, è quella più scomoda o contraria a quella intrapresa.

Se non vedi non ci credi

Uno degli elementi maggiormente castrati è la direzione artistica dell’Inferno e delle sue creature. La ricostruzione degli ambienti rende l’insieme molto tangibile, soprattutto nei luoghi chiusi, nei quali si può notare anche una certa ripetitività di oggetti e strutture. Fortunatamente è anche in grado di offrire scorci di un certo spessore, in cui si ha davvero l’impressione di viaggiare in un luogo trascendentale. Ma questi bei momenti, in cui si può assistere a ottimi giochi di luce e direzione artistica ispirata, sono anche – e per la maggior parte – di un anonimato disarmante. Molto di quanto mostrato sa di già visto, e anche le creature realizzate ad hoc per il titolo non sono certo memorabili. Questo nonostante alcuni riferimenti cristiani palesi e soprattutto l’intento di portare il tutto verso il concetto di lussuria, anche se a volte in maniera quasi volgare e posticcia.
Gli aspetti strettamente tecnici presentano elementi senza infamia e senza lode, dove le ultime patch hanno messo la pezza su alcuni problemi – ormai classici – da day one: il framerate risulta abbastanza stabile e i vari filtri funzionano discretamente bene. È un titolo che non colpisce per pura potenza tecnica, e quel che è presente non viene nemmeno risaltato da un impianto luci di livello; la maggior parte delle volte faremo veramente fatica a vedere cosa succede. Tutto è buio… anche con una torcia in mano. Manca una vera e propria rifinitura anche dopo alcune patch riparatorie, visibile soprattutto nella gestione dei geo data e nella fisica.
Anche l’audio non spicca particolarmente, vantando un discreto doppiaggio inglese (sottotitolato in italiano) e un’adeguata campionatura di suoni “classici” da horror.

In conclusione

Dove si posiziona dunque Agony? Come potete aver capito, non è un titolo affatto eccelso, ma non si tratta nemmeno di quell’ “agonia” di cui si è spesso parlato riferendosi al titolo. È un lavoro che merita senza dubbio il Purgatorio, in attesa di una versione (Agony Unrated) che probabilmente non arriverà mai. Alla fine della fiera dunque, Agony  è un classico menù scozzese: poca roba e nulla di veramente interessante, prendere o lasciare. Vi farà arrabbiare? Probabile. Vi chiederete cosa succede? Sicuramente. Vi lascerà qualcosa? Difficile, ma non «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




God of War

A metà tra un reboot e un sequel, l’ultima fatica di Santa Monica Studio approda su PS4, perdendo la numerazione e cambiando genere da hack’n slash ad action adventure con elementi ruolistici.
Cambia anche l’ambientazione: non si affronteranno più le divinità appartenenti alla  mitologia ellenica (anche perché sono morti praticamente tutti nei capitoli passati), ma le divinità norrene (tema già trattato nell’ottimo Hellblade: Senua’s Sacrifice)

In barba all’Olimpo

Dopo aver decimato gli dei dell’Olimpo ed essere scampato alla morte, Kratos appare molto più maturo rispetto ai titoli passati: è invecchiato nell’aspetto (anche grazie alla barba), si è ritirato nelle gelide lande della Scandinavia e ha avuto un figlio di nome Atreus dalla sua nuova compagna, la quale viene a mancare all’inizio del gioco. Padre e figlio dovranno attraversare una moltitudine di insidie per poter versare le ceneri della donna dal monte più alto dei nove regni e onorare la sua memoria.
Durante questo lungo viaggio, Kratos approfondirà il rapporto con il bambino, e gli insegnerà a combattere e sopravvivere contro gli innumerevoli avversari che affronterà insieme a lui.
La storia ha un tono decisamente più maturo rispetto al passato, e viene prevalentemente raccontata durante i dialoghi tra padre e figlio, il più delle volte quando si trovano in barca mentre navigano nel Lago dei Nove, una mappa aperta dove si possono raggiungere tante aree più piccole e lineari, il loro rapporto si consoliderà proseguendo nel gioco, e Atreus, oltre a imparare a combattere, cambierà carattere a seconda di ciò che gli accadrà intorno o di come verrà trattato dal padre.

Un lunghissimo piano sequenza

Sin dalla schermata del titolo, fino ai titoli di coda, il gioco verrà mostrato con la tecnica del piano sequenza, con una telecamera sempre in movimento e alcuno stacco nel cambio di prospettiva, che segue costantemente KratosAtreus con movimenti cinematografici e cambi di zoom, mantenendo una sostanziale linearità nell’inquadratura, anche grazie al fatto che nel gioco sono totalmente assenti le schermate di caricamento, sapientemente nascoste dalle cut-scene o da piccoli segmenti di gioco interattivi.
Alla tecnica registica si affianca un comparto tecnico che fa gridare al miracolo: tutto è rappresentato con una cura ai dettagli vista raramente, sia su console che su PC, i personaggi principali sono modellati in maniera impeccabile, e i paesaggi sono ricchissimi di particolari che ammalieranno il giocatore con piante rigogliose o distese innevate o ancora ambientazioni vulcaniche.
Se a tutto ciò aggiungiamo un gameplay frenetico e che raramente scende sotto ai 30 fps anche su una PS4 standard, possiamo dire a cuor leggero di trovarci di fronte al punto più alto toccato al momento sulla console di casa Sony.
Anche il comparto audio è d’eccezione, con una colonna sonora azzeccatissima che il vincitore di Emmy Award, Bear McCreary, ha composto per il gioco, la quale adesso si sposa a meraviglia con le ambientazioni nordiche e con i temi più maturi e a volte anche più emozionanti che il titolo di Santa Monica Studio ci offre.
Anche il doppiaggio in italiano questa volta non delude rispetto a quello originale in inglese, a parte forse la voce di Atreus che sembra molto più grande rispetto alla voce anglofona, i dialoghi sono recitati benissimo e gli attori si comportano bene sia nelle situazioni comiche che in quelle più cupe.

Un’ascia chiamata Leviatano

Un cambiamento fondamentale rispetto al passato è l’arma principale di Kratos,:il nostro ex dio della guerra sembra essersi liberato delle Lame del Caos, donategli da Ares (precedente dio della guerra) e causa di innumerevoli atrocità.
Adesso lo spartano impugna l’ascia chiamata Leviatano donatagli dalla moglie, grazie alla quale si gode di un rinnovato combat system che riflette benissimo il cambio di genere del gioco: i comandi sono simili a quelli di un souls-like, con il tasto dorsale destro dedicato all’attacco leggero, il grilletto destro all’attacco pesante, dorsale sinistro dedicato alla parata con lo scudo, con il grilletto sinistro si mira con l’ascia per poi lanciarla con un attacco leggero o pesante, adesso non è più possibile saltare, ma si può schivare premendo la x , dare ordini ad Atreus con il tasto quadrato, e interagire con leve o porte o casse con il tasto cerchio.
A questo si aggiunge anche il sistema di crescita del personaggio, con un albero delle abilità con cui è possibile imparare nuove mosse o abilità legate alle armi di Kratos e Atreus; inoltre adesso anche le armature aumentano le caratteristiche dei personaggi, alle quali si possono anche aggiungere delle gemme per potenziarle ancora di più. Le armature e i potenziamenti variano per rarità, vanno dal “comune” al “leggendario”, con i classici colori che contraddistinguono le categorie, ben noti ai giocatori di action rpg à la Diablo.
Al contrario degli episodi precedenti, il gioco parte molto lentamente per permetterci familiarizzare con il nuovo sistema di combattimento. I giocatori più esperti potrebbero anche annoiarsi un po’ ma, se si ha la pazienza di andare un po’ avanti, si apprezzera l’ottimo lavoro fatto dagli sviluppatori, con un parco mosse sempre in crescita che da un certo punto in poi esploderà e non avrà più nulla da invidiare ai capitoli in puro stile hack’n slash. La varietà di modi con cui affrontare i nemici lascia di stucco, è possibile ucciderli a distanza, stordirli con Atreus, colpirli a mani nude, congelarli con i poteri del Leviatano per poi frantumarli, e tanto altro ancora.
La storia principale ci terrà impegnati per almeno una ventina di ore mentre, se si vuole esplorare ogni angolo della mappa, le due aree opzionali dedicate all’end game, finire le quest secondarie e raccogliere tutti i collezionabili ce ne vorranno almeno il doppio.

Conclusioni

God of War rappresenta il punto più alto toccato da un action-adventure in terza persona, con un valore produttivo al passo con le migliori esclusive di casa Sony, un comparto tecnico eccellente, un gameplay che riesce a stupire anche i fan più scafati degli hack’n slash, e una longevità di tutto rispetto.
Se si avrà la pazienza di superare una fase iniziale un po’ lenta, le sorprese che riserverà il gioco sapranno ripagare ampiamente l’impegno.