Cloud gaming = futuro?

Lo scorso giugno, Yves Guillemot, CEO di Ubisoft, ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere: secondo il fondatore dello studio francese, la prossima generazione di console sarà l’ultima per come la conosciamo, destinata a lasciare il posto al cloud gaming. E in effetti il futuro sembra volgere verso questo tipo di servizio, come lasciano intuire gli interessamenti da parte di Activision, Sony col suo PlayStation Now (e prima ancora, l’acquisto di Gaikai), più una miriade di servizi recenti come Nvidia Grid, Liquidsky, Vortex o Snoost. Ma la “bomba di mercato” maggiore proviene da Redmond, Washington; infatti, secondo le ultime voci, pare che Microsoft voglia creare due versioni della nuova Scarlet, nome in codice della prossima Xbox: una console “classica” e l’altra, più economica e completamente incentrata sul GooS (gaming as a service), ovvero, il cloud streaming.

Certo, le intenzioni sono interessanti, e anche sotto il profilo del progresso tecnologico sembra che il GooS rappresenti il futuro prossimo, con servizi più vicini a ciò che offre Netflix: Snoost, per esempio, prende pesantemente ispirazione dal servizio di streaming cinematografico e televisivo californiano, con piani di abbonamento che partono da 12,95€ al mese per un’esperienza a 480p, fino ad arrivare a pagare 38,85€ mensili per il gaming a 1080p. Ma il nodo gordiano della questione cloud gaming è rappresentato sempre dalle infrastrutture di rete, dove i lag spikes la fanno da padrone: prendendo per esempio il nostro paese, secondo il report dell’AGCOM scopriamo che solamente il 25% della popolazione ha accesso a una connessione internet che supera i 100Mbps, e un fortunato 2% che usufruisce di una rete FTTH (fiber to the home). Dato parecchio sconfortante, reso ancora più deprimente se controlliamo la classifica della velocità delle connessioni mondiali pubblicata da M-Lab, dove l’Italia si assesta al 43° posto, quart’ultima nazione europea.

Tornando all’attualità del cloud gaming, al momento abbiamo qualche timido servizio, come quelli citati all’inizio, e tante promesse: è il caso di Microsoft. La voce di una nuova Xbox dedicata solo ed esclusivamente allo streaming potrebbe essere la svolta decisiva per un nuovo modo di intendere i videogiochi. Non a caso, da qualche giorno molte sono le notizie che vedono l’azienda di Bill Gates intenta a tornare nel settore degli smartphone, nonostante il fallimento di Windows Phone e di Surface Phone (che, a inizio anno, rappresentavano solamente lo 0,15% della fetta di mercato!): alla fine, il motto che ha contraddistinto Xbox One è “play anywhere”, con una sorta di interconnessione tra la console e i PC con Windows 10: e se questa connessione si allargasse anche agli smartphone, così come fa Remotr? Rientrerebbe nelle classiche innovazioni a cui Microsoft aspira fin dagli inizi della sua storia.
Ma vi è anche un pericoloso precedente andato male, che riguarda una console dedicata esclusivamente allo streaming: è il caso di PlayStation TV, un piccolo media center creato da Sony per poter giocare sui televisori di casa con i titoli PlayStation Vita, coadiuvato anche dal supporto a PlayStation Now. Fu un fallimento commerciale: la piccola scatolina nera di Sony non aveva nessun appeal per i giocatori, con un costo elevatissimo per ciò che veniva offerto, e il progetto venne accantonato dopo soli due anni dall’uscita nei negozi.

Non basta il caso di PlayStation TV a rendere dubbia l’effettiva funzionalità del GooS; prendiamo sempre come esempio l’ipotetica “doppia” Xbox: come verrebbe impostato il marketing di Microsoft? Quale sarebbe la vera differenza delle due versioni, all’infuori del costo meno elevato per la versione dedicata allo streaming? E se quest’ultima avesse più problemi rispetto a una console classica, essendo legata a doppio filo dalle infrastrutture di rete del proprio territorio? Sarebbe devastante per una Microsoft non più disposta a inseguire le concorrenti nella prossima generazione di console. Certo, in caso contrario verrebbe fuori qualcosa di rivoluzionario, e rappresenterebbe davvero l’inizio di una nuova era nel gaming, ma al momento è tutto un grande “se”, visto che non si sa se effettivamente negli studi di Redmond si stia progettando una Xbox dedita esclusivamente alle funzionalità cloud.
Più concreta, invece, sembra la linea intrapresa da Activision; pochi giorni fa, il COO Coddy Johnson ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a proposito del cloud gaming:

«Pensiamo che sul lungo termine l’impatto del gaming basato sul cloud e sullo streaming sarà positivo sia per noi che per l’intera industria videoludica. Innanzitutto perché ha il potenziale di accrescere la base di videogiocatori, raggiungendo quelli che non possono permettersi una console o un PC all’ultimo grido. E, in secondo luogo, venendo in aiuto di chi gioca già, offrendo esperienze più accessibili. C’è ancora tanto lavoro da fare prima che la tecnologia possa essere disponibile per la maggior parte del pubblico, ma crediamo che prima o poi accadrà, probabilmente non a breve, ma quando verrà il momento anche Activision ci sarà.»

Insomma, i piccoli passi verso il futuro, che sia prossimo o più in là nel tempo, ci sono tutti: servizi in abbonamento come Vortex, Snoost o Gamefly sono già disponibili, mentre i giganti del settore come Sony, Microsoft e Activision guardano con interesse il gaming as a service. Il futuro del settore si giocherà su questo campo, e il calcio di inizio aspetta solamente di essere battuto.




Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




Ascesa e declino delle demo

Nella metà degli anni ‘90, diciamo più o meno con l’arrivo della prima PlayStation nei negozi, le demo erano praticamente ovunque: gran parte delle riviste videoludiche che si trovavano nelle edicole erano colme di versioni dimostrative dei titoli in uscita. Ma con l’avvento della rete a banda larga e degli store digitali, questo tipo di marketing è scomparso quasi del tutto. Cosa ha portato gli sviluppatori a cambiare metodo di promozione dei propri giochi?

Una delle principali motivazioni dell’abbandono delle demo è dovuto alla mancata imposizione da parte del mercato come modello di riferimento: semplicemente, esse non si sono rivelate efficaci come altre forme di pubblicità, come trailer e video gameplay. Questi ultimi permettono di mettere in risalto i lati migliori del titolo in uscita e nascondendo i difetti, generando così hype per il futuro acquirente.
Invece, le demo, devono riflettere lo stato attuale della lavorazione del gioco, con i suoi pro e contro: così facendo un giocatore dapprima interessato all’acquisto potrebbe ripensarci e decidere di risparmiare il proprio denaro, perché ciò che ha provato non ha rispettato i suoi standard. Questo non riguarda direttamente la scarsa qualità del prodotto o eventuali bug e glitch, ma può essere semplicemente essere una questione di gusti. Infatti, secondo Jesse Schell, game designer americano e professore di entertainment technology alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha condotto un’analisi dove è risultato che le demo dei giochi tendono a danneggiarne le vendite, piuttosto che migliorarle.

Le versioni dimostrative sono affette da un paradosso non da poco nel mondo del gaming: devono essere ben fatte, per incoraggiare l’acquisto da parte dei giocatori, ma non devono molto estese, perché un assaggio prolungato del titolo può accontentare i palati di tanti futuri acquirenti. Molte volte le demo offrono la parte iniziale del gioco completo: solitamente rappresentano la parte più semplice e poco interessante dell’intera opera. Molti giochi sbocciano dalla metà in poi, e può essere controproducente dare in prova qualcosa di non intrigante. Creare qualcosa ad hoc, come un livello bonus o una parte del gioco scritta appositamente per la demo richiede più lavoro, e quindi gli sviluppatori, col tempo, si sono concentrati di più su altre forme di pubblicità, ritenute più semplici e redditizie.
Un altro paradosso riguarda la pirateria: la “scusa” più usata da chi scarica illegamente un titolo è quella di volerlo provare sul proprio PC per vedere se funziona o se ne vale l’acquisto. In teoria, l’uscita di una demo dovrebbe scongiurare il rischio pirateria, ma non è stato il caso di Resident Evil VII: sia il gioco completo che la versione dimostrativa erano protette da Denuvo, il popolare DRM anti-pirateria. Ma la demo del titolo Capcom, uscita con due settimane di anticipo rispetto al titolo completo, ha dato tempo ai cracker di lavorare sul codice e aggirare la protezione, rendendo così disponibile l’ultimo capitolo della saga horror sui canali illegali.

Se analizziamo l’offerta attuale delle demo, prendendo per esempio lo store di Steam, si nota che la sezione omonima è abbastanza nascosta nella homepage, visto che si deve evidenziare prima il menù dei giochi e poi andare su demo: è un sistema quasi estinto e poco usato, che ha lasciato lo spazio ad altri metodi, come le open beta, i weekend gratuiti (vedi Overwatch di Blizzard) oppure, idea lanciata proprio dallo store di Valve, il rimborso. Quest’ultimo metodo pone dei limiti entro quale è possibile richiedere la restituzione del denaro speso, ovvero una finestra di tempo di due settimane dall’acquisto e non più di due ore di gioco. Pur sembrando poco conveniente, può risultare un buon metodo per non perdere i nostri sudati risparmi, soprattutto in casi dove la nostra macchina può faticare nelle prestazioni, magari anche a causa di una cattiva ottimizzazione, come accaduto per Batman: Arkham Knight.
Curioso il metodo usato, invece, su Origin, lo store di Electronic Arts: per 3,99€ mensili o 24,99€ annuali, si può diventare membri di Origin Access e approfittare del 10% di sconto negli acquisti dello store, e dieci ore di prova per i rispettivi giochi. Nonostante queste misure non vadano effettivamente a sostituire le demo, possono risultare un buon metodo per provare molti titoli.

Insomma, la situazione è molto diversa rispetto al passato: ai tempi le demo erano quasi una necessità, e acquistare una rivista o scaricare l’eseguibile da un sito web era la prassi, in un mondo dove i titoli completi erano quasi ad appannaggio dei negozi specializzati. Con il passaggio dal fisico al digitale, la necessità di provare una demo è venuta sempre di più a mancare, grazie anche a servizi come Humble Bundle o lo stesso Steam, che molte volte offrono giochi completi scaricabili gratuitamente, oppure “pacchetti” di più giochi ottenibili a un prezzo altamente competitivo. Così facendo si contribuisce alla crescita del nostro amato e odiato backlog, ma alla fine è il prezzo da pagare per l’evoluzione del medium videoludico. Potrebbe essere comodo un ritorno al passato, ma probabilmente, le demo sono scomparse perché non ne sentiamo più il bisogno come venti anni fa.




Il mondo di H.P. Lovecraft nei videogiochi

Weird Fiction, il sottogenere letterario horror legato a doppio filo con Howard Philip Lovecraft, popolare scrittore americano che, con racconti come Il Richiamo di Cthulhu, L’orrore di Dunwich e La Maschera di Innsmouth ha ispirato vari media, come televisione, cinema e musica. Prendiamo per esempio i Metallica di The Call of Ktulu o gli Electric Wizard di Dunwich. Ma il culto di Cthulhu è applicabile ai videogiochi? Per chi non conoscesse i lavori di Lovecraft, basta sapere che gran parte dei suoi scritti sono basati sull’esistenza dei grandi antichi, ognuno di essi descritto in un libro chiamato Necronomicon, quest’ultimo protagonista di un cult cinematografico come L’armata delle tenebre, ma non solo…

Cthulhu Fhtagn

Partiamo dai primi anni ‘90, dove la francese Infogrames attinse a piene mani dalla mitologia “lovecraftiana”, con tre titoli, quali il primo Alone in the Dark del 1992, Shadow of the Comet dell’anno seguente e Prisoner of Ice del 1995. Nel primo titolo, fondamentale per l’evoluzione dei videogiochi, essendo il primo survival horror della storia, abbiamo delle atmosfere fortemente debitrici al lavoro di Lovecraft (che viene citato anche nei credit), oltre alla presenza del Necronomicon e del De Vermis Mysteriis nella libreria di Jeremy Hartwood, personaggio su cui si basa l’indagine da parte di Edward Carnby.
In Shadow of the Comet, avventura grafica ispirata ai giochi Sierra, oltre al ritorno del Necronomicon fa capitolino anche la città di Illsmouth ambientata nel New England (una delle ambientazioni preferite dello scrittore americano), chiaramente ispirata alla Innsmouth de La maschera di Innsmouth, oltre a varie creature e divinità del pantheon lovecraftiano. Chiudiamo la tripletta con Prisoner Of Ice, altra avventura grafica, questa volta basata su Le montagne della follia. Il titolo si collega al precedente Shadow of the Comet, visto che il suo protagonista John Parker assumerà un ruolo molto importante nelle avventure del luogotenente Ryan tra i ghiacci dell’Antartide.

Facendo un balzo avanti negli anni, troviamo dei riferimenti lovecraftiani anche su Fallout 4, il popolare RPG di Bethesda. Ci riferiamo alla missione della casa Cabot, dove scopriamo che i suoi abitanti hanno più di 400 anni! tutto questo grazie ad un antico manufatto trovato in Arabia Saudita nel 1800. Chiaro riferimento ad Abdul Al-Hazred, colui che per primo ritrovò il Necronomicon, ottenendo così sì la vita eterna, ma a scapito della propria sanità mentale.
Passando al franchise di South Park, i fan non sono nuovi al culto di Cthulhu, visto che il grande antico che riposa a R’lyeh appare in tre puntate della serie animata legate alla morte di Kenny. Ma nel recente Scontri Di-Retti, troviamo Shub-Niggurath (presente anche nel primo Quake), noto anche come “il capro nero dei boschi dai mille cuccioli”, e, coadiuvato dalla sua armata di cultisti, rappresenta uno dei nemici più ardui da sconfiggere dell’intero gioco.

Non è morto ciò che può giacere in eterno

Uno dei giochi più curiosi è Sherlock Holmes: Il risveglio della divinità, dove il popolare investigatore creato dalla penna di Arthur Conan Doyle questa volta si occupa di misteriosi rapimenti nella città di Londra: più avanti nell’avventura scopriremo un culto di adoratori di Cthulhu atti a risvegliare il grande antico con una serie di sacrifici.
Probabilmente, il titolo più conosciuto dell’iconografia videoludica lovecraftiana è Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth, uscito tra 2005 e 2006 per la prima Xbox e per PC: il gioco prende ispirazione dal pieno immaginario dello scrittore americano, da La maschera di Innsmouth, passando per Il richiamo di Cthulhu, Dagon e L’ombra venuta dal tempo, tra le tante opere. Ancora oggi viene ricordato per la sua dedizione al mondo di Lovecraft e per la sua meccanica che fa leva sulla follia e sulle allucinazioni mentali, meccanica che troveremo anche in giochi più recenti, come l’acclamatissimo Bloodborne di From Software.

Chiudiamo con due titoli, di cui uno in arrivo fra qualche mese: partiamo con Eldritch, titolo in prima persona che ricorda molto Minecraft, e che ci permette di esplorare mondi generati casualmente, ma abitati da creature prese dal mito di Cthulhu. E, come se non bastasse, già la citazione “lovecraftiana” del titolo, il DLC si chiama Mountains of Madness, esattamente come il racconto.
Gli occhi degli appassionati sono attualmente concentrati su Call of Cthulhu di Cyanide Entertainment: il titolo, presentato recentemente all’E3 2018 prende ispirazione anch’esso da La Maschera di Innsmouth e vedrà l’investigatore privato Edward Piece atto a indagare sulla tragica morte della famiglia Hawkings, verificatasi nell’isola di Darkwater, al largo di Boston. Il gioco sembra un sequel indiretto di Dark Corners of the Earth, cosa che mette in fibrillazione gli amanti di Lovecraft ma, prima della sua uscita, stabilita per ottobre 2018, citiamo direttamente il mito del grande antico: «Nella sua dimora a R’lyeh il morto Cthulhu attende sognando».




Steam Machine e il gaming su Linux, occasione sprecata?

Facciamo un salto nel 2012: viene presentato Windows 8, nuova versione del sistema operativo Microsoft, successore di Windows 7. Anche qui non sono mancate le critiche, in primis rivolte a due delle novità appena presentate: l’introduzione del Windows Store, uno store proprietario e chiuso, simile a quello presente sui device Apple, dove non tutte le applicazioni disponibili per PC sono incluse nel negozio. Le critiche vengono principalmente dal mondo videoludico, capitanate da Notch, creatore di Minecraft che decise di non certificare la propria opera per il nuovo sistema operativo di casa Redmond. Successivamente tuonarono anche Rob Pardo di Blizzard e soprattutto Gabe Newell, capo di Valve che, con l’introduzione di Steam ha letteralmente resuscitato il gaming su PC diventando ben presto la bandiera videoludica della piattaforma, con circa il 75% dei giochi rilasciati sugli home computer di tutto il mondo.
Newell arrivò a definire il Windows Store e l’avvio protetto di Windows 8 (che praticamente impediva l’installazione di qualsiasi altro sistema operativo) una «catastrofe per il mondo PC» ed espresse pieno supporto per l’ecosistema Linux, che, a suo avviso, rappresenta appieno la filosofia open source dell’home computing. Da lì a poco tempo, arrivò prima un client ufficiale di Steam per Linux, seguito dalla modalità Big Picture e poi l’annuncio tanto atteso: il concetto di Steam Machine, un PC fortemente “consolizzato” e prodotto da terze parti come Alienware o Gigabyte, e supportato da SteamOS, sistema operativo basato su Debian (in questo caso si parla di fork, essendo una versione derivata dal sistema operativo di base) di Linux più usate ed apprezzate dagli utenti del pinguino.

Sulla carta sarebbe dovuto essere un successo: nessuna fatica per l’utente medio che vuole giocare su PC ma che, magari, è spaventato dall’assemblaggio dei vari componenti. E l’uso di una distro Linux avrebbe alleggerito molto il carico della macchina, rispetto alla pesantezza di Windows. Eppure, lo scorso Aprile, la sezione dedicata alle Steam Machine è sparita dallo store di Steam, venendo relegata a un piccolo link raggiungibile dall’esterno. Dei quattordici produttori iniziali sono rimasti solamente in tre, Alienware, Maingear e Scan Computers. Vi sarebbe anche un quarto produttore, Materiel.net, ma andando sul sito della compagnia non vi è nessuna traccia della Steam Machine.
Per tutta risposta, Valve, nonostante le esigue vendite delle macchine (si vocifera meno di 500.000 unità!) ha deciso di continuare a supportare la propria visione di un ecosistema per il gaming open source e, quindi, di sviluppare ancora Steam OS. Peccato che ci sia ancora tanto lavoro da fare, come dimostrano alcuni dati raccolti sul web.

Prendiamo ad esempio Steam OS: come detto prima, è una fork basata su Debian, una delle distribuzioni o distro più apprezzate dell’intera comunità Linux. Ma se andiamo a controllare su distrowatch.com, aggregatore di news e recensioni sulle varie distribuzioni Linux, scopriamo che Steam OS è solamente al novantunesimo posto nella top 100 delle distro più votate nel 2018. Se consideriamo che le distro Linux più apprezzate e famose, come Ubuntu, Linux Mint, Arch o lo stesso Debian sono conosciute per un costante aggiornamento e supporto, il sistema operativo di Valve, invece, ha ricevuto l’ultimo update nel gennaio 2018, uscendo dallo stato di beta solamente con la versione 2.0! Uno sviluppo abbastanza lento, considerando sia la data d’uscita del novembre 2013, che, soprattutto, il costante sviluppo che hanno altre distro Linux più o meno grandi, che sia sotto forma di rolling release (ovvero, sistemi operativi costantemente aggiornati) o delle cosiddette LTS (acronimo di Long Term Support, versioni che ricevono solamente aggiornamenti testati e sicuri e che hanno un supporto che va dai tre ai cinque anni). Il quadro della situazione non è favorito dal fatto che Steam OS possiede sì un ambiente desktop (GNOME), ma abbastanza nascosto. Il che porta l’utente Linux navigato, ma anche il neofita, a chiedersi «per quale motivo dovrei usare questa distro, quando ne esistono altre più supportate dove alla fine basta installare il client di Steam per poter usufruire della sua libreria?».
Infatti non sorprende vedere distro più quotate, come Ubuntu o Fedora, che non solo sono più in alto di Steam OS nella classifica di Distrowatch (rispettivamente al terzo e ottavo posto), ma che presentano fork specifiche per il gaming, come Ubuntu GamePack o Fedora Game Spin. Se poi aggiungiamo anche il vantaggio di supportare app come Wine (celebre emulatore delle applicazioni Windows, principalmente usato su Linux e Mac), PlayOnLinux e DOSBox, programmi che Steam OS non supporta, il dubbio diventa più che legittimo.

Il problema giochi è un’altra questione da affrontare: dal 2012 a oggi, sono solamente 5.072 su 25.563 i giochi disponibili per Linux. Quasi il 20%. Un po’ pochi per considerare non solo il passaggio totale da Windows a Linux, ma soprattutto per giustificare l’acquisto di una Steam Machine che parte da 599€, un costo molto più alto rispetto a una console attuale e molti PC preassemblati. Aggiungiamo al lotto anche la scarsa ottimizzazione di molti giochi per Linux, rispetto alle controparti Windows: cosa che si presenta soprattutto nei titoli che sfruttano le librerie DirectX. Sebbene esista qualche eccezione, in primis per alcuni giochi che sfruttano per bene le OpenGL, libreria open-source e gratis, rispetto alle DirectX, native Microsoft. Come per esempio Left 4 Dead 2, che, come provato da Valve, ha dimostrato di girare più velocemente su Linux che su Windows, questo grazie anche alla migliore ottimizzazione del motore grafico Source sulle librerie OpenGL.

Visti i risultati, non bisogna rimanere sorpresi dalla decisione di Valve di rimuovere le Steam Machine e Steam OS dalla homepage dello store di videogiochi per PC più usato al mondo. Al momento la mossa da parte di Gabe Newell e soci resta solo un curioso esperimento, e non aiuta il fatto che solamente lo 0,52% degli utenti Steam utilizzino una distro Linux. E nel sondaggio campeggiano due delle distro Linux più usate, come Ubuntu e Linux Mint, mentre di Steam OS non abbiamo nessuna traccia. Una grande occasione mancata, visto che l’ecosistema Linux è conosciuto ai più per essere particolarmente leggero e capace di resuscitare hardware dato per morto, com’è successo col mio HP 655 acquistato ben sei anni fa. All’annuncio delle Steam Machine e soprattutto di Steam OS ero particolarmente entusiasta all’idea di poter avere una sorta di PC “consolizzato” da mettere in salotto, coadiuvato, magari, da una distro Linux capace di essere usata sia come console che come media center, grazie ad applicazioni come Kodi. Alla fine il risultato ottenuto è molto lontano da ciò che pensavo: probabilmente il cambio di rotta da parte di Windows dopo le critiche per la sua ottava versione, e il ritorno in carreggiata dopo Windows 8.1 e Windows 10 (dove abbiamo avuto lo storico approdo di Linux sotto forma di subsistema) hanno fatto la loro, e la “ribellione” da parte di Gaben è solo un lontano ricordo. Tuttavia, bisogna tenere le orecchie aperte, visto che nell’ecosistema Linux, manca poco per passare dalle critiche alle lodi, com’è successo qualche anno fa con Ubuntu. Magari la distro del futuro sarà proprio Steam OS




La storia di Championship e Football Manager

1° settembre 1992: data di uscita del primo Championship Manager, sviluppato interamente in casa dai fratelli Paul e Oliver “Ov” Collyer. Ma la storia, in realtà comincia nel 1985, come narrato da loro stessi:

“Eravamo appassionati di titoli calcistici come Mexico ‘86 e l’originale Football Manager sviluppato da Kevin Toms per ZX Spectrum. Giocavamo davvero qualsiasi gioco di calcio che ci capitasse in mano e, nell’arroganza tipica della gioventù, pensammo di poter fare meglio di tutti gli altri.”

Ci vollero tanti anni per trasformare l’ambizione in realtà, visto che Paul e Ov all’epoca erano studenti universitari: il titolo prese vita nel 1991 e l’anno successivo venne pubblicato dalla Domark, publisher poi passato a Eidos,  e ora facente parte di Square-Enix.
Il primo Championship Manager, uscito per Atari ST, Amiga e successivamente MS-DOS, era un titolo rozzo, programmato in BASIC, senza licenza e munito solamente di schermate testuali al contrario di giochi dell’epoca, come The Manager o il già citato Football Manager di Toms: il gioco ricevette pure alcuni rifiuti da publisher come Electronic Arts proprio per le tante mancanze e un gameplay lento e poco vicino all’azione. Ma tutto ciò non fece demordere i Collyer, e CM divenne un piccolo fenomeno di culto in Inghilterra, oltre a essere pubblicato anche in paesi come Francia (sotto il nome di Guy Roux Manager, derivato dal leggendario allenatore dell’Auxerre), Norvegia e Italia, anche se queste ultime due versioni differivano dal gioco principale per la presenza dei giocatori reali.

Proprio il nostro paese gioca un ruolo fondamentale per la crescita del fenomeno Championship Manager, o Scudetto, come è noto ai più da noi: ai tempi la Serie A era il campionato calcistico più famoso al mondo, e nel 1993, arrivò la volta di Championship Manager ‘93 e di Championship Manager Italia, i primi sotto l’effige Sports Interactive, co-fondata proprio dai fratelli Collyer: abbandonato il BASIC, si passò al linguaggio C, e il titolo ottenne un grande successo, grazie all’arrivo dei giocatori reali e, nel caso di CM Italia, la possibilità di giocare i campionati di Serie A e B.
CM ‘93 era solo la prima pietra per il successo della serie, che arrivò nel 1995, con Championship Manager 2 e le seguenti espansioni per le stagioni ‘96/’97 e ‘97/98. Oltre a varie migliorie tecniche, venne aggiunto anche il campionato scozzese, oltre alla telecronaca a cura di Clyde Tyldesley, all’epoca cronista della BBC, che risultò essere uno dei motivi particolari per il quale viene ricordato il titolo. Ma CM 2, principalmente la versione ‘96/’97, viene ricordata per l’introduzione della Sentenza Bosman, che permette il trasferimento a costo zero di un giocatore con il contratto scaduto, o di un pre-contratto gratuito, nel caso non restino più di sei mesi di contratto con la precedente squadra, com’è successo nel recente caso di De Vrij, passato dalla Lazio all’Inter.

Tra i punti fondamentali del successo di CM, secondo i Collyer, vi è la possibilità di creare un intero universo calcistico con ogni salvataggio, pur basandosi sulla realtà, e l’incredibile lavoro di scouting interno a cura di Sports Interactive. Quest’ultima detiene possibilmente la rete più numerosa al mondo, con centinaia di ragazzi facenti parte dei gruppi di ricerca che monitorano i giocatori di circa 4.000 squadre sparse in 51 nazioni, come accade nella nostrana RIO (Ricerca Italiana Official).
A tal proposito non sorprende sapere di apprezzamenti verso il lavoro di SI da parte di allenatori come Andre Villas-Boas od Ole Gunnar Solskjaer, oltre a racconti che creano del vero proprio folklore interno, come la storia del figlio di Alex McLeish che consiglia al padre un giovane Leo Messi o dell’Hoffenheim che acquista Firmino proprio grazie alle statistiche registrate dalla rete di scouting del gioco.

Dopo il successo di CM 2, arrivò il turno di uno dei titoli più amati dai fan, ovvero Championship Manager 3, in particolare la versione 01/02 che viene tutt’ora giocata e supportata da una community attivissima che non smette di aggiornare le rose di tutto il mondo: tutto questo grazie anche al fatto che Championship Manager 01/02 sia stato reso disponibile gratuitamente dal 2009 .
Ma i problemi arrivarono nel 2003, con il rilascio di Championship Manager 4: nonostante sia stato il titolo più venduto al lancio su PC, CM 4 era afflitto da bug e mal programmato a causa delle continue pressioni da parte di Eidos. Gli utenti si lamentarono dell’engine 2D, che sembrava programmato di fretta, oltre che della pesantezza delle richieste hardware rispetto ai titoli precedenti. Per non parlare del mercato irrealistico e di squadre dilettantistiche che costruivano stadi da 850.000 posti. Non bastò CM 03/04 ad aggiustare i numerosi problemi del titolo precedente e la fine del rapporto tra Sports Interactive e Eidos divenne inevitabile, con Jacobson e i Collyer che tenettero gli asset del gioco, e il publisher che tenne i diritti del nome Championship Manager.

La storia ci insegna che Sports Interactive ha avuto ragione: la serie di Championship Manager è di fatto morta nel 2011 dopo una serie di titoli inadeguati a cura di Beautiful Game Studios, mentre Football Manager vende milioni di copie anno dopo anno, e ha ormai scolpito il suo nome nell’immaginario dei giocatori amanti del genere manageriale, oltre che dei fan del calcio, e degli adetti ai lavori: libri, spettacoli di stand up comedy e addirittura un documentario uscito nel 2014 con persone che narrano del loro amore verso il titolo SI, come ex calciatori e star dello spettacolo. Alla fine è proprio come ha detto l’ex Take That Robbie Williams, recente protagonista della cerimonia d’apertura dei mondiali di Russia 2018: «è il miglior gioco che sia stato mai creato… è un gioco, vero?»