Nel Football Manager che vorrei, regen a cinque stelle e 666

Football Manager è più di un normale gestionale calcistico. È parte della vita di ogni allenatore virtuale che si rispetti, talmente tanto da costringerci a compiere azioni che “normalmente” non nessuno farebbe: basta chiedere a chi ha affrontato una stagione con la Lazio mentre la moglie era in travaglio, per esempio; oppure al conteggio delle mie ore passate su FM dal 2012 a oggi, più di 5000 giri d’orologio passati a imprecare contro i movimenti sbagliati dei miei difensori o a esultare per una promozione in Serie A col Palermo ottenuta sul filo di lana.
Insomma, come diceva Robbie Williams, «è la cosa migliore che abbia giocato in vita mia», ma è sempre così? I forum, d’altronde, traboccano di suggerimenti degli appassionati diretti agli sviluppatori di Sports Interactive. Quindi, da buon fan, mi unisco a loro: ecco cinque cose che vorrei su Football Manager 2020.

#1: più elementi ruolistici

“Ma Football Manager è un manageriale, mica un GDR” direte voi. Eppure Miles Jacobson, head director di Sports Interactive, intervistato da PC Gamer, ha detto «è uno strategico, ma anche un GDR. Ha più personaggi non giocanti (o NPC) di qualsiasi altro gioco di ruolo al mondo, permettendo di creare una storia unica, completamente diversa da giocatore a giocatore». Proprio perché FM è una simulazione con elementi ruolistici, c’è bisogno di sentire la crescita del nostro allenatore virtuale. Per questo vorrei che in FM 2020 si potessero finalmente allenare le giovanili dei club, magari delle serie inferiori, non avendo requisiti particolarmente alti, imitando in qualche modo il percorso di alcuni ex calciatori, poi diventati allenatori, come Fabio Grosso, passato dalla primavera della Juventus all’Hellas Verona.
E a proposito degli elementi GDR, sarebbe molto apprezzato un intervento mirato allo stipendio che percepiamo durante la stagione, cosa che, al momento, è praticamente inutile. Perché non stimolare l’aspetto ruolistico del gioco, usando proprio i soldi che riceve il nostro allenatore virtuale, nel miglioramento delle skill tramite vari corsi da frequentare, seguendo il modello dei patentini? E a proposito di quest’ultimi, sarebbe ancora più intrigante vedere la nostra reputazione crescere in base ai risultati ottenuti durante le stagioni, rispetto ai patentini ottenuti. Non vedo perché un allenatore senza patentino che vince un campionato di Prima Categoria debba valere meno di qualcuno più qualificato, ma reduce da un esonero o da una retrocessione. D’altronde, Maurizio Sarri è partito proprio ottenendo promozioni nei campionati inferiori, per poi compiere la scalata che lo ha portato ad allenare il Chelsea

#2: Sui giovani d’oggi non ci scatarro su

I cosiddetti newgen (o regen), ovvero i giovani creati dal gioco che, in un periodo della stagione, arrivano nel nostro settore giovanile. Amati da molti, odiati da alcuni, un buon lavoro di scouting può permetterci di scovare quel regen dalle potenzialità incredibili e che potrebbe migliorare, grazie alla mano dello staff e al tutoring di qualche giocatore più esperto. Purtroppo, i giovani soffrono di un problema atavico della serie, dovuto al loro mercato: molte volte, quando finalmente si trova quel giovane dall’abilità potenziale da almeno quattro stelle su cinque, e si cerca di acquistarlo, la squadra detentrice del cartellino “spara” pretese impossibili (per esempio, 50 milioni per un giocatore che al momento vale 300.000€). Se questo modus operandi è plausibile per un giocatore ritenuto fulcro di una squadra (citando un esempio di qualche anno fa, i 100 milioni di euro richiesti da Urbano Cairo per Andrea Belotti del Torino), trovo francamente insensato un salto così alto per un giovane che potrebbe avere sì grandi potenzialità, ma difficilmente usciranno fuori da una squadra dalle caratteristiche inferiori rispetto una squadra di mezza classifica in Serie A. D’altronde, nella scorsa sessione estiva di mercato, l’Empoli ha acquistato il cartellino di Antonino La Gumina dal Palermo per nove milioni…
A parte il folle mercato dei regen, trovo che sia più realistico veder arrivare nuovi giocatori nelle giovanili già dall’inizio della stagione, rispetto ai regen apparsi in Italia nel mese di marzo, quando la stagione calcistica si avvia alla conclusione. Chissà, magari potremmo trovarci in casa un potenziale exploit come Cutrone da inserire piano piano nelle gerarchie della squadra già dalla preparazione estiva.

#3: «stai zitto lo dici a tuo fratello»

Diciamoci la verità: le conferenze stampa su Football Manager sono sempre la solita solfa, noiose e ripetitive. Molti giocatori infatti, preferiscono affidarle al proprio allenatore in seconda e a questo punto: perché non inserire un po’ di “pepe“? Magari sempre affidandoci all’elemento ruolistico? Nel profilo del nostro allenatore troviamo la nostra reputazione dettata dai colleghi. Perché non inserire anche giornalisti e opinionisti al novero? Magari non è tanto di costume in Inghilterra come da noi (basti pensare alla lite Varriale-Zenga o alla recente querelle tra Adani e Allegri), però potrebbe dare quel quid in più che manca a FM. Volendo, si potrebbero sfruttare i dissapori contro i giornalisti di settore (o alcune fonti velenose nei nostri confronti) per indurre un silenzio stampa da parte della nostra società, atta a proteggere non solo noi, ma anche la squadra e il suo morale.

#4: Un po’ di comodità in più…

Football Manager è un gioco a cadenza annuale, come molti altri del genere: mi viene da pensare, per esempio, a Out of the Park Baseball. OOTP, così come FM, condivide l’immensa mole di dati e l’attenzione per il lato manageriale del cosiddetto diamante. Ma il titolo di Out of the Park Developments ha un vantaggio: la possibilità di migrare i salvataggi dal titolo precedente a quella nuova. Trovo assurdo che un titolo molto venduto come il manageriale di Sports Interactive non abbia questa comodità in più che sicuramente sarebbe gradita dai fan. Anche perché, affrontare una carriera lunga magari una dozzina d’anni, per poi essere costretto a ricominciare tutto da zero è, francamente, fastidioso. E credo anche che una scelta del genere aiuterebbe molti modder della scena, come Claassen, a non dover ricompilare una mole assurda di dati solamente per modificare qualche promozione o retrocessione.

#5: Un mondo migliore

A proposito di spunti da prendere da altri titoli, porto come esempio Motorsport Manager di Playsport Games e distribuito da SEGA, proprio come FM: una delle cose che più apprezzo di questo manageriale motoristico è la possibilità di votare il regolamento della stagione successiva, rendendo così il mondo di gioco più dinamico, aggiungendo un po’ di strategia in più, se pensiamo alla nostra scuderia. Tutto ciò potrebbe (e dovrebbe) essere applicabile anche su Football Manager, visto che il mondo del calcio è in costante evoluzione: è un po’ strano vedere la VAR disponibile in game nelle sole Serie A, Bundesliga e Liga quando, nella realtà, viene decisa l’introduzione della tecnologia a partire dagli ottavi di Champions League o nei prossimi playoff e playout di Serie B. Ma a parte l’applicazione di VAR e Goal Line Technology, sarebbe interessante vedere dei punti di penalizzazione in classifica dati dal gioco, senza dover intervenire obbligatoriamente nell’editor esterno: basta vedere l’ingarbugliata situazione della Serie B degli ultimi anni per avere un esempio. Per quanto sia una situazione complicata, il tutto darebbe quel tocco di realismo del quale Football Manager s’è sempre fatto alfiere. D’altronde, se viene simulata la brexit nel gioco, non vedo perché non si possa applicare lo stesso ragionamento anche per ciò che riguarda direttamente il mondo del calcio.




The Movies e l’avanguardia videoludica

«Basito lui, basita lei, macchina da presa fissa, luce un po’ smarmellata e daje tutti che abbiamo fatto!» era una delle frasi di René Ferretti, regista della fiction Occhi del cuore 2 la quale lavorazione è stata narrata nella serie televisiva cult Boris. Eppure nel 2005, due anni prima della serie italiana era uscito un videogioco che narrava le storie e i meccanismi dell’industria della celluloide. Era The Movies di Lionhead Studios, software house fondata da Peter Molyneux, una delle menti videoludiche più visionarie di quegli anni.

L’anno è il 1997: Molyneux, allora fresco del successo ottenuto con i due Popolous, uscì da Bullfrog per inseguire la sua visione dedicata a giochi innovativi per gli anni a venire. Così nacquero i Lionhead Studios che partirono subito in quinta con due giochi dall’ottimo successo di critica e vendite come il simulatore dei Black & White e il primo capitolo di una saga fantasy capace diventare una delle esclusive più apprezzate e amate della prima Xbox: Fable.
Come terzo gioco il game designer britannico decise di cambiare genere e di creare un gestionale basato sulla storia del cinema e sulla creazione di un lungometraggio: così nacque The Movies, anch’esso un grande successo di critica, tanto da vincere un BAFTA (l’equivalente inglese degli oscar del cinema) come miglior gioco di simulazione del 2006. Purtroppo le vendite non furono entusiasmanti, ma il titolo seppe ritagliarsi un grande spazio sul web. Ma a questo ci arriveremo dopo.
The Movies comincia la sua storia negli anni ‘20, durante gli albori della cinematografia. Il nostro compito è quello di gestire il nostro studio cinematografico e di creare dei lungometraggi capaci di ottenere dei premi (gli Stanley, parodia degli Oscar) e generare profitto. Sta a noi assemblare la troupe più adatta al film, con sceneggiatori adatti a uno dei cinque generi (sentimentale, fantascienza, horror, azione e commedia) a disposizione nel gioco, il giusto regista, gli attori protagonisti, le comparse e altri addetti ai lavori come operatori di macchina, ciakkisti, microfonisti e via dicendo. Una delle particolarità di The Movies è che ripercorre la storia dell’umanità legata ai rispettivi film: ciò significa che durante la grande depressione ci sarà bisogno di più commedie, mentre il pubblico chiederà più film fantascientifici durante la corsa allo spazio degli anni ‘60, oppure il periodo successivo alla seconda guerra mondiale vedrà l’affermarsi della cinematografia horror. Sarà altrettanto importante pensare ai bisogni delle nostre star: stanchezza? depressione? Nessun problema, un bel bicchiere di whiskey o una pizza e passa tutto… ma occhio a non esagerare, perché l’alcolismo e la perdita del giusto peso forma per un attore di film d’azione sono dietro l’angolo.
Insomma, il titolo Lionhead è frutto di un grandissimo lavoro di ricerca e dedizione del mondo cinematografico, ma offre anche un’innovazione senza pari per i tempi. Infatti, il titolo creato da Molyneux e soci permetteva di creare un cortometraggio di massimo venti minuti usando l’editor del gioco! Basta usare la “modalità avanzata”, dove si può creare un copione con tanto di storyboard; Qui si possono modificare gli oggetti di scena, lo sfondo, le condizioni atmosferiche e i movimenti degli attori. Dopo aver registrato tutto la palla passa alla post-produzione: qui si possono aggiungere titoli di testa e di coda, musica, effetti sonori, sottotitoli e dialoghi, questi ultimi addirittura registrabili dai giocatori, ma usando frasi brevi, così da sfruttare il lip-synch e dare agli attori un labiale corretto.
In conclusione, il filmato può essere salvato come file proprietario oppure in vmw per caricarlo in rete. Infatti uno dei punti di forza di The Movies era la sua comunità rappresentata da The Movies Online, dove Lionhead aveva pensato a un sistema di economia interno davvero rivoluzionario, oltre a gestire la selezione delle migliori opere: infatti caricare un film sul portale online fruttava 500 crediti virtuali, mentre una recensione permetteva di guadagnarne 200. I crediti ottenuti potevano essere spesi nel gioco per l’acquisto di costumi, oggetti di scena e set, oppure per pubblicizzare la propria opera sul sito. Dopo l’arrivo della prima e unica espansione del titolo chiamata Stunts & Effects, che aggiungeva al gioco nuovi costumi, la possibilità di usare gli stuntman durante le scene più pericolose e quella di creare dei veri e propri poster pubblicitari da usare su TMO, al costo di 10.000 VC.

The Movies Online chiuse nel 2008, dopo soli tre anni di vita, due milioni di visitatori e oltre 9000 ore di film caricati dai fan. Il titolo Lionhead è stato fondamentale per la creazione dei cosiddetti machinima, una tecnica per creare brevi cortometraggi nata grazie l’editor di alcuni giochi come Grand Theft Auto IV, il Source Film Maker (famoso per essere usato da alcuni content creator come l’italiano The Pruld) e, appunto, The Movies, vero e proprio precursore di questa tecnica soprattutto grazie alla versione per Mac, capace di esportare i filmati su iPod e di interfacciarsi con la suite iLife, contenente programmi come Garage Band per la musica e iMovies per l’editing video.
Nonostante alcuni paletti tecnici, The Movies godette di parecchia fama in questo settore, tanto da far nascere alcune community tuttora attive, come lo spagnolo The Movies Cinema.
Poco dopo l’uscita di The Movies e del secondo Black & White, Lionhead Studios divenne proprietà Microsoft nel 2006, attirata dal successo del primo Fable. I due sequel usciti rispettivamente nel 2008 e nel 2010 non riscossero lo stesso clamore tra i fan e Molyneux abbandonò poco prima l’uscita di Fable: The Journey, controverso titolo che faceva leva sul Kinect, per incomprensioni artistiche con Don Mattrick, capo della divisione gaming Xbox. Quest’ultimo voleva spingere più sul lato casual, mentre lo sviluppatore inglese cercava un approccio più innovativo; il tempo avrebbe dato ragione a Molyneux, ma Lionhead navigava in cattive acque senza il suo fondatore. Lo studio venne chiuso da Microsoft nel 2016, dopo il fallimento del progetto Fable Legends, che sarebbe dovuto essere un MMORPG, ma il titolo venne cancellato dopo due anni di lavoro.
Molyneux non restò con le mani in mano e fondò 22 Cans, un piccolo studio che ha rilasciato tre titoli particolari come Curiosity: What’s inside the cube?, a detta del game designer, un esperimento sociale multiplayer, Godus, mal riuscito tentativo di reinventare il genere del god game a la Popolous e The Trail: Frontier Challenge, un particolare walking simulator pubblicato sulla piattaforma indipendente Kongregate, oltre che sugli store mobile, Steam e Nintendo Switch.
E The Movies? Sembra assurdo, ma con l’acquisizione di Lionhead da parte di Microsoft e la scadenza della licenza da parte di Activision, il gioco è stato rimosso da Steam nel 2014 ed è tuttora impossibile giocarci a meno di avere una copia fisica da usare con una macchina virtuale con Windows XP o un computer apposito. Il titolo è molto richiesto su gog.com e figura ancora su SteamDB, quindi la speranza di rivederlo nello store Valve è non è ancora morta.
Dopo tredici anni dalla sua uscita possiamo dire che The Movies rappresenta al momento il canto del cigno creativo di Lionhead Studios e di Peter Molyneux, game designer che non ha più raggiunto certi livelli di creatività e innovazione. Sarebbe bello avere un nuovo The Movies Online, che grazie alla diffusione dello streaming su piattaforme come Twitch potrebbe trovare nuova linfa tramite vere e proprie riproduzioni di machinima creati con l’editor del gioco, come se si andasse al cinema per vedere l’ultimo blockbuster appena uscito. Il bello di The Movies è proprio qui: non era solo un semplice gestionale, ma un modo per stimolare la creatività tramite la realizzazione di un cortometraggio. Non so voi, ma da fan del gioco sogno da anni di poter tornare ad esclamare “motoreii”, come un novello René Ferretti.




NOstalgia

Una delle notizie più importanti della settimana è sicuramente la line-up dei venti giochi annunciati per PlayStation Classic: una serie di titoli che, nella comunità videoludica, ha lasciato più dubbi che certezze, soprattutto in base all’elevato costo del prodotto (100€ tondi tondi). Ma andiamo ad analizzarli uno per uno:

  • Battle Arena Toshinden: è il primo picchiaduro 3D uscito per la console di casa Sony. All’epoca generò anche un piccolo interesse (addirittura la rivista Game Power gli diede un pazzesco 105/100!), ma diciamo la verità: era brutto allora, ed è incredibilmente brutto dopo più di vent’anni dalla sua uscita, soprattutto se paragonato a Tekken, che uscì poco dopo. Avrei preferito molto di più Soul Edge, la base dell’odierno Soul Calibur.
  • Cool Boarders 2: il migliore della serie, con molta probabilità… però, se proprio dovevamo buttarci sugli sport estremi, non era meglio un Tony Hawk’s Pro Skater, titolo molto più iconico?
  • Destruction Derby: qua non ho niente da dire. Anche se, preferisco il seguito che migliora le buone cose viste nel predecessore. Però una buona scelta, nel complesso.
  • Final Fantasy VII: capisco enormemente il valore storico di questo titolo per PlayStation. D’altronde, è stato il primo della serie “sbarcato” sulla console Sony dopo anni sulle console Nintendo… però, con un remake in arrivo (ok, non si sa quando, arriverà) avrei preferito una scelta più traversale come un Suikoden II o un Legend of Dragoon. Però, ripeto, capisco la sua presenza.
  • Grand Theft AutoRockstar lo rese abandonware su PC anni fa, insieme al secondo. Scelta illogica sotto ogni punto di vista, anche perché si parla di un titolo che nasce e diventa di culto su PC, per poi esplodere del tutto solamente col passaggio alla terza dimensione su PlayStation 2.
  • Intelligent Qube/Kurushi: qui voglio spezzare una lancia a favore di questo puzzle. Non è il migliore dell’intera libreria PlayStation (a quello ci arriveremo dopo), però apprezzo che abbiano messo un titolo contenuto nella storica Demo One. E poi, è pure un buon puzzle game, anche se non è invecchiato proprio benissimo.
  • Jumping Flash: stesso discorso fatto prima per I.Q., uno dei primissimi titoli PlayStation. Forse non invecchiato benissimo in alcune meccaniche, ma per il valore storico ci può stare.
  • Metal Gear Solid: niente da dire, imprescindibile. Senz’ombra di dubbio uno dei cinque titoli più importanti di tutta la sconfinata produzione PlayStation.
  • Mr. Driller: Bel puzzle, però qui avrei messo un Kula World che avrebbe accontentato molta più gente, essendo forse il puzzle più giocato dei tempi.
  • Oddworld: Abe’s Odyssee: altro titolo storico dell’epoca, e anch’esso contenuto nella Demo One. Peccato solo che Steam lo abbia offerto gratuitamente lo scorso Maggio, ed è almeno la seconda volta che succede.
  • Rayman: considerando la recente operazione remake per Crash Bandicoot, alla fine, proporre la “mascotte” Ubisoft è una saggia scelta. Anche perché, non vedo platform migliori del primo Rayman all’orizzonte, visto che le alternative sono tutte invecchiate malissimo (Pandemonium), sono titoli mediocri (Croc), oppure erano già orrendi ai tempi (Bubsy 3D).
  • Resident Evil: Director’s Cut: anche qui niente da dire. Titolo che ha segnato intere generazioni di giocatori. L’unica cosa che mi fa storcere il naso è che è tutt’ora disponibile sullo store PlayStation anche se solo per PlayStation 3, PS Vita e PSP. Stessa sorte condivisa anche dal sequel, altro titolo importantissimo nella libreria, che probabilmente avrebbe meritato uno spazio maggiore anche in questa lineup.
  • Revelations: Persona: capisco il clamore dato dal quinto capitolo, essendo stato uno dei migliori giochi del 2017, ma alzi la mano chi creda che il primo Persona sia un classico. Non era meglio un titolo veramente generazionale come Wipeout 2097 e che ai fatti rappresenta una delle assenze più gravi di questa line-up?
  • Ridge Racer Type 4: forse per correttezza storica avrei scelto il primo, ma RRT4 con molta probabilità è il migliore della serie. E in assenza di un pezzo da novanta come Gran Turismo, non presente per problemi con i diritti della colonna sonora, non si poteva scegliere altro.
  • Super Puzzle Fighter II Turbo: se proprio bisognava mettere un terzo puzzle (forse troppi?) non si poteva fare scelta migliore di questo spin-off di Street Fighter. Uno dei migliori titoli del genere per la console.
  • Syphon Filter: personalmente, lo ritengo la sorpresa inaspettata della line-up. Una buona mossa da parte di Sony che accontenta i tantissimi giocatori che chiedono ancora a gran voce un remake per PlayStation 4. Per testare le acque in prospettiva futura ci sta.
  • Tekken 3: IL picchiaduro per PlayStation, senza ombra di dubbio. Certo, stona un po’ vedere Tekken 3 insieme a Toshinden… a sfavore di quest’ultimo, ovviamente.
  • Tom Clancy’s Rainbow Six: ecco, questa è una scelta veramente incomprensibile. Davvero non c’erano titoli migliori a disposizione? Che poi, vorrei vedere chi riesce a giocare un FPS tattico con la sola croce direzionale, visto che PlayStation Classic non offre lo storico controller Dual Shock, scartato a favore del primissimo joypad. Schiaffo morale a tutti coloro che speravano in titoli storici come Wipeout, Tomb Raider o Castlevania: Symphony of the Night (sì, è uscito recentemente su Playstation 4 insieme a Rondo of Blood, ma è uno dei titoli più rappresentativi della console).
  • Wild Arms: stesso discorso per Syphon Filter, una gradita sorpresa per un gioco di ruolo che merita di essere riscoperto, visto che all’epoca arrivò in Europa in colpevolissimo ritardo rispetto all’uscita giapponese e americana.

https://www.youtube.com/watch?v=88ACUOvfDEw

Insomma, una lineup non proprio esaltante, soprattutto rapportata al prezzo elevato della console rispetto alle concorrenti del settore, come NES e SNES Mini di Nintendo o il C64 Mini. È altresì vero che è difficile scegliere venti classici di una libreria vastissima e piena di perle come quella della prima PlayStation, ma vedendo la lista citata poc’anzi, mi viene da pensare che Sony si sia limitata al compitino fatto giusto per entrare nell’ormai affollatissimo mercato delle retroconsole. In pratica, la possibilità di avere una lista fatta a nostro gusto e piacimento è in mano alla comunità hacker, esattamente com’è successo con le mini console di Nintendo. A questo punto la domanda è più che lecita: tralasciando il collezionismo, ha senso spendere 100€ per un oggetto che diventerà godibile solamente quando si apriranno le porte del modding? Se proprio si ha la necessità di rispolverare dei vecchi classici dell’era PlayStation, a proprio piacimento e senza spendere una cifra così alta, non ha più senso buttarsi su un Raspberry Pi, oppure una cara e vecchia PlayStation Portable, console che si trova a prezzi abbordabilissimi e che è considerata una perfetta macchina per l’emulazione? considerando la portabilità di quest’ultima, si ha pure una feature in più, rispetto a PlayStation Classic.
Indubbiamente la mini console di Sony sarà un successo di vendite e magari, in futuro, la casa giapponese ci riproverà con una ipotetica PlayStation 2 Classic. Dopotutto, Nintendo con il successo di NES e SNES Mini ha dimostrato che la nostalgia può trasformarsi in un’opportunità di mercato parecchio ghiotta. Ma, da videogiocatore trentenne che ha vissuto in pieno l’era della prima PlayStation, posso dire di esser rimasto parecchio basito (“F4”) davanti alla line-up della mini console e ho cominciato a pormi una domanda in particolare: qual è il target di PlayStation Classic? I trentenni, come me, che hanno vissuto quell’era? I ragazzini odierni che per motivi anagrafici non hanno giocato i classici di allora e che probabilmente, avranno riscoperto gran parte di essi tramite remake e remaster odierne, oppure tramite la vecchia e cara emulazione, cosa che di fatto offrono queste mini console?
Sono fermamente convinto che l’emulazione sia qualcosa di necessario per la preservazione videoludica, come dimostra il grande lavoro di Nicola Salmoria, creatore del MAME, progetto che continua ancora oggi grazie alla dedizione dell’omonimo team che ha permesso di salvare dall’oblio migliaia di giochi arcade che sarebbero stati persi nei meandri del tempo o come dimostra la grandissima scena abandonware su PC. Bella la nostalgia, ma sulle mini console metto l’enfasi sulle prime due lettere della parola:”no”.




Ode a Sega Dreamcast

«It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90, quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…

Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal, Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel 2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi completa come raramente s’era vista prima di allora.
Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10.
Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet. Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star Online.

Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena (del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online.
Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo, interne e non, che decidevano di supportarne la causa.
Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio, Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico dei picchiaduro.
Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che, nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi.
Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico, disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore.
Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast.




Calcio e videogiochi: un legame radicato nel tempo

Negli ultimi anni il fenomeno degli eSport ha dimostrato quanto sia forte il legame tra il mondo dei videogiochi e quello dello sport, soprattutto se consideriamo il formarsi di squadre e leghe professionistiche, come la Overwatch League o il tesseramento di molti pro player da parte delle squadre di calcio, com’è successo in Italia con Mattia “Lonewolf92” Guarracino tesserato dalla Sampdoria.
In realtà, questi due mondi avevano già molte cose in comune, già a partire dalla metà degli anni ‘80: stiamo parlando delle sponsorizzazioni di vari publisher e sviluppatori sulle maglie di molte squadre di calcio dal blasone nazionale e internazionale. In questo numero di EVOL faremo un excursus storico su questo tema.

Partiamo dagli inizi: dobbiamo la palma di pionieri del genere alla Commodore, allora tra i leader del settore videoludico. Dal 1988 fino al ‘92/’93, l’azienda fondata da Jack Tramiel è apparsa sulle maglie del Chelsea: i tempi dei petrodollari di Roman Abramovich e del tatticismo di Maurizio Sarri erano ancora lontani, visto che la squadra londinese retrocesse in Second Division (la attuale Championship) alla fine della stagione ‘87/’89, salvo poi ritornare in First Division (ora Premier League) dopo un anno per poi veleggiare in zone di metà classifica. Nella stagione ‘93/’94 vi fu una piccola sostituzione: da Commodore si passò ad Amiga, però senza cambiare risultati, visto che la squadra allora allenata da Glenn Hoddle finì la stagione al quattordicesimo posto, perdendo inoltre la finale di FA Cup contro il Manchester United.
Commodore nel frattempo finì anche sulle maglie del Bayern Monaco in Germania dal 1984 fino al 1989, ottenendo risultati decisamente migliori rispetto ai blues, visto che i bavaresi vinsero ben quattro scudetti, una coppa e una supercoppa di Germania. Risultati analoghi anche in Francia, visto che il Paris Saint Germain, dal 1991 al 1995, vinse due coppe di Francia, una coppa di lega e un campionato nazionale.

Passiamo a Sega, che cominciò a sponsorizzarsi in casa con il JEF United, squadra di Ichihara che dal 1992 al 1996 ottenne solamente dei risultati da mezza classifica. Ben più celebre, invece, l’operazione di marketing che portò Arsenal, Deportivo La Coruña, Saint-Etienne e Sampdoria ad avere il logo di Sega Dreamcast sulle maglie. Fu un’operazione che per molti decretò il flop dell’ultima console della casa giapponese, anche a causa del costoso accordo con i “gunners”. Alla fine, solamente la squadra allenata ai tempi da Arsene Wenger ottenne dei buoni risultati nel triennio che va dal 1999 al 2002, con un Charity Shield (oggi Community Shield), una FA Cup e un campionato vinto. La Sampdoria finì quinta in Serie B per le due stagioni (1999-2002), mentre la singola stagione (2001) della console Sega sulle maglie della squadra francese e spagnola non regalarono molte gioie, visto che il Deportivo arrivò secondo e staccato di sette punti dal Real Madrid e, il Saint-Etienne, addirittura retrocesse in Ligue 2.
Curiosamente, Sega aveva già avuto legami con il calcio nel nostro paese, con le indimenticabili pubblicità di Master System II, Game Gear e Mega Drive con protagonisti Walter Zenga, Gianluigi Lentini e l’attuale CT della nazionale italiana Roberto Mancini, allora stella della Sampdoria campione d’Italia nel 1991.

Dopo Sega è il turno di Nintendo: l’associazione più nota è quella con la Fiorentina dal 1997 fino al 1999, anni dove i viola finirono nella parte alta della classifica andando a un passo dallo scudetto nel 1998 (alla fine ottennero un terzo posto), sfumato per il grave  infortunio ai danni di Gabriel Omar Batistuta, capitano e stella della squadra. Ben prima invece, nella stagione 1992-1993 il Siviglia di Diego Armando Maradona, sponsorizzato dal Super Nintendo, concluse la stagione al dodicesimo posto. Invece, in madrepatria, l’azienda di Kyoto detiene il 16,6% della proprietà del Kyoto Sanga FC, squadra che vivacchia in seconda divisione e che ha avuto il suo piccolo momento di gloria nel 2002, con la vittoria della Coppa dell’Imperatore.

Storia travagliata, invece, per quanto riguarda Atari: se gli appassionati si ricorderanno della maglia del Lione dal 1999 al 2001 con i loghi dell’azienda, oltre che di Infogrames, e capace di vincere una coppa di lega francese, pochi sapranno che la compagnia fondata da Nolan Bushnell e Ted Dabney era coinvolta, sotto l’agglomerato di aziende della Warner Corporations, in una importante fetta dei New York Cosmos e della North American Soccer League. All’epoca il calcio statunitense era fortemente amatoriale, ma grazie alla mostruosa disponibilità economica derivante dal gruppo Warner, i Cosmos riuscirono ad acquistare Pelè, probabilmente il più forte calciatore di tutti i tempi. La compagine della grande mela riuscì a vincere ben tre campionati dal 1977 al 1980, non solo grazie all’apporto di “o rey”, ma anche con l’arrivo di vecchie glorie sulla via del ritiro, come Franz Beckenbauer o la leggenda della Lazio, Giorgio Chinaglia. Purtroppo la NASL, l’allora campionato di calcio nordamericano, cessò di esistere nel 1984, con squadre soffocate da debiti e con sponsor sull’orlo del fallimento: tra di esse vi era proprio Atari, reduce dal flop commerciale del tie-in di E.T. che, non solo causò il celebre crash dei videogiochi, ma anche il fallimento sia dei New York Cosmos, che della NASL stessa.

L’unica big che manca al riassunto è Sony: pur essendo conosciuta anche per il marketing rivoluzionario e al passo con i tempi, l’azienda giapponese ha solamente sfruttato il marchio PlayStation per sponsorizzare l’Auxerre, squadra francese che milita attualmente in Ligue 2 e che, dal 1999 al 2006 ha solamente vinto due coppe di Francia. Ben più nota invece, la sponsorizzazione dell’azienda madre sulle maglie della Juventus dal 1995 fino al 1998, anni dove la “vecchia signora” vinse due scudetti, due supercoppe italiane, una supercoppa UEFA, una coppa intercontinentale e la Champions League del 1996, vinta contro l’Ajax.

Concludiamo con un rapido excursus riguardanti altre compagnie: Capcom sulle maglie del Cerezo Osaka dal 1994 al 1996, Konami su quella dei Tokyo Verdy dal 1999 al 2001, la brevissima parentesi natalizia di Pro Evolution Soccer 2009 con la Lazio, il rivale FIFA con lo Swindon Town dal 2011 al 2014, Football Manager sponsor del Watford nella stagione 2012-2013, Ocean Software che sponsorizza Jurassic Park nelle maglie dell’FC Martigues nel 1993 e la partnership tra Eidos e il Manchester City dal 1999 al 2002.

E attualmente? Le uniche presenze videoludiche nel calcio attuale sono limitate solamente a due squadre: una è l’AFC Wimbledon, squadra di League One inglese (il corrispettivo della nostra Lega Pro, per intenderci) che, dal 2002 a oggi viene sponsorizzata da Football Manager, venendo pure usata nelle immagini dimostrative del popolare manageriale calcistico di Sports Interactive. L’altra squadra ad avere forti legami col settore videoludico sono i Seattle Sounders della Major League Soccer americana, sponsorizzati da Microsoft: nel 2009-2010 con il logo di Xbox Live e dall’anno successivo semplicemente dalla console di casa Redmond. I Sounders vantano nel loro palmares una vittoria della MLS nel 2016 e una U.S. Open Cup nel 2014.

La storia ci insegna che il calcio, ma anche molti altri sport (su tutti il wrestling, e cito due nomi: Xavier Woods e Kenny Omega, quest’ultimo addirittura nei panni di Cody in un trailer per Street Fighter V) hanno un legame fortissimo con i videogiochi, e il recente interessamento del CIO per gli eSport ha radice ben più profonde del semplice interesse economico.




Le novità di Football Manager 2019

La fine di Settembre porta con sé dei cambiamenti, come il passaggio dall’estate all’autunno e un clima più fresco. Ma per i fan di Football Manager significa anche l’arrivo delle nuove feature presenti nel nuovo capitolo del gioco di Sports Interactive. Alcune di esse sono state annunciate da poche ore, con altre novità in arrivo nei prossimi giorni. Ma bando alle ciance, ed entriamo subito in campo!

Nuova UI

L’interfaccia di gioco è stata migliorata per essere resa più “leggibile” da neofiti e veterani, oltre a richiamare “la fine di un’era”, ovvero il cambio dell’ormai storico logo e della copertina. In più la grafica sarà la stessa per tutte le versioni del gioco, che sia quella desktop (PC e Mac, quest’anno niente Linux) che Football Manager Touch (PC, Mac e Nintendo Switch) e Football Manager Mobile (iOS e Android)

Nuova sezione d’allenamento

Una delle richieste più frequenti da parte degli allenatori virtuali era quella di ridisegnare la sezione degli allenamenti, da anni poco intuibili e molte volte lasciate alla gestione degli allenatori in seconda: dopo mesi di studio e conferenze con gente del settore, come preparatori, direttori sportivi e allenatori sia di club che delle nazionali i ragazzi di Sports Interactive sono riusciti a creare quella che potrebbe essere una delle novità maggiori della serie da molti anni a questa parte. Ma andiamo con ordine.

Dite addio a sessioni di allenamento giornaliere dedicate solo a un’area: questa volta gli allenamenti saranno divisi in tre parti per giorno, con dieci aree da decidere o da lasciar decidere all’allenatore in seconda: per esempio, la vostra squadra soffre nei calci piazzati avversari? Basta aumentare l’allenamento nella “difesa sulle palle alte” per limare il difetto della vostra rosa. Dite addio anche ai generici allenamenti in difesa e attacco, visto che si potrà sviluppare ogni mentalità e movimento che richiede la vostra tattica, come l’attacco sulle fasce, quello centrale oppure il possesso palla atto a creare opportunità da rete. Tra le novità abbiamo anche l’allenamento pre-stagionale, finalmente evidenziato nel calendario, essendo uno dei momenti cruciali dell’anno: una buona sessione estiva può dare i suoi frutti durante il proseguo della stagione, così come l’opposto può rendere la nostra squadra sottotono e portarci a un esonero prematuro!
Un’altra novità è rappresentata dai gruppi di tutoring: nei precedenti titoli della serie, il tutoring era riservato solamente a un veterano e a un giovane da formare, mentre in Football Manager 2019 si potranno creare più gruppi da tre o più giocatori, così che i veterani formino i nostri migliori giovani sia tecnicamente che, soprattutto, caratterialmente. Adesso è possibile dividere i gruppi per ruolo: da qui si possono selezionare anche nuovi ruoli da far studiare ai nostri giocatori, così come si ha la possibilità di chiamare giocatori dai settori giovanili da aggregare alla prima squadra direttamente da questa scheda. In più i diversi gruppi di allenamento verranno valutati, così da capire come agiscono difesa e attacco e aggiustare eventuali carenze.
Una delle cose da evitare è quella di sovraccaricare i nostri giocatori, onde evitare infortuni capaci di complicare la stagione: a questo serve la scheda riposo, dove è possibile settare l’intensità degli allenamenti per ogni giocatore in forma partita o fuori condizione: per esempio, i secondi si alleneranno con un’intensità ridotta, così da evitare infortuni dovuti alla mancanza di forma, mentre i giocatori già pronti si alleneranno più duramente così da non perdere la condizione nelle gambe.
L’ultima inclusione riguardante la sezione di allenamento riguarda le varie statistiche: i preparatori daranno i voti a tutti i giocatori della rosa, evidenziando chi ha reso meglio e chi ha reso sotto le aspettative. Ovviamente sarà possibile delegare al resto dello staff alcune aree di allenamento, così come negli anni passati.

La tecnologia al servizio dell’uomo

Probabilmente l’aggiunta più innovativa di Football Manager 2019 è quella della VAR, Video Assistant Referee, usato nei recenti mondiali di Russia e in alcuni campionati come la Bundesliga (per la prima volta con licenza nella serie) e nella nostra Serie A. La VAR, così come la Goal Line Technology sarà disponibile in tutti i campionati che ne fanno uso, e con esse il rispettivo carico di polemiche: perché sì, nelle conferenze post-partita che hanno avuto episodi decisi dalla VAR si può parlare dell’uso di questa tecnologia, scatenando discussioni nei social media, com’è successo, per esempio, con Allegri, lamentatosi della sua mancanza in Champions League dopo la controversa espulsione di Cristiano Ronaldo in Valencia-Juventus.
Oltre a esse, sono stati migliorati gli stadi piccoli (fino a 5.000 spettatori), più vari rispetto al passato, e migliorate le animazioni di giocatori, palla e persino pubblico. Un’altra miglioria è stata fatta ai discorsi pre-partita, che evidenziano le gerarchie della squadra: ora più che mai sarà importante caricare i leader così che essi diano il buon esempio al resto dell’undici titolare.

Gegenpressing, tiki-taka o catenaccio?

L’altra area che ha subito un restyling è quella della tattica: si potranno usare dei preset di alcune delle tattiche più usate nel mondo del calcio, come il gegenpressing di Jurgen Klopp, il tiki-taka di Pep Guardiola o il catenaccio all’italiana. Da lì il gioco ci suggerirà i moduli che meglio si sposano con la tattica selezionata, oppure ci darà la possibilità di applicarla a un modulo a nostra scelta.
La grande novità è data dalla profondità tattica dei movimenti, anch’essa una delle novità più richieste da molti giocatori: tre diverse sezioni divise in possesso palla, transizione e senza possesso dove potremo decidere i movimenti e le istruzioni in ognuna delle tre fasi. Facendo un esempio, in fase di transizione si può decidere se pressare l’avversario o mantenere uno schieramento compatto e attento, così come il ritmo e lo stile dei passaggi durante il possesso, l’altezza della difesa e il pressing durante la fase difensiva. Il tutto a favore di una profondità tattica come mai si è mai vista nella serie, grazie anche a tre nuovi ruoli come il pressing forward, attaccante dedito al pressing forsennato ai difensori avversari, e i no-nonsense wing back e no-nonsense centre back, terzini avanzati e difensori centrali che si concentrano principalmente sui ruoli difensivi, salendo molto raramente in avanti. Chiude la sezione il cambio di nome delle mentalità: dite addio a contenimento, contropiede, controllo e tutto per tutto. Date il benvenuto a molto difensiva, cauto, positive (propositiva?) e very attacking (molto offensiva?).

Tirando le somme, Football Manager 2019 parte già col piede giusto: l’inclusione della VAR fa scalpore, non solo per le polemiche legate alla tecnologia che arricchiranno i nostri salvataggi, rendendoli più “vivi” e vicini alla realtà, ma perché rappresenta una novità esclusiva alla serie, che difficilmente troveremo in giochi più “movimentati” come FIFA e PES. Con il miglioramento delle sezioni di allenamento e tattica, Sports Interactive ha dimostrato di ascoltare la fanbase, donando due aree che aggiungono profondità nel gameplay già vasto della serie. In attesa di altre novità in arrivo nei prossimi giorni, possiamo dire che il primo carico di novità ha realizzato un gol degno di un Puskas Award.




Divertimento e istruzione: la storia di The Oregon Trail

Nel 1915, poco dopo l’intuizione che sta alla base della teoria della relatività, Albert Einstein, scrisse una lettera al figlio undicenne Hans Albert: in un passaggio della lettera, il celebre fisico disse «il miglior modo per imparare è divertirsi: così si impara di più. Quando fai una cosa con così tanto divertimento che non ti accorgi del tempo che passa». Devono essere stati dello stesso avviso anche Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, tre laureandi della Carlton College, che, durante il praticantato in una scuola media, ebbero l’idea di trasportare le lezioni di storia sulla pista dell’Oregon prima come gioco da tavolo, e poi come gioco per i neonati computer. Fu la genesi di uno dei giochi più giocati nelle scuole americane, e di uno dei titoli più importanti dell’intera storia del videogioco: The Oregon Trail era appena nato.

L’anno è il 1971, e il computer non è di certo quello che conosciamo. Allora le macchine erano gigantesche, e l’unico modo per accedervi era quello di usare una telescrivente, apparecchiature usate principalmente nelle scuole, anche se in piccole quantità. I nostri tre protagonisti sono professori di sostegno, oltre che studenti universitari, mandati nelle scuole a farsi le ossa. È il “capo” di Don Rawitsch a chiedere al giovane virgulto di preparare gli studenti per la traversata delle carovane dalla costa est degli Stati Uniti alla costa ovest, allora selvaggia e piena di impervie. La celebre pista dell’Oregon è uno degli avvenimenti più importanti della giovane storia dello stato americano dell’epoca, e Rawitsch comincia a pensare a un metodo più immersivo per i giovani ragazzi: un gioco da tavolo con una grande mappa della costa pacifica statunitense. Furono i suoi due colleghi, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, due studenti di programmazione, che dopo aver appreso le regole del gioco pensarono che si adattasse perfettamente al computer. C’era solo un problema: Don aveva bisogno del gioco fatto e finito entro una settimana. Bill e Paul dissero che si poteva fare, e presero controllo della sala informatica (o meglio, un bugigattolo con due sedie e una telescrivente) per creare la prima stesura di The Oregon Trail.
Più il tempo passa, e più i tre arrivano a intuizioni geniali per l’epoca: per esempio, la possibilità di subire più attacchi nella zona ovest del paese, un clima più freddo nelle montagne del Wyoming o dell’Oregon, più una serie di eventi randomici che avrebbero reso il viaggio più duro, ma anche più appassionante. E il tutto, sorretto dal sempiterno BASIC, che si presta perfettamente ad azioni, come lo sparare durante le battute di caccia. Il più veloce a scrivere correttamente “BANG” avrebbe avuto più carne, mentre troppa indecisione o uno spelling sbagliato sarebbe risultato in un colpo andato a vuoto.

Dopo una settimana, Bill e Paul decidono di provare il gioco nelle loro scuole: i ragazzini lo adorarono, con studenti di seconda e terza media che addirittura migliorarono nella comprensione del testo grazie al titolo. Ma, se l’impressione della scolaresca era positiva, vi erano delle perplessità da parte delle scuole, principalmente legate alla presenza dei nativi americani. I tre avevano sottovalutato il potenziale storico di The Oregon Trail, e gran parte di esso era basato sui film western, popolarissimi in quegli anni. Sarebbero sorte dei problemi nel caso di studenti di discendenza nativo-americana, e quindi i tre decisero di evitare simili problemi trasformando i pellerossa armati di tomahawk in neutrali banditi muniti di coltello.

Finalmente arrivò il giorno della prima in classe: Don decise di suddividere gli studenti in due gruppi, uno dedito allo studio “tradizionale”, con letture, raccolta di immagini e analisi della mappa riguardante il viaggio dei coloni verso la costa pacifica americana, mentre l’altro gruppo si dedicò al gioco, applicando una rotazione giornaliera, così che tutti potessero provare The Oregon Trail. I risultati arrivarono dopo pochi giorni: il miglior dattilografo si occupava di scrivere, e si crearono dei microgruppi. C’era chi controllava la mappa e il progresso del viaggio e chi teneva conto delle provviste della carovana. Questa suddivisione dei compiti non fu una decisione presa “dall’alto”, ma fu qualcosa di naturale presa dagli studenti, e la cosa sorprese Rawitsch. Soprattutto considerando quanto la storia sia una materia poco amata dagli studenti.

Dopo la fine del praticantato nelle scuole, i tre finirono gli studi, e Don venne assunto al MECC (Minnesota Educational Computing Consortium), un’organizzazione che si occupava della distribuzione dei computer nelle scuole dello stato. I file originali vennero persi, ma per fortuna vi era ancora il codice stampato su carta, e quindi Rawitsch cominciò a trascrivere le 800 linee di codice su un Apple II. Il gioco venne ufficialmente rilasciato per la piattaforma nel 1978, forte del successo interno nelle scuole dello Stato, e dopo di esso arrivarono dozzine di conversioni per tutti gli home computer disponibili ai tempi, dal Commodore 64 al PC, fino ad arrivare, oggi giorno, a versioni disponibili anche su mobile e portatili LCD, oltre a tributi come The Organ Trail, che riprende il tema originale del titolo dando al tutto una sferzata horror.

Dopo 65 milioni di copie vendute in 40 anni, il nono posto nella classifica del Time dei 100 giochi migliori di sempre, e l’introduzione nella Video Game Hall of Fame nel 2016, il lavoro di Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger viene citato come il punto cardine dei cosiddetti edutainment, i giochi educazionali. Settore che, oggi giorno, vede piattaforme come teachergaming.com offrire ai professori di tutto il mondo titoli dal forte stimolo educativo, come Cities: Skyline, Democracy 3 o Universe Sandbox. O come dimostrato qualche anno fa dall’università di Bergen, in Norvegia, che ha usato Civilization IV di Sid Meier per insegnare inglese, norvegese e scienze sociali. A dimostrazione che il videogioco non va sottovalutato: è principalmente un hobby, ma può essere anche un potente mezzo educativo a disposizione degli insegnanti, e The Oregon Trail ne è l’esempio massimo.




L’incredibile crescita degli eSport

Il 2018 ha visto continuare la marcia inarrestabile degli eSport, sotto ogni punto di vista: se sul lato commerciale risaltano i grandi numeri ottenuti dalla prima edizione della Overwatch League, con quasi undici milioni di spettatori dichiarati da Blizzard per la finale del campionato e 126 milioni di visualizzazioni in totale sul proprio canale Twitch, non sorprendono nemmeno le cifre da capogiro dichiarate sul lato finanziario: l’industria del videogioco professionistico ha guadagnato quasi un miliardo di dollari in quest’anno, con una previsione di crescita del 18,6% per il 2023, che porterebbe l’intero settore a un guadagno di ben 2.17 miliardi!

Ma non è tutto rose e fiori: recentemente, il CIO, lo stesso Comitato Olimpico Internazionale che precedentemente si era espresso a favore degli eSport come disciplina olimpica da testare nei giochi asiatici del 2022, ha frenato esprimendo il proprio dissenso verso i cosiddetti killer games. A tal proposito, il presidente Thomas Bach ha dichiarato:

«Non possiamo avere nel programma olimpico dei giochi che promuovono violenza e discriminazione. Dal nostro punto di vista rappresentano una contraddizione dei valori olimpici e non possono essere accettati»

Una dichiarazione che chiude le porte ai vari League of Legends, Dota 2 e Fortnite, ma vi è invece, uno spiraglio aperto per giochi più “pacifici” come FIFA, Rocket League o Street Fighter. E anche per uno sport che cerca di entrare nel carrozzone olimpico da molti anni, come la Formula Uno: recentemente Sean Bratches, direttore commerciale del brand motoristico, ha espresso il proprio interesse per includere lo sport, anche se in forma virtuale. Vi è già un campionato di eSport, la Formula One eSport series che, nella stagione inaugurale del 2017 ha richiamato 63.000 appassionati che hanno seguito nove delle dieci scuderie presenti nel campionato motoristico (unica e grandissima assente l’italiana Ferrari).

Anche in Europa si sta muovendo qualcosa: se già Francia (prossima partecipante alla Overwatch League con la squadra di Parigi), Spagna e Russia (dove spopolano titoli come DOTA 2 e Counter Strike: Global Offensive) possono contare su un settore già pronto, come si pone il nostro paese nel mercato? In realtà, non molto bene, nonostante la creazione di alcuni eSport team dedicati a FIFA, come Sampdoria (primo club calcistico italiano a lanciarsi nel settore), Roma, Empoli e recentemente anche Cagliari, Perugia e Parma. Ma hanno destato interesse le recenti dichiarazioni al Corriere dello Sport del patron del Napoli e del Bari, Aurelio De Laurentiis, interessato a entrare nel settore degli sport virtuali. Per quanto possa sembrare strano l’interesse di un imprenditore così importante, soprattutto nel nostro paese, non sorprende vedere grosse aziende dietro una squadra di eSport: basti pensare al gruppo Kraft, proprietari dei New England Patriots, una delle più vincenti squadre di football americano della NFL e proprietari anche dei Boston Uprising della Overwatch League, oppure la Kroenke Sports & Entertainment, holding che controlla sia l’Arsenal, popolare squadra di calcio della Premier League, che i Los Angeles Gladiators, sempre della OW League.
Con questa potenza economica dietro, non sorprende vedere la crescita del settore, anno dopo anno. E chissà, magari entro il 2023, si creerà qualcosa di importante anche nel nostro paese: d’altronde, lo sport non è solamente prestanza fisica, ma anche una girandola di emozioni uniche, esattamente come i videogiochi.




Questo cross-play non s’ha da fare

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e consoleLe ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle per rinfrescarsi la memoria:

«Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.»

In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato:

«Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre»

Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V:

«Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross-platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.»

Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America:

«Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.»

In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme.
Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020.

Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro.
Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4.

Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano.
Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi!




Vita e morte di Guitar Hero

«La vita senza la musica sarebbe un errore» diceva Friedrich Nietsche ne Il crepuscolo degli idoli, ed è la verità: chi di noi non ha mai sognato di salire su un palco, armato di chitarra, nei panni del Jimi Hendrix di turno? Eppure, in un tempo troppo lontano, due sviluppatori, RedOctane e Harmonix realizzarono il sogno di milioni di giocatori… seppur nelle loro camerette.
Era il tempo di Guitar Hero e di Rock Band, due titoli che si contendevano un mercato agguerrito e affamato, e che, come l’Icaro narrato dagli Iron Maiden in Flight of Icarus si avvicinarono troppo al Sole, per poi cadere nell’oblio. Ma partiamo dalla genesi…

From Genesis to Revelation

I cosiddetti rhythm game non nascono però con il primo Guitar Hero: bisogna tornare ancora più indietro nel tempo, precisamente nel 1997, con il primo PaRappa the Rapper uscito per la prima PlayStation, titolo subito diventato di culto tra i giocatori in tutto il mondo. Stessa sorte toccata a Dance Dance Revolution di Konami, un titolo tutt’oggi giocato e amato dal popolo delle sale giochi e dei fan dei cosiddetti bemani, ma questo è un altro discorso…
Andiamo avanti fino al 2005, anno dove due compagnie videoludiche come Harmonix (già autrice di giochi a tema musicale, come Frequency e Amplitude) e RedOctane uniscono le forze per creare il primo Guitar Hero: fu un successo straordinario, soprattutto considerando che il titolo uscì quasi a fine ciclo vitale di PlayStation 2. Alla base del boom di Guitar Hero vi erano soprattutto due fattori: una tracklist variegata, capace di andare dall’heavy metal dei Black Sabbath al pop-punk dei Sum 41, passando per l’indie rock dei Franz Ferdinand. E soprattutto il controller: una replica in miniatura della Gibson SG, celebre chitarra usata da chitarristi leggendari quali Angus Young degli AC/DC e Tony Iommi dei già citati Black Sabbath. Il successo di Guitar Hero dipese anche da, oltre ai due fattori succitati, un’incredibile immediatezza: non è necessario essere dei veri chitarristi per giocare. Basta semplicemente andare a tempo e dare la plettrata alla nota, col giusto tempismo.
Il titolo fece così tanto scalpore che il seguito, Guitar Hero II, uscito sia su PlayStation 2 che, successivamente, su Xbox 360 (dove, incluso nel bundle, vi era una riproduzione di una Gibson Explorer, chitarra usata da James Hetfield dei Metallica e The Edge degli U2) ottenne anche un’espansione dedicata agli anni ‘80, ovvero Guitar Hero Encore: Rocks the ‘80s. Oltre, ovviamente, a un successo ancora più grande, e una tracklist ancora più completa, capace di raccogliere hit dagli anni ‘60 fino ai primi anni del 2000!
La febbre di Guitar Hero scatenò anche l’asta da parte dei publisher, che volevano a tutti i costi Harmonix e RedOctane tra le loro fila: alla fine la prima venne acquisita da MTV Games e la seconda da Activision, e come succede molte volte nel mondo della musica, quando perdi la tua “libertà”, arriva anche il declino…

Nevermind

Siamo nel 2007, e RedOctane attua il motto “squadra che vince non si cambia” con Guitar Hero III: Legends of Rock, uscito praticamente su tutte le piattaforme con alti (la versione per Nintendo Wii, uno dei titoli di terze parti più di successo della console Nintendo) e bassi (le versioni per PC e Macintosh, port famoso per avere dei requisiti assurdi per l’epoca, ed essere ingiocabile anche con i computer più potenti). Non cambia nemmeno il produttore della chitarra, visto che questa volta avremo a nostra disposizione una Gibson Les Paul, famosa ai più per essere la chitarra di Slash dei Guns ‘n’ Roses.
E Harmonix? Decise di puntare ancora più in alto con Rock Band, primo titolo della saga, raddoppiava la dose. Anzi, la quadruplicava! Perché oltre alle due chitarre (delle Fender Stratocaster, con molta probabilità, il modello di chitarra più celebre del mondo, usato da chitarristi come Jimi Hendrix ed Eddie Clapton), delle quali una usata per le tracce di basso, aggiungeva anche una batteria e soprattutto un microfono per cantare!
Entrambi i titoli ebbero un ottimo successo, sia commerciale, che critico. Ma, più in là nel tempo, sia Guitar Hero che Rock Band cominciarono a fare le stesse mosse: spin-off dedicati a un gruppo in particolare (Metallica, Aerosmith e Van Halen per il titolo RedOctane, Beatles e Green Day per quello Harmonix) oppure titoli concettualmente diversi, come i due DJ Hero di Harmonix o Band Hero di RedOctane, ma era troppo tardi. Il genere aveva saturato il mercato, e i giocatori lamentavano un’eccessiva somiglianza tra i vari titoli.

I due studi di sviluppo ci riprovarono nel 2015, Harmonix con Rock Band 4 e RedOctane con Guitar Hero Live, due titoli che, nonostante qualche piccola novità, come il nuovo controller a 6 tasti di Guitar Hero, vennero presto dimenticati dal pubblico. Probabilmente l’ultimo vero sussulto appartiene a Rocksmith di Harmonix, utile più come strumento per imparare a suonare la chitarra che come gioco in sé, ma anche in quel caso, si parla di numeri di vendita molto lontani rispetto ai fasti del genere.
Sembra che oggi giorno non ci sia più spazio nel mercato per i rhythm game con periferiche, ma chissà, mai dire mai. D’altronde, nel mondo della musica abbiamo assistito a reunion date più volte come impossibili, e magari, imparando bene dagli errori del passato, verrà di nuovo il tempo di un nuovo Guitar Hero e di un nuovo Rock Band. Perché, come diceva Neil Young, «rock and roll will never die».