Questo cross-play non s’ha da fare

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e consoleLe ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle per rinfrescarsi la memoria:

«Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.»

In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato:

«Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre»

Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V:

«Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross-platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.»

Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America:

«Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.»

In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme.
Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020.

Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro.
Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4.

Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano.
Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi!




Action 52: fra ambizioni troppo grandi e ghepardi ninja

Videogiochi, videogiochi, videogiochi… Ogni giocatore ne vuole più che può! Quelli più giovani, oggi, nascono in famiglie in cui, con buona probabilità, i genitori sono stati dei gamer più o meno attivi e pertanto, quando arriva il momento di comprare il primo videogioco, conoscono il mercato e perciò non cadono vittime delle assurde console tarocche con 100.000 giochi del Nintendo Entertainment System (che poi sono solo una manciata che si ripetono più e più volte). C’è stato un periodo in cui i genitori dei giocatori, oggi un po’ più vecchiotti, erano prede ideali per questo tipo di prodotti e, non raramente, quando a Natale si chiedeva una PlayStation c’era il pericolo che i parenti avrebbero potuto regalarti una PolyStation traumatizzandoli a vita! A ogni modo, nel 1989, un visionario ispirato da questo concetto provò a  inserire in una cartuccia per NES ben 52 giochi originali, tutti programmati da zero, un idea che, a senso suo, gli avrebbe fruttato milioni di dollari in poco tempo ma che invece si rivelò un disastro senza precedenti, finendo per diventare solamente un pezzo da collezione che nessuno vuole nella sua retrolibreria. Oggi, su Dusty Rooms, vi parleremo dell’orrendo Action 52, dal concetto, alla realizzazione, fino al suo inevitabile destino.

La formazione del team

Stati Uniti, 1989: il Sega Genesis era appena uscito ma il mercato era ancora nelle mani di Nintendo che, col suo NES e il neoarrivato Game Boy, era semplicemente sinonimo di videogioco. Anche senza internet, la comunità di giocatori era attivissima, il passaparola sostituiva le discussioni su Facebook, le riviste erano l’unica vera fonte di informazioni e, in assenza dei periodi dei saldi sui videogiochi o negozi dedicati come Gamestop che rottamano l’usato, l’unico metodo per aggirare gli alti costi di un solo videogioco era scambiarsi le cartucce a scuola o quando il tempo lo consentiva. Che i software li comprassero i genitori o i giocatori un po’ più grandicelli, rimaneva sempre il problema dei problemi: un gioco costava 60 dollari e in pochi potevano permettersi una libreria da sogno. Come scritto sul press kit dei tempi di Action 52, Vince Perri, ideatore di questa multicart, era un genitore con gli stessi problemi di molti americani e perciò odiava spendere 60$ ogni volta che suo figlio finiva un videogioco. Tuttavia, un giorno si imbattè in una strana cartuccia illegale proveniente da Taiwan contenente 40 giochi e la regalò al figlio che ne rimase sorpreso; Vince Perri diffuse la voce nel suo vicinato e molti genitori comprarono la stessa cartuccia e la regalarono ai propri figli. Egli rimase stupito dal concetto e ben presto in lui nacque l’idea di produrre e vendere un prodotto simile, però per vie legali e con giochi tutti originali; di lì a poco, Perri fondò la Active Enterprises LTD. e andò a caccia di investitori in Europa e in Arabia Saudita per realizzare la sua visione, cui aveva in mente di farne persino un franchise. Nonostante la grande idea, Vince Perri non era un programmatore, non aveva chiaro come funzionasse il mercato dei videogiochi e soprattutto non disponeva di grandi quantità di denaro e perciò doveva trovare del personale a buon mercato, con un disperato bisogno di lavorare.
Vince Perri possedeva un ufficio all’interno di un edificio adibito a studio di registrazione musicale a Miami e lì incontrò Mario Gonzalez, un neolaureato in audio-video e multimedia che lavorava lì (e alla quale dobbiamo anche tutte le informazioni che si sanno su questo misterioso videogioco). Gonzales aveva esperienza nel campo della creazione dei videogiochi come musicista e designer e presto coinvolse altri due suoi colleghi universitari in cerca di lavoro, ovvero Javier Perez e Albert Hernandes, che si sarebbero occupati, rispettivamente, di design e programmazione. Vince Perri chiese ai ragazzi una sorta di demo per avere un’idea delle loro potenzialità e così gli mostrarono Megatrix, un clone di Tetris su Amiga 500 che avevano programmato al college; ne rimase incredibilmente colpito ma Perri non aveva chiaro che il NES era nettamente inferiore al computer 16-bit della Commodore. Ciononostante, corse dagli investitori con la demo e ben presto ottenne gli investimenti per pagare ai tre programmatori un viaggio nello Utah per imparare a programmare su NES… Però in due settimane, visto che promise agli investitori tempi di realizzazione assurdi! Al loro ritorno si unì un quarto programmatore, che a oggi rimane ancora senza nome, e i primi tre, freschi di corso, posero le basi per programmare su NES a questo nuovo membro del team (che come Mario Gonzales è il responsabile di parte delle informazioni su Action 52).

(da sinistra verso destra: Mario Gonzalez, Albert Hernandes, Javier Perez e il quarto developer ignoto)

Al limite umano

Lo studio di registrazione divenne la loro base operativa e i quattro giovani rampanti lavorarono duramente con orario da schiavi: entravano in ufficio alle 11 di mattina per uscire alle 23 e, visto che le sale prove non hanno finestre e sono insonorizzate, finivano anche per staccare all’una di notte. Questo era dovuto al fatto che Vince Perri promise agli investitori di consegnare i 52 giochi in tre mesi, tempo in cui solitamente si può sviluppare, a pelo, un solo gioco, senza contare che un prodotto deve avere uno storyboard, degli artwork ed essere testato. Il visionario capo della Active Enterprises LTD. era così fiducioso verso i suoi dipendenti (che pagò giusto 1500$ a testa per l’intero progetto) che passava giusto per le ore dei pasti per consegnare del cibo take away per poi sparire per tutta la giornata. Capendo che Perri non aveva chiaro quanto duro fosse programmare un solo videogioco, visto che già metteva in programma versioni per Sega Genesis e Super Nintendo, i quattro programmatori dovettero ridimensionare i concept dei loro giochi e programmare per lo stretto indispensabile: alcuni furono scartati e altri ridotti a giochi più semplici come Dead-Ant (trasformato poi in Dedant), un gioco in cui si doveva comandare una formica in una colonia per racimolare del cibo da dare a una regina ridotto a uno shooter verticale (esattamente come le formiche della Repubblica dello Sbergio che si difendono sparando proiettili agli altri insetti).
Action 52 doveva contenere un 52esimo gioco chiamato Action Game Master che si sarebbe sbloccato una volta completati tutti i 51 precedenti ma, verso la metà dello sviluppo del progetto, Vince Perri avrebbe avuto l’idea che, a senso suo, avrebbe catapultato la sua multicart e la Active Enterprises LTD. verso il successo, ovvero i Cheetahmen, dei ghepardi ispirati alle Tartarughe Ninja (visto che, dopo il NES, erano la cosa più in voga in quegli anni); il loro gioco sarebbe dovuto essere il migliore, il più grande, e la confezione avrebbe incluso un fumetto con delle avventure dei tre bestioni e al cui interno venivano promessi inoltre, in futuro, giocattoli, magliette e persino una serie TV animata dalla “qualità Disney”. Ancora una volta, Perri dimostrò di non avere idea di come funzionasse lo sviluppo videoludico e così i programmatori, che avevano praticamente finito Action Game Master, dovettero scartare quel gioco per concentrarsi esclusivamente sul videogioco Cheetahmen, riducendo ancora di più i concept per gli altri giochi. In questo caos più totale, Mario Gonzalez uscì dalla scena per via di alcuni problemi con la sua ragazza e il progetto rimase affidato ai restanti tre; il giovane musicista aveva composto le colonne sonore per i giochi ma con lui fuori dal progetto non si poté più utilizzare la sua musica. A questo punto, per via della scadenza imminente, i tre cominciarono a rubare brani direttamente dai pezzi demo di The Music Studio, un software per computer di Activision, e furono campionate voci e piccole sezioni da un disco dance della zona di Miami. Anche dei codici vennero trafugati, come quello del menù, copiato dalla cartuccia taiwanese del figlio di Vince Perri (infatti il menù ha gli stessi effetti sonori di molte multicart).

(quanto è brutto Action 52? Decidete voi! Un gameplay variegato dell’utente YouTube nesguide)

L’immissione nel mercato e la capitolazione

Al completamento di Action 52 i tre programmatori lasciarono la Active Enterprises LTD. e una multicart con giochi programmati dozinalmente e pieni di problemi. Vince Perri, volendo seguire l’iter esatto dei videogiochi rilasciati legalmente, presentò il videogioco alla Nintendo che lo rifiutò; a questo punto non rimase altra soluzione se non vendere il videogioco nei negozi ma senza alcuna licenza ufficiale come faceva Tengen o Color Dreams. Venne stampato tutto il materiale pubblicitario, prodotta una pubblicità televisiva e persino lanciato un concorso con la quale era possibile vincere 1400 dollari (metà in denaro e metà borsa di studio) completando il gioco Ooze, impossibile da finire perché non era possibile andare oltre il secondo livello per via di un errore nella programmazione (e ciononostante, anche se il gioco magicamente fosse andato avanti, il codice da mandare alla Active Enterprises LTD. in caso di vittoria, che sarebbe spuntato nella schermata finale del gioco, era uguale in tutte le cartucce).
Action 52 arrivò nei negozi per l’assurdo prezzo di 199 dollari nel 1991, il costo di un Super Nintendo con Super Mario World, e, nonostante le iniziali buone vendite, il passaparola si diffuse a macchia d’olio, la multicart ricevette una pessima reputazione e pertanto rimase inevitabilmente invenduta nei negozi; di conseguenza la Active Enterprises LTD. si riempì di debiti e perciò Vince Perri doveva agire in fretta. Chiamò di nuovo i programmatori Javier Perez e Albert Hernandes per lavorare alla versione per Sega Genesis; questa volta i due furono mandati a programmare all’interno dello studio della Farsight Technologies dalla quale si potè produrre una versione di Action 52 più funzionale, con meno bug e crash improvvisi. Nonostante gli sforzi, la versione 16-bit della multicart fu macchiata ugualmente dalla stessa reputazione della versione per NES e così, ben presto, Active Enterprises LTD. si avviò verso il fallimento. Con le ultime risorse, Vince Perri mise su uno stand al Consumer Electronics Show del 1993 per tentare di attrarre qualche investitore per poter lanciare la linea di giocattoli e lo show dei Cheetahmen, il sequel Cheetahmen II per NES (che eventualmente fu prodotto ma mai venduto), Action 52 per SNES e persino una console portatile 16-bit, chiamata Action Game Master Portable, in grado di leggere cartucce per NES, SNES, Sega Genesis e persino Sega CD. I prospetti di Vince Perri erano tanto assurdi quanto irrealizzabili, nessuno osò finanziare i suoi progetti e pertanto Active Enterprises LTD. chiuse i battenti di lì a poco; le cartucce invendute furono richiamate e chiuse in un magazzino fino a quando negli anni 2000 furono riportate alla luce insieme a Cheetahmen II e messe su eBay per prezzi oltraggiosi.
I quattro developer non videro nessun provente dalle scarse vendite di Action 52 e l’unica cosa che rimase da fare, più tardi nell’era di internet, fu uscire allo scoperto e raccontare la storia di questa assurda compagnia e del suo terribile gioco. Vince Perri, invece, è scomparso dalla circolazione e nessuno sa dove si trovi o che aspetto abbia, dal momento che non esiste una sua foto da nessuna parte; alcuni blogger e podcaster, nel tentativo di rintracciarlo, hanno incontrato persone vicine a lui che hanno preferito mantenere la sua ubicazione segreta o hanno fatto domande del tipo “cosa vuoi sapere da lui”. Si dice che di recente sia morto ma neppure questa voce pare essere confermabile.

(ROARRRR! Siamo le Tartarughe Ninja pelose!)



Vita e morte di Guitar Hero

«La vita senza la musica sarebbe un errore» diceva Friedrich Nietsche ne Il crepuscolo degli idoli, ed è la verità: chi di noi non ha mai sognato di salire su un palco, armato di chitarra, nei panni del Jimi Hendrix di turno? Eppure, in un tempo troppo lontano, due sviluppatori, RedOctane e Harmonix realizzarono il sogno di milioni di giocatori… seppur nelle loro camerette.
Era il tempo di Guitar Hero e di Rock Band, due titoli che si contendevano un mercato agguerrito e affamato, e che, come l’Icaro narrato dagli Iron Maiden in Flight of Icarus si avvicinarono troppo al Sole, per poi cadere nell’oblio. Ma partiamo dalla genesi…

From Genesis to Revelation

I cosiddetti rhythm game non nascono però con il primo Guitar Hero: bisogna tornare ancora più indietro nel tempo, precisamente nel 1997, con il primo PaRappa the Rapper uscito per la prima PlayStation, titolo subito diventato di culto tra i giocatori in tutto il mondo. Stessa sorte toccata a Dance Dance Revolution di Konami, un titolo tutt’oggi giocato e amato dal popolo delle sale giochi e dei fan dei cosiddetti bemani, ma questo è un altro discorso…
Andiamo avanti fino al 2005, anno dove due compagnie videoludiche come Harmonix (già autrice di giochi a tema musicale, come Frequency e Amplitude) e RedOctane uniscono le forze per creare il primo Guitar Hero: fu un successo straordinario, soprattutto considerando che il titolo uscì quasi a fine ciclo vitale di PlayStation 2. Alla base del boom di Guitar Hero vi erano soprattutto due fattori: una tracklist variegata, capace di andare dall’heavy metal dei Black Sabbath al pop-punk dei Sum 41, passando per l’indie rock dei Franz Ferdinand. E soprattutto il controller: una replica in miniatura della Gibson SG, celebre chitarra usata da chitarristi leggendari quali Angus Young degli AC/DC e Tony Iommi dei già citati Black Sabbath. Il successo di Guitar Hero dipese anche da, oltre ai due fattori succitati, un’incredibile immediatezza: non è necessario essere dei veri chitarristi per giocare. Basta semplicemente andare a tempo e dare la plettrata alla nota, col giusto tempismo.
Il titolo fece così tanto scalpore che il seguito, Guitar Hero II, uscito sia su PlayStation 2 che, successivamente, su Xbox 360 (dove, incluso nel bundle, vi era una riproduzione di una Gibson Explorer, chitarra usata da James Hetfield dei Metallica e The Edge degli U2) ottenne anche un’espansione dedicata agli anni ‘80, ovvero Guitar Hero Encore: Rocks the ‘80s. Oltre, ovviamente, a un successo ancora più grande, e una tracklist ancora più completa, capace di raccogliere hit dagli anni ‘60 fino ai primi anni del 2000!
La febbre di Guitar Hero scatenò anche l’asta da parte dei publisher, che volevano a tutti i costi Harmonix e RedOctane tra le loro fila: alla fine la prima venne acquisita da MTV Games e la seconda da Activision, e come succede molte volte nel mondo della musica, quando perdi la tua “libertà”, arriva anche il declino…

Nevermind

Siamo nel 2007, e RedOctane attua il motto “squadra che vince non si cambia” con Guitar Hero III: Legends of Rock, uscito praticamente su tutte le piattaforme con alti (la versione per Nintendo Wii, uno dei titoli di terze parti più di successo della console Nintendo) e bassi (le versioni per PC e Macintosh, port famoso per avere dei requisiti assurdi per l’epoca, ed essere ingiocabile anche con i computer più potenti). Non cambia nemmeno il produttore della chitarra, visto che questa volta avremo a nostra disposizione una Gibson Les Paul, famosa ai più per essere la chitarra di Slash dei Guns ‘n’ Roses.
E Harmonix? Decise di puntare ancora più in alto con Rock Band, primo titolo della saga, raddoppiava la dose. Anzi, la quadruplicava! Perché oltre alle due chitarre (delle Fender Stratocaster, con molta probabilità, il modello di chitarra più celebre del mondo, usato da chitarristi come Jimi Hendrix ed Eddie Clapton), delle quali una usata per le tracce di basso, aggiungeva anche una batteria e soprattutto un microfono per cantare!
Entrambi i titoli ebbero un ottimo successo, sia commerciale, che critico. Ma, più in là nel tempo, sia Guitar Hero che Rock Band cominciarono a fare le stesse mosse: spin-off dedicati a un gruppo in particolare (Metallica, Aerosmith e Van Halen per il titolo RedOctane, Beatles e Green Day per quello Harmonix) oppure titoli concettualmente diversi, come i due DJ Hero di Harmonix o Band Hero di RedOctane, ma era troppo tardi. Il genere aveva saturato il mercato, e i giocatori lamentavano un’eccessiva somiglianza tra i vari titoli.

I due studi di sviluppo ci riprovarono nel 2015, Harmonix con Rock Band 4 e RedOctane con Guitar Hero Live, due titoli che, nonostante qualche piccola novità, come il nuovo controller a 6 tasti di Guitar Hero, vennero presto dimenticati dal pubblico. Probabilmente l’ultimo vero sussulto appartiene a Rocksmith di Harmonix, utile più come strumento per imparare a suonare la chitarra che come gioco in sé, ma anche in quel caso, si parla di numeri di vendita molto lontani rispetto ai fasti del genere.
Sembra che oggi giorno non ci sia più spazio nel mercato per i rhythm game con periferiche, ma chissà, mai dire mai. D’altronde, nel mondo della musica abbiamo assistito a reunion date più volte come impossibili, e magari, imparando bene dagli errori del passato, verrà di nuovo il tempo di un nuovo Guitar Hero e di un nuovo Rock Band. Perché, come diceva Neil Young, «rock and roll will never die».




Estate a Metro City

Ho conosciuto i videogiochi d’estate, da bambino,  a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, quei cabinati nelle sale giochi dopo una giornata di mare attiravano sempre la mia attenzione, rimanevo affascinato da quei colori, dai suoni, dagli sprite in movimento, e ben presto ne diventai un frequentatore assiduo.
Riuscivo a stare per ore attaccato a un cabinato senza mai annoiarmi: ricordo di essere riuscito persino a finire un gioco come Ghouls ‘n Ghosts con un solo gettone, e non è un’impresa facile. Molti conoscono il famoso titolo di Tokuro Fujiwara, platform a scorrimento orizzontale con forte componente action in cui si impersona un cavaliere di nome Arthur, impegnato nella sfida di salvare la principessa rapita da un potente demone. Come in ogni gioco a piattaforme che si rispetti, il nostro personaggio deve correre e saltare tra i vari livelli, bellissimi e cupi a vedersi, dal cimitero iniziale a una foresta di cristalli fino al castello del nemico. Quel che mi piaceva, ed era uno dei motivi per cui finivo per preferire una sessione a Ghouls ‘n Ghosts talvolta anche al mare, era la miriade di armi da lancio che di cui potevi disporre: si poteva possedere un’arma alla volta, ma ognuna aveva la propria peculiarità e magia personale. Si partiva con indosso un’armatura, quella normale che assorbe un colpo dai nemici, ma si poteva acquisire anche quella magica che oltre ad assorbire un colpo permetteva di utilizzare delle mosse speciali (differenti a seconda dell’arma che stiamo utilizzando). Persa l’armatura si moriva inesorabilmente al colpo successivo. Il tutto risultava di una difficoltà esagerata, niente a che vedere con la gran parte dei giochi odierni, se si aggiunge anche il fatto che bisogna portarlo a termine due volte prima di vedere la schermata finale,  completarlo era davvero un’impresa titanica.
L’estate era un ottimo momento per dedicarsi a una simile sfida, il tempo libero permetteva di vestire l’armatura e combattere i terribili demoni che hanno generato le bestemmie di migliaia di giocatori.
L’estate era anche un ottimo momento per menar botte, e infatti arrivò Final Fight: molti ricorderanno questo storico beat ‘em up a scorrimento orizzontale, caratterizzato da sprite enormi per l’epoca, e con una giocabilità di molto migliorata rispetto ai precursori: bellissimo Double Dragon, ma il passo in avanti era netto. A partire dalla scelta dei personaggi, e dalla loro ognuno contraddistinto da caratteristiche uniche: a cominciare da Mike Haggar, il sindaco e padre che tutti vorrebbero avere: primo cittadino della criminosa Metro City, si vede rapire la propria figlia Jessica dalla folle gang criminale Mad Gear e si lancia senza remore nel cammino per riprenderla. Lento rispetto agli altri personaggi, ma anche il più potente, poteva afferrare i nemici per poi usare mosse da wrestling che ricordavano quelle di Zangief (il russo di Street Fighter, anch’egli nella scuderia Capcom, deve molto al nerboruto combattente di Final Fight); ad accompagnarlo Cody, personaggio molto equilibrato nelle caratteristiche, capace di usare i coltelli come arma da mischia e lanciarli, e da Guy, meno potente degli altri ma caratterizzato da un’estrema velocità, capace di saltare sui muri e rimbalzare per poi eseguire un calcio volante; cos’altro poteva catalizzare le attenzioni di noi giovani gamer, che avremmo pure potuto giocare in co-op, menando legnate in due in giro per la città con mosse spettacolari ed effetti sonori esagerati? Il gioco era un’icona annunciata.
Se mi chiedete di ricordare le mie estati, l’uomo che sono ricorderà le serate con gli amici, le bevute e le risate, ma il gamer che già all’epoca coltivavo richiamerà alla mente questi due titoli, quelli che più hanno totalizzato la mia attenzione da ragazzino, fino all’arrivo di sua maestà Street Fighter II: non penso abbia bisogno di presentazioni, e ci metteremmo una stagione intera a parlarne.
Era veramente difficile schiodarmi da un cabinato, anche col caldo che faceva, per questo motivo a volte attiravo sguardi di ammirazione dagli altri bambini, altre volte li innervosivo, e capitava anche di essere partecipe anche di piccole zuffe tra ragazzini (succedeva anche questo, nelle sale giochi della mia città, anche l’arcade poteva regalarti momenti di vita vera).

Di estati da allora ne sono passate, la mia passione per i videogiochi non è mai diminuita: si è gradualmente spostata dall’ambiente delle sale giochi a quello casalingo, ero un fiero possessore di Sega Mega Drive con annesso Mega Cd (su cui ho potuto finalmente giocare a Ghouls ‘n Ghosts  e Final Fight comodamente seduto sulla mia poltrona), e d’estate adesso potevo organizzarmi con gli amici per giocare a Golden Axe, Mortal Kombat nel salotto di casa mia; certo, avevo anche amici possessori del Super NES, e lì si andava a giocare a Street Fighter 2 e Mario Kart: la console war era feroce, si faceva a gara se fosse meglio Sonic o Super Mario, ma alla fine vincevano sempre i videogame. Perché i videogiochi, quelli belli, non hanno tempo né un colore politico o calcistico, i videogiochi belli si giocherebbero in ogni stagione e, sia al caldo dell’estate o durante la pigrizia invernale, sono sempre un’occasione per ritrovarsi con gli amici, pronti ancora una volta menar le mani a Metro City o in una favela del Brasile, ovunque ci portino in vacanza i nostri amici virtuali.




Nintendo e i recenti sviluppi sull’emulazione

In queste settimane il mondo del retrogaming ha subito una scossa tellurica senza precedenti; il più grande sito di emulazione, emuparadise.me, ha rimosso l’intera sezione download di ROM, ISO e emulatori, decretando così la fine della sua storia, preziosissima nel recupero di titoli che altrimenti sarebbero andati perduti. Dietro a una simile decisione c’è la “minaccia Nintendo” che ha fatto causa ai siti LoveROMs e LoveRETRO per aver violato il loro copyright, in quanto non solo lo stile del sito faceva largo uso delle proprietà intellettuali della compagnia giapponese ma il sito si presentava, più che come un un sito di emulazione, come una sorta di skin somigliante ai canali ufficiali Nintendo o qualsiasi altro store digitale proposto con le console casalinghe (ovviamente, però, il tutto era ceduto gratuitamente). In seguito alla chiusura della sezione download di Emuparadise, la cui unica fonte di sostentamento erano le donazioni volontarie degli utenti, altri siti di emulazione potrebbero far lo stesso per non evitare conseguenze legali e i retrogamer di tutto il mondo riversano la propria rabbia alla responsabile di tutto ciò, che è ovviamente la casa di Kyoto. Ma cosa è in potere della compagnia giapponese e che ne sarà del futuro dell’emulazione? Quali sono i veri effetti che una mossa del genere potrebbe portare alla comunità di retrogaming? Proviamo ad analizzare i fatti che hanno portato a questi nuovi inquietanti eventi.

Le cause e gli effetti

Per capire le cause della querela da parte di Nintendo a LoveROMs e LoveRETRO basta guardare qualche screenshot degli ormai defunti siti: sin dalle homepage è possibile notare i paesaggi presenti nei New Super Mario Bros. e la presenza di altre proprietà intellettuali nonché, nelle sezioni ROM, le boxart dei giochi da scaricare, come un vero e proprio servizio di streaming a pagamento. Nei più normali siti di emulazione, come in Emuparadise, ci sono solamente liste che mostrano solamente i titoli dei videogiochi che vogliamo scaricare e gli screenshot e/o box-art appaiono una volta che il link ci rimanda alla pagina del download. Per il resto, l’unica altra cosa di proprietà di Nintendo su Emuparadise, al di là delle ROM, è giusto un vettoriale di Samus Aran in basso a sinistra nella home.

Per quanto Nintendo sia stata tempestiva nel far causa a LoveROMs e LoveRETRO senza pensare alle conseguenze, i due siti gemelli non hanno mai considerato di stare usando materiale protetto da copyright riguardo la skin delle loro piattaforme. Il fulcro della causa sono ovviamente le ROM ma è anche vero che se si avvia un sito del genere, la cui legittimità dello scopo si trova in una zona grigia (senza contare che le leggi sul copyright e il libero download cambiano da paese a paese), bisogna anche provare ad alzare meno polveroni possibili e rimanere nell’ombra più che si può. Adesso, come effetto, Emuparadise e altri grossi siti di emulazione, come The Isozone, stanno chiudendo le proprie sezioni download per evitare che Nintendo possa far loro causa per gli stessi motivi; è difficile dire che siano nello stesso “torto” di LoveROMs e LoveRETRO ma, preventivamente, è stato meglio rimuovere le ROM dai loro siti e continuare a esistere come comunità per il retrogaming. Ma adesso: cosa succederà alla scena dell’emulazione?

Una nuova scena?

Vogliamo ricordare, come prima cosa, che Emuparadise, LoveROMs e LoveRETRO sono siti i cui proprietari si trovano negli Stati Uniti e dunque, da cittadini americani, devono rispettare le leggi del loro paese, le stesse che permettono inoltre a Nintendo di compiere azioni legali (e che dopo commenteremo). Per tanto, anche se lo scenario attuale può sembrare desolante, l’emulazione continuerà a esistere anche senza Emuparadise e The Isozone. Il problema principale per chi usa Everdrive per le console o semplicemente chi scarica anche solo per provare determinati titoli per poi comprarli su Ebay o nelle piattaforme legali che offrono titoli retro sarà semplicemente legato a sicurezza, reperibilità e accessibilità. Emuparadise per anni è stato sinonimo di emulazione, offriva (con buona probabilità) il più grosso database per ciò che riguardava le console precedenti alla settima generazione di console, ovvero quella di PlayStation 3 e Xbox 360 (esisteva una sezione per il Nintendo Wii), offriva i titoli per Satellaview, add-on per il Super Famicom che consentiva di utilizzare giochi esclusivi via satellite e mai più messi in commercio, titoli di sviluppatori in attività e defunti come la Toaplan che non hanno mai più rivisto un secondo rilascio, neppure per la Virtual Console, e, cosa più importante in simili siti, era libero da ogni rischio di phishing, malware o qualsiasi altro elemento per i PC di coloro che volevano solamente giocare a qualche gioco pixelloso; inutile a dirlo, Emuparadise non monetizzava in alcun modo e le donazioni servivano primariamente a pagare il dominio e i server che contenevano l’enorme database.
Esistono ancora altri siti di emulazione in altri paesi (e dunque in altre lingue), senza contare l’incontenibile scena dei torrent in cui possiamo trovare un sacco di materiale ma il problema per gli appassionati rimane: saranno abbastanza sicuri? Saranno abbastanza forniti? Cosa succederà alla scena degli hack e delle traduzioni che hanno portato in occidente titoli, come Mother 3, di cui Nintendo ignora la domanda da anni? Che ne sarà dell’emulazione non-Nintendo? Che ne sarà della scena del MAME che ha preservato un’infinità di titoli che altrimenti sarebbero andati persi per sempre? Che ne sarà della scena del MSX, avviata persino dall’ideatore stesso dello standard Kazuhiko Nishi? Che ne sarà dei giochi 3DO? Ci sono un sacco di domande alla quale per ora è impossibile dare risposte; l’unica plausibile, sebbene abbia una risposta abbastanza semplice, è quella di aspettare che finisca la tempesta e di lasciare che la scena dell’emulazione si riformi tenendo conto degli eventi che hanno portato a chiudere i maggiori colossi del web. Forse negli Stati Uniti, epicentro degli scontri, si dovrà in futuro ricorrere a indirizzi VPN e relegare una nuova scena all’interno del deep web, probabilmente non sarà così in Stati come la Russia, in cui la scena degli scambi virtuali fila liscia come l’olio; per ora l’emulazione vede giorni bui ma, come si dice spesso, “ciò che arriva in rete, rimane in rete” e perciò, secondo noi, è solo una questione di tempo perché l’emulazione torni forte e affidabile come prima (insomma, Nintendo per anni non ha nemmeno considerato il problema, è possibile che non lo considererà più neanche il futuro).

La voce del padrone

Per quanto si possa condannare Nintendo per ciò che stanno facendo ai siti di emulazione, la grande N ha tutte le basi per procedere: sui giochi proposti in quei siti possono accampare diritti, si tratta delle loro proprietà intellettuali e pertanto possono bloccarne la diffusione. Per quanto romantiche possano sembrare frasi come “i giochi appartengono alla community dei videogiocatori”, i giochi non sono di dominio pubblico e nessuno può permettersi di diffondere le IP di qualcun altro senza consenso, anche di fronte all’imprescindibile fatto che, se servizi come la Virtual Console o Xbox Live Arcade hanno avuto il loro successo, lo devono alla scena dell’emulazione preesistente. Il problema principale adesso, per Nintendo, sta nel restituire ai fan tutto ciò che hanno fatto sì fosse rimosso dai siti per l’emulazione e renderli di nuovo disponibile, sia per il bene degli sviluppatori e sia per i fan che vogliono quei giochi; pensate al solo Super Mario Sunshine, sequel di Super Mario 64, rimasto relegato al Nintendo Gamecube e che non ha mai visto il rilascio in nessuna console di generazione successiva. Alla luce di questi fattori, sorge spontanea una gigantesca domanda: riuscirà Nintendo a preservare la sua stessa libreria di titoli per il suo bene, quello degli sviluppatori e quello dei fan? Per ora la console principale della compagnia di Kyoto, il Nintendo Switch, non propone nessun titolo proveniente dalle loro vecchie console (solamente alcuni giochi arcade delle librerie Neo Geo e qualche altra piccola rarità) e gli unici canali ufficiali, ovvero la Virtual Console per Wii e quella più magra del Wii U, semplicemente non hanno vita lunga. Nintendo, nel compensare la fame di retrogaming nei fan, sta costruendo un servizio simile al PS Plus e al GamePass di Microsoft da lanciare insieme al servizio online di Switch ma purtroppo parliamo solamente di una manciata di titoli al mese (con l’aggiunta, per alcuni, del multiplayer online) che non rimarranno nella memoria delle console dei giocatori; i titoli per ora riguardano solo il Nintendo Entertainment System ma tutti i giocatori si chiedono la stessa cosa: e i giochi per Super Nintendo, Nintendo 64, Gamecube, Wii, Sega Mega Drive, Commodore 64, PC Engine, insomma, tutte le console che abbiamo visto sulla Virtual Console? Per i possessori delle console Nintendo la situazione non è affatto rosea e probabilmente nemmeno gli iper-popolari NES e SNES mini (che si avvalgono per altro delle ROM caricate nei siti di emulazione e non dei codici madre originali) potranno mai risolvere la situazione in loro favore, nemmeno se un giorno verranno resi disponibili tutti i titoli tolti ai siti di emulazione perché nessuno avrà modo di provarli (e per le nuove generazioni di giocatori, che non guardano questi giochi con lo stesso occhio nostalgico di alcuni, serve davvero un canale di prova). Nintendo perora avrà vinto la battaglia ma tutti sanno che è una guerra che non potrà mai vincere del tutto, nemmeno offrendo il miglior servizio di streaming o vendita per il retrogaming; potranno anche uscirsene a testa alta offrendo persino agli sviluppatori una soluzione che possa far sì che monetizzino sui loro vecchi titoli ma l’emulazione è semplicemente un movimento troppo diffuso per estinguersi, e saprà trovare contromisure. Non ci resta che aspettare e vedere l’epilogo di questa storia, sia per Nintendo sia per la scena dell’emulazione.




Lunga e diritta correva la strada

Oggi, sono principalmente un appassionato di videogiochi, soprattutto quelli di corse automobilistiche: qualsiasi cosa sfrecci su pista, strada o campi sterrati, che abbia una, nessuna o 18 ruote, devo assolutamente guidarla.
La mia passione ha origini molto, molto lontane nel tempo. La scintilla che ha dato origine a tutto è legata a un ricordo ancora vivido nella mia memoria, un videogioco di cui la maggior parte dei lettori più giovani probabilmente non ne ricorderà nemmeno l’esistenza.
Se la memoria non mi inganna, era l’inizio degli anni ’90, ma diavolo, ricordo come fosse ieri la telefonata che ricevemmo a casa e che segnò la mia vita per sempre.
Una piccola premessa: se siete nati negli anni ’80, quello che sto per raccontarvi è successo con una certa probabilità anche a voi, magari con modalità sostanzialmente diverse.

Era un pomeriggio qualunque, a casa mia,d’improvvisò sentì squillare il telefono: «Pronto?» rispose mio padre (un nerd di altri tempi, potremmo definirlo, possedeva per lavoro già diversi computer, tra Olivetti e Macintosh e, per inciso, su quelle macchine conobbi per la prima volta il Tetris 3D e Prince of Persia) «Salve, parlo coni il signor Zambuto? Volevamo informarla che è stato selezionato per approfittare di una eccezionale opportunità! Solo per oggi, se accetta, avrà la possibilità di acquistare per soli 2 milioni di lire, una vacanza a Parigi per tutta la famiglia e un fantastico Personal Computer di ultima generazione, compreso di enciclopedia multimediale in floppy disk» disse tutto d’un fiato l’operatore all’altro capo della cornetta.

Il viaggio non convinse molto mio padre, alla fine l’offerta nascondeva i soliti “se” e “ma” scritti in piccolo; il computer, invece, gli parve un’ottima occasione, conosceva i prezzi che giravano in quegli anni e si risolse ad acquistare il pacchetto.

Come ho detto, mio padre aveva già i suoi terminali, certo avrebbe utilizzato anche quello ma sapete che significava? Io sì, lo compresi subito: AVEVO IL MIO PRIMO PC!

Incredibile ma vero, non riuscivo a realizzare, la sensazione di avere il primo personal computer in cui non dovessi scrivere nessun codice astruso mi faceva impazzire. Insieme al PC, ci diedero anche un pacchetto di giochi, cosa che mi esaltò ancora di più. Tra le scatole dei giochi, c’era lui, il cartone mi attraeva già solo dal nome e dall’immagine: 1000 Miglia (prodotto da Simulmondo).

Non avevo mai visto niente di più bello, era il mio primo gioco di corse automobilistiche, con piste interminabili e la possibilità di scegliere diversi modelli di auto, una delle robe più innovative per quei tempi, il quadro dell’automobile mostrava tutte quelle lancette all’interno dei dischi, per me era una visione assurda perché tutto questo al tempo lo vedevo davvero nella macchina guidata da mio padre. Più guardavo, più impazzivo per l’incredulità: il tachimetro, il contagiri, l’indicatore del livello di carburante, persino la temperatura dell’olio, tutto riprodotto alla perfezione.

Fu proprio 1000 Miglia che mi iniziò al mondo delle corse, e tuttora non nascondo che le auto d’epoca, esercitano un fascino non indifferente su di me, quasi come ne fossi stregato da allora, come fossero macchine del tempo che mi riportano a quegli anni, non quelli della loro uscita sul mercato, ma quelli della mia adolescenza, a quell’epoca in cui, per la prima volta, vidi la realtà perfettamente riprodotta sullo schermo di un computer.




Il mistero estivo

Era una tipica giornata estiva, a Zingarello, una di quelle con 40 gradi all’ombra, l’aria era afosa e ogni cosa contribuiva a causarmi fastidio. Sul far del pomeriggio decisi di andare in spiaggia con i miei amici, ma non fu una scelta azzeccata. Diversamente dal solito, l’acqua era agitata, al posto del mare piatto ruggivano onde gigantesche che si infrangevano violente sulla riva. Ci stavamo annoiando, ci annoiammo, ci saremmo annoiati per sempre se un mio amico non avesse tirato fuori un Nintendo Switch equipaggiato di Super Mario Kart 8, facendoci dimenticare il maltempo e l’incazzatura del mare con gare di velocità e battaglie all’ultimo guscio.
Bastò quel piccolo gesto per far tornare a galla grandi ricordi, legati soprattutto alla mia infanzia, quando bastava un Nintendo DS per passare una giornate estive sotto lontano dalla noia ovunque si andasse. Il Professor Layton era un ottimo compagno di viaggio: indovinelli forse un po’ complicati per la mente di un bambino di 7 anni (età in cui giocai il primo capitolo della saga), non di rado mi ritrovavo a chiedere l’aiuto di altre persone, e finiva fosse una buona scusa per socializzare, nascevano amicizie inaspettate, che piantavano radici nel comune intento di risolvere quegli enigmi. Negli anni, la serie del professor Layton ha visto numerosi sequel, e l’estate era dedicata ogni volta a mettere alla prova le mie conoscenze enigmistiche, con la soddisfazione di veder risolti i puzzle in sempre minor tempo di anno in anno. Ma Layton non era solo intelletto: Layton era storia, e quindi emozione, al punto che, finito il primo giocodella saga, non potei fare a meno di correre sotto casa per mostrare ai miei amici con fierezza il mio traguardo.
Capitolo dopo capitolo, le avventure del professore e del suo assistente Luke mi emozionavano sempre di più, mi avvincevano come solo le belle storie sanno fare, al punto che un giorno riuscii a convincere anche mio padre a giocarci. Mentre tratteggiava scelte con lo stick, di tanto in tanto lo spiavo per scrutare le sue reazioni, e ricordo ancora la felicità quando mi disse addirittura che il gioco era bello: da quel momento, ai miei occhi, io ero il suo Luke e lui il mio professore. Durante gli anni mi trovai a giocare al titolo in contemporanea con mio papà, riuscendo ogni tanto a risolvere qualche indovinello in cui lui invece era rimasto bloccato.
Di estate in estate la mia adolescenza andava via, lasciando posto al ragazzo che oggi è a un anno dall’università: negli anni è cresciuto anche Layton, anche lui ha avuto degli eredi. Chi ha detto infatti che anche il detective non può essere una carriera a conduzione familiare? Nell’ultimo capitolo il protagonista non è il professore, bensì sua figlia Katrielle, e giocandoci oggi mi sembra in qualche modo di essere cresciuto davvero insieme a lui. Level-5 è riuscita a mantenere vivo un brand di successo con una costante qualità medio/alta nella sua miriade di indovinelli.
Le mie estati continuano nella pace di Zingarello, il Nintendo DS è diventato 2DS dopo essere passato dal 3D, io sono cresciuto, i miei amici sono cresciuti, e in fondo anche mio padre continua a crescere e giocare (per fortuna); non nego che ho provato un sussulto di gioia e una sottile nostalgia quando, un giorno, da nulla, ho sentito un ragazzino di 7 anni, chiedere al proprio padre «come si risolve questo indovinello?» impugnando un 3DS in una tipica giornata estiva con 40 gradi all’ombra e l’aria afosa che dava fastidio.




Corse clandestine e scontri all’ultimo Pokémon

Da bambini l’estate inizia circa il primo di giugno, inizia quando in classe, a scuola, non si fa altro che giocare, inizia quando finiscono le interrogazioni e quando non si ha più nulla da fare il pomeriggio. Lunghi pomeriggi passati davanti una PlayStation 2 o davanti lo schermo di un Nintendo DS, nottate intere a cercare di battere l’ultima palestra per poter finalmente catturare il Pokémon leggendario o a organizzare tornei di Mario Kart DS, tutto all’insegna dello svago e della spensieratezza.
All’inizio di ogni estate, i miei nonni materni si trasferivano a Punta Grande, zona balneare di Realmonte, in uno di quei residence che richiamano stagionalmente gli abitanti dei paesi limitrofi che amano passare i mesi caldi al mare. Lì abitavano molti bambini con i quali, per fortuna, condividevamo la stessa passione: ovviamente parlo dei video game.
Ancora ricordo benissimo l’estate del 2008, uno dei periodi più belli per un bambino che come me andava ancora alle elementari.
Per Studio Aperto era l’estate più calda degli ultimi 50 anni; per me la più divertente, un periodo per mettere al fresco la testa dalla calura dei compiti per casa, dalle interrogazioni, dalle sveglie la mattina presto e dalle sere che non superavano le 21:30 perché il giorno dopo bisognava svegliarsi. Era la stagione più calda, ma anche la più fresca, nella quale non serviva altro che divertirsi e giocare.
Le mattine estive erano dedicate alla spiaggia, mentre nelle ore più calde del pomeriggio si rimaneva in casa, aspettando che la temperatura fuori non ci facesse evaporare. Per ammazzare il tempo potevamo contare sul fantastico Nintendo DS, console che ha plasmato la mia infanzia. Proprio l’anno prima, nel 2007, uscì il primo gioco Pokémon per NDS: Pokémon Versione Diamante e Versione Perla. Due titoli che mi hanno introdotto al meraviglioso e colorato mondo degli animaletti tascabili, che già avevo cominciato a conoscere grazie ai miei cugini, con Rosso Fuoco, Verde Foglia e Smeraldo.
Al residence tutti avevano un Nintendo DS e una cartuccia della serie Pokémon, e tutti ci divertivamo a organizzare sfide 1v1 per provare la potenza della nostra nuova squadra, allenata e formata con fatica e sudore. Ogni battaglia era avvincente: c’era chi utilizzava solamente “leggendari” catturati durante il gioco, scambiati dal famosissimo “cuggino” oppure utilizzando i vili trucchi dell’Action Replay (che fortunatamente ha cominciato a essere usato solo dopo qualche anno).
Eravamo talmente elettrizzati al pensiero di diventare l’allenatore più forte del residence che si decise di istituire la Lega Pokémon di Punta Grande, dove ognuno ricopriva un ruolo e il campione era il bambino che possedeva la squadra più forte di tutte. Furono stilate le regole e definite le posizioni; chi riusciva a battere il primo Superquattro aveva, di diritto, il suo posto e poteva battersi, dopo un solo giorno, con il secondo e così via. Le giornate passavano a catturare i Pokémon con le caratteristiche che più si addicevano al nostro stile di combattimento: chi puntava sulla difesa, chi sulla velocità chi sulle mosse, come ipnosi o ultimocanto; si escogitavano strategie, complotti e piani per sconfiggere il proprio avversario, si studiavano i Pokémon dello sfidante o dello sfidato, si cercava di dare a tutti dei rimedi, bacche o altro in modo da poter recuperare vita, risvegliarsi da un sonno o aumentare le statistiche. Tutto questo per ottenere «ricchezza, fama e potere», per poter dire «sono il più forte del residence, non mi batterà nessuno».

Le battaglie continuavano fino a tarda sera, fino a quando mio nonno non mi chiamava per andare a dormire, ma la nostra giornata non poteva certo terminare così: la notte, infatti, era il turno di Mario Kart DS. Si organizzavano corse clandestine e lotte per il primo posto, modestamente quasi sempre detenuto dal sottoscritto. Ogni pomeriggio – o comunque quando capitava – era sempre un buon momento per accendere il nostro Nintendo DS e sfidarsi; fortunatamente per giocare in multiplayer locale bastava una sola copia del gioco – grazie Nintendo – e si poteva giocare con altre sette persone.
I tornei di Pokèmon duravano solamente per i tre mesi d’estate, e ogni anno si ripetevano le ammissioni per la Lega Pokémon di Punta Grande, mentre le gare con Mario Kart DS hanno accompagnato la mia intera infanzia in ogni periodo dell’anno, e ancora oggi qualche partita la rifaccio volentieri.
I tempi sono cambiati: gli smartphone fanno da padroni, le console portatili hanno perso peso, difficilmente vedo bambini seduti su una panchina, all’ombra, a sfidarsi a Pokémon o qualsiasi altro gioco con un handheld fra le mani.
Io, ogni volta che ritorno al residence di Punta Grande, ricordo con nostalgia quegli anni passati tra mare e Sinnoh, tra casa e una pista di automobiline che sfrecciano su strade d’altri mondi; mi mancano le entusiasmanti battaglie, mi manca la preparazione psicologica che ne conseguiva, mi manca l’estate del 2008.




Governala perché è tropicana, ye

Sole, mare, le orribili hit musicali della stagione sparate a volumi siderali dagli stabilimenti balneari… questa è l’estate. Lo avete capito, non sono esattamente un suo fan, anzi. I mesi tra giugno e agosto portano troppo caldo per permetterci di dedicare anima e corpo al nostro hobby preferito, eppure, per quanto possa sembrare strano, l’estate ha portato con sé alcune delle mie sessioni videoludiche preferite: impossibile non pensare ai tornei casalinghi con amici fatti su Virtua Striker 2 su Sega Dreamcast, in barba ai gettoni da acquistare nelle sale giochi locali. O quando, anno domini 2004, mi innamorai del puroresu (il wrestling giapponese) dopo ore di match e tornei simulati su Giant Gram 2000, sempre uscito su Dreamcast. Ma questa è una storia diversa. Qui vi racconto come e perché sono diventato un fan dei videogame gestionali, genere che tutt’oggi prediligo. Questa è la storia di Tropico: Paradise Island, primo in ordine d’uscita della saga di PopTop Software prima e Kalypso Media poi, che vedrà il sesto capitolo in uscita quest’anno.

Ma facciamo un passo indietro: non era la prima volta che cadevo nel tunnel dei gestionali. Avevo già alle spalle ore e ore passate sulle demo di Railroad Tycoon 2 (il primo titolo PopTop!) e su Rollercoaster Tycoon: mi piaceva l’idea di poter costruire dei tratti ferroviari o parchi di divertimento, era il giusto relax al termine di un pomeriggio di mare. Nel 2002 arrivò un’altra demo, quella che mi cambiò la vita, sempre a cura di quella PopTop che mi aveva stregato con Railroad Tycoon 2: il primo Tropico era tra le mie mani, e in esse risiedeva adesso il destino di centinaia di abitanti di una piccola isoletta del pacifico.
Tropico: Paradise Island è un gioco incredibile, a 16 anni dalla sua uscita lo considero  ancora il migliore della saga… Tropico 6 permettendo. Le possibilità di gameplay sono letteralmente infinite: possiamo scegliere se essere un buon Presidente, cercando di ascoltare i bisogni del nostro popolo, oppure fregarcene altamente e instaurare un bel regime dittatoriale, con tanto di elezioni truccate (!!!), noncuranti del pericolo di subire una rivolta da un momento all’altro. Io, essendo buono d’animo, tendevo sempre alla prima opzione, cercavo in tutti i modi di aiutare i miei tropicani: un buon tetto sopra la testa, un lavoro ben pagato e la giusta attenzione da dedicare a ogni gruppo politico dell’isola. Sì, perché in Tropico era praticamente quotidiano lo scontro con i comunisti che chiedevano case migliori e lavori ben retribuiti, con gli ambientalisti che protestavano contro la deforestazione, con i capitalisti che d’altro canto volevano si puntasse tutto su turismo e industrializzazione, con i militari che si lamentavano in caso di armate esigue, e con i religiosi che reclamavano più chiese e leggi meno “peccaminose”. Già, le leggi. In Tropico ci sono anche quelle. E anch’esse rappresentano un casino diplomatico. Perché, mettiamo caso, se l’alleanza e una base militare nell’isola da parte degli Stati Uniti accontenta i capitalisti, vedrà scontenti i comunisti,con risultati opposti nel caso decidessimo di diventare amici dell’Unione Sovietica. Il gioco è ambientato nel pieno della Guerra Fredda, e il parallelismo con la Cuba castrista è ovviamente esplicito, e Fidel Castro è a pieno diritto uno degli “avatar” selezionabili nel gioco completo, insieme ad altri personaggi come Evita Peron o Lou Bega (sì, proprio l’autore di Mambo N°5), tutti con bonus e malus storicamente precisi.

Ciò che porto nel cuore di Tropico non è soltanto l’immenso e strutturato gameplay, ma soprattutto la colonna sonora a cura di Daniel Indart: premetto di non essere un grande fan della musica latino americana, anzi, proprio la detesto. Ma la soundtrack di Tropico è perfetta sotto ogni punto di vista, un tripudio di son cubano sullo stile del leggendario Compay Segundo e del Buena Vista Social Club. D’altronde, l’omonimo documentario di Wim Wenders era uscito solamente tre anni prima del gioco, e la sua influenza a livello popolare si faceva ancora sentire. Che ci crediate o no, non riuscivo a staccarmi dal PC anche per questa ragione: non solo era intrigante vedere lo sviluppo del proprio isolotto pacifico anno dopo anno, ma tutto era coadiuvato da una colonna sonora che, ancora oggi, reputo tra le migliori nella storia dei videogiochi.

Credo di aver passato mesi e mesi dietro alla demo di Tropico: Paradise Island, e non nascondo che ancora oggi mi viene voglia di tornarci, nonostante i capitoli recenti siano più al passo con i tempi. Sarà per una sfida più appassionante, sarà per la musica, o sarà semplicemente uno spleen adolescenziale. O forse perché vi dedicai così tanto tempo da arrivare a sentire in testa le frasi del mio consigliere anche quando uscivo la sera. Probabilmente è per quest’ultimo motivo:
«Presidente, la sua gente sta morendo di fame, ci serve subito del cibo!»




Ni, oh!

L’estate è quel periodo normalmente associato a ferie, relax, gioia di vivere e divertimento. Non è il mio caso. Questa estate – come ogni altra del resto –, visto il maggior tempo libero, è dedicata al recupero di alcuni titoli che non si ha avuto modo di giocare e uno di questi è senza dubbio Nioh, RPG del Team Ninja che ha riscosso un buon successo e che avrà un sequel, da poco annunciato all’E3 di giugno. Dopo essere stata per un certo periodo un’esclusiva PlayStation 4, Nioh è arrivato su PC, sotto l’insegna, un po’ particolare, di souls-like, anche se grande è stato il disappunto nello scoprire che souls-like non è.
Il genere sdoganato da Hidetaka Miyazaki e dal suo Dark Souls, ha visto numerosi tentativi di emulazione in salse più o meno simili, anche se con risultati altalenanti: basti pensare a Lords of the Fallen o, perché no, quel Code Vein che riesce a essere promettente e scoraggiante contemporaneamente, e forse per questo nuovamente posticipato. In attesa del futuro lavoro di From Software, Sekiro, Nioh è il giusto ponte di collegamento e, come tanti, anch’io sono stato rapito dalle atmosfere e dagli elementi così vicini alla cultura giapponese, della quale sono un estimatore. Per chi sia abituato ai souls, approcciarsi al lavoro Team Ninja è alquanto singolare: sembra tutto così complicato, con pose diverse da assumere e relativi effetti, mille oggetti e tante cose a cui fare attenzione (mal spiegate); eppure, in qualche modo, il titolo completa e approfondisce il concept di Miyazaki. Ma non per questo può parlarsi di souls-like.
Partiamo dalla narrazione: diretta, senza fronzoli e con un protagonista fisso, quel William che sembra un incrocio tra Chris Hemsworth e un qualunque modello di intimo farloccamente perfetto ma, in ogni caso, sempre meglio dei costrutti medi derivanti dai vari editor From Software: perché il tempo libero estivo spesso non basta neanche a quello, non importa quante ore impiegheremo a realizzare il nostro alter ego, avrà comunque la stessa espressione di un bimbo di cinque anni durante il primo assaggio di un limone. Giocare Nioh fa anche sorgere una domanda spontanea: dove sta la difficoltà nel realizzare delle animazioni facciali? Miyazaki, prendi nota.
Eppure Nioh non è un souls like, e il gameplay trasmette immediatamente questo messaggio. Hey, hai finalmente quell’armatura potente, con bonus perfetti per te e, perché no, anche bella esteticamente? Shottato. Ma guarda quanti Amrita, potrei salire di livello per essere più resistente… shottato! Ah, ma forse… shottato!

Ovviamente si tratta di un’estremizzazione ma proprio per questo Nioh risulta tanto bello quanto frustrante, un gioco in cui il senso di progressione, capace di regalare enorme appagamento, viene messo da parte in favore di una difficoltà costruita ad hoc solo per «essere più difficile di Dark Souls». Ma qui casca l’asino: Dark Souls non è veramente difficile; certo, non consente un approccio agevole e, a volte, sa essere abbastanza punitivo. Eppure è chiaro, limpido e ogni cosa è costruita avendo dall’altro lato il suo perfetto contrario. Dark Souls è apprendimento, duro e puro: credevate che l’estate significhi la fine della scuola e quindi una pausa a ogni forma di studio? Se giocatori dei titoli From Software, scordatevelo. Eppure basta “studiare” quel che serve per essere sempre all’altezza della situazione ma soprattutto, il vostro equipaggiamento e level-up, servono effettivamente a qualcosa. Non troverete mai un nemico base in grado di scalfirvi, una volta progrediti; noi siamo i futuri Lord of Cinder, i soldati semplici li mangiamo a colazione.
Nioh non è un souls like perché è punitivo per motivi sbagliati, essendo essenzialmente una lunga e perenne sfida contro il Drago Antico di Dark Souls II. Se da un lato la sfida, spinge a migliorare, dall’altro, diviene frustrante, in virtù del fatto che i vostri progressi, valgono quasi zero. Cos’è dunque Nioh? Un trial & error, senza se e senza ma. È un male? Assolutamente no.
Sin dall’alba dei tempi, l’essere umano cerca di imparare dai propri errori, in quel trial & error che è la vita reale che col passare dei secoli ci ha portati dove siamo. Per esempio, dopo un agosto passato ustionati dalla nostra stella, l’estate successiva ci penserete due volte prima a non spalmare una crema solare. Trial & Error appunto. In un videogioco – un’avventura compressa in una manciata di ore – anche la frustrazione derivante dagli sbagli (o dalla sfortuna) si condensa, arrivando alla tanto e bella imprecazione tanta cara ai “soulsiani”. Ma ci si fa forza e, mentre vi scrivo, mi avvio all’ultima parte del titolo che, potrebbe non sembrare, ma mi sta piacendo moltissimo.
Nonostante tutto infatti, la struttura del gioco è azzeccata, con missioni secondarie più o meno interessanti e alcune trovate da RPG vecchio stile, capace di farvi prendere appunti su un foglio di carta (o almeno, io faccio così).
Per cui, anche io attenderò con ansia Nioh 2, sperando che tutto trovi un senso compiuto e che, soprattutto, non debba giocarlo in estate. Perché in estate, ci rilassa, possibilmente senza rischiare la scomunica.