Nei cicli di Dark Souls

Ci sono dei videogiochi che hanno fatto della narrativa il loro punto di forza, facendo breccia nel cuore degli appassionati e diventando dei veri e propri cult. Titoli come BioShock, Metal Gear, Mass Effect, hanno tenuto milioni di videogiocatori incollati allo schermo, incantati dalla caratterizzazione dei personaggi e dalla trama che, piano piano, si dipanava facendosi strada verso un finale da ricordare.
In questo marasma di titoli, la serie Souls  si è ritagliata uno spazio nel cuore di chi li ha giocati, vissuti e soprattutto, sudati.
Cominciamo questo viaggio attraverso i cicli e le terre di Lordran, Drangleic e Lothric cercando di mettere assieme tutti i pezzi del puzzle che, con l’avvento dell’ultimo DLC The Ringed City, pare aver trovato una sua conclusione.
Seguiranno grossi spoiler, al fine di trovare un senso compiuto delle vicende narrate.

Gli inizi

La serie Souls venne alla luce dal genio di Hidetaka Miyazaki che, dopo aver lavorato intensamente alla serie Armored Core, decise che i tempi erano maturi per lavorare al suo progetto più ambizioso, un RPG dalle tinte fantasy che avrebbe sfruttato appieno le potenzialità di PlayStation 3. Non era la prima volta che From Software, società di cui Miyazaki è presidente, si cimentava in questa categoria di videogiochi: proprio nel lontano 1994, sempre su PlayStation, venne pubblicato King’s Field, antesignano dei Souls, che ebbe un discreto successo e diversi seguiti. A contraddistinguerlo prima di tutto, oltre al lato artistico, era soprattutto la difficoltà che rendeva questo RPG una vera e propria sfida per i videogiocatori. Proprio questa esperienza pose le basi per quello che sarebbe diventato la punta di diamante di Miyazaki e che, di lì a poco, gli diede la fama come uno dei migliori Game Author degli ultimi decenni: Demon’s Souls.
Tra le ispirazioni più o meno visibili nei suoi lavori troviamo soprattutto le influenze di Berserk, celebre manga, ancora in corso, di Kentaro Miura e dell’architettura sia occidentale che asiatica, tanto che la celebre Cattedrale di Anor Londo, presente in Dark Souls, trae ispirazione proprio dal Duomo di Milano.

Demon’s Souls

Siamo nel 2009 e finalmente viene pubblicato, come esclusiva PlayStation 3, Demon’s Souls. Il titolo ebbe subito un notevole successo sia di critica che di pubblico, vincendo numerosi premi, nonostante tecnicamente non eccelso e presentando caratteristiche non idonee a un pubblico generalista come il tipo di narrazione e la difficoltà. Proprio quest’ultima fu alla base di numerose critiche, presa come una scelta puramente pubblicitaria ma, proprio Miyazaki stesso, la giustificò come parte fondamentale e integrata all’interno della lore, con l’intento di dare uno scopo, un senso di realizzazione capace di spingere i giocatori ad elaborare nuovi modi per affrontare il mondo di gioco. Quest’ultimo caratterizza maggiormente Demon’s Souls: Tutto ciò che vediamo su schermo è pura narrativa così come i nemici, gli attacchi, gli oggetti e soprattutto i boss, ostacoli quasi insormontabili e che rendono questo titolo uno dei più appaganti sulla console Sony.
Ma le ambizioni di Hidetaka sono ancora più grandi e nonostante il successo di Demon si rimise subito a lavoro per portare a più persone possibile la sua idea, nella saga che lo consacrerà definitivamente: Dark Souls.

Le ere di Dark Souls

Nel 2011 su PlayStation 3 e Xbox 360 e nel 2012 anche su PC, arriva il successore spirituale di Demon’s Souls: Dark Souls.
I lavori per questo titolo furono spediti, partendo dall’ottima base del predecessore, in cui tutto fu potenziato dal punto di vista tecnico–artistico e soprattutto nel gameplay con molte novità che vedremo in seguito.

Tutto ha inizio in una landa desolata, grigia, perennemente immobile fino a quando, dal nulla, comparve una fiamma, la Fiamma Primordiale. Con l’avvento di essa e del fuoco si avviò una lunga serie di distinzioni fino ad allora sconosciute come la percezione di caldo e freddo, vita e morte, luce e oscurità. Assieme a questa fiamma apparirono i Lord e quattro di essi trovarono qualcosa di potente, talmente tanto da renderli divini: le Anime. Ma esse non erano tutte uguali: uno dei Lord, il Nano furtivo, ne trovò una ricca di oscurità e con essa decise di generare l’umanità.
Una grande guerra era alle porte e gli altri Lord, Nito, la Strega di Izalith e soprattutto Gwyn, convinti di essere diventati invincibili, decisero di porre fine al regno dei Draghi che fino a quel momento avevano dominato queste terre incontrastati, di pietra, immortali e privi di un’anima, ma fu proprio uno di loro, Seath il Senzascaglie che, invidioso dei suoi simili, rivelò ai lord l’unico modo per sconfiggerli: il fulmine. Grazie a questo tradimento cominciò una nuova era, l’Era del fuoco, un’era prospera che però, prima o poi, doveva finire. Si scoprì che poco alla volta la fiamma andava affievolendosi e Lord Gwyn, divenuto ormai Re, decise di sacrificarsi vincolando la Sacra Fiamma, alimentandola e prolungandone così la vita. Fu allora che Lord Gwyn divenne il primo Lord of Cinder.
Ma mille anni dopo, il momento in cui entriamo in scena, la fiamma rischia di spegnersi di nuovo e servirà qualcun altro per alimentarla, definitivamente. La leggenda narra che un giorno, un non-morto abbandonerà il castello ove rinchiuso e si recherà a Lordran, per succedere a Gwyn e salvare così la Prima Fiamma.
Il lungo e tortuoso viaggio partirà dal suono delle campane del risveglio, dopo aver sconfitto i primi due boss e aver fatto la conoscenza di quel Solaire divenuto ormai un must per tutti i seguaci dei Dark Souls. Dal suono delle campane si risveglia uno dei serpenti primordiali, abitatori dell’Abisso dove furono creati i primi uomini, con il nome di Frampt che, avvalendosi di quella leggenda, ci spingerà verso Anor Londo, la città degli dèi dove avremo a che fare con una delle boss fight che hanno segnato un’epoca: il cannibale Smaug e l’ammazzadraghi Ornstein. La loro sconfitta ci permetterà di vedere per la prima volta una dei tre figli di Gwyn, Gwynevere che, donandoci (finalmente) la capacità di teletrasportarci tra le varie zone della mappa, ci fornisce indicazioni su come accedere alla Fornace della Prima Fiamma: uccidere i Lord e privarli della loro anima. Questo ci porterà a sconfiggere Nito, il primo dei morti, la Strega di Izalith che, provando a salvare la fiamma creò la stirpe dei demoni e sicuramente peggior boss fight del gioco e del traditore Seath il senza scaglie e creatore della stregoneria.
Alla loro sconfitta la Fornace si aprirà davanti a noi e sarà proprio Lord Gwyn, divenuto ormai un non-morto, ad aspettarci. A questo punto abbiamo una scelta, se vincolare il fuoco e sacrificarci come fece il Lord oppure, mettere fine al ciclo, lasciare che la Fiamma si spenga una volta per tutte e cominciare così una nuova era: l’era dell’oscurità.

Ma perché questa scelta? In Dark Souls non è tutto ciò che sembra, infatti, c’è molto di oscuro nella storia degli ultimi mille anni. Frampt non sarà l’unico serpente primordiale che incontreremo. Kaathe ci narrerà un punto di vista diverso, di come in realtà la tanto acclamata leggenda non sia altro che un espediente per indottrinare i non-morti e far continuare a prosperare l’era degli dèi. Proprio uno dei figli di Gwyn, Gwendolyn – La Luna Oscura, creò questa storia al fine di salvare Lordran, Anor Londo e il resto delle terre nate in quest’era. Perfino la radiosità di Anor Londo è tutta finzione, dando modo ai prescelti di pensare di essere arrivati nella casa degli dei e che questa casa sia ancora prospera, il tutto raffigurato dall’illusione raggiante di Gwynevere al nostro primo incontro. Questo rovescio della medaglia ci fa capire che non esiste nessun prescelto e starà a noi decidere non solo il futuro di Lordran ma soprattutto il nostro.
Con l’espansione Artorias of the Abyss si è aggiunto un ulteriore tassello alla storia. Mentre Lord Gwyn si arrendeva al suo destino varcando la Fornace della Prima Fiamma, il mondo stava per essere inghiottito dall’Abisso. Solo uno dei suoi quattro cavalieri tentò di fare qualcosa, Artorias, che però nel tentativo di fermarne l’avanzata rimase corrotto e solo noi, dopo un’estenuante boss fight, daremo la pace alla sua anima tumultua. Ma sarà Manus, il Padre dell’Abisso, il protagonista di questo DLC. Colui è il creatore della razza umana ed un tempo anche lui lo fu, il primo, che dopo aver perso i suoi cari, ricordati attraverso un ciondolo a lui sottratto, si abbandonò all’oscurità, cambiando per sempre. Alla sua sconfitta avremo una grande aggiunta alla trama di Dark Souls ed è per questo che Artorias of the Abyss è il più apprezzato tra i DLC usciti per questa saga. Da segnalare anche il Mondo Dipinto di Ariamis dove avremo a che fare con la figlia illegittima di Gwynevere e Seath il Senzascaglie, Priscilla, nascosta dal Drago alla vista di Lord Gwyn proprio all’interno del quadro. Ci servirà in seguito.

Dark Souls porta avanti quanto visto in Demon’s Souls: una narrativa soprattutto visiva, capace di coinvolgere chi sa ascoltare e quindi non per tutti. Ogni statua, ogni oggetto con descrizione unica, l’anima dei boss, insomma, tutto ciò che appare su schermo, ci narrerà la storia, contornati con alcuni dialoghi che ci aiuteranno a capire cosa stiamo facendo e soprattutto cosa dovremo fare. Nei Souls sono i dettagli a fare la differenza, a cominciare dall’editor del personaggio che oltre a scegliere le caratteristiche fisiche ci permette di scegliere la classe che influenzerà in modo sostanziale il nostro stile di combattimento. Quest’ultimo, ulteriormente raffinato, prevede una maggiore difficoltà rispetto al predecessore: trappole, imboscate, nemici, tutta l’enorme mappa aperta procura nel giocatore l’ansia e la paura di veder comparire a tutto schermo la famosa scritta “sei morto” e dover ricominciare tutto da capo. Sarà fondamentale migliorarsi e migliorare il proprio equipaggiamento spendendo le anime accumulate faticosamente o prendendo oggetti dai nemici sconfitti. Un ulteriore passo avanti è stato fatto dal comparto Online che permette non solo di sfidarsi ma anche di affrontare il gioco in cooperativa e rende Dark Souls  un vero e proprio hub per i videogiocatori più smaliziati e in cerca di sfide.
Se, come detto, dal punto di vista tecnico non fa gridare al miracolo, è la direzione artistica il vero fiore all’occhiello del titolo From Software. Nella vastità di Lordran troveremo terre completamente diverse l’une dalle altre, caratterizzate non solo da una particolare luce ma anche dai nemici e dalla loro tipologia d’attacchi. Ogni elemento ci parla, realizzato minuziosamente nei dettagli accompagnato poi da un comparto sonoro di buona fattura ma che vede nelle musiche, soprattutto nelle sfide contro i boss, il loro apice di epicità.

Hidetaka Miyazaki è anche un bontempone: nella descrizione degli oggetti da scegliere prima di cominciare l’avventura è presente un pendente, senza una reale utilità. Proprio egli stesso affermò che quel pendente serviva per scovare un muro illusorio ma senza dire dove… Fatto stà che migliaia di giocatori, accompagnati da questo pendente, colpirono ogni muro con la loro arma finché Hidetaka confessò che si trattava soltanto di uno scherzo. Ma le ire dei giocatori scaturite da questa affermazione non impedirono comunque a  Dark Souls di vincere diversi premi tra cui Miglior GDR dell’anno ai VGA (Video Game Awards) e miglior trailer dell’anno da parte di Game Trailers.
Da questo successo partiranno i lavori per il secondo capitolo ma come vedremo, non tutto è andato per il verso giusto.

 

Dark Souls II

Sempre ai VGA, ma l’anno dopo, viene presentato al pubblico Dark Souls II preparando il pubblico alla clamorosa notizia che il produttore dei Souls, Hidetaka Miyazaki, non sarebbe più stato coinvolto direttamente nel progetto. A sostituirlo, per scelta di Namco Bandai, saranno Tomohiro Shibuya e Yui Tanimura che sfrutteranno l’opportunità per portare tantissime novità, non solo dal punto di vista del giocato ma soprattutto di narrativa con una storia del tutto nuova e che in molti casi va in contrasto con la lore del predecessore. Ma andiamo con ordine.

Innumerevoli cicli dopo gli eventi narrati in Dark Souls le vicende si svilupperanno per vie di Drangleic governata da Re Vendrick insieme a suo fratello Aldia dopo una moltitudine di vittorie sui campi di battaglia. Dopo la nostra comparsa nel mondo di gioco ci troveremo davanti a tre delle ultime Guardiane del Fuoco, ovvero coloro che aiutano il non morto a compiere il suo destino tranne qui, dove verremo sbeffeggiati senza rispetto alcuno. A guidarci sarà l’Araldo dello smeraldo, un tentativo di Vendrick e Aldia di ricreare qualcosa che potesse essere collegato ai vecchi falò e alle estus, ma questo fu uno dei tanti esperimenti fatti dai due. Il ciclo di Dark Souls II è l’unico a non aver avuto un Lord of Cinder in quanto Vendrik decise, invece di vincolare o spegnere la fiamma, di spezzare in qualche modo questo ciclo di maledizione. Sono stati fatti diversi tentativi fino quando il Re e il fratello decisero di intraprendere strade diverse: lo studio delle Anime e degli antichi Lord da parte di Vendrick e lo studio e il ricreare la Prima Fiamma da parte di Aldia.

L’Araldo, alias Chanalotte, ci guida per un motivo: trovare un nuovo monarca in grado di vincolare la fiamma. Questo potrà avvenire solo trovando quattro grandi Anime, le più potenti di Drangleic e incontrare Re Vendrick ma, quando lo faremo, sarà ormai  un non-morto vuoto, privo di senno, lontano ricordo di glorie passate. La maledizione della non-morte subita da Vendrick ha un nome, Nashandra, che, ottenuta la grazia del Re e presa in sposa, lo convincerà ad iniziare una guerra contro i Giganti per il controllo della reliquia più importante: il Trono del Desiderio. Si scoprirà che Nashandra non è altro che una delle reincarnazioni dell’anima oscura, vera e propria figlia di Manus che, con l’inganno, voleva portare a spegnimento la Fiamma e cominciare così un regno dove l’Abisso potesse regnare. Saputo dell’inganno, Vendrick, lasciò il regno portando con se l’unica chiave in grado di far accedere al Trono sperando che un giorno Chanalotte, potesse incontrare il vero monarca che spezzasse il ciclo di maledizione. E proprio quando sconfiggiamo Nashandra il Trono del Desiderio si aprirà dinanzi a noi capendo che esso non è altro che la Fornace della Prima Fiamma e che per vincolare il fuoco dovremmo diventare un Lord of Cinder.

In Dark Souls II, notiamo che ad ogni ciclo le Anime non mutano, cambiano forma magari ma l’essenza della loro natura rimane. Ad ogni ciclo le scelte sono sempre le stesse a segnalare quasi l’ineluttabilità del destino e che in fondo si prolunga di poco solo quello che sarà inevitabile. In tutti i Souls è l’unica volta in cui il personaggio che controlliamo arriva ad un tale livello di importanza, un Lord of Cinder, e l’unico veramente in grado di spezzare la maledizione della non morte definitivamente ma, tagli dell’ultimo minuto hanno fatto in modo di mitigare queste speculazioni togliendo addirittura un elemento distintivo dal Trono del Desiderio, la Fiamma, capace di farci capire cosa stava effettivamente per accadere. Ed è solo uno dei tanti tagli, cambiamenti di descrizione e incongruenze che hanno portato un po’ di confusione non solo tra i semplici appassionati ma anche tra i più ardenti speculatori dei titoli From Software. Difficoltà produttive e mancanza di una direzione precisa han fatto sì che Dark Souls II sia il titolo meno avvincente della saga dove in quasi tutta la terra di Drangleic si sente la mancanza del genio produttivo di Miyazaki.
Se da un punto di vista narrativo si è fatto un passo indietro, abbandonando malamente la lore del primo capitolo, sul fronte del gameplay si è fatto altrettanto, facendo sì che il moveset di ogni arma sia dipendente dalla sua categoria e non dall’arma in sé. Niente moveset unici e quindi appiattimento generale che mina pesantemente quel senso di magia ed eccitazione nello scovare una nuova arma e vederne i suoi effetti. Altro punto dolente sono poi le Boss Fight molto simili tra loro e che non lasciano tanto alla strategia. Insomma, i passi indietro sono evidenti ma dal punto di vista tecnico-artistico si è fatto il contrario. Tecnicamente abbiamo un deciso boost per quanto concerne texture, luci, modellazione contornate da una direzione artistica sempre di ottima fattura. Questo grazie anche all’impiego del nuovo motore grafico che ha permesso una gestione migliore della fisica e delle animazioni oltre all’introduzione di nuove feature come le dual, nuovo inventario e una nuova intelligenza artificiale dei nemici. Inoltre cambiamento sostanziale avviene nel loro respawn al falò con un limite massimo di dodici. Raggiunto questo numero, il nemico di turno non apparirà più sulla mappa eliminando così la possibilità di farmare anime. Viene inoltre portata un’ottima innovazione da questo punto di vista al new game+, dove vengono aggiunti più e nuovi nemici oltre a un maggiore impiego di invasori da altri mondi, e soprattutto nuovi oggetti altrimenti inaccessibili.

La storia di Dark Souls II si amplia con una trilogia di DLC denominati Crown of the Sunken King, Crown of the Old Iron King e Crown of the Ivory King, fino alla riedizione Scholar of the first sin che prevede tutti i DLC usciti e un miglioramento sostanziale di tutti gli aspetti del gioco come nuovi nemici, nuovi eventi narrativi e miglioramenti al gameplay.
È sicuramente il titolo più controverso e questo porterà Miyazaki a riprendere le redini del progetto e creare il miglior capitolo della saga: Dark Souls III.

Dark Souls III

Siamo nel 2016 e finalmente esce Dark Souls III ed è quasi tutto ciò che ci aspettavamo e volevamo. Dopo un altro successo, Bloodborne, tutti erano in trepidante attesa.

La Prima Fiamma è stata vincolata innumerevoli volte, troppe, ed ormai sta per estinguersi definitivamente. La fine del mondo è vicina e tutti i regni di tutte le ere convergono verso l’ultimo di essi, Lothric, dove ormai la distorsione spazio-temporale è evidente. Solo le anime dei precedenti Lord of Cinder può ravvivare la fiamma e dare luogo così a nuovi cicli di vita: i Guardiani dell’Abisso, Yorm il Gigante, Aldrich il divoratore degli dei, il Re Lothric e Ludleth che troviamo già all’Altare del Vincolo, hub delle nostre avventure. Noi siamo una fiamma sopita, qualcosa di così scarso potere che non può interagire in nessun modo con la fiamma. Sarà la nostra Guardiana del Fuoco a fare da tramite.
Durante il nostro viaggio scopriremo che Dark Souls III riprende a piene mani la lore per primo capitolo mettendo un punto sulle molte speculazioni fatte sino a quel momento. Le vicende del regno di Lothric si basano su una codardia, sulla non voglia del principe primo genito, cresciuto soltanto per adempiere al suo destino, di vincolare la fiamma. Il Principe restò inamovibile sulla sua posizione nemmeno dopo l’incontro con gli altri Lord che cercarono di convincerlo ma invano. Il principe, probabilmente plagiato dal suo mentore, uno dei due Saggi di Cristallo, decise che era meglio per tutti che la fiamma si spegnesse per sempre e accettare così inevitabile. I Lord tornarono al luogo di appartenenza, tranne uno, Aldrich. Egli, diacono delle profondità, è forse il Lord più interessante in quanto la sua brama di potere lo spinse a praticare cannibalismo e a divorare gli dei rimasti ad Anor Londo. Ed è proprio subito dopo aver divorato Gwendolin che lo incontreremo per la prima volta, con il potere della luna oscura al suo servizio. Questa è solo una delle tante storie riguardanti i vari Lord, ognuno con le proprie motivazioni e desideri.

Visto che loro sono ormai disinteressati dal ravvivare la Fiamma, spetterà a noi, costringerli a farlo eventualmente sotto forma di tizzoni atti ad alimentare il fuoco.
Dopo la loro dipartita assorbiremo il loro potere attraverso la guardiana del fuoco e solo in questo momento saremo in grado di vincolare il fuoco. Veniamo trasportati all’altare della Prima Fiamma e sarà qui che tutte le speculazioni fatte prenderanno forma: il tempo è distorto e tutti regni ormai sono prossimi a convergere in un unico punto. Resta soltanto una cosa da fare adesso ma, mentre ci accingiamo all’ultimo falò notiamo una figura che si rivela essere l’unione delle anime di tutti i Lord of Cinder precedenti. Dopo una dura battaglia possiamo quindi decidere il destino di tutti i cicli: vincolare il fuoco nuovamente, soffocarlo definitivamente oppure, seguendo la quest di Yuria della chiesa nera di Londor, divenire signore dei vacui assorbendo il potere della fiamma.

Dark souls III colmerà diversi quesiti lasciati irrisolti e delle chicche collegate direttamente alla lore di Lordran. Una su tutte è la boss fight sulla Vetta dell’Arcidrago dove sfideremo un certo Re Senza Nome. La battaglia sarà tosta ma alla sua sconfitta, attraverso una sola riga di testo veniamo a sapere che egli non è altro che il figlio primo genito di Gwyn, alla quale tolse il nome e ogni possibilità di ricordarlo per la sua alleanza con i draghi. Oltre a questa sono innumerevoli le storie da prendere in considerazione, come quella su Oceiros, Sullyvan e tanti altri. Ma non finisce qui. Successivamente arrivano per completare l’arco narrativo due DLC: Ashes of Ariandel The Ringed City. Sono due contenuti collegati tra loro ma sarà quest’ultimo a cercare di chiudere il cerchio su quanto visto finora anche se, non riuscendoci appieno. Il dipinto di Ariandel è un mondo a se stante, che vive parallelamente a quello di Lothric e probabilmente in stretta correlazione, se non lo stesso dipinto, con quello di Ariamis presente nel primo capitolo. Ariandel si presenta corrotta e putrida a partire dalle sue fondamenta e mentre molti auspicano un fine che implichi anche una liberazione c’è chi, come Sorella Friede, sorella di Yuria di Londor, protegge questo mondo da chi cerca di distruggerlo/ purificarlo con la fiamma. Dopo una dura battaglia con ella e suo padre Ariandel però il mondo dipinto è ancora lì. Sarà una bambina, forse erede di Priscilla, che completerà l’opera con il proprio dipinto, ma solo avendo tutti i colori a disposizione. Manca proprio il nero che Gael, suo zio e colui che ci ha condotti li, a cercarlo nella Città ad Anelli. Prima di arrivare alla città ci troveremo davanti il Cumulo di Rifiuti, un luogo che ci fa capire che siamo davvero alla fine dei tempi, molto in la nel futuro rispetto agli eventi originali e qui troveremo non solo frammenti di Lothric ma frammenti di tutte le ere passate come Drangleic e Lordran. Veniamo a conoscenza di Filianore che veglia sulla città in un profondo sonno, proteggendola con un incantesimo dal passare del tempo. Ella non può essere disturbata per decreto reale. Proprio il potere reale di Gwyn esce fuori con prepotenza per le vie della città. Egli la costruì per confinare gli antesignani degli esseri umani, una sorta di prigione dorata, ma che all’occorrenza poteva essere utilizzata come mezzo per temporanee alleanze. Si scopre ad esempio che proprio gli umani affiancarono Gwyn durante la guerra contro i Draghi. Giunti da Filianore, probabilmente un’altra figlia di Gwyn di cui non si conosceva l’esistenza, tocchiamo il guscio che ha tra le mani. Il guscio va in frantumi e l’incantesimo che proteggeva la città ad anelli si spezza. Improvvisamente veniamo catapultati ben aldilà dell’età del fuoco, dove tutto è in rovina e coperto di cenere. Proprio in questa valle desolata affronteremo Gael, ormai corrotto dall’Anima Oscura, recuperata divorando i Re della Città ad Anelli e pigmento richiesto dalla pittrice di Ariandel. Gael vorrà anche la nostra parte di Anima lanciandosi come una furia verso di noi in una coreografica boss fight ma sarà il suo sangue rappreso a diventare il pigmento tanto desiderato dalla pittrice. Con esso creerà un nuovo mondo oscuro, freddo e familiare, il tutto mentre Ariandel comincia a bruciare.

Molti di noi si aspettavano una degna conclusione della trilogia, qualcosa che mettessi dei punti alle tante storie aperte e mai concluse. Invece Miyazaki ha deciso di mettere ancora carne al fuoco, producendo figure di cui non vi era notizia alcuna e lasciando un po’ di delusione e amarezza allo spuntare dei titoli di coda. In quest’ultimo terzo capitolo si fa sentire molto l’esperienza maturata con Bloodborne su PS4. Il salto generazionale ha portato in dote un veste grafica migliorata sotto tutti i punti di vista rendendo Dark Souls III anche il titolo più bello da vedere. Il gameplay raggiunge il picco qualitativo con migliori animazioni, più fluide e soprattutto con una migliore risposta ai comandi. Ritornano i moveset speciali per ogni arma ed entra in scena una terza barra oltre alla stamina e alla fondamentale barra vita: la barra azione. Con essa è possibile effettuare colpi speciali con arma, scudo o arco equipaggiato oppure per stregonerie, piromanzie e miracoli. Menzione d’onore per le musiche, davvero epiche soprattutto durante le Boss Fight, vero fiore all’occhiello del titolo From.

Il futuro

Dopo una fake news che ci raccontava di come Miyazaki e il mangaka di Berserk, Miura, avrebbero collaborato per realizzare un nuovo titolo, i progetti futuri restano molto vaghi. Si è sempre parlato di un futuro capitolo di Dark Souls, il quarto, ma il presidente From Software non si è mai sbottonato da questo punto di vista affermando soltanto che sta lavorando a diverse idee, probabilmente Bloodborne 2 del quale non si ha perora notizia. Noi aspetteremo con ansia novità e nel frattempo, con nostalgia, riprenderemo con mano i suoi capolavori che non stancano mai di emozionarci, come se rivivessimo ogni giorno il primo bacio. Grazie Hidetaka e alla prossima.




Le origini di Destiny

Destiny è probabilmente uno dei titoli più ambiziosi mai creati. L’opera di Bungie – sviluppatore conosciuto soprattutto per la serie in esclusiva Xbox Halo – ha avuto un percorso lungo e travagliato già dagli albori, quando la software house americana mosse i primi passi nel mercato videoludico.

Dall’inizio al destino

Dopo la creazione di Gnop!, vero e proprio clone del celebre Pong, nel 1990, si decise di passare a qualcosa di più complesso, uno sparatutto bidimensionale denominato Operation Desert Storm che contribui alla creazione della Bungie, così come la conosciamo oggi. Ma il titolo della svolta fu Pathways into Darkness, sparatutto in prima persona che ebbe un forte impatto sul mercato, divenendo uno dei titoli più venduti nel 1993.
Bungie finalmente crebbe in popolarità e grandezza, aprendo delle succursali in grado di ampliare il lavoro. Questo portò alla creazione di Oni, primo titolo su console che, nel 1999 vinse il  Game Critics Award come miglior gioco azione/avventura. La pubblicazione effettiva avvenne però nel 2001, su PlayStation 2PC e MacOS e consisteva nell’unione – inedita sino a quel momento – di sparatutto in terza persona e combattimenti corpo a corpo. Prendeva ispirazione da capisaldi della fantascienza come Ghost in the Shell ma, nonostante ciò, fu un flop commerciale, tanto che la succursale californiana di Bungie fu costretta a chiudere dopo soli quattro anni.
Il nuovo millennio avvenne un fatto importante: Microsoft decise di acquistare la software house statunitense per 30 milioni di dollari. Questo diede vita ad una delle partnership più fruttuose degli ultimi anni, ponendo le basi al progetto più ambizioso fino a quel momento: Halo.
Halo: Combat Evolved fu un titolo che segnò un’epoca e da allora, gli sparatutto in prima persona, non furono più gli stessi. Fu in tutto e per tutto una killer application per la nuova Xbox e portò tantissime innovazioni nel genere che oggi si danno per assodate, come l’utilizzo di mezzi sul campo, l’HUD posto direttamente sull’arma e un’IA fuori dal comune. Il successo di Halo però non impedì al fondatore di Bungie, Alex Seropian, di lasciare il posto, sentendosi ingabbiato sul piano creativo da una casa pressante come Microsoft. Questo non impedì comunque alla software house di bissare il successo, prima con Halo 2, poi con Halo 3, fino al 2007, anno in cui la partnership cessò.
Bungie voleva assolutamente lavorare su qualcosa di nuovo, di inedito, e fu così che si avviarono i progetti per Tiger, conosciuto successivamente col nome di Destiny.

Un romanzo videoludico

Il progetto Tiger era già avviato durante l’uscita di Halo 3, ma la partnership con Microsoft non era ancora del tutto conclusa. Infatti erano previsti altri due titoli dedicati alla saga: Halo 3: ODST e Halo: Reach. È proprio ODST che però comincia a suscitare curiosità da parte del pubblico: proprio all’interno del gioco a un certo punto è possibile osservare un poster, in cui sono raffigurate la Terra e quella che, a un primo sguardo, sembrerebbe la Luna. Facendo più attenzione però, ci si accorge che le proporzioni sono del tutto sbagliate e la Luna è molto diversa da ciò che siamo abituati a vedere. La scritta d’accompagnamento “Destiny Awaits”, non lascia alcun dubbio: Bungie sta portando avanti il suo titolo più ambizioso, che dopo qualche anno vedrà finalmente la luce.
Proprio quella simil-Luna si rivelerà essere Il Viaggiatore, figura centrale per la lore di Destiny:

Centinaia di anni nel futuro, l’umanità è riuscita a raggiungere e colonizzare l’intero Sistema Solare. È un’epoca d’oro ma un enorme cataclisma, denominato Oscurità, costrinse gli uomini a barricarsi sul pianeta natio, anche a causa l’arrivo di numerose specie aliene, cominciando così una lunga guerra. Ma un’entità, Il Viaggiatore, combatté contro l’Oscurità, permettendo agli ultimi superstiti di salvarsi e rifugiarsi nell’ultima città umana rimasta. Il Viaggiatore sovrasta questa città e alcuni abitanti, i Guardiani, usano la Luce, potere donatogli dell’immensa e misteriosa struttura, per difendere l’ultima roccaforte umana.

Ma la struttura narrativa di Destiny ricopre molti più anni e, come per i titoli From Software, è ricca di sfaccettature e profondità. Se, all’inizio del gioco, vediamo un’umanità in continua lotta per la sopravvivenza, gli eventi che hanno dato moto a tutto ciò cominciano miliardi di anni prima, epoca in cui una razza aliena, l’Alveare, comincia a combattere in nome dell’Oscurità, compiendo numerose stragi. Influisce anche il declino dei cosiddetti Caduti, popolo rigoglioso millenni prima dell’uomo ma crollato in disgrazia per via dell’espansione dell’Impero Cabal, che arriverà a lambire il pianeta Terra, avanzando sui territori marziani.
Tutti questi eventi – e tanti altri – diventano così un’enorme Space Opera, suddivisa in capitoli e potenzialmente infinita.

Per mettere in atto tutto ciò, bisognava erigere una struttura accurata e una direzione artistica che facesse spiccare il titolo tra il marasma di videogiochi presenti. Ecco così che Christopher Barrett, il direttore artistico, e Joseph Staten, direttore del design, immaginarono un universo che mescolava sapientemente il puro fantasy con elementi di fantascienza caratteristici, come navi e viaggi spaziali e alieni. Il risultato sono ambienti di gioco con una loro personalità, ricchi di dettagli diversi ed elementi al cui il giocatore può interfacciarsi, familiari nonostante il tempo trascorso.
Ma, in un Sistema Solare così espanso l’identità visiva doveva essere univoca: trovarsi sulla Luna o in un satellite di Giove, doveva risultare familiare, dando la sensazione di trovarsi in un mondo coerente e credibile.
Destiny si presenta dunque come un titolo complesso, anche per la scelta del nostro alter ego digitale e per le diverse classi presenti. Si tratta pur sempre di uno sparatutto in prima persona, che ci offre la scelta di vestire i panni dei Titani, i più corazzati, dei Cacciatori, esploratori e sicuramente più agili dei primi, e degli Stregoni, meno corazzati ma in grado di utilizzare al meglio i poteri del Viaggiatore. Anche le armi hanno qualcosa di speciale: disegnate da Tom Doyle, uno dei migliori 3D Artist del settore, fucili, pistole e pugnali, pur essendo un’evoluzione di quelle classiche utilizzate in tutti i FPS, hanno una loro identità e soprattutto contestualizzate alla razza e alla classe che utilizzeremo o affronteremo.
Uno dei punti forti del titolo risiede però nella colonna sonora, realizzata da Martin o’Donnell con la partecipazione nientemeno che di PaulMcCartney, in due intensi anni di lavoro, con uno studio attento sulle tonalità da assumere, vicino sì agli stilemi della fantascienza ma non troppo, con influenze fantasy e temi corali ed epici che avvolgono il giocatore enfatizzando i momenti adrenalinici e di meraviglia.

Destiny è stato un titolo controverso alla sua uscita: le premesse fatte non furono esattamente rispettate e ci vollero numerosi aggiornamenti e contenuti aggiuntivi prima di veder finalmente realizzato il sogno di Bungie, un universo vivo, cinematografico e in grado di far sognare tutti i videogiocatori.




Videogame nello Stivale: breve storia dei videogiochi in Italia

Quando si parla di videogiochi, l’Italia è tra i paesi industrializzati meno gettonati. Software house poco presenti – e soprattutto una cultura non al passo col resto del mondo– ci hanno un po’ penalizzati, anche a livello di mercato. Solo adesso vediamo un po’ la luce con SH come Milestone e Kunos e nuove realtà emergenti come Caracal Games, 34BigThings, MixedBag, Storm in a Teacup e altre che stanno cercando di dare un po’ di lustro al nostro paese. Nonostante ciò, la storia che riguarda i videogiochi del Bel Paese ha origini più antiche di quanto si possa pensare.

Il principio

Nonostante i cabinati fossero già comuni a partire dagli anni settanta, è dal decennio successivo che il nostro paese comincia realmente a muovere i primi passi all’interno di un mercato in ascesa costante. Paesi come Stati Uniti e Giappone erano pionieri di una tecnologia digitale che in Italia attecchiva con difficoltà, ma questo non impedì a società lungimiranti di fare i loro primi tentativi, sia nella produzione di hardware che di software. Già nel 1981, la Zaccaria costruì il suo primo cabinato, il Quasar. Non solo era una novità in sé ma risultò anche innovativo per via dell’introduzione del co-op: infatti due giocatori potevano condividere il singolo schermo entrando nella stessa partita. Questa peculiarità lo spinse al punto di essere uno dei cabinati più apprezzati negli Stati Uniti.
Furono realizzati altri cabinati, che non ebbero la stessa fortuna fino a quando, con l’avanzare della tecnologia delle console casalinghe, cominciarono a sparire del tutto. L’ingresso in campo dell’Atari VCR 2600 spinse alcune aziende, tra cui la GIG, a investire su questo nuovo tipo di videogiochi. Uno dei primi tentativi fu Leonardo, una console progettata sulla base della Bandai Arcadia che, come la console giapponese, faticò a trovare mercato. Nel frattempo però, oltre alla costruzione di intere macchine da gioco divenne fondamentale entrare nel mercato videoludico con dei software proprietari. Essendo la patria del calcio, uno dei primi videogiochi italiani ad avere un discreto successo fu I Play 3D Soccer per Amiga e Commodore 64, sviluppato da Simulmondo. Se oggi possiamo giocare a FIFA o a Pro Evolution Soccer lo dobbiamo anche a questo, in quanto fu uno dei primi giochi di calcio con visuale tridimensionale dall’interno del rettangolo di gioco. Questa software house italiana si dedicò successivamente alla produzione di avventure grafiche, fra cui quelle su Dylan Dog, che ebbero un discreto successo.
Nonostante la crisi di mercato di metà anni ottanta, questo settore cominciava a prendere sempre più piede tanto che, in quegli anni, cominciarono ad apparire anche le prime riviste dedicate come Video Giochi di Jackson o Zzap edita da Hobby/Xenia.
Negli anni novanta è sempre il calcio a portarci avanti, e Italy ’90 Soccer di Bardari Bros, sfruttando le notti magiche dei Mondiali, seppe ritagliarsi il suo spazio arrivando sulle console più popolari dell’epoca. Oltre a questo, ampio respiro ebbero anche Over the Net e Warm Up, che resero Bardari la società italiana più affermata.

La crescita degli anni novanta

Se sui software gli italiani cominciavano a prendere spazio, sull’hardware le difficoltà cominciavano a diventare eccessive: l’8-bit era ormai obsoleto e nuove e più potenti macchine – tra cui il PC che entrava nelle case – portarono le società italiane a rinunciare alla produzione di proprie console per via dei costi divenuti ormai proibitivi. Ciò nonostante, molte software house cominciarono a muovere i primi passi cercando di sfruttare un mercato che cresceva in modo esponenziale e che non dava segni di resa. Tra i giochi più conosciuti in questi anni vi è sicuramente Lupo alberto, basato sul fumetto creato da Silver nel 1973. Fu un titolo di grande successo, sviluppato da Idea Software con personale del calibro di Antonio Farina e Simone Balestra che di lì a poco avrebbero fondato Graffiti/Milestone, nel 1994. Proprio la Milestone diventa una delle software house più affermate non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, specializzandosi nei titoli motoristi con o senza licenza.
Un’altra figura di spicco in quegli anni è Christian Cantamessa che, dopo aver contributo alla creazione di The Big Red Adventure per Dynabyte, divenne – ed è tutt’ora – Lead Designer di Rockstar Games per lo sviluppo di Red Dead Redemption e Level Designer per GTA: San Andreas.
La metà degli anni novanta vede l’entrata in campo di nuove e più potenti console come Sony Playstation che, con l’utilizzo di supporti ottici, consentiva l’utilizzo di una maggiore quantità di dati. Questo diede modo ad alcune software house come Trecision e PixelsStorm di sviluppare titoli più complessi, come Puma Street Soccer, un gioco di calcio da strada con una fisica per certi versi innovativa ma che non diede modo al titolo di riscuotere il successo sperato. Altre software house, come LightShock Software, si dedicarono allo sviluppo di picchiaduro come Pray for Death, che prendeva molto da Killer Instinct ma riuscì ad avere una propria identità, diventando un titolo abbastanza controverso per via della musica di sottofondo utilizzata (Techno ndr) e una trama che consisteva nella creazione di un torneo indetto da Lucifero in persona e personaggi che spaziavano da cloni di Bruce Lee a vichinghi e dominatrici. Non siamo al livello di Tempesta d’ossa o va all’inferno, ma ci andiamo vicino.
Tra quegli anni e il nuovo secolo nascono e muoiono infinite SH ma, se c’è un elemento che ha cambiato radicalmente la fama delle società italiane, è sicuramente il Nintendo GameBoy Advance, per il quale lo sviluppo di titoli italiani ebbe notevole fortuna. Questo spinse alla creazione – tanto da diventarne pionieri – e allo sviluppo di giochi per handheld che ebbero notevole successo anche fuori dai confini italici.

Un mondo nuovo

Nel nuovo secolo è sempre Milestone a fare la voce grossa, collaborando con colossi del calibro di Electronic Arts: Superbike 2000 e Superbike 2001, sfruttando la licenza della SuperBike, riscossero un ottimo successo internazionale sia di critica che di pubblico, considerati ancora tutt’oggi, tra i migliori giochi sulle due ruote di sempre.
Il 2000 è un anno importante anche per l’entrata in scena del primo studio Ubisoft in Italia, Ubisoft Milano, che contribuì a dare i natali a Paperino: Operazione Papero. Lo studio milanese ha aumentato di anno in anno la sua sfera d’influenza, passando dallo sviluppo e la conversione di titoli per le console portatili fino allo sviluppo di interi titoli come l’acclamatissimo – e recentissimo – Mario+Rabbits: Kingdom Battle. La sua mano è presente anche nei recenti Assassin’s Creed, Rogue e Liberation, in Ghost Recon: Wildlands e Just Dance 4, titoli dall’ottimo successo e che sicuramente danno lustro al nostro paese.
I primi anni del 2000 sono contraddistinti dall’avvento di nuove console come PlayStation 2 e Xbox. Queste console permisero uno sviluppo tecnologico non indifferente e una delle software house che prese la palla al balzo fu proprio l’italiana Idoru che, assieme a Double Jungle, contribuì a sviluppare titoli su licenza di campionati di Basket o Pallavolo ritagliandosi una notevole fetta di mercato.
In questi anni anche diversi publisher vengono fuori, come Halifax o 505 Games. In stretta collaborazione con Konami, Sega, Square-Enix, o l’italiana Kunos Simulazioni, permettono la distribuzione nel nostro paese di titoli dal calibro di Pro Evolution Soccer, Assetto Corsa o Payday 2.

Ci siamo anche noi

E dunque arriviamo a oggi. Chi si ritaglia ampio spazio nel settore è sicuramente Milestone che, sfruttando licenze come quella del Moto Mondiale, conquista ogni anno grandi consensi da parte di critica e pubblico nonostante tecnicamente non proprio al passo coi tempi. I motoristici sono il suo pane e titoli come i vari WRC, MXGP e un titolo come Ride, che con la nomea di Gran Turismo delle moto” ha avuto un grandissimo successo, e ulteriormente migliorato col secondo capitolo, hanno contribuito a far sì che Milestone sia una delle software house più apprezzate a livello globale.
Chi ha mosso i primi passi in questi anni – e molto bene anche – è Kunos Simulazioni che dopo aver sviluppato simulatori di guida come NetCar Pro e Ferrari Virtual Academy, ha portato – e sta ancora portando avanti –  il progetto Assetto Corsa, apprezzatissimo simulatore di guida non solo dalla critica e dal pubblico ma anche da case costruttrici come Ferrari, Lamborghini o Porsche. L’utilizzo del laser scan e migliori tecnologie per la raccolta dati delle vetture hanno reso Assetto Corsa, il più preciso simulatore di guida sul mercato. L’avvento del titolo su console, seppur con qualche problema, ha portato questa piccola software house, con sede nel Circuito di Vallelunga, a rivaleggiare con i pezzi grossi nel settore, come Turn10 e Polyphony Digital, facendosi ben valere.
È una delle maggiori realtà italiane e anche questo sta contribuendo alla crescita di piccoli team di venir fuori, fra cui, oltre a quelli citati all’inizio, c’è anche Ovosonico che ha appena sfornato il suo piccolo capolavoro Last day of June.
Il futuro sembra quanto più roseo e dopo un lungo e tortuoso percorso, siamo riusciti finalmente a ritagliarci il nostro spazio nell’immenso universo dei videogiochi.




Top 5: I migliori 5 videogame Made in Italy

Lo sviluppo di video game è stato sin dagli albori appannaggio principalmente di sviluppatori giapponesi e statunitensi, ma anche l’Europa ha detto la sua con risultati a volte sorprendenti. La produzione videoludica in Italia non è di certo fra le più fervide, ma anche il Bel Paese ha espresso vari titoli interessanti e fra questi ne abbiamo selezionati 5 davvero indimenticabili.

Al quinto posto abbiamo Diabolik: The Original Sin, tratto dal noto fumetto delle sorelle Giussani, il titolo mette il giocatore nei panni di Eva Kant prima e di Diabolik poi, mettendo in scena una storia dalla fluida giocabilità e dalla trama curata, nella quale non mancherà l’ispettore Ginko a metterci i bastoni fra le ruote.

Al quarto posto abbiamo Nippon Safes Inc.: sviluppato dai genovesi di Dynabite, il gioco ci mette nei panni di 3 personaggi. Interamente ambientata a Tokyo, Nippon Safes è un’avventura dalla grafica dai contorni fumettosi molto ben curata, con una trama non lineare ma solida e con un umorismo intelligente che legano sapientemente i ritmi della commedia a quelli della crime story.

Al terzo posto troviamo The Watchmaker: pubblicato nel 2001 da Trecision, si tratta di un videogame investigativo dai tratti paranormali che riesce a offrire buoni dialoghi, enigmi di riguardo e una bella trama, regalando un’avventura grafica che in molti ricordano ancora oggi.

Al secondo posto troviamo un grande classico dei giochi di guida all’italiana, Screamer: nato negli studi di Graffiti (azienda oggi internazionalmente conosciuta come Milestone)
 era un gioco di guida arcade che richiamava Ridge Racer e che godeva di una buona grafica, bei colori e di una buona longevità, al punto da guadagnarsi le lodi della critica internazionale. Questo gioco seguirono Screamer 2 e Screamer Rally, ma il progetto finì lì, perché Milestone decise di sviluppare soltanto giochi su licenza, fino ad arrivare nel 2000 a un altro grande successo con Superbike.

E il primo posto va a una delle poche avventure grafiche italiane che sono davvero riuscite a rivaleggiare con i giganti di oltre oceano: stiamo parlando di Tony Tough and the Night of Roasted Moths, avventura dalla grafica ben curata e cartoonesca e che gode di enigmi intriganti, di una trama molto ben congegnata, di dialoghi straordinari e di un charachter design che rende il protagonista e altri personaggi di contorno davvero indimenticabili. Sicuramente una pietra miliare delle avventura italiana, che trovò anche un sequel in Tony Tough 2: A Rake’s Progress, pur non godendo dello stesso successo.




Speciale avventure grafiche

Speciale avventure grafiche: dal text based game al walking simulator

Siamo fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni 80; le prime sale giochi sono colme di persone in fila per giocare a giochi come Space Invaders, Galaxian, Pac Man, Defender, Berzerk, Tempest e molti altri. È un vero e proprio fenomeno di massa, i videogiochi sono popolarissimi fra gente di ogni età, ogni dove e ceto sociale. Erano giochi semplici con semplici obbiettivi: mangia i puntini, spara agli alieni, ai robot, completa il puzzle, etc… nessuno di questi giochi era molto cervellotico e fra i giocatori c’era, probabilmente, un bisogno di un qualcosa di più complesso, qualcosa di più intelligente. Un po’ prima dell’avvento degli arcade, il gioco da tavola Dungeons & Dragons fu rilasciato nel 1974; giovani da tutto il mondo si immergevano in queste avventure immaginare, in mondi fantastici a bordo di draghi volanti brandendo spade magiche. La peculiarità di quel gioco stava nella figura del dungeon master che, dietro ad un tabellone con regole ed altro, raccontava l’avventura che man mano si srotolava e metteva i giocatori davanti a situazioni e nemici che potevano essere superati con l’ausilio di una buona cooperazione. Il successo di questo gioco da tavolo spinse uno geniale Scott Adams a portare questo tipo di fruizione, cioè tramite narrazione, nel primo gioco testuale su PC: Adventureland del 1978. Seppur l’effetto carisma, tipico del dungeon master, spariva di fronte ad un testo di sole parole sullo schermo di un PC, Adventureland serviva allo scopo perfettamente; il giocatore si immergeva in dei mondi che effettivamente, non poteva vedere, tutto avveniva come quando si legge un libro, dentro la sua testa. Il fattore immaginazione in questi termini è, ad oggi, è semplicemente scomparso; la grafica, anche nei giochi più frenetici di quei anni, era ancora a uno stadio primitivo e gli elementi sullo schermo rappresentavano vagamente ciò che dovevano rappresentare. Già in un semplice Pong, rilasciato nel 1972, gli utenti vedevano due giocatori di tennis, un campo e una pallina ma in realtà, ciò che avevano di fronte, erano soltanto due barrette che facevano su e giù e un quadratino che rimbalzava da una parte all’altra. Nonostante l’avvento delle arcade, e dunque di giochi graficamente sempre migliori, i giocatori usavano ancora la propria immaginazione per definire meglio gli elementi nello schermo, specialmente a casa con console come l’Atari 2600 o computer come il Commodore Vic-20 che producevano una grafica peggiore rispetto alle loro controparti arcade. L’avvento dei giochi text based adventure sfruttava a pieno questa capacità umana basando l’intero gameplay (se così possiamo chiamarlo) sull’immaginazione del giocatore; al giocatore venivano presentate diverse situazioni risolvibili inserendo comandi semplici come “go north”, “pick item” o “kill enemy” tramite l’ausilio della tastiera. Fu così che i text game cominciarono a prendere piede nelle case di alcuni giocatori e compagnie come la Adventure International (fondata dallo stesso Scott Adams) e la Infocom fecero dei text game i loro prodotti di bandiera; giochi come la Serie di Zork, The Count e The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy (tratto dall’omonimo romanzo conosciuto in Italia come Guida Galattica per autostoppisti dalla quale è stato anche tratto un film nel 2005) furono pionieri di questo nuovo genere videoludico in cui tutto si svolgeva nella testa dei giocatori. I text game continuarono a esistere per tutti gli anni ’80, ma questo genere fu eclissato dall’arrivo delle avventure grafiche che poi si sarebbero evolute in punta e clicca.

L’epoca d’oro

Nel 1980 la neonata Sierra (all’epoca On-line Systems) pubblicò Mystery House per Apple II, considerato da molti l’inizio delle avventure grafiche; il nuovo titolo, che di base era un text game, offriva una vera e propria interfaccia grafica abbastanza primitiva, giusto l’input da dare alla mente umana per poter immaginare l’azione (visto che il display non ne aveva e non aveva neppure il sonoro). Lo scopo del gioco era quello di individuare un assassino all’interno della magione vittoriana investigando e costruendo ipotesi sugli oggetti che si andavano trovando man mano per la magione. Sempre in questo periodo, fra il 1980 e il 1984, vennero ripubblicati alcuni vecchi giochi text game con una nuova interfaccia grafica, simile a Mystery House, per i computer più moderni; fu il caso per il già citato Adventureland che, in occasione della sua uscita sul Commodore 64 nel 1982, fu ripubblicato con una cornice un cui era possibile osservare ciò veniva mostrato a testo. Il 1984 fu un anno importante per le avventure grafiche poiché uscì il primo capitolo della rinominata saga della Sierra Entertainment King’s Quest. Se pur ancora era necessario dover inserire i comandi su tastiera, King’s Quest fu un punto di svolta per le avventure grafiche: il testo fu utilizzato esclusivamente per i dialoghi, Sir Graham (il protagonista) era visibile in terza persona e, animato in ogni singolo dettaglio, lo si poteva vedere camminare, aprire le porte, prendere oggetti, etc… Semplici cose come le bandiere che sventolavano in cima al castello nella prima schermata erano un qualcosa di incredibile e mai visto prima. In precedenza non fu mai pubblicato nulla di simile e King’s Quest aprì le porte per un futuro sempre più luminoso per le avventure grafiche. Dal 1986 la Lucasfilm Games decise di cimentarsi sul campo delle avventure grafiche che, nel frattempo, diventavano sempre più popolari. Con l’avventura grafica del 1986 Labyrinth (tratto dall’omonimo film con David Bowie), la Lucasfilm Games (che poi diventerà Lucasarts) si aprì verso quel genere che diventò la loro specialità. Col successivo (e anche un po’ controverso) Maniac Mansion la LucasArts cambiò gli standard per le avventure grafiche a venire. La sua grande innovazione fu la creazione del motore grafico SCUMM, acronimo di “Script Creation Utility for Maniac Mansion”, che, a metà fra un linguaggio di programmazione ed un interfaccia utente, permetteva una migliore interazione con la scena semplicemente scegliendo un’oggetto col mouse, appena implementato per i videogiochi, per poi compiere un’azione selezionandola da uno dei già elencati comandi testuali. Da quel punto in poi per la LucasArts fu tutta una strada in discesa e il motore SCUMM fu usato per tutte le future uscite come Zak McKracken and the Alien Mindbenders, Indiana Jones and the Last Crusade, Loom ma soprattutto i legendari The Secret of Monkey Island, pubblicato nel 1990, e il suo sequel Monkey Island 2: Le Chuck Revenge. La serie di Monkey Island ebbe un impatto per i computer come Super Mario Bros lo ebbe per il mercato delle console; durante la prima metà degli anni 90 si vive quella che viene considerata l’epoca d’oro delle avventure grafiche. La LucasArts produsse meraviglie come Indiana Jones and the Fate of Atlantis, Sam & Max Hit the Road, Day of the Tentacle (che introdusse vere e proprie linee vocali per i dialoghi), The Dig e Full Throttle. La Revolution Software, un nuovo importante operatore, si buttò nella mischia con validissimi titoli come Lure of the Temptrest del 1992, che diede prova del loro motore grafico “Virtual Theater” che fu usato anche per il successivo distopico Beneath a Steel Sky del 1994, e la saga di Broken Sword iniziata nel 1996 e che dura a tutt’oggi. Sierra Entertainment continuava il suo trend positivo con sage del calibro di Gabriel Knight, i numerosi titoli della saga di King’s Quest e il controverso Leisure Suit Larry. L’apprezzamento delle avventure grafiche arrivò anche in Giappone facendo partire un nuovo filone parallelo di avventure grafiche più comuni come “visual novel”. Ricordiamo la popolare saga di Clock Tower, arrivata anche in occidente, e gli spettacolari Snatcher e Policenauts del 1989 e 1995, programmati dall’acclamato Hideo Kojima, creatore della saga di Metal Gear.

Crisi e ripresa

Verso la metà degli anni 90 l’interesse dei giocatori verso i punta e clicca stava diminuendo in favore dei nuovi giochi con grafica tridimensionale. La Lucasarts, per riconquistare il parere dei fan e della critica dopo un poco rilevante The Curse of Monkey Island, investì diverse risorse in quello che fu Grim Fandango, una delle più belle avventure grafiche mai realizzate. Uscito nel 1998, programmato dalla mente geniale di Tim Schafer, Grim Fandango mostrava una grafica eccellente per i tempi, una storia degna dei migliori film noir, un doppiaggio magistrale con battute degne di Monkey Island e una colonna sonora jazz/bebop di altissimo calibro. Nonostante i numerosissimi premi della critica soltanto 500.000 copie circa furono vendute e purtroppo fu la prova che le avventure grafiche erano in crisi. Dopo un altro (ingiustamente) fallimentare Escape from Monkey Island e dopo la successiva cancellazione di Sam & Max: Freelance Police nel 2004 la Lucasarts dichiarò di non volersi più dedicare allo sviluppo di nuove avventure grafiche. In tempi recenti però, con l’arrivo della ormai nota software house Telltale Games, il genere appare di nuovo in più forte che mai. La Telltale rilanciò un genere ormai infiacchito e riprese brand della Lucas come Sam & Max e lo stesso Monkey Island, puntando ad una struttura ad episodi che le ha garantito il successo con giochi tratti da famose IP quali The Walking Dead, Game of Throne e Batman, dettando le regole delle avventure grafiche moderne. Negli ultimi anni si è assistito a una rivisitazione del genere sia in ambito 3D, come ci dimostra la storia della Telltale o l’ultimo capitolo della saga di Broken Sword: The Serpent’s Curse, sia in ambito 2D con giochi come Machinarium o Whispered World. In un mondo dove le visual novel, come la super celebre Ace Attorney, hanno successo in occidente e il grande gigante del settore Tim Schafer torna sotto i riflettori con Broken age dopo un finanziamento su Kickstarter senza precedenti non ci stupisce più se il già citato Scott Adams ha prodotto il suo ultimo gioco nel 2013, The Inheritance… ovviamente un text game! E indovinate un po’, quest’ultimo gioco ha anche una grossissima innovazione: il sonoro! Insomma, mentre le storie continuano ad appassionare i giocatori, il futuro delle avventure grafiche pare ancora tutto da scrivere e, ovviamente, tutto da giocare.




Top 5: le migliori uscite di Agosto 2017

Ad Agosto si è tutti in vacanza, ma l’industria del gaming lavora sodo anche sotto l’ombrello, regalandoci anche questo mese svariati titoli fra i quali la redazione di GameCompass ha selezionato i migliori in questa TOP 5:

Al quinto posto abbiamo Sonic Mania, dove il mitico porcospino blu ritorna in compagnia di Tails e Knuckles in un’avventura che unisce magistralmente classicità e innovazione, dimostrando in termini di meccaniche e di level design che i grandi giochi di un tempo hanno ancora molto da insegnare ai videogame contemporanei.

Al quarto posto abbiamo l’italianissimo Last Day of June, dove i ragazzi di Ovosonico sono stati capaci di trasmettere forti emozioni e di trattare con grande intensità tematiche dense quali l’amore, la morte e i ricordi, il tutto con una grafica minimale, ben curata che gode di un ottimo comparto artistico.

Al terzo posto abbiamo il ritorno di Uncharted con L’Eredità Perduta, espansione stand-alone del 4° capitolo della saga che per la prima volta non vede Nathan Drake come protagonista ma due donne, Chloe Frazer e Nadine Ross, che partiranno per i monti dell’India alla ricerca della “Zanna di Ganesh”. Il gioco conferma gli standard a cui Naughty Dog ci ha abituati risultando un titolo dove la grande narrazione si unisce a un comparto tecnico di alto livello che fa della grafica uno dei suoi punti forti.

E il secondo posto è un titolo che ha fatto molto parlare di sé, Hellblade: Senua’s Sacrifice, straordinario saggio sulla follia frutto di un grande lavoro di studio di Ninja Theory, la quale è riuscita a sviluppare un titolo di ottima giocabilità e resa grafica che restituisce magistralmente anche dal punto di vista tecnico il disturbo della schizofrenia.

Ma il vincitore della nostra top è un titolo a firma italiana: nato dalla joint venture fra Ubisoft e Nintendo, Mario+Rabbids: Kingdom Battle è stato interamente sviluppato negli studi milanesi della società transalpina, dove il game designer Davide Soliani e il suo team hanno sviluppato un piccolo gioiello strategico che prende le mosse da classici del genere del calibro di XCOM per poi definire una sua propria identità, regalando all’universo di Mario e a quello dei Rabbids un capitolo che, per meccaniche e cura sul piano tecnico, meriterà di essere ricordato negli anni a venire.

Ed ecco di seguito le classifiche parziali per ogni redattore:Simone Bruno

  1. Mario+Rabbids: Kingdom Battle
  2. Sonic Mania
  3. Hellblade: Senua’s Sacrifice
  4. Observer
  5. Last Day of June

Andrea Celauro

  1. Sonic Mania
  2. Mario+Rabbids: Kingdom Battle
  3. Megaman Legacy Collection
  4. Patapon Remastered 3
  5. F1 2017

Emanuele Cimino

  1. Uncharted: L’Eredità Perduta
  2. F1 2017
  3. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  4. One Piece Unlimited World Red Deluxe Edition
  5. Last day of June

Dario Gangi

  1. Hellblade Senua’s Sacrifice
  2. Uncharted: L’Eredità Perduta
  3. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  4. Batman: The Enemy Within
  5. One Piece Unlimited World Red Deluxe Edition

Vincenzo Greco

  1. Uncharted: L’Eredità Perduta
  2. Hellblade: Senua’s Sacrifice
  3. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  4. F1 2017
  5. Yakuza Kiwami

Gero Micciché

  1. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  2. Hellblade: Senua’s Sacrifice
  3. Uncharted: L’Eredità Perduta
  4. Sonic Mania
  5. Last day of June

Marcello Ribuffo

  1. Hellblade: Senua’s Sacrifice
  2. Uncharted: l’Eredità Perduta
  3. F1 2017
  4. Mario + Rabbids: Kingdom battle
  5. Yakuza Kiwami

Alfonso Sollano

  1. Yakuza Kiwami
  2. Hellblade: Senua’s Sacrifice
  3. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  4. last day of June
  5. Uncharted: l’eredità perduta

Daniele Spoto

  1. Last Day of June
  2. Mario + Rabbids: Kingdom Battle
  3. Hellblade Senua’s Sacrifice
  4. I Pilastri della Terra
  5. Tacoma

Gabriele Tinaglia

  1. Hellblade Senua’s Sacrifice
  2. Agents of Mayhem
  3. Mario+Rabbits: Kingdom Battle
  4. Last Day of june
  5. Uncharted: L’eredità Perduta

Vincenzo Zambuto

  1. Agents of Mayhem
  2. Uncharted: L’Eredità Perduta
  3. Batman: The Enemy Within
  4. Hellblade Senua’s Sacrifice
  5. Mario + Rabbids: Kingdom Battle

La classifica finale vede dunque:

  1. Mario + Rabbids: Kingdom Battle (36 pt.)
  2. Hellblade Senua’s Sacrifice (35 pt.)
  3. Uncharted: L’Eredità Perduta (27 pt.)
  4. Last Day of June (12 pt.)
  5. Sonic Mania (11 pt.)



Top 5: le migliori avventure basate sul Butterfly Effect

Sin dagli albori, i videogame ci hanno abituato a una struttura di gioco su un binario nel quale la storia scorreva lineare dall’inizio alla fine. Con il passare del tempo, il settore videoludico ha alzato l’asticella della complessità offrendo titoli con molteplici diramazioni e variazioni basati sulle scelte del giocatore e introducendo concetti come il Butterfly Effect, in virtù del quale ogni azione genererà nel gioco una diversa catena di eventi che porterà spesso anche a finali diversi.
I titoli di questo genere ormai sono tanti e noi abbiamo selezionato le migliori avventure grafiche e dinamiche in cui le singoli azioni hanno delle conseguenze sugli eventi futuri del gioco.

The Cat Lady

Al quinto posto abbiamo The Cat Lady, titolo indipendente nato dalla mente del creatore di Downfall, Remigiusz Michalski, che firma un’opera onirica, oscura, e simbolista che, pur essendo raccontata in maniera non lineare, risulta di grande equilibrio narrativo e di sicuro effetto dal punto di vista visivo.

The Walking Dead

Il quarto posto è riservato a The Walking Dead, titolo con il quale veterani delle avventure grafiche quali i tipi di Telltale Games sono riusciti a non sfigurare anche sul piano narrativo nel confronto con la serie tv e il fumetto, scritti entrambi dal creatore del brand Robert Kirkman, e regalandoci 2 stagioni di 5 puntate l’una che lasciano meno spazio agli enigmi ma offrono azione, suspence e intrattenimento capaci di accontentare tutti gli amanti delle grandi storie.

Life is Strange

Al terzo posto troviamo invece Life is Strange, opera acclamata da critica e pubblico nel quale ci troviamo a vestire i panni della giovane Maxine Caulfield, che si ritrova improvvisamente dotata dello straordinario potere di riavvolgere il tempo.
Il titolo ha una narrazione da vera e propria serie tv, e ha ottenuto un meritatissimo successo trattando, tramite personaggi candidi e fragili, temi importanti e profondi quali l’identità, la memoria, il bullismo e il suicidio, andando oltre la semplice parvenza iniziale del teen drama.

Heavy Rain

Quantic Dream è da sempre uno sviluppatore ricco di ottimi spunti, con risultati che  però non sempre hanno trovato la quadratura del cerchio, ma il suo Heavy Rain è un titolo che merita certamente il nostro secondo posto. L’opera di David Cage è, infatti, un thriller misto al dramma esistenziale in cui si controlleranno 4 personaggi che in qualche modo ruotano tutti attorno al killer dell’origami, e le cui scelte determineranno uno dei 18 possibili finali del gioco.

Until Dawn

E al primo posto della nostra top troviamo Until Dawn, titolo che prende le mosse dal più classico degli american teen horror movie ma che offre al giocatore una storia ricca di tensione e dallo straordinario ritmo narrativo, avvalendosi di un cast di alto livello, di una parte tecnica degna dei grandi film e non trascurando un aspetto di gameplay impreziosito da quick time events che rendono ancor più vivo il coinvolgimento del giocatore.




Top 5: I migliori videogames sulle malattie mentali

Quella videoludica è un’arte che si è dimostrata capace di trattare ogni tipo di tematica, dalle più leggere alle più dense e importanti. E, fra i territori che hanno esplorato, i videogame non hanno tralasciato gli abissi più oscuri della mente umana. Ed ecco quindi 5 titoli che hanno affrontato i temi della follia e della malattia mentale.

Al quinto posto abbiamo Depression Quest, che si sofferma sulla storia di un uomo ammalato di depressione, non trascurandone il contesto emotivo, sociale e lavorativo: al giocatore è richiesto di scegliere cosa fare ma la disponibilità di queste scelte dipende dallo stato mentale del protagonista, restituendo in maniera molto realistica la ciclotimia e le difficoltà affrontate da chi soffre di questa malattia.

A quarto posto abbiamo Neverending Nightmares: horror game dallo stile oscuro e suggestivo, che richiama le illustrazioni di Edward Gorey e restituisce il disturbo ossessivo-compulsivo con una grande realizzazione audiovisiva. Nel titolo si guiderà il giovane Thomas in un susseguirsi di incubi che il lead designer del gioco, Matt Gilgenbach, ha ammesso essere ispirati al proprio disturbo, contagiando un senso di ansietà costante che porta il giocatore a condividere parte dello stesso disagio, con momenti davvero disturbanti.

E il terzo posto è riservato a un capitolo di una delle serie più psicologiche della storia dei videogames: parliamo di Shattered Memories, che riprende le vicende del primo Silent Hill affrontate a ritroso e da una prospettiva alternativa, alternando il racconto principale a test psicologici nello studio di un analista che aiuterà il protagonista a scavare nel proprio trauma per tutta la durata del gioco.

Al secondo posto abbiamo uno shooter in terza persona, Spec Ops The Line: ispirato chiaramente al romanzo Cuore di Tenebra (e dunque anche al film Apocalypse Now, che riprende largamente l’opera di Joseph Conrad), il gioco racconta l’inesorabile discesa verso la follia del capitano Martin Walker, membro dei Delta Force e di servizio a Dubai, e ha al centro il tema della follia intrecciato a quello della guerra.

Ma il nostro primo posto va certamente a Hellblade: Senua’s Sacrifice, titolo incentrato sulla psicosi e sulla schizofrenia, disturbi messi in scena in maniera magistrale sul piano visivo unite a un’ottima giocabilità e a una resa globale che raramente si è vista nel mondo videoludico. Un gioco unico che tocca un tema delicatissimo e profondo, al quale ha molto giovato l’ottimo lavoro di Ninja Theory nella fase di studio della malattia.




Top 7: le peggiori boss fight dei videogames

Le boss fight dovrebbero essere il punto più alto in un videogioco, la summa di tutto il lavoro svolto e l’apoteosi del gameplay. Eppure a volte qualcosa non va per il verso giusto, e i supernemici diventano dei corpi estranei rovinando soprattutto il finale. Ed ecco a voi le peggiori boss fight del mondo videoludico.

#7 Joker – Batman: Arkham Asylum

Joker, antagonista principale di Batman in Arkam Asylum, riesce a essere se stesso per tutto il gioco fino quando, decide di diventare un Hulk vestito da pagliaccio. Le doti di Joker sono per lo più i sotterfugi e un’innata scaltrezza, eppure Rocksteady, che ha lavorato in maniera quasi perfetta sul gioco, decide di mandare tutto a rotoli regalando un personaggio completamente snaturato. Oltre a questo, nemmeno il combattimento in sé riesce a mitigare le cose, essendo praticamente un’arena nella quale far fuori orde di nemici come si è fatto per tutto il gioco, mentre lo scontro con Joker, che dovrebbe essere il fulcro, dura tutto sommato una manciata di secondi che non lasciano il segno.

#6 Rodrigo Borgia – Assassin’s Creed II

Non capita tutti i giorni di prendere a pugni il Papa: ciò che spinge le azioni di Ezio Auditore in Assassin’s Creed II è cercare vendetta nei confronti di Rodrigo Borgia. Quando finalmente si arriva al dunque, quindi l’inizio della Boss Fight, cominciano a spuntare anche buone premesse, visto che bisogna utilizzare tutto ciò che si è imparato nel corso del gioco, con addirittura due frutti dell’Eden in campo.
Purtroppo finisce tutto con una scazzottata da bar, con uno scontro che risulta abbastanza ridicolo, visto che alla fine, si tratta di picchiare un povero vecchio.

#5 Razziatore umanoide – Mass Effect 2

Se la missione suicida è tra le parti finali di un videogioco migliori della storia, non altrettanto si può dire del vero boss finale. Il Razziatore umanoide è una rivelazione agghiacciante, ma il combattimento in sé risulta abbastanza deludente, troppo facile e sicuramente dimenticabile. Spara ai condotti e riparati è in sostanza il riassunto della battaglia, contornato da qualche Collettore tanto per non rendere le cose troppo facili… Inoltre sembra incredibile, visto la potenza dei Razziatori, che basti sparare a qualche condotto d’alimentazione per chiuderla qui. Insomma, probabilmente è il punto più basso della saga di Mass Effect.

#4 Lady Comstock – Bioshock Infinite

Sorpresi? Bioshock Infinite è quasi un capolavoro e, per chi conosce il suo contesto, trovarsi improvvisamente a sparare contro zombie e un fantasma non è di certo una gran cosa. Per quanto poi risulti relativamente spiegato tutto ciò, non si può fare a meno di notare come il tutto risulti fuori luogo e soprattutto estenuante, diventando un mero espediente per riuscire a carpire i segreti di Zackary Comstock e procedere così nella narrazione.
Sta di fatto che la boss fight risulta per lo meno impegnativa e questo mitiga un po’ la cosa ma il senso di inadeguatezza è lampante e porta il tutto quasi al disagio visivo.

#3 Lord Lucien – Fable II

Come dicevamo, il boss finale è quello che si attende di più, la ciliegina sulla torta, eppure in Fable 2 , trovandosi di fronte a un nemico di una certa potenza, basta un colpo per farla finita. Nessuna sfida e nessun senso di gratificazione: tutto si risolve senza lasciare traccia, talmente scialbo che il gioco avrebbe potuto concludersi senza la boss fight. Eppure, come vedremo, c’è di peggio.

#2 Star Destroyer – Star Wars: il potere della Forza

Sarebbe difficile pensare di far combattere uno Jedi contro un’incrociatore imperiale a chilometri di distanza: fare il mimo, portando una nave di quelle dimensioni a precipitare da quella distanza non fa sentire super potente ma abbastanza interdetto, in quanto lo scontro è paragonabile a quando Micheal, in GTA V, deve fare yoga, schivando una manciata di laser e distruggendo un po’ di caccia. Nemmeno la visuale aiuta in quanto ciò che dovrebbe risultare epico diventa soltanto una parodia creata dall’Asylum.

#1 Brumak contaminato – Gears of War II

Premi un tasto e vinci. Il secondo capitolo di una delle saghe migliori negli ultimi anni è famoso per i miglioramenti apportati e per la non boss fight finale. I colpi del Martello dell’alba in Gears of War II lasciano soltanto l’amaro in bocca visto la mancanza di sfida e l’impossibilità di morire.
È una boss fight che non ha senso di esistere visto che poteva essere tranquillamente sostituita da una cutscene: sarebbe stato più dignitoso.




Death Note

Negli ultimi anni, Hollywood ha cominciato a prestare attenzione al mondo di manga e anime, “prodotti tipici” della creatività giapponese. Mancanze di idee, probabilmente, ma sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre avuto la curiosità di vedere dei live action, magari sui nostri eroi preferiti. Non è facile però, vuoi perché la narrazione si sviluppa su decine di volumi, vuoi per lo stile, forse troppo orientale e unico per essere concepito dagli studi di Los Angeles. Del resto ricordiamo tutti il primo – e fortunatamente unico – adattamento cinematografico di un certo Dragon Ball, denominato per l’occasione Evolution: tralasciando qualche nome preso dal manga originale, il film rovescia i canoni su cui si poggia la storia, snaturando (volontariamente?) i personaggi, costruendo una trama dalle fragilissime basi. Un po’ meglio è andata a Ghost in the Shell, pellicola con protagonista Scarlett Johansson, uscita proprio quest’anno: il film, pur subendo molte – ma molte – semplificazioni, è comunque riuscito a ritagliarsi una propria identità, dando senso alla parola adattamento. Nulla di trascendentale, per carità, ma sicuramente un passo avanti verso una costruzione più accurata rispetto l’opera originale.
Ora è il turno di Death Note: targato Netflix, questo film è un interessante esperimento di produrre qualcosa di diverso, magari un po’ di nicchia, ma sicuramente con un grande bacino di appassionati.
Per quei pochi che non lo sapessero, Death Note è un manga del 2003, scritto da Tsugumi Ōba e disegnato da  Takeshi Obata, che riscosse molto successo, non solo in Giappone ma nel mondo intero, divenendo in breve tempo un vero e proprio cult. Le vicende si svolgono attorno a Light Yagami il quale, venuto in possesso del Death Note – un quaderno speciale dove, se scritto il nome di una persona, questa stessa morirà entro breve tempo – decide di ergersi a paladino della giustizia. Andando avanti nella storia non tutto andrà per il verso giusto e, personalmente, vi consiglio di recuperare se non il manga, almeno l’anime.
Cos’è la giustizia? Cos’è la fede? E soprattutto, cosa vuol dire adattamento? Scopriamolo insieme in questa recensione.

Partiamo proprio dall’ultima domanda: che cos’è un adattamento? In generale è la capacità di sceneggiatori e registi di saper produrre contesti cinematografici, quanto meno simili a opere esistenti, come libri, opere teatrali, fumetti, videogiochi e in questo caso, manga; praticamente il 70% di tutto ciò che vediamo al cinema ultimamente. Ovviamente non tutto quello che è scritto su carta stampata è fruibile sul grande schermo: adattare alcune situazioni, alcuni contesti e personaggi, per fare in modo che tutto rientri nelle classiche due ore di pellicola è ormai una prassi, ma soprattutto una necessità. È normale che ci siano differenze e un esempio su tutti, visto che siamo in un portale di videogiochi, può essere considerato l’Animus di Assassin’s Creed: vedere Michael Fassbender per un paio d’ore steso su un lettino non avrebbe fatto lo stesso effetto, ovviamente. Ma l’adattamento, alle volte, diventa una scusa, un dito dietro al quale nascondersi quando i pareri della critica cominciano a non essere così favorevoli; e  questo pare proprio il caso di Death Note.
È inutile girarci in torno: il Death Note di Netflix è una delusione sotto tutti i punti di vista. Ma andiamo con ordine.
Il progetto è stato affidato ad Adam Wingard, regista emergente che ha cercato di fare il possibile per salvare quanto meno la faccia. Sì, perché la regia è tra gli elementi meno agghiaccianti presenti nel film, una regia da mestierante, con qualche piccolo guizzo di tanto in tanto. Il problema vero arriva da tutto il resto, dalla sceneggiatura alle prove attoriali, fino al casting. Adattamento significa, in questo caso, traslare le vicende dal Giappone agli Stati Uniti: niente quindi Light Yagami ma Light Turner, Misa che da Idol diviene una cheerleader di nome Mia e i soliti problemi da liceo che abbiamo imparato a conoscere in centinaia di serie americane. Fin qui nulla di strano. I veri problemi sorgono quando i personaggi principali diventano mere parodie vuote in un contesto che risulta sin da subito sbagliato. Nella sceneggiatura scritta a tre mani, Light Turner (Nat Wolff) si presenta come uno dei tanti ragazzi disagiati e isolati dal contesto socio-scolastico, ma dotato di grande intelligenza. Già si può evincere come ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò, segnalato anche da un netto distacco dall’atmosfera aulica del manga/anime e l’interpretazione che di certo, non aiuta. Nat Wolff è fin troppo sopra le righe, mai convincente e soprattutto privo di carisma. Non riusciamo a empatizzare con lui e capire il suo punto di vista contorto, probabilmente per un errato – ammesso che ci sia stato – studio del personaggio di Light Yagami. Senza soffermarci su Mia (Margaret Qualley), pressoché inutile e fastidiosa, sia come personaggio che come recitazione, da segnalare è la prova del vero antagonista di Light, o Kira se preferite: Elle. È vero; cambiare etnia a un personaggio che fa della sua caratterizzazione esteriore uno dei sui pregi è sicuramente una mossa al dir poco azzardata. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Keith Stanfield, nei panni di uno degli investigatori migliori al mondo, ne rappresenta discretamente i comportamenti, almeno fino a quando pensa di essere diventato qualcun altro e comportarsi nella maniera più sbagliata possibile. Questo forse è in sintesi una delle caratteristiche del film: ci prova, ma pur provandoci non riesce, mettendosi il bastone tra le ruote da solo.
Se le interpretazioni a dir poco scadenti non lasciano il segno e una scrittura confusionaria che cerca di prendere qualcosa dall’opera originale si perde nei meandri del nonsense, cosa resta? Probabilmente la voce di Ryuk (caratterizzazione pessima, sia esteriore che psicologica) prestata da Willem Defoe, è l’unica nota positiva del film. In lingua originale si può apprezzare lo sforzo di un attore che ci ha creduto, riuscendo, almeno in parte, a rendere meno ridicolo lo Shinigami.
Inutile dire che le tematiche sono state completamente travisate: quello che per Light Yagami è un compito offerto dal destino, per Light Turner e Mia diventa quasi un gioco di coppia, immerso in un teen drama di cui si poteva fare volentieri a meno.

Il Death Note di Netflix è un fallimento su tutta la linea: scelte di sceneggiatori, casting e  attori, non rendono giustizia a un’opera che ha segnato una generazione, aprendo dibattiti su cosa sia giusto e sbagliato o la funzione di Dio. In questo caso la parola adattamento viene utilizzato come scusa, divenendo un Dragon Ball Evolution 2 dimenticabile, con così tante pecche che si fa fatica a trovare qualcosa da salvare. Nulla dell’opera originale, se non qualche nome, è stato utilizzato e questo forse è il male minore: anche se immaginiamo un mondo dove Death Note non sia mai stato creato, questo film non si salverebbe nemmeno.
«Questo mondo fa schifo». E Light Turner, a suo modo, ce lo ha ricordato.