Come scegliere una tastiera da gaming?

Scegliere una tastiera da gaming rispetto quelle normali è difficile per via delle tante funzionalità, switch e tecnologie proprietarie, oltre all’enorme vastità di aziende che offrono prodotti diversi per ogni tipo di giocatore, come appunto per i mouse di cui abbiamo già parlato. Per questo abbiamo creato una guida in grado di dare dei buoni consigli d’acquisto, in linea al vostro budget.

Switch meccanici

Uno degli elementi più confusionari di una tastiera meccanica sono gli Switch MX Cherry che hanno dei codici colore, che troverete sulla maggior parte delle marche. Tuttavia ci sono delle eccezioni: alcuni produttori di tastiere, come Razer e Logitech, hanno i propri interruttori meccanici personalizzati. Gli Switch meccanici sono molto diversi dai tasti presenti su su mezzi più economici, cioè quelle a membrana. Forniscono un feedback migliore e il segnale viene inviato più velocemente. Non sono per tutti però, quindi vale la pena provare prima di acquistare.
Cherry produce sei diversi tipi di interruttori per tastiere MX, che prendono il nome dai colori:

Switch  MX Blue 

Gli Switch Blue restituiscono un clic tattile nel momento in cui il pulsante viene attivato, il che significa che si ottiene un riscontro istantaneo per ogni sequenza di tasti, che rende il tutto molto soddisfacente.

Switch MX Green

Gli Switch Green sono simili ma richiedono più forza degli Switch Blue per essere attivati. Questi sono ottimi per scrivere e per la digitazione ma producono un forte rumore; quindi se ci si trova in ​​uno spazio di lavoro condiviso o vi sono delle pareti sottili, è meglio evitarlo.

Switch  MX Brown

Gli Switch Brown sono simili al Blue ma il “clic” tattile è molto meno pronunciato. Sono anche meno rumorosi dei loro fratelli Blue e Green, con un suono più simile a un urto che un clic, ma ha uno scatto meno pronunciato rispetto agli interruttori Brown e richiede meno forza per l’attivazione. Questi interruttori sono una buona via di mezzo per i giocatori che scrivono anche molto.

Switch  MX Red

Gli Switch Red non hanno click tattili ma possiedono una corsa estremamente breve. Questi sono gli switch più comuni sulle tastiere da gaming grazie alla loro eccezionale facilità e rapidità di utilizzo. Sono meno confortevoli per lunghi periodi di digitazione e la mancanza di feedback può risultare fastidiosa per alcuni.

Switch  MX Black

Gli Switch Black sono molto simili ai rossi ma richiedono più forza per l’attivazione.

Switch  MX Speed

Infine abbiamo i nuovi Switch Speed, che hanno un punto di attuazione molto piccolo, appena 1,2 mm.

Nonostante abbiamo descritto ogni Switch è davvero necessario provarli per determinare quale sia il migliore per le vostre esigenze. È possibile acquistare campionatori di interruttori MX dal costo superiore ai 10 €, oppure controllare se nei negozi di informatica più vicini sono già esposti questi prodotti. Gli Switch MX Cherry inoltre sono intercambiabili tra loro nella maggior parte delle volte. Le tastiere non Cherry  invece stanno diventando più comuni, con compagnie come Logitech e Razer che scelgono di vendere le proprie tastiere con i propri interruttori personalizzati. Nonostante ciò gli Switch Cherry dominano ancora il mercato anche se le alternative stanno diventando sempre più popolari.

Altre features

Molte tastiere da gaming hanno a disposizione degli extra che li distinguono dalla massa. Per esempio, alcuni verranno forniti con porte USB, il che significa che è possibile collegare le periferiche direttamente alla tastiera, senza doverli collegare al PC. Alcune sono anche dotate di pulsanti aggiuntivi per le scorciatoie da gaming chiamate macro, che possono essere programmate tramite il software del produttore. Altre ancora hanno addirittura delle porte jack per collegare cuffie e microfono. E come per i mouse vi sono tastiere con i led, alcune con un colore fisso e altre RGB, con effetti di vario tipo. Come detto per i mouse non sono obbligatori, ma ormai nella maggior parte delle tastiere da gaming i led sono la norma, vista la loro utilità nel caso di sessioni notturne.

Tastiere a membrana da gaming

Ho voluto inserire questa sezione perché c’è gente che non riesce ad acquistare delle tastiere meccaniche oppure vuole tenersi con un budget basso ma vuole avere una buona tastiera per giocare. L’unica cosa che c’è da dire a riguardo sulle membrane è che bisogna guardare principalmente la qualità costruttiva e se la tastiera aggiunge tasti macro/funzione oppure la retroilluminazione, e in questo caso assicurarsi magari tramite le recensioni che si vedano bene i tasti al buio poichè l’unica funziona utile dei led è appunto come scritto sopra, per le sessioni notturne. Rispetto le meccaniche non c’è bisogno di guardare gli switch poichè non ci sono.

Per giocare a livelli alti con una velocità di risposta più elevata possibile e con comodità le meccaniche sono consigliatissime anche se esistono delle tecnologie con switch a infrarossi uscite da poco che possono contrastare le meccaniche, ma ne parleremo più avanti. Riguardo le tastiere a membrana invece non significa che sono sconsigliate per giocare, vi sono tastiere a membrana che vanno benissimo e non vi faranno pentire di non aver acquistato una meccanica. Un esempio di tastiera a membrana da gaming di alto livello è la Logitech G510 di qualche anno fa che tra ben 18 macro, tanti tasti funzione, jack per cuffie e microfono, led RGBtecnologia proprietaria che accellera la comunicazione tra tastiera e PC e addirittura uno schermo integrato per vedere statistiche di gioco o informazioni varie la rendono un’ottima variante delle meccaniche.




PUBG vs. Fortnite: i re della Battle Royale

Il mondo del gaming si è arricchito di nuovi giochi che hanno lanciato un genere adesso in auge in ambito videoludico, la Battle Royale. Il primo è PlayerUnknown’s Battleground, titolo basato su precedenti mod sviluppate da Brendan “PlayerUnknown” Greene su svariati giochi (ARMA 2 su tutti) prendendo ispirazione dal film giapponese Battle Royale. Ne è venuto fuori lo stand alone che è diventato nel 2017 il titolo più giocato di Steam, che ha infranto ben 7 Guinness World Record, e che vede il giocatore affrontare online 99 avversari in un deathmatch su un’isola gigante.
La storia del successo di PUBG e di questo genere, non nasce soltanto dall’intuizione di una sola persona che ha magicamente creato il gioco del momento; dopo il film del 2000 infatti il concept dell'”ultimo sopravvissuto” che deve aver prima ucciso tutti gli altri per continuare a vivere è stato ripreso più e più volte nel mondo del cinema, non lasciando indifferente l’universo videoludico nel quale ritroviamo le medesime meccaniche, senza seconde chance per i giocatori, come in Counter Strike.
Contemporaneamente un primo concept di battle royale nei videogiochi si presenta come mod per Arma 2, poi riadattato per Arma 3. Ovviamente non era ancora conosciuto come tale, ma era soltanto un assaggio di quello che Greene avrebbe creato con PUBG. Nel frattempo abbiamo un altro esempio di questa formula: stiamo parlando di H1Z1, che ha al suo interno una battle royale costituita da ben 150 giocatori e che ha permesso a Greene di muovere i primi passi in ambito professionistico come consulente, prima di essere chiamato dai Bluehole Studios per lo sviluppo di PUBG.

Il secondo è invece Fortnite, un gioco completamente oscurato da tutti i competitor all’uscita ma che ha saputo rilanciarsi, ispirandosi al sistema di PUBG, creando la Fortnite Battle Royale. La storia di Fortnite è singolare, anche se abbiamo poche informazioni a riguardo: sappiamo che il progetto è nato circa 6 anni fa e che durante gli anni è stato ripreso e abbandonato varie volte fino a quando, Epic Games, lo ha salvato dal completo oblio sfruttando la formula dell’early access per poterne portare avanti lo sviluppo. Di base doveva essere un gioco survival, in cui salvare il mondo da una apocalisse zombie. Ci si aspettava un buon successo di vendite ma, paradossalmente, non per la meccanica della battle royale.
Essendo giochi dello stesso genere hanno molti punti in comune. Analizziamoli uno alla volta.

La tensione

Senza tensione, un gioco di questo genere non avrebbe senso di esistere; tensione in grado di far restare accovacciato cinque minuti dietro un albero e in  grado di farci preoccupare del numero di superstiti round dopo round. Questa tensione è alla base del genere battle royale. Sia in PUBG che in Fortnite quindi, il silenzio è il vostro miglior amico: muoversi con attenzione è essenziale e, al primo cenno di rumore, un brivido salirà lungo la schiena per la paura di essere scoperti. È possibile giocare come ne I mercenari di Stallone ma si rischierebbe di snaturare il gioco, visto che in una Battle Royale si sopravvive con l’astuzia e non con la forza.
Questa sensazione tende a variare tra i due titoli: in Fortnite l’azione è più veloce; il cerchio velenoso che vi circonda si restringe più velocemente che in PUBG e la mappa è più piccola. PUBG  è al contrario un gioco nel quale i nervi vanno tenuti ben saldi perché semplicemente la partita dura di più. Difficile decretare il migliore in questo ambito, dipende dalle vostre preferenze, soprattutto in termini di durata.

Le mappe

La mappa in questo tipo di titoli, fa la differenza. Come già accennato, in Fortnite si ha la sensazione di giocare a qualcosa di già visto, con un po’ Minecraft e un po’ Team Fortress per citarne un paio, mentre grazie alla vastità della sue mappe PUBG si distingue. Andando più nello specifico nel titolo Epic vi è una sola piccola mappa rispetto a quella del rivale e inoltre, PUBG ha ormai introdotto Miramar, la mappa desertica che si va ad aggiungere a Erangel. Dalla sua Fortnite offre un design più cartoonesco, che per alcuni può risultare più gradevole.
Riguardo le mappe, è visibile a occhio che quelle in Player Unknow sono molto più vaste, offrendo molteplici strategie ma anche molti più rischi; implica anche una certa percentuale di fortuna poiché, se si sbaglia punto di atterraggio, si dovrà prendere un veicolo e rischiare di essere uccisi. In Fortnite questo non accade per un semplice motivo: come detto la mappa è più ridotta e facile da attraversare, e questo aiuta e non poco i giocatori a trovarne altri e a ucciderli facendosi strada per la vittoria.
PUBG offre più ripari sul territorio ma questo viene compensato in altro modo da Fortnite, che approfondiremo di più analizzando la tattica dei due giochi.

La tattica

La tattica da imbastire, se si vuole sopravvivere è differente, ma in tutti e due i casi fortemente rilevante. In Fortnite bisogna “craftare” per riuscire a costruire le proprie difese e per sopravvivere si ha bisogno di fantasia e inventiva; in PUBG è fondamentale trovare la posizione giusta e non si ha nulla a disposizione oltre la mappa e i loot già pronti.
Ma andiamo nel dettaglio per capire meglio cosa fare in uno e cosa nell’altro. In Fortnite, non appena a terra, avremo la possibilità di costruire quel che serve e, prima che inizi il livello; si avrà anche l’opportunità per creare il materiale distruggendo elettrodomestici, auto, ecc. Durante la fase di combattimento vero e proprio quindi, potremo creare delle posizioni rialzate e mura per proteggere noi stessi o il nostro team. Questo, darà vantaggio ai più veloci a costruire, per esempio, ripari rialzati che offrono una visuale migliore sul nemico.
In PUBG dovremo cavarcela con ciò che si trova in giro e non si avrà tempo di cercare nuovo equipaggiamento; saremo subito scaraventati nell’azione e molta importanza verrà data quindi ai ripari e agli edifici rialzati che danno ai cecchini l’opportunità di sopravvivere più facilmente. Comune a entrambi i titoli, è lo spostamento continuo, dato che si è circondati da una nube circolare di gas velenoso e, ogni posto ritenuto sicuro,  non lo sarà per molto.

Il combat system

Nonostante i due giochi siano molto simili, il sistema di combattimento è alquanto diverso, anche se valido per entrambi. In Fortnite vi è un solo tipo di mira, mentre in PUBG il tutto è strutturato diversamente: ne abbiamo di tre diversi tipi: l’Hip Fire che offre la possibilità di sparare a dispetto della precisione, ovviamente la classica opzione di mira, sempre in terza persona, e infine, quella che possiamo definire la modalità cecchino, medio/lungo raggio, l’ADS (aiming-down-sights) che trasposta il tutto in prima persona offrendo la possibilità di mirare in maniera precisa.
Per quanto riguarda le armi quest’ultimo stravince a mani basse su Fortnite: la loro quantità  è molto più ampia e a tratti, tende alla simulazione, mentre il sistema delle armi è più semplificato in Fortnite. Inoltre in Player Unknow, troviamo i veicoli che possono aiutare o danneggiare il giocatore durante il combattimento esplodendo.

Gli ultimi cinque minuti

Gli ultimi cinque minuti di gioco, sono quelli che decidono le sorti di una battle royale, dopo la “selezione naturale” susseguitasi e dove più forti hanno prevalso. È il momento in cui bisogna rimboccarsi le maniche e fare sul serio. Su Fortnite, gli ultimi minuti si svolgono all’interno di fortezze molto vicine e questo non fa altro che aumentare la frenesia da combattimento, dando una motivazione in più ai giocatori a migliorare il più possibile l’equipaggiamento prima di questo momento, poiché sarà essenziale sul finale di partita. L’ultima fase di PUBG, seppur piena di tensione è priva d’azione, i giocatori tendono a muoversi con poca avventatezza.

Le conclusioni

Sembra che la battaglia all’ultimo sangue tra Fortnite e PlayerUnknow’s BattleGround sia terminata. Si tratta di videogame molto validi e molto simili, anche se differiscono per alcune meccaniche il cui loro apprezzamento deriva essenzialmente dal gusto personale. Questo non ci esime dal dare un parere oggettivo: per quanto riguarda la mappa, nonostante la grandezza, PUBG offre meno spunti strategici mentre, discorso analogo, ma a parti invertite, per il combat system, dove, rispetto a Fortnite, bisogna agire con una tattica più articolata. La scelta è ardua e per questo motivo consigliamo entrambi i titoli: Fortnite  va benissimo per un divertimento più rilassato, mentre PUBG per una vera e propria sfida competitiva.




Come scegliere un mouse da gaming?

Un mouse da gaming è uno strumento essenziale che ogni PC Gamer deve avere. Offrendo tempi di risposta più rapidi e spesso munito di tasti programmabili via software, un mouse da gaming decente può aiutare a posizionare i vari giocatori verso la parte alta delle classifiche nelle partite competitive. Ma per quale modello bisogna optare? Cablato o wireless? Logitech o Razer? La scelta è francamente difficile senza sapere qualcosa di più sui mouse.  Non temete, in questa guida vi aiuteremo a scegliere il dispositivo perfetto per voi sia a livello di funzionalità che di prezzo.

DPI

DPI sta per dots-per-inch. È una dei primi elementi che si notano quando i produttori pubblicizzano un nuovo mouse e rappresenta l’unità di misura della sensibilità di un mouse. Un DPI alto indica quanto il cursore si sposterà ulteriormente rispetto al movimento della mano. Un DPI basso, al contrario, si sposterà su una distanza più breve. Ogni mouse da gioco ha un intervallo DPI (per esempio 200 – 8000) e l’utente può selezionare un punto intermedio in base ai propri gusti. Un DPI molto alto, da gamer competitivo, può arrivare a 16.000  mentre, la maggior parte dei mouse da ufficio, limita i suoi DPI intorno ai 1000. Gran parte dei giocatori si trova comodo tra 800 e 3.000 DPI ma, col tempo, ci si può abituare a usare DPI più alti. Il vantaggio di avere un numero elevato è che si possono eseguire azioni reattive più velocemente, sacrificando però la precisione. La maggior parte delle persone non si avventurerà in DPI elevati, quindi attenzione a cadere nella trappola “DPI alti uguale a un mouse migliore”. Tuttavia, se si dispone di un monitor ad alta risoluzione (QHD o 4K), l’acquisto di un mouse con DPI alto può essere vantaggioso. Questo perché il cursore ha più pixel da percorrere, quindi i DPI più alti non sembreranno veloci se paragonati all’utilizzo di un display 1080p.

Polling Rate

Il Polling Rate è la frequenza con cui il mouse segnala la sua posizione al computer. Questo è un’informazione importante, perché significa che il cursore riferirà più accuratamente i movimenti del mouse alla macchina. Tuttavia, un alto tasso di polling significa anche che il computer deve lavorare di più per capire dove si trova il mouse, ricevendo più dati al secondo. La maggior parte dei mouse di fascia alta ha un limite di 1.000Hz, il che significa che la posizione viene segnalata 1.000 volte al secondo. Fortunatamente, aziende come Razer e Logitech consentono di cambiare la frequenza di polling in base al nostro gradimento, quindi non bisogna accontentarsi del massimo se si utilizza un computer di fascia bassa. È generalmente accettato che sia difficile distinguere tra 500Hz e 1.000Hz, ma si nota sicuramente la differenza tra 125Hz e 1.000Hz, perché il mouse non esegue movimenti fluidi. Ecco perché il tasso di polling è importante ma, come nel caso dei DPI, un numero più alto non è sempre la scelta migliore.

Tasti Macro

Molti mouse da gaming hanno dei tasti programmabili chiamati macro, utilizzabili in base alle esigenze. Un titolo come League of Legends per esempio, giocato con i macro, è un’esperienza indubbiamente migliore. Questa scelta deve essere ponderata: se non siete sicuri di poterli sfruttare al meglio, allora è preferibile l’utilizzo di mouse classici.

Cablato vs Wireless

Per molti anni, è stato accettato quasi come un dogma che i mouse wireless da gaming non fossero utili per i giocatori professionisti, a causa della latenza o “ritardo” dell’imput. Una connessione wireless è generalmente più lenta di una connessione cablata; questo avviene perché il cavo ha una connessione fissa e stabile, al contrario del wireless che può anche scollegarsi. Pertanto, se un mouse cablato emette segnali al computer a 1ms e un mouse wireless ne impiega 5, è ovvio che la scelta ricada sul cablato. Ma grazie ai progressi della tecnologia, molti mouse wireless ora hanno a disposizione connessioni da 1ms – fondamentalmente istantanee –, tra cui il Logitech G900/903 e Razer Mamba (il team Cloud9 utilizza Logitech G900 nei tornei di Counter Strike: Global Offensive).
Ma esistono anche altri aspetti da considerare: i mouse wireless tendono a essere più pesanti, a causa della batteria a bordo ma allo stesso tempo si hanno meno cavi a infastidire. I mouse cablati, d’altra parte, sono sempre a bassa latenza, indipendentemente dalla qualità. Sono anche più leggeri e generalmente costano meno dei mouse wireless.

LED RGB

I mouse da gaming non riguardano solo le prestazioni: ogni mouse da gaming sia economico e non,  possiede solitamente led RGB con tanti effetti regolabili in base alle preferenze del giocatore. Vale la pena prestare attenzione a quante zone individualmente illuminate, poiché questo determinerà la dimensione e lo scopo della personalizzazione RGB. Se si desidera sincronizzare gli effetti di luce tra altre periferiche, è necessario acquistare prodotti dello stesso ecosistema del marchio. Ovviamente i mouse con led RGB non sono sinonimo di migliore qualità rispetto quelli senza led; anzi molte volte è proprio il contrario, quindi è solo una questione estetica (stessa cosa vale per le altre periferiche del PC).

Impugnatura

Un parametro che molte persone non prendono in considerazione è la postura della mano sul mouse. Ci sono mouse creati per diversi tipi di impugnature o per una specifica. Di seguito illustreremo le 3 impugnature più usate:

Palm Grip

  • L’impugnatura più “classica”: dita e palmo ben distesi sul mouse in modo da poggiare su tutta la superficie.

Claw Grip

  • L’impugnatura ad artiglio: quest’impugnatura utilizza le dita ad arco sul mouse.

Finger Grip

  • Viene considerata una sottocategoria del claw grip, anche se molte persone la ritengono una via di mezzo tra il palm e il claw. A differenza dell’impugnatura claw il giocatore finger grip  tiene le dita meno ad arco, e non poggia la base del palmo sul mouse, ma sul tappetino, toccando il dispositivo solo con i polpastrelli.



Monster Hunter World: il contributo di Nintendo non va dimenticato

È un po’ triste vedere un franchise tipicamente associato alle console Nintendo spiegare le ali per migrare alla volta di altri sistemi videoludici; tuttavia siamo contentissimi di sapere che Monster Hunter World, uscito per Xbox One e Playstation 4, venda come il pane e si trovi in testa alle classifiche di tutto il mondo. L’ultima incarnazione della serie potrebbe non essere perfetta ma è comunque un ottimo sequel.
Per quanto possa essere difficile da accettare, la famosa serie Capcom aveva bisogno di passare alle console casalinghe e, dunque, a un utenza più ampia come quella su Xbox One e PS4 (nonché potenza, cosa che Switch non può permettersi); l’ultima volta che la saga è apparsa in una console casalinga è stato con Monster Hunter 3 per Wii nel 2009, dunque quasi dieci anni visto che il successivo Monster Hunter 4, rilasciato nel 2013, uscì per il portatile Nintendo 3DS. Il salto su Xbox One e PS4 potrebbe certamente dare più credibilità al brand e ampliare, decisamente, la già larghissima fan base a livelli mai visti prima.

La serie ne ha certamente goduto ma tutto ciò è forse un po’ difficile da accettare per Nintendo: il titolo è arrivato presto in cima alle classifiche inglesi durante la settimana di lancio e a oggi Monster Hunter World ha superato le cinque milioni di unità fra versioni fisiche e digitali (non dimentichiamoci che questo titolo dovrà ancora uscire per PC, il che porterà ancora più giocatori); le azioni Capcom hanno avuto un incremento del 4.9%, registrando il picco più alto in diciassette anni, e questo sottolinea i limiti della console Nintendo (sia in termini di potenza che di utenza).
La decisione di portare la serie su altre console si è rivelata vincente ma ciò non significa che la relazione fra Monster Hunter e Nintendo sia finita; la serie deve molto alla “Grande N” e giocatori e critici di tutto il mondo lo sanno. Questo nuovo titolo non è comunque esente da difetti: il matchmaking non risulta efficiente, almeno al lancio, tanto che i giocatori di vecchia data rivendicano le gesta dell’online sulle console portatili.

Quando la serie arrivò per la prima volta su Playstation 2 nel 2004 non fu un grande successo; fu con il passaggio su PSP che Monster Hunter definì il suo imperfetto online e si concentrò di più sul multiplayer. La serie riscontrò un modesto successo ma fu solo con il passaggio su 3DS e gli esclusivi titoli Nintendo (come Monster Hunter Generations) che ridefinirono la formula senza stravolgere il gioco di base, riscontrando così il successo meritato.
Ci duole ammetterlo, ma non vedremo mai Moster Hunter World per Nintendo Switch; sicuramente Capcom non vorrà fare un porting al costo di sacrificare il buon comparto tecnico che sta caratterizzando il suo successo nelle altre piattaforme. Tuttavia, Switch non avrebbe bisogno di questo specifico titolo, ma bensì una “sub serie” per la console Nintendo.

Un opzione per Capcom sarebbe quella di portare in occidente Monster Hunter XX, uscito in Giappone nell’Agosto 2017; questo titolo, essendo fondamentalmente un porting, non ha riscontrato un grosso successo. Capcom aveva grosse aspettative per la versione Nintendo Switch però, essendo uscito praticamente 5 mesi prima su 3DS, capirono che Monster Hunter XX, con le soli 100.000 copie vendute dopo la settimana di lancio, non avrebbe ottenuto risultati migliori sulla console ibrida, pur essendo un’esclusiva.
Tuttavia il successo di Monster Hunter World in occidente potrebbe convincere Capcom a rilasciare il titolo Switch nei rimanenti territori (lasciando perdere la release su 3DS); potrebbe essere un percorso rischioso e costoso per Capcom però, potrebbe rivelarsi un ottimo investimento per introdurre la saga ai possessori di Nintendo Switch di oltremare.
Un altro modo per rivedere Monster Hunter su Swich potrebbe essere il rilascio di un nuovo titolo esclusivo. Fra le due alternative è in realtà la strada più rischiosa e Capcom, solitamente, non è un publisher che scommette i propri soldi su uno spin-off quando può ottenere le stesse entrate, se non più grosse, con il rilascio di altri titoli classici (vedi Resident Evil su PS4 e Xbox One); tuttavia è un publisher che, con buona probabilità, avrà già preso in acconto il successo del nuovo titolo e il nuovo status tripla A di Monster Hunter. Inoltre Capcom sa benissimo quanto il contributo Nintendo sia stato decisivo per la saga, quindi è improbabile che una console come Switch, la cui utenza aumenta di giorno in giorno, rimanga senza un Monster Hunter per l’occidente.
Per adesso, possiamo solo incrociare le dita e sperare che un nuovo titolo della saga arrivi su Switch il prima possibile.




Come gli sviluppatori mobile stanno cambiando le strategie di lancio

Il lancio di un nuovo gioco mobile di successo è qualcosa di rischioso e costoso. Emily Putze, dev manager di Google Play, ci descrive le diverse modalità di sviluppo, che vanno da un metodo più tradizionale fino alle evoluzioni dello sviluppo e delle strategie di mercato odierne.

Riguardo al metodo classico, la sviluppatrice dichiara:

«La strategia tradizionale di solito consiste in fasi di testing interno estese in varie ore, seguite da varie fasi di testing esterno (per esempio ottimizzazione tecnica e monetizzazione). Nonostante le differenze tra diverse nazionalità, di solito il raggio d’azione è ridotto a un minimo di cinque a un massimo di sette nazioni, con lo sviluppo limitato esclusivamente ai device di fascia alta per questioni di stabilità. In generale, queste fasi di test, durano tra i due e i tre mesi, con il team di sviluppo concentrato a raggiungere certi livelli di prestazione adatti alla pubblicazione su scala globale.
Non è un metodo di lavoro necessariamente malvagio o antiquato, visto che funziona ancora per molti. Ciò nonostante, noi di Google Play, crediamo sia importante valutare i processi come il fine che giustifica i mezzi, soprattutto in un mercato che si evolve continuamente.»

Sul passato del mobile gaming e le differenze odierne:

«Tra il 2010 e il 2014 la bassa difficoltà iniziale e la grandezza della base installata ha attirato migliaia di sviluppatori a entrare nel mercato mobile. Durante questa “corsa all’oro” i giochi potevano essere sviluppati e lanciati in tempi relativamente brevi e con bassi costi nello sviluppo e nel marketing. Si poteva lanciare un nuovo gioco, vedere se portava profitti e decidere se valeva la pena continuare a investirci.
Oggigiorno il mercato è cambiato: con più di un milione di giochi disponibili su Google Play, gli utenti preferiscono concentrarsi più sulle app di tendenza che su i nuovi titoli. Aggiungendo anche l’aumento dei costi di sviluppo (dovuto principalmente al prolungamento dei tempi di sviluppo e alla ricerca di tecnologia sempre più innovativa), e maggiori spese sul marketing (che somigliano sempre più a quelle dei giochi su console), vediamo sempre meno giochi in arrivo negli store digitali e degli sviluppatori che preferiscono optare per delle soluzioni più sicure piuttosto che lanciarsi in progetti ambiziosi.»

Infine, sui nuovi metodi di approccio allo sviluppo:

«Durante una conferenza con sviluppatori provenienti da Electronic Arts, Wooga, Miniclip, Playrix, King e Big Fish Games abbiamo condiviso dei nuovi metodi di approccio. Uno di questi consiste nell’implementare dei giudizi più severi durante le varie fasi di sviluppo, arrivando, nel peggiore dei casi, anche alla cancellazione completa del titolo. Così facendo si evita che un’IP mediocre e poco giocata diventi causa di perdite monetarie. Un altro metodo recentemente implementato con successo è quello delle beta aperte (o chiuse), più utili in quanto non viene rovinato il rating sugli store digitali e da la possibilità di un feedback privato tra tester e sviluppatori. Tale metodo di lavoro è stato ampiamente abbracciato da Big Fish Games, che, dopo il successo della open beta del loro gioco Cooking Craze, hanno deciso di lanciare tutti i loro successivi giochi con questo sistema.
Vi è stato anche un cambio di mentalità, con gli sviluppatori che preferiscono ragionare più sul lungo termine: ne sono la dimostrazione giochi come Candy Crush e 8 Ball Pool, app con un supporto superiore ai 5 anni, che hanno cambiato così tanto le carte in regola da far passare un colosso come Electronic Arts dallo sviluppo di app annuali, allo sviluppo a lungo termine. Basti vedere l’ultima incarnazione di Fifa, Madden o NBA Live per smartphone.
L’ultimo punto riguarda l’ottimizzazione dei giochi, non solo sul lato tecnico (il 50% delle recensioni da una stella su Google Play riguardano principalmente problemi di stabilità e bug) ma anche per quanto riguarda il gioco stesso: una buona campagna marketing sui social, degli eventi multiplayer durante la beta e tante cose da fare già al lancio del gioco, si sono dimostrati molto utili per il successo.»



Metacritic: qual è il suo peso nella produzione videoludica?

L’industria videoludica si muove molto velocemente e dunque, coloro che producono direttamente per essa, hanno una tendenza a guardare al futuro senza tener conto del passato; in tempi recenti, persino i produttori più grossi ci confermano quanto sia importante attingere dal passato per ottenere dei grandi risultati.

Quanto è bello un titolo?

Come in ogni business, la qualità dei prodotti viene stimata e il suo valore viene preso in acconto dalle case produttrici; il metro di valutazione nel gaming, per i critici, si basa principalmente sulle uscite passate; il loro giudizio verrà preso in considerazione dalle aziende per pianificare le loro strategie per le uscite future. Il problema è che le case produttrici devono prendere in considerazione ogni giudizio da parte del critico medio la cui valutazione è superficiale, mutevole e soggettiva.

Più o meno nella scorsa decade, molti publisher prendevano molto in considerazione le valutazioni di Metacritic, un aggregatore di recensioni che genera un valore che si basa su una media dei giudizi di alcune testate maggiori (anche se alcune non propriamente affidabili) accompagnato dalla valutazione di Metascore, basata invece sul giudizio dei giocatori, in una scala da 1 a 10. Pur non perfetto, era ritenuto “il sistema metrico” del gaming, così decisivo che il CEO della Electronic Arts, John Riccitiello, aveva tirato in ballo il sito durante una conferenza con gli investitori avvenuta esattamente 10 anni fa, comunicando la poca soddisfazione dei recenti sforzi della EA:

«Nonostante siamo il third party leader nel settore non siamo soddisfatti di ciò che siamo. […] Non abbiamo titoli EA che squadernino lo scenario videoludico e nessun nostro gioco raggiunge il 90 o più su Metacritic… Quando sono tornato in EA mi sono preso l’impegno di indagare sulla qualità, sia perché penso sia è la giusta soluzione per il benessere finanziario di questa azienda e sia perché i nostri clienti se l’aspettano.».

La decisione di investire sulla qualità fu un modo per ritardare l’uscita di Battlefield Bad Company e Mercenaries 2: World in Flames, tuttavia con la volontà di consegnare ai giocatori un titolo di qualità, in modo da poter costruire un migliore rapporto di fiducia con i clienti per una migliore economia. Anche se nessuno di questi due giochi raggiunse propriamente la soglia del 90, durante l’incarico di Riccitiello, in cinque anni, dopo la suddetta conferenza, EA potè vantare ben 15 giochi oltre tale soglia, con titoli come Mass Effect 2 & 3, alcune versioni di FIFA 10, 12 & 13, Dragon Age: Origins e Dead Space 2.

Sfortunatamente per Riccitiello, quei punteggi alti su Metascore non si traducevano in successo per EA: durante il suo incarico il valore delle azioni della compagnia caddero da 52$ a circa 19$. Rivendicando l’accertamento delle responsabilità a seguito del venir meno delle aspettative finanziarie, Riccitiello diede le dimissioni il 18 Marzo del 2013. Il DLC Citadel per la versione Playstation 3 di Mass Effect 3, rilasciato meno di due settimane prima delle dimissioni di Riccitiello, rimane a oggi l’ultimo gioco EA a mantenere un punteggio di 90 su Metascore. La compagnia non ha più immesso nel mercato giochi acclamati quanto quelli usciti durante l’incarico di Riccitiello anche se, tuttavia, continua ad avere un buon mercato. Le azioni di EA si sono chiuse ieri a 126.96 $, un record per la compagnia.

In contrasto alle affermazioni di Riccitiello, Robin Kaminsky di Activision, durante il Summit DICE del 2008, prese un approccio quasi opposto alle parole dell’allora CEO della Electronic Arts:

«Un tempo, in Activision, pensavamo fosse necessario semplicemente produrre dei bei giochi. […] Tuttavia un buon gioco non garantisce vendite stellari.»

Kaminsky ha fatto notare che su 18 titoli che l’anno precendente hanno ricevuto una valutazione di oltre 90, 7 di loro hanno venduto meno del milione di copie e due terzi di questi hanno avuto delle vendite totali di poco meno di due milioni di unità.

A tal proposito, ecco alcuni dei titoli Activision che hanno preso oltre il 90 su Metacritic durate la scorsa decade:

  • Geometry Wars 3: Dimensions (94 su Metascore, iOS, 2015)
  • Skylanders Trap Team (90 su Metascore, iOS, 2014)
  • Call of Duty: Modern Warfare 2 (94 su Metascore, ottenuto sia per PS3 e Xbox 360, 2009)

Ai tempi della presentazione di Kaminsky, le azioni della Activision valevano 13$; ieri le loro azioni si sono chiuse per 74.13$, un record per la compagnia.

L’occasione mancata

La qualità non fu solamente l’unica cosa a cui Riccitello puntò come CEO di Electronic Arts; fece in modo che i giochi diventassero più un servizio per i giocatori (anche se durante il suo periodo non riuscì a vedere i frutti di questo suo approccio) e, sempre sotto la sua direzione, acquisì diversi studi di produzione come Bioware-Pandemic, Playfish, Chillingo e PopCap, anche se non riuscì ad acquisire Take-Two.

Nel Febbraio 2008, EA pubblicò apertamente di voler comprare Take-Two per due miliardi di dollari; una mossa che Take-Two ritenette “inadeguata” e “inopportuna”, e soprattutto al momento sbagliato visto che mancava poco al lancio di Grand Theft Auto IV, titolo che avrebbe fatto decollare le azioni della compagnia.

Una volta che GTA IV uscì nei negozi, Take-Two si dichiarò disposta a negoziare con EA ma i piani della compagnia cambiarono; EA tentò di imporsi, comprando le azioni della Take-Two ma, in otto mesi, decidettero di lasciar perdere con l’acquisizione di quest’ultima.

Quando EA provò ad acquisire Take-Two, le loro azioni valevano poco più di 17$; ieri le loro azioni si sono chiuse per 126.67$, un record anche per questa compagna.




Super Vacanze di Natale

Esistono storie che non esistono. Mai frase fu più azzeccata per qualcosa che difficilmente può essere associato a un film o a qualsivoglia media di intrattenimento. Sarà molto difficile analizzare l’ultima fatica di Paolo Ruffini – ammesso e concesso, che abbia realizzato lui stesso questo “montaggione” – che con la dicitura di “regista”, è riuscito a confezionare Super Vacanze di Natale – ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il Cinepanettone. A un prezzo di listino di 7,50€ a persona, questa raccolta delle migliori – a detta di qualcuno – sequenze dei classici film italiani del periodo natalizio, è un qualcosa che sfugge a una mera logica cinematografica e che soprattutto mette alla berlina il concetto di arte. Ma sarebbe facile insultare, sbraitare e urlare un «Mammamia comme sto!» alla fine della sua visione. Cerchiamo dunque di analizzare, quantomeno, seriamente questo prodotto, il fenomeno e soprattutto la risposta di un popolo italico che piano piano si è disaffezionato alle pellicole che per decenni gli sono state tanto care durante le festività. Del resto ci troviamo d’innanzi al punto più basso del cinema italiano: ocio!

Che cos’è esattamente Super Vacanze di Natale? È tante cose: è il canto d’amore di Ruffini a uno dei suoi generi preferiti; è la visione di un’Italia che era e forse non sarà mai più; ma soprattutto è una tortura.
La pellicola ha una durata di circa 67 minuti e credetemi, si sentono tutti i secondi che pian piano abbandonano la vostra esistenza per divenire qualcosa di effimero. Qualcuno potrebbe pensare che una simile opera – che ricordo consiste del ritagliare e mettere assieme spezzoni di tutti i cinepanettoni usciti sinora – possa avere un filo logico, una trama per così dire, che facendosi strada tra le varie epoche, personaggi e situazioni,  veicoli un messaggio o comunque comunichi qualcosa. Se – come me – avete pensato questo, siete in errore: la pellicola sembra essere suddivisa in capitoli, precedute da virgolettati che non vi aspettereste:

«Gli uomini sono fatti in modo da dover tormentarsi a vicenda» (F. Dostoevskij).

Questa è solo la prima delle tante citazioni che scomodano gente del calibro di Freud e Aristotele. Ma perché? Cerchiamo di analizzare. Si è sempre detto, almeno inizialmente, che i primi cinepanettoni rappresentavano, seppur con un certo gusto per il grottesco, la società italiana, con suoi usi e costumi; una sorta di Superquark che non si prende sul serio, con Massimo Boldi e Cristian de Sica come i Piero e Alberto Angela della situazione che ci accompagnavano nelle tortuose strade che l'”Homo Italicus” ha dovuto affrontare. Se almeno inizialmente questo poteva essere assolutamente plausibile, è con l’andare degli anni che qualcosa ha cominciato ad andare storto, proponendo uno schema immobile e invariato mentre il resto del mondo cominciava ad adottare una comicità più evoluta e ormai quasi totalmente slegata da gag fine a se stesse. Sappiamo tutti che, dalla metà anni novanta in poi, la qualità del cinepanettone ha avuto un crollo verticale. Quindi, l’utilizzo di queste citazioni a inizio capitolo serve solo a elevare di facciata gli attributi della pellicola, oppure nasconde un significato più profondo, un’analisi concreta del comportamento umano di fronte ad alcune circostanze? Effettivamente ogni capitolo sembra raccontare qualcosa di diverso, associando l’italiano medio ai diversi grandi argomenti che tutt’oggi affrontiamo: l’italiano e la politica, l’italiano e l’omosessualità, l’italiano e l’amicizia e ovviamente, l’italiano e il sesso.
Il risultato di tutto ciò è puro metacinema: i 67 minuti diventano vita stessa del lungometraggio, che nasce, cresce, prende consapevolezza di sé, trasmettendo la sua natura al pubblico, che non può far a meno di provare un solo e semplice sentimento: ribrezzo. Ci ho provato, davvero, a cercare una sorta di significato in tutto questo e, – come potete aver letto – ho cercato di portare avanti un ragionamento che speravo mi portasse da qualche parte.

A conti fatti, non c’è davvero nessuna differenza tra Super Vacanze di Natale e un qualunque montaggio di clip presente su YouTube. Prendiamolo quindi per quello che è: un semplice montaggio di scene. Il problema più grande – oltre a non avere senso e talmente concettualmente sbagliato da far tornare indietro gli operai dalla fabbrica Lumière in modo da arrestare l’avvento del cinema – è proprio il montaggio, che ogni tanto sembra effettuato con l’accetta per poi aggiungere le scene proposte, che in gran parte consistono in urla, peti, smorfie, gestacci ma a un ritmo così elevato da riuscire a produrre ansia e disagio, oltre a strani malesseri fisici. Funzionerebbe anche, a piccole dosi: del resto il bello delle clip è la loro intrinseca breve durata ma per più di un’ora diventa letteralmente tortura. Si fa veramente fatica a seguire quello che accade e non si desidera altro che la fine. Facendo un esempio, immaginate gli sketch comici di Benny Hill, che tempo fa, allietavano il nostro pre-serale, con scenette intrise di humor inglese. Facevano ridere, e giovano su un punto forte: la durata. Uno sketch funziona perché breve; arriva subito, diretto, cercando di provocare sorrisi o risa. Certo, intervengono anche altri fattori, ma la durata è fondamentale. Prese singolarmente, le scene del famoso duo Boldi-De Sica e di altri esponenti di genere, possono risultare comiche e per alcuni, azzarderei esilaranti. Ma tante clip, una dietro l’altra, prive di una consequenzialità a loro sostegno e non dosate con il giusto tempo per capire cosa succeda, è davvero troppo e, se l’obbiettivo è ottenere una marea di risate si finisce con l’ottenere invece un abisso di silenzio in sala.

Dopo Fuga di Cervelli e Tutto Molto Bello, Paolo Ruffini sembra continui a non capire come realizzare un buon prodotto. L’idea di portare il suo “megamix” rappresenta il punto più basso mai toccato dal cinema italiano. Non importa che sia un’operazione nostalgica o meno, è il concetto che risulta semplicemente sbagliato. Questo non è cinema e anche la dicitura “regia di Paolo Ruffini” sfida le leggi del buon senso. Davvero, se avete voglia di vedere le clip o montaggi dedicati a questa serie di lungometraggi, andate su YouTube: è gratis e ne troverete di migliori.
Per la cronaca: il film, tecnicamente, è di Pietro Morana. Chi ha orecchie per intendere, intenda.




Top 7: I migliori Action/Adventure

Action/Adventure ha assunto significati diversi col tempo: decine, forse centinaia, sono i titoli che si fregiano di tale denominazione eppure, la maggior parte di essi, presentano molti elementi eterogenei, che difficilmente risultano paragonabili alla concorrenza. Vediamo dunque quali sono i migliori titoli di questo grande contenitore.

#7 Batman: Arkham Asylum – Rocksteady (2009)

Tutto ha inizio da qui: l’open world dedicato a Batman apre una delle saghe migliori degli ultimi anni e soprattutto, uno dei pochi media a rendere veramente giustizia al Cavaliere Oscuro. Gotham e il Manicomio di Arkham non sono mai stati così belli, così come amici e nemici che via via affronteremo.

#6 Shadow of the Colossus – Team Ico (2011)

«Alcune montagne vanno scalate, altre vanno uccise». Questo è lo slogan di Shadow of the Colossus, che ci presenta una vasta mappa povera di contenuti ma in cui spiccano i giganti, che dovremo eliminare. È uno dei titoli più suggestivi del panorama videoludico, capace di rimanere impresso nelle vostre menti per sempre.

#5 Tomb Raider – Eidos Interactive (1996)

Il debutto di Lara Croft ha segnato profondamente il mondo videoludico: una donna forte, più in gamba dei rivali uomini, in un periodo in cui le Veline erano la massima espressione di indipendenza femminile. Tomb Raider ha fatto la storia di questo genere e anche i recenti reboot – che vedono una riscrittura del personaggio – non sono da meno.

#4 Uncharted 2: Il Covo dei Ladri – Naughty Dog (2009)

E proprio il figlio di Lara Croft può essere ritenuto il buon Nathan Drake che, a partire dalla splendida sequenza iniziale – vista con ammirazione da J.J. Abrams – riesce a portarci in un mondo veritiero e ricco d’azione. La sua caratterizzazione, così come quella dei comprimari, valgono da sole il prezzo del biglietto.

#3 Assassin’s Creed II – Ubisoft (2009)

Dopo l’addio di Patrice Désilets la serie Assassin’s Creed non è stata più la stessa ma, fino a quando è stato al timone, ha avuto il tempo di sfornare qualche piccolo capolavoro. Il secondo capitolo ci porta nella stupenda Italia rinascimentale con protagonista Ezio Auditore, nel frattempo divenuto uno dei personaggi più importanti del mondo videoludico. Probabilmente il miglior capitolo della sega, è il perfetto trait d’union tra una trama sorprendente e un gameplay estremamente vario.

#2 The Legend of Zelda: Ocarina of Time – Nintendo (1998)

Considerato come uno dei migliori giochi di tutti i tempi, questo episodio di Zelda – ma ricordiamo che il protagonista è Link – porta tutto ciò che ha fatto grande questa serie alla massima potenza: un gioco enorme, ricco di cose da fare, musiche d’eccezione e un comparto tecnico in grado di esaltare il tutto, rendono questo titolo uno dei più apprezzati da critica e pubblico.

#1 Red Dead Redemption – Rockstar (2010)

Non si vive di solo GTA e Rockstar lo sa bene: Red Dead Redemption è uno dei più grandi successi della software house e riconosciuto all’unanimità come un vero e proprio capolavoro. Ambientato nel Vecchio West, questo titolo continua ancora oggi ad essere uno dei punti di riferimento del genere, vincendo nel frattempo, più di un centinaio di premi. Una storia matura, con personaggi di livello e un mondo di gioco vivo e variegato, portano Red Dead Redemption a essere al vertice di questa top.




Uncharted: 10 anni di avventure

Il 2007 è stato un anno importante per la storia dei videogame: dopo aver prodotto note saghe di successo del calibro di Crash Bandicoot e Jak and Daxter, Naughty Dog abbandona i platform e si butta sulla pura avventura.
È così che 10 anni fa vede la luce in esclusiva per Playstation 3 Uncharted: Drake’s Fortune, primo capitolo di una serie destinata a entrare negli anni nel cuore degli appassionati. Ambientato in Sud America, il gioco introduce per la prima volta il protagonista Nathan Drake, discendente del corsaro inglese Sir Francis Drake e cacciatore di tesori, che qui andrà alla ricerca della mitica città di El Dorado. Ad accompagnarlo ci saranno due personaggi di cui la saga non farà mai a meno, la giornalista Elena Fisher e Victor Sullivan, amico di vecchia data e mentore di Nate.
I due saranno presenti anche nel secondo capitolo Among Thieves, Il Covo dei Ladri, che vedrà i protagonisti andare alla ricerca della mitica Shambhala dopo averci trasportato un po’ in giro per il mondo, dalla Turchia al Tibet passando per il Borneo per poi finire in Nepal: i nostri eroi verranno aiutati da un altro personaggio destinato a entrare nella storia della saga, la fascinosa ladra Chloe Frazer, che troveremo anche in Uncharted 3: Drake’s Deception, L’inganno di Drake. Anche qui si toccano vari punti del globo terrestre, e per la prima volta si arriva al centro dell’Europa, da Londra sino a un castello francese, per poi spostarsi di nuovo a est dove Nate passerà in rassegna Syria e Yemen prima di ritrovarsi nel deserto del Rub’ al Khali, per giungere infine alla mitica città di Ubar.
I tre titoli presentano un gameplay praticamente uguale, fatto di scalate, sparatorie con svariati nemici su schermo (comandati dal super cattivo che concorre alla nostra ricerca) e risoluzione di enigmi che danno a Uncharted il sapore del grande classico d’avventura, unendo azione, spettacolo e cinematiche in una storia curata e ben narrata.
Nello stesso anno, come gioco di lancio in esclusiva per la nuova handheld Sony, PSVita, viene messo sul mercato Uncharted: L’abisso d’oro, spin-off che racconta della ricerca della Città d’Oro e che vede i personaggi di Jason Dante e Marisa Chase nella loro unica apparizione. Ambientato prima di Drake’s Fortune, Golden Abyss è un capitolo che molti fan non possessori di Vita vorrebbero oggi su console e che non sfigura rispetto alla serie principale
Proprio la trilogia, uscita interamente in esclusiva su Playstation 3, ha un riscontro tale che non poteva essere assente su Playstation 4 e, nel 2015, a 4 anni dall’uscita del terzo capitolo, Uncharted arriva in una collection che raccoglie tutti e tre i capitoli.
È soltanto un modo per ingannare l’attesa: Drake ritorna infatti su PS4 dopo 5 anni di silenzio con un capitolo finale del tutto inedito: Uncharted 4: Fine di un Ladro è un titolo che viene salutato con gioia e clamore dei fan, arrivando a vendere quasi 10 milioni di copie in soli 18 mesi, un risultato straordinario se si pensa che gli altri titoli pare abbiano venduto più di 28 milioni di copie in un lasso di tempo molto maggiore. Oltre a essere l’ultimo della serie, stando a quanto detto da Naughty Dog, il quarto capitolo rivela una sorpresa per tutti gli appassionati: Nathan Drake ha infatti un fratello che credeva perso da tempo immemore e che qui ricompare per chiedere il suo aiuto e trascinarlo in una nuova avventura, che lo porterà dall’Italia, alla Scozia, all’Oceano indiano sino al Madagascar. Se il gameplay pare non godere di particolari innovazioni (si registra il cambio di qualche tasto sul controller e l’introduzione di oggetti come il rampino, il chiodo da scalata e un verricello montato sulla jeep d’esplorazione che poco aggiungono alle dinamiche di gioco), il titolo è salutato dagli esperti come un capolavoro di tecnica, arrivando a essere definito dagli specialisti di Digital Foundry come “A technical masterpiece” grazie a una qualità dell’immagine eccellente, con aliasing degli shader praticamente inesistente, un rendering dei personaggi superiore a quello di molti titoli tripla A, passaggi a sequenze d’intermezzo in tempo reale che fanno a meno di file video pre-renderizzati senza appesantire il tutto, scenari straordinariamente vividi e animazioni facciali notevolmente migliorate.
Alcuni mesi dopo, Naughty Dog rilascia un DLC che ha tutte le caratteristiche di un titolo autonomo: Uncharted: The Lost Legacy è lo spin-off che dà infatti spazio alle quote rosa Chloe Frazer e Nadine Ross, e che non sfigura dinanzi agli altri capitoli di una serie che, con i suoi oltre 41 milioni di copie vendute, si attesta come una delle saghe di maggior successo della nostra epoca, che colma il vuoto lasciato nel cinema da grandi classici come Indiana Jones, e che testimonia il grande potenziale narrativo di un mezzo come il videogame, capace di raccontare storie con forza e dignità decisamente non minori ai propri omologhi della settima arte.




Star Wars: Episodio VIII – Gli Ultimi Jedi

L‘annuncio di una nuova trilogia per una delle saghe più famose di sempre, Star Wars, ha lasciato interdetti molti, probabilmente perché Episodio VI riusciva già a chiudere perfettamente il cerchio su tutte le vicende, riportando equilibrio nella Forza.
Cosa si poteva raccontare, quindi, cosa approfondire? Inizialmente la risposta – saggia – è stata “prequel”: sia in ambito videoludico che cinematografico si è cercato di approfondire tematiche e motivazioni che avrebbero portato agli eventi che tanto bene conosciamo, oppure lo studio di capitoli di intermezzo, capaci di fare da collante tra i vari episodi. Il successo di Rogue One è probabilmente dovuto a questo. Adesso, Episodio VII ed Episodio VIII, tuttavia, pur essendo buoni film se presi singolarmente, forse faticano a giustificare le nuove storie e il prossimo Episodio IX, ma soprattutto, il rispetto della continuity.

Dunque, Episodio VIII: Gli Ultimi Jedi, si presenta come un film d’intermezzo che, come L’Impero Colpisce Ancora, segue la tradizione, avvalorandosi di toni più cupi rispetto al predecessore. Se questa situazione era ampiamente prevedibile, meno lo è stato l’inserirsi nel contesto creato con Il Risveglio della Forza e men che meno con il resto della saga. È un film difficile da collocare: è un buon film di intrattenimento, capace di regalare scorci memorabili, ma anche di affossare quanto di buono iniziato col prequel e fin troppo conclusivo per essere un episodio che sta nel mezzo.
J.J. Abrams resta come produttore, passando la regia nelle mani di Rian Johnson, che non vanta grandissima esperienza, avendo diretto soltanto una manciata di film, tra cui Looper. Nonostante ciò, riesce a fare un buon lavoro, riuscendo a far trasparire i conflitti interiori dei personaggi interessati con lenti primi piani, in cerca di dettagli significativi, con cui lo spettatore può facilmente interfacciarsi. Non mancano i momenti davvero spettacolari, presenti soprattutto nella seconda parte del film, con ottime trovate stilistiche in grado di farvi esaltare come nei migliori momenti della saga. La CGI, ormai parte integrante di qualsiasi film di fantascienza, riveste un ruolo chiave in diverse situazioni risultando davvero ben messa in scena nella maggior parte delle situazioni, siano esse battaglie o singoli personaggi, anche se con quest’ultimi con alti e bassi. Si cerca sempre il dettaglio, non solo poligonale, ma soprattutto cromatico: The Last Jedi, probabilmente, è il film con la migliore fotografia della saga. A cura di Steve Yedlin, le scene a più ampio respiro saranno una vera gioia per gli occhi, non solo sui paesaggi e vari ambienti, come potreste aspettarvi, ma anche nello spazio aperto, con momenti davvero suggestivi e che sicuramente entreranno con forza nella memoria degli appassionati.
Quindi visivamente il film funziona. Purtroppo però, un lungometraggio è costituito anche da altre cose che hanno una “discreta” rilevanza, come la sceneggiatura e di conseguenza l’utilizzo dei personaggi.
La gestione dei ritmi è il problema più grande del film: Episodio VIII è il titolo dalla maggiore durata dell’intera saga (quasi due ore e mezza) e in alcuni frangenti, si sente. Il film sembra essere diviso a metà, di cui la prima parte povera di eventi veramente rilevanti, dando la sensazione di far veramente fatica a carburare. La seconda parte invece è pura azione, a tratti forse un po’ troppo frenetica, ma che riesce nel suo intento, ovvero intrattenere. C’è da segnale che anche all’interno delle menzionate due parti si avvertono questi “su e giù” senza una vera amalgama.

Ma cosa racconta questa nuova trilogia? A questo punto è una bella domanda. I pochi spunti interessanti di Episodio VII, come le origini di Rey, la fine di Luke e il rinnovato Impero del Primo Ordine, in questo episodio vengono tutti risolti in maniera fin troppo sbrigativa, lasciando lo spettatore – che nel frattempo aveva cominciato a farsi delle idee – con un pugno di mosche. Tutto il pathos e le dietrologie pensate fino a questo momento risultano pura fantasia, elaborazioni contorte scaturite dalla base dei vari episodi della saga. L’ultimo capitolo, a dir la verità, lancia alcune frecce dal suo arco come la visione della guerra da un altro punto di vista e il conflitto interiore che uno Jedi o un Sith devono sopportare. Se c’è un merito – narrativamente parlando – di questo titolo, è l’aver portato lo spettatore nella cosiddetta “zona grigia della Forza”, un limbo nel quale i protagonisti sono costretti vivere, ma che purtroppo viene solo abbozzato. Se i temi precedenti sono stati risolti con facilità estrema e quelli nuovi sono appunto solamente abbozzati, è la mancanza  di risposte alle tante domande – che nel frattempo ci eravamo posti – che lascia di più l’amaro in bocca: cos’è il Primo Ordine? Chi è il Leader Supremo Snoke (l’unico e il solo Andy Serkis)? probabilmente nessuno lo saprà mai.
Ma veniamo ai nostri cari personaggi, partendo dal dualismo labile che si presenta per tutto il film: Rey (Daisy Ridley) e Ben Solo, in arte Kylo Ren (Adam Driver). Uno degli elementi riusciti del film è la loro evoluzione – forse un po’ troppo frettolosa – ma capace di instillare dubbi sulla loro natura negli spettatori. Buone prove attoriali poi, riesco a farci empatizzare con i due protagonisti, regalandoci due tra i personaggi più complessi dell’intera saga.
Punto centrale della narrazione non poteva che essere Luke Skywalker (Mark Hamill) – incredibilmente somigliante a Tyrion Lannister – terribilmente combattuto e che si evolverà, sino al climax finale. Il personaggio di Luke risulta controverso: lontano da quanto visto sul finire di Episodio VI, lo Jedi risulta un personaggio che sotto certi aspetti aspetti delude sia i protagonisti che il pubblico. Veniamo a conoscenza anche delle motivazioni, ma probabilmente si poteva, anzi, si doveva fare di più. Le note positive sui personaggi di concludono con il personaggio interpretato da Benicio del Toro, DJ, che fa la sua ottima figura ma che risulta, purtroppo, uno dei nuovi personaggi peggio sfruttati. Ha il merito di portare una ventata di realtà alla decennale guerra che continuiamo a vedere ma, ad un certo punto sembra soffrire di schizofrenia: soffre di questa patologia evidentemente anche  Amilyn Holdo (Laura Dern) e alcuni personaggi secondari mentre altri, tra cui Finn (John Boyega), vengono completamente dimenticati, o per lo meno immersi in storyline dalla dubbia utilità. La scrittura, dunque, è un altro elemento altalenante del film: se da un lato riesce a piazzare colpi di scena ben gestiti, dall’altro lascia perplessi, a cominciare dalla gestione mal curata di alcuni personaggi.
Concludiamo con Carrie Fisher: ha fatto uno strano effetto sapere che questa è la sua ultima apparizione. Non ha mai vantato grandi doti recitative ed Episodio VIII di certo non è il film che ci farà cambiare idea, ma la sua assenza si farà sentire, soprattutto in prospettiva per Episodio IX.

Che cosa racconta Star Wars? Dopo aver visto Gli Ultimi Jedi, si fa un po’ di fatica a capirlo. Nonostante i buoni spunti e il cercare di portare una ventata di aria fresca alla saga, si sente la reale mancanza di giustificazioni narrative a vantaggio di quelle commerciali. Alla fine ci si ritrova sempre al punto di partenza, con la strana sensazione di non aver imparato nulla di nuovo dal finale di Episodio VI, concludendo molte storyline che potrebbe rendere questo episodio addirittura conclusivo. Non stiamo parlando di un brutto film, tutt’altro, ma forse, a questo punto, ci si aspetterebbe qualcosa in più.