Culturalizzazione: migliorare i contenuti nel rispetto di tutti
Il rosso in Cina è il colore della fortuna e della prosperità, dunque un colore positivo, ma in termini di gaming questo colore è spesso associato ai danni o a un qualcosa di negativo; il lutto, in Asia, è rappresento dal bianco anziché dal nero ed è inoltre inappropriato avere degli scheletri come nemici in un gioco perché ciò è visto come inappropriato verso i defunti. Questi sono solo alcuni esempi di come il contesto di un videogioco possa cambiare a seconda della popolazione che lo gioca; non si può consegnare un gioco, che possa soddisfare tutti, senza considerare le diverse credenze religiose, tradizioni e diversi punti di vista ed è per questo che le uscite passano sempre attraverso il processo di localizzazione.
Questo non prevede la sola traduzione del comparto testuale o dei dialoghi ma serve per far si che la cultura di arrivo possa comprendere, anche con termini propri, la cultura d’origine. Vi facciamo un esempio più chiaro: ricordate il buon vecchio anime Rocky Joe? Quando lui e il caro Nishi volevano un qualcosa di gustoso mangiavano un bel piatto di “spaghetti” e non di “udon”; se è per questo il nome “Rocky Joe” non è proprio un nome così giapponese. Questo perché i traduttori che lavorarono all’opera avevano bisogno di trovare dei corrispettivi culturali italiani che il pubblico avrebbe potuto comprendere e accettare senza, necessariamente, dar troppa importanza agli elementi che apparivano nelle scene del cartone (anche perché all’epoca gli anime e la cultura giapponese non erano così popolari); gli spaghetti sono simili agli udon ma non sono la stessa cosa, così come “Joe Yabuki”, in Italia, non ha la stessa carica di “Rocky Joe”, il cui termine sfruttava la popolarità sia del pugile italiano Rocky Marciano che l’allora nuovissima saga di Rocky. Umberto Eco, quando parlò della sua esperienza come traduttore, parlò appunto di “Dire quasi la stessa cosa”, poiché, in termini brevi, non esistono corrispettivi identici da una cultura “A” a una “B”.
Localizzazione e culturalizzazione
Kate Edwards, l’ex direttrice esecutiva della International Game Developers Association (IGDA), spinge gli attuali sviluppatori a puntare di più sui processi di culturalizzazione, un processo un po’ diverso dalla localizzazione che abbiamo imparato a conoscere. A tal proposito spiega:
«La culturalizzazione serve a tutto quel contenuto che potrebbe influenzare negativamente un determinato pubblico. Possono essere simboli, gesti, colori, character design – può essere persino la storia stessa se al suo interno sono presenti determinate allegorie storiche, alla quale la gente potrebbe reagire negativamente. […] Il linguaggio è essenziale per la leggibilità di base, ma ciò che io spesso suggerisco è la culturalizzazione, perché rende il contenuto più fruibile. Si possono ricercare elementi all’interno di una cultura affinché il contenuto sia più interessante, per evocare un senso di cultura che non può essere gestito dal solo linguaggio. […] Io voglio che [i giochi] possano piacere a più gente possibile nel mondo e per fare ciò la lingua non è sufficiente. È possibile fare ogni tipo di traduzione ma se il contenuto presenta un qualcosa di potenzialmente problematico per la cultura d’arrivo, questo non sarà compatibile con i loro valori culturali».
Gli obiettivi della culturalizzazione sono molteplici ma il principale è quello di “migliorare il contenuto affinché possa raggiungere più fruitori possibili” eliminando elementi che possano interferire con l’immersione del giocatore o, peggio ancora, possano offenderlo; Edwards ricorda che se un qualcosa non è in sintonia con la cultura d’arrivo questo potrebbe “rovinare l’esperienza”:
«In alcuni casi un “elemento discutibile” potrebbe estendersi ai governi locali e potrebbero anche bandire un gioco per quel qualcosa di “offensivo”[…]».
Censura o essere politicamente corretti?
Edwards ci tiene a ricordare che il processo di culturalizzazione non ha nulla a che fare con la censura, ma bensì con l’essere politicamente corretto: Kate spiega che gli sviluppatori sono liberi di fare ciò che volgliono, in quanto crede fortemente che i giochi siano una forma d’arte, una forma d’espressione personale e di libertà di parola. Tuttavia, se gli sviluppatori concepiranno un gioco violentissimo o irrispettoso, il 99% del pubblico non lo giocherà e dunque si faranno una pessima reputazione anche se hanno tutto il diritto di pubblicarlo. Se invece vogliono fare soldi con la loro visione creativa allora dovranno essere messi di fronte a delle scelte di mercato.
La culturalizzazione, agli occhi della Edwards, ha due facce: la culturalizzazione reattiva, che comprende l’individuare (e dunque l’eliminare) le cose che possono provocare una reazione negativa, e la culturalizzazione proattiva. Quest’ultimo è un po’ il processo inverso in quanto coinvolge l’arricchire il contenuto con elementi che possano migliorare l’esperienza e che i giocatori, di una certa cultura, possano individuare; se i developer americani o europei vogliono aprirsi di più al mercato cinese o mediorientale allora è meglio – per loro – mostrare interesse verso le loro culture inserendo elementi che possano attrarli come un semplice personaggio della loro nazionalità in un gioco o persino dalle loro sembianze in un titolo ambientato in un mondo fantastico (senza scadere però in stereotipi scontati). Ciò non viene circoscritto solamente per questi nuovi mercati ma è una pratica che coinvolge la sensibilità delle culture occidentali; ne è un esempio il recente ban di Omega Labyrint Z nel Regno Unito, un gioco che poteva essere tollerato in Giappone ma non in molte parti d’Europa (poiché il gioco presentava delle quattordicenni spesso in contesti “troppo piccanti”. In Giappone, per legge, l’età del consenso è di 14 anni). Detto ciò, nonostante il “duro aspetto” degli Stati Uniti d’America, la Edwards ci tiene a ricordare che il mercato USA molto attento su certi aspetti:
«[…] è uno stato molto sensibile a questioni come il sesso, la nudità e il razzismo. I developer non possono pensare che tutto può filar liscio negli Stati Uniti perché non è vero. L’unica differenza è che negli Stati Uniti, come in molti paesi liberi, non controlliamo il contenuto da un punto di vista governativo; noi ci affidiamo semplicemente ai venditori. Il motivo per cui non abbiamo tutti i giochi provenienti da oltremare negli Stati Uniti è perché Wallmart e Target si rifiutano di venderli, tutto qui! È il modello di vendita che blocca i contenuti, non il governo.».
Katrina, di Snatcher di Hideo Kojima, vide cambiata la sua età da 14 a 18 nel mercato occidentale.
La rivincita dell’impero Joseon
La culturalizzazione è un processo che andrebbe avviato il prima possibile, a differenza della più comune localizzazione che si avvia soltato verso la fine della produzione del prodotto, ovvero quando è pronto per essere trattato dai localizzatori; con la culturalizzazione si anticipano questi processi parlando con produttori, scrittori, artisti affinché possano consegnare un titolo che tutto il mondo, benomale, possa godere senza problemi.
Tuttavia ci saranno sempre da fare alcune eccezioni e la Edwards, lavorando come specialista della culturalizzazione da oltre una decade, lo sa bene; ricorda ciò che avvenne per il rilascio di Age of Empire, nel 1997, in Corea del Sud. Il gioco in questione conteneva uno scenario che riproduceva l’invasione della penisola coreana da parte della dinastia Yamato che mise l’impero dei Joseon sotto assedio. Il ministro dell’informazione coreano disse che quell’evento non avvenne mai, nonostante i documenti storici a supporto dell’invasione avvenuta (ricordiamo che la penisola coreana non ha – o per lo meno aveva – una relazione serenissima, specialmente per gli eventi accaduti nel ‘900, con il Giappone); Microsoft aveva in atto una strategia a lungo termine per inserirsi nel loro mercato e i sondaggi mostravano che i giochi di strategia in tempo reale erano molto popolari in Corea, e questo prima ancora del successo StarCraft. Fu così che la Edwards e Microsoft finirono per appoggiare le dichiarazioni del ministro rilasciando una patch, esclusiva al mercato sudcoreano, in cui accadeva l’(in)esatto contrario, ovvero che l’impero dei Joseon invadeva il Giappone. Edwards ricorda:
«Abbiamo preso una decisione che potesse far bene al nostro busines. […] La gente dibatte ancora: Microsoft ha oltrepassato il limite? Quale limite è stato oltrepassato? Se il limite era adattarsi alle aspettative locali allora hanno decisamente fatto la scelta giusta. Il loro obiettivo non era riportare i fatti storici; Age of Empire nasce per questa ragione? Io dico di no, visto che in altre versioni del gioco gli aztechi hanno i carri armati, e ovviamente non li hanno mai avuti. Non serve un background storico accurato per rendere un gioco divertente.».
In caso di emergenza
Edwards ricorda che la culturalizzazione, in fondo, permette ciò che è gusto per il gioco, gli sviluppatori e la loro visione del gioco; serve per far sì che il business non prenda scosse che possano rovinare la sua reputazione. Se dovessero presentarsi altri eventi simili allora si deve esser pronti a fare cambi del genere. Se Microsoft fosse andato contro il ministro (pur agendo in virtù dei fatti storici) allora avrebbero perso per sempre quel mercato. A detta sua, i governi si ricordano di ogni fatto relativo a censure e divieti di questo tipo perciò è bene per i game designers ne prendano nota; bisogna considerare sempre la sensibilità di un popolo altrimenti potrebbe chiudersi il mercato di una determinata area non solo per loro ma anche per l’industria in generale. Ricorda tutta via, che alcuni stati perdonano certi comportamenti, altri, come la Cina (che a oggi è un colosso della scena videoludica) semplicemente no.
Dunque cosa bisogna fare se un gioco, al suo rilascio, provoca caos in un determinato paese? Per prima cosa è bene mantenere la calma e non agire frettolosamente. Quando in un paese succedono cose simili è giusto anche non cambiare immediatamente il contenuto perché è possibile, invece, ottenere l’effetto contrario e dunque, peggiorare ancora di più la situazione; la vera domanda da porsi è: quali sono gli obiettivi del prodotto lanciato e qual è la strategia di mercato a lungo termine del developer in quel determinato paese? Se l’oggetto delle controversie riguardano il design, la narrazione, o altri aspetti dovrebbero essere invece pronti a difenderlo. La Edward designa delle linee guida per non perdere il controllo in situazioni simili:
«Bisogna avere una risposta pronta che non sia “l’abbiamo fatto perché pensavamo fosse figo”. […] L’ho visto accadere un sacco di volte e dunque incoraggio i developer a scrivere una o due pagine di spiegazione del perché di determinate scelte, con delle parole che possano meglio appellarsi a questi particolari casi. All’occorrenza è bene spiegare loro (governi, comunità religiose, etc…) i procedimenti che hanno portato a scelte simili e dire cose come: “guardate, noi abbiamo fatto questo procedimento logico, abbiamo parlato con questi accademici, parlato con queste persone, fatto le nostre ricerche di mercato e capito che non fosse questo gran problema… In poche parole abbiamo fatto i nostri compiti”.».
Così facendo si riguadagna un po’ di terreno nella lotta; la controversia non sarà conclusa ma almeno si dimostrerà il non aver agito con ignoranza da parte dei game developer. Questo è molto importante perché in molti pensano che queste ricerche non vengano fatte; tanta gente pensa che queste offese nascano per ignoranza oppure per offendere volutamente qualcuno ma in realtà il 99% delle volte gli sviluppatori agiscono in buona fiducia, senza alcuna intenzione di offendere qualcuno, ed è vero.
Tuttavia Kate Edwards ha sentito più volte molti developer, in situazioni del genere, dire cose come: «questa non è ottima pubblicità per il mio gioco? Che male c’è ho fatto qualcosa di offensivo e tutti ne parlano? Non è forse buono?». La verità è che tutto questo non si traduce tanto in “cattiva pubblicità” ma tanto che così facendo si finirà per diventare “la compagnia che fa arrabbiare la gente” o “quelli che se ne fregano” e il loro brand avrà sempre una connotazione negativa in determinati paesi; dunque tener conto delle differenze culturali fra paese è paese è importantissimo per far si non solo che il prodotto raggiunga più persone possibili ma anche per far sì che le loro strategie di mercato a lungo termine possano funzionare in una determinata area.