Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel 1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e diversificato.
La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.
Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico, divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.
Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore, il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo. Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti un’ulteriore possibilità”.
Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2, Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.
Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro: pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia, nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei prossimi anni.
L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su una piattaforma molto più popolare della precedente.
Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di una soddisfazione da videogiocatore.