Il Re Leone – Ovvero come ho imparato a preoccuparmi e a odiare la bomba

La nostra è un’epoca strana, stretta in un limbo che vede agli opposti un futuro radioso/deprimente e un passato che non smette mai di essere migliore di quanto effettivamente sia stato. E con il cinema (o cinematografò se preferite) la storia non cambia: Star Wars, Ghostbusters, Il Pianeta delle Scimmie, Star Trek, Total Recall, Alien e chi più ne ha più ne metta, hanno visto negli ultimi anni nuove trasposizioni più o meno riuscite e tra queste, non poteva mancare mamma Disney. Negli ultimi anni la moda della riproposizione dei “classici” in salsa live action è letteralmente esplosa – la bomba, nel titolo – con risultati a volte sorprendenti: Cenerentola di Kenneth Branagh riesce effettivamente ad avere una sua identità, approfondendo una struttura narrativa che per forza di cose mancava nell’originale, impreziosito da scelte stilistiche che ne hanno risaltato il tutto. A modo loro, anche Il Libro della Giungla, La Bella e La Bestia, Dumbo e così via sono film che godono di propria linfa vitale, dando un contenuto in più non solo a chi è amante dei cartoni animati ma anche a chi di Disney interessa il giusto. Tutto questo con alti e bassi, sia ben chiaro, ma l’intento – anzi l’impegno – di andare al di là di quanto visto finora è sotto gli occhi di tutti.
E poi arriva Il Re Leone.

Un capolavoro senza tempo (appunto)

Per quelle due, tre persone che non hanno mai sentito parlare del Re Leone, oltre ad aspettarvi un destino simile a Cersei Lannister a suon di “Vergogna!”, tocca recuperarlo. È uno dei pochi casi in cui non c’è opinione che tenga, in quanto, il film animato del 1994 risulta essere ancora oggi uno dei migliori lungometraggi di genere della storia del cinema. E il perché è presto detto: il primo classico Disney a vantare una storia originale, attinge sì dai classici stilemi narrativi di genere, costruendo una trama a tratti “shakespeariana” e capace di maneggiare con cura gli elementi più importanti che hanno caratterizzato la narrazione sin dalla notte dei tempi. Amore, odio, vendetta, redenzione, rinascita, consapevolezza sono tutte racchiuse nel personaggio di Simba che durante il suo percorso, ritrova se stesso accettando il proprio destino. Nonostante il contesto e il target di riferimento, Il Re Leone è qualcosa che viene apprezzato soprattutto “da grandi”: il viaggio di Simba è soprattutto interiore e facilmente empatizzato dalla maggior parte degli spettatori. La fuga con successiva “zona di comfort” sono elementi che vanno al di là del semplice Hakuna Matata di Timon e Pumba, una filosofia (concentrarsi sul presente evitando che passato e futuro influiscano negativamente) che è solo l’anticamera di quanto vediamo a schermo. Simba fa suo l’Hakuna Matata, ma va oltre. Il passato per quanto doloroso va accettato e anche l’influenza negativa che può aver sul presente può essere usato come leva per realizzare esperienze migliori, non solo per sé ma per tutto il regno. Evitando di dilungarci ulteriormente, l’originale Re Leone è qualcosa di estremamente attuale e lo sarà probabilmente sino alla nostra estinzione. Questo perché essenzialmente Il Re Leone, parla di noi, di ciò che siamo e di quello che potremmo essere se solo ci conoscessimo un po’ meglio.
Tutto molto bello, tutti molto felici, sino a quando anche qui la mano a forma di dollaro non ha deciso di afferrare per la coda il povero Mufasa.
I bambini – oltre a essere gli esseri più malvagi dell’Universo – sono anche attenti al mondo che li circonda e ovviamente, il digitale ha preso il sopravvento; come naturale che sia, l’attrattiva dei bambini è virata su qualcosa di molto simile a un videogioco. Nulla di male, per carità; abbiamo avuto titoli degni nota come Coco (disponibile finalmente su Netflix), Up, Inside Out ma anche quel Spiderman – Un Nuovo Universo che riesce anche a elevare il genere. Se gli ultimi live action possono aver effettivamente un senso, vantando tra le fila anche un cast umano, ne Il Re Leone tutto questo prende una piega inaspettata e a tratti deludente.

Uno Specchio Oscuro

Partiamo da una premessa: l’emotività scaturita da un’opera e l’opera in sé sono cose completamente diverse. Del resto c’è chi si eccita sessualmente con Indipendence Day pur sapendo che la qualità del film lascia parecchio a desiderare. Ma andiamo avanti.
Il nuovo Re Leone è una riproposizione diretta da Jon Favreau, regista del remake de Il Libro della Giungla oltre che essere uno dei pilastri del Marvel Cinematic Universe. E il film, per forza di cose, funziona: quello che ci si trova davanti è un semplice “copia 1:1” del film originale ma interamente in computer grafica. Il lavoro svolto con la CGi è qualcosa di sbalorditivo, davvero vicino al fotorealismo con ogni piccolo particolare costruito con dovizia, facendo uso di tutte le ultime tecnologie in questo campo. Quello che colpisce sono i paesaggi degni dei migliori documentari su National Geographic, che riescono a risaltare un contesto che in fin dei conti, vede degli animali parlare. Animali semplicemente riprodotti alla perfezione… troppo. La questione “National Geographic” salta fuori quasi immediatamente: nonostante la riproposizione di alcune scene iconiche (indubbiamente suggestive), nessun passo in più sembra essere fatto dal punto di vista puramente stilistico, partendo da una fotografia (digitale) che non riesce in alcun modo a bucare lo schermo. Con la frase “ho visto documentari più belli” si riassume un po’ il tutto, con Caleb Deschanel che in nessun modo sfrutta la vastità di materiali tra luci e colori dell’Africa selvaggia capace di incorniciare una storia che in questo caso ne avrebbe assolutamente bisogno. Tutto risulta fin troppo asettico e questa asetticità la si ritrova purtroppo sui protagonisti. La ricerca della iper-realicità, benché stuzzicante, risulta essere l’autogol più grande della pellicola. Gli animali, hanno la particolarità di aver una piccolissima scelta di espressioni facciali e tranne qualche raro caso, non sono degli ottimi attori. Certo, ci sono attori che non si discostano tanto dal regno animale da questo punto di vista, ma questo abbiamo e questo ci teniamo. Sappiamo tutti quali sono le scene iconiche o qual è la scena iconica: Mufasa e la sua consapevolezza di non saper volare – lo so, è cattiva. Oltre alla mancanza di reale caratterizzazione estetica salvo qualche eccezione, la limitata espressività mozza le gambe a una storia che fa delle emozioni il suo marchio di fabbrica: nessuna espressione terrorizzata sul volto di Mufasa, nessuna trauma sul volto di Simba, nessun ghigno di Scar e soprattutto nessun volto infoiato su Nala. Se quest’ultima non inficia particolarmente sulla narrazione, tutto il resto è un puro colpo al cuore con mani a carciofo. Cosa ne viene fuori quindi? Un film essenzialmente inutile: durante la visione del film non vi è alcun motivo che giustifica questo nuovo adattamento se non il rivivere vecchie emozioni scaturite dall’originale. Ma a questo punto, perché non rivedere quello?
Anche a livello sonoro e scenografico qualcosa non quadra, con riarrangiamento delle celebri musiche di Hans Zimmer, ma che tra alti (sempre con riserva) e bassi non riescono a essere incisive. Prendiamo ad esempio “Sarò Re” di Scar: se nel classico, oltre a essere un elogio al totalitarismo, è intriso di quella teatralità che ha aiutato Scar a diventare un personaggio iconico, tra sbuffi di vapore verdastro, ombre malefiche e anche un bel plotone di iene che LVI avrebbe sicuramente apprezzato, in questa nuova versione, è semplicemente un leone decrepito che saltella tra una roccia e l’altra. Questa scena  rispecchia tutto il film. Tutto è molto edulcorato e in qualche modo sin troppo “distante” per essere empatizzante come il cartone animato.
Inoltre, il cambiamento di struttura narrativa che consente un “live action”, non è stato minimamente sfruttato: l’occasione di vedere approfondita la psicologia di Scar e il rapporto dello stesso con Mufasa, gli anni vissuti da Simba in compagnia di Timon e Pumba e molto altro che avrebbe meritato una maggiore attenzione, semplicemente non esiste, come due scudetti della Juventus. Questa forse è la più grande occasione mancata, ed è strano pensarci considerando che Cenerentola, La Bella e La Bestia, Maleficent e Aladdin hanno avuto un trattamento diverso.
Sul nuovo doppiaggio, elogiando Luca Ward come Mufasa, si prosegue tra alti e bassi in cui spiccano ovviamente Marco Mengoni (Simba adulto) ed Elisa (Nala Adulta) che con le loro voci accompagnano egregiamente le canzoni iconiche del brand, facendo da tramite tra presente e passato… sino a quando le parole non ritmate entrano in scena. Non essendo un musical, si nota una certa discrepanza tra il loro doppiaggio e quello del resto del cast, nulla comunque che infici violentemente la visione.

In Conclusione

La domanda da cui bisogna partire è “ne avevamo bisogno?”. Visto il risultato la risposta sembra scontata, eppure, è molto probabile che le nuove generazioni lo adoreranno. Sarà adorato anche da coloro che vivono la loro vita un quarto di emozione alla volta, cresciuti a pane e Disney e intrisi ancora di quella magia che è facile perdere semplicemente guardandosi attorno. Viviamo in un mondo in cui il dollaro regna sovrano e questo lungometraggio possiede un “non so ché” di pericoloso: cosa vuole il pubblico? È veramente in grado di scegliere cosa guardare e di far selezione? Tutte domande senza senso per i più, ma è la consapevolezza del pubblico a decide di quale qualità vogliamo usufruire.
Il nuovo Re Leone dunque, non riesce a elevare il prodotto originale, non riesce ad approfondire personaggi e tematiche e non riesce a regalare suggestioni visive degne di nota. Sta lì, come qualcosa avvenuto dopo una sbronza ma ancora presente nei nostri ricordi, un errore, qualcosa da dimenticare ma che ormai fa parte di noi. Ci sarà un sequel? Molto probabile, ammesso e concesso che importi a qualcuno ma quei pochi, saranno comunque entusiasti come bimbi nel rivedere le avventure di Simba – Il Leone Bianco.

– Cavolo, ce l’avevo fatta a non citarlo. Proprio all’ultimo. –




Dusty Rooms: 32 anni di Metroid

Nel 1985 il Nintendo Entertainment System sanciva una volta per tutte la fine della crisi dei videogiochi in Nord America, sostituendosi ad Atari nel mercato delle console. Col suo spettacolare lancio, prima circoscritto nello stato di New York con i giochi “Black Box” (ovvero quelli con lo stesso box-art nero come Excitebike, Clu Clu Land o Wild Gunman) e poi in tutti gli Stati Uniti in bundle con Super Mario Bros., l’allora semi-ignota compagnia giapponese cominciava la sua scalata al potere e, come Atari lo fu per la precedente generazione, Nintendo si poneva come sinonimo di videogioco. Come il NES fu posto era chiaro a tutti: la nuova console 8-bit era un HI-FI casalingo, da accostare tranquillamente al videoregistratore, mangianastri o giradischi, pensato per tutta la famiglia e, i giochi proposti, riflettevano senza ombra di dubbio queste scelte di mercato. Tuttavia, nel 1986, Nintendo decise di lanciare un gioco più tetro, decisamente molto distante dai tipici colori accesi per la quale il NES stava diventando famoso; oggi, per i suoi bei maturi 32 anni, daremo uno sguardo a Metroid e i suoi sequel, una saga Nintendo diventata con gli anni sinonimo di eccellenza tanto quanto quella di Super Mario eThe Legend of Zelda, se non persino superiore.

Un gioco rivoluzionario

Metroid uscì per il Famicom Disk System il 6 Agosto 1986 ponendo atmosfere ed elementi di gioco mai visti prima. Sebbene l’action-platformer, più comune oggi come metroidvania, fosse già stato implementato in precedenza (anche se non è facile trovare una vera origine) questo è il titolo che lo ha reso famoso e ha messo le basi per tutti quei giochi che avrebbero voluto emulare questo nuovo tipo di gameplay. Metroid presentava un gameplay sidescroller tradizionle à la Super Mario Bros. ma con un overworld immenso completamente interconnesso grazie a portali, bivi, cunicoli e ascensori; per poterlo esplorare interamente i giocatori avrebbero dovuto trovare i diversi power up per l’armatura di Samus Aran per poi tornare in determinate sezioni dell’overworld e usarle per arrivare in dei punti altrimenti inaccessibili. Diversamente dai più colorati Super Mario Bros. e The Legend of Zelda, dalla quale traeva un pizzico della sua componente puzzle solving, il gameplay di Metroid era volto a far sentire il giocatore un vero e proprio “topo in un labirinto”, sperduto e isolato per via dei suoi toni cupi, fortemente ispirati al film Alien di Ridley Scott, e la totale assenza di NPC con la quale interagire; pertanto, il giocatore era spinto a usare tutti i mezzi a sua disposizione, pensare fuori dagli schemi e, in un certo senso, superare la quarta parete che lo separava dal videogioco disegnandosi, per esempio, la mappa dell’overworld in un foglio di carta accanto a lui (visto che non era presente alcuna mappa in-game).
Il gioco sancisce ovviamente la prima apparizione di Samus Aran, il cui sesso rimase ignoto ai giocatori fino al termine dell’avventura. Sebbene la scelta di rendere donna il personaggio principale fu una decisione presa durante le fasi finali dello sviluppo per creare un effetto shock (principalmente perché nel libretto ci si riferiva a Samus come un lui), fu anche una scelta molto saggia per ciò che riguarda la rappresentazione dei protagonisti donna nel mondo videoludico. Per la prima volta, una ragazza veniva messa allo stesso livello dei virili eroi che erano spesso protagonisti dei giochi d’azione; Samus spianò senza dubbio la strada a tante altre audaci protagoniste femminili, come Lara Croft, Jade e Jill Valentine, e grazie a lei il muro che separava gli eroi dalle eroine fu definitivamente abbattuto. Insieme a lei, Metroid introdusse molte delle caratteristiche che definirono il suo gameplay e che sussistono ancora oggi, come le sezioni da percorrere in morfosfera, i passaggi in cui ci servirà l’ausilio di un nemico da congelare col raggio gelo e i mille e mille segreti nascosti nella mappa del pianeta Zebes; non dimentichiamoci inoltre degli iconici nemici Kraid e Ridley, le forme base dei Metroid e la malefica Mother Brain. Giocare oggi con l’originale Metroid per NES è senza dubbio educativo e interessante ma non tutti, forse, possiamo accettare le lunghissime password, che includono lettere maiuscole, minuscole e numeri arabi, l’assenza di una mappa in-game (che ai tempi apparì per la prima volta soltanto nel primo numero di Nintendo Power nel 1988) e di un vero metodo per ricaricare l’energia di Samus. Pertanto, secondo noi, il miglior metodo per giocare alla prima avventura di Samus è senza dubbio il remake Metroid: Zero Mission per Gameboy Advance: in questa versione uscita nel 2004, possiamo godere di uno storytelling moderno, una mappa in-game rivisitata, sezioni inedite e tantissime nuove armi che si rifanno ai successivi capitoli.

Un sequel carente

Il primo sequel di questo gioco per NES arrivò nel 1992 su Nintendo Gameboy e il suo titolo fu Metroid II: Return of Samus. In questo nuovo gioco, Samus arriva sul pianeta SR388 per debellare la minaccia dei Metroid, eliminandoli definitivamente nel loro habitat naturale. In questa nuova avventura conosceremo questi parassiti più nel profondo in quanto affronteremo delle specie che si evolvono dalla forma base e sono decisamente più aggressive e pericolose. Metroid II è un capitolo spesso dimenticato dai fan ma ha comunque dato alla serie altre caratteristiche che hanno decisamente migliorato il gameplay proposto nel primo titolo per NES: per prima cosa, Samus può accovacciarsi senza entrare in morfosfera e può sparare verso il basso quando si trova in aria; vengono finalmente implementate le stazioni di ricarica, che permettono di ricaricare la nostra energia e la scorta di missili, viene fatta una chiara distinzione fra la Power Suit e la Varia Suit, che costituisce a oggi il design tipico della cacciatrice di taglie spaziale, ma soprattutto viene scartato il sistema di password in favore del più comodo salvataggio su RAM. Ciononostante, molte altre caratteristiche hanno limitato le forti potenzialità di questo gioco: la mappa in-game continuò a non essere presente ma la sua assenza fu compensata da un gameplay semplificato. L’azione si svolge nel sottosuolo del pianeta SR388 e dunque, più si scende più andremo avanti nel gioco. Tuttavia, è impossibile procedere fino a quando non bonificheremo una zona dai Metroid perché dei laghi di lava ce lo impediranno; una volta debellato il numero indicato in basso a destra nel menù di pausa,  potremo proseguire verso il livello inferiore, almeno fino al prossimo impedimento. Questa meccanica permette sicuramente a coloro che vogliono approcciarsi alla serie tramite questo gioco, un gameplay graduale, dove si perde quel senso di dispersione infuso col precedente titolo. Per via della memoria del Gameboy, le aree proposte sono abbastanza piccole ma cercare i Metroid presenti in una determinata sezione può risultare tedioso, in quanto si perde facilmente il senso dell’orientamento (sempre per l’assenza di una mappa in-game). Sempre per i problemi di memoria, gli unici boss che incontreremo sono i Metroid e nonostante ci siano diverse forme di tali nemici il gioco, sotto questo aspetto, risulta poco vario (essendo anche questi ultimi abbastanza facili da sconfiggere).
Essendo invecchiato male, Nintendo ha pensato bene di rilasciare giusto l’anno scorso Metroid: Samus Return per Nintendo 3DS che ripropone un operazione di remake simile a quella di Metroid: Zero Mission. A ogni modo, prima dell’intervento di Nintendo, lo sviluppatore indipendente Milton Guasti aveva rilasciato AM2R (Another Metroid 2 Remake), un remake indipendente dalle fattezze grafiche di Zero Mission e rilasciato gratuitamente su Gamejolt; con buona probabilità, la compagnia giapponese stava già sviluppando il remake ufficiale di Metroid II, perciò non poterono fare altro che bloccare i download del gioco. Tuttavia, ciò che viene caricato su internet ci rimarrà per sempre e perciò, con un po’ di fortuna, è ancora possibile trovarlo in siti diversi da Gamejolt (anche se noi vi consigliamo vivamente di giocare al remake ufficiale di Nintendo per 3DS).

L’eccellenza di Super Metroid

Dopo due anni, nel 1994, arriva il terzo capitolo della saga che riprende esattamente la storia dove l’avevamo lasciata. Il finale di Metroid II: Return of Samus vedeva la cacciatrice essere inseguita da un piccolo Metroid larvale in preda a uno strano imprinting; all’inizio di Super Metroid vediamo la nostra cacciatrice di taglie incubare la creatura in una capsula e cederla a un laboratorio scientifico. Una volta allontanata, Samus trova una strage e Ridley intento a rubare la capsula contenente il Metroid. Samus non riuscirà a fermarlo e così lo inseguirà fino al vecchio pianeta Zebes dove scoprirà che i pirati spaziali stanno costruendo una base per poter utilizzare i Metroid per i loro scopi terroristici.
Super Metroid elimina tutto ciò che rendeva tedioso il primo e il secondo capitolo, prendendone i suoi aspetti più riusciti, migliorandoli ulteriormente. In questo capitolo Samus può finalmente sparare in diagonale, vantando anche una maggiore mobilità sin dall’inizio grazie ai wall jump che, se impareremo a utilizzarli come si deve, potranno addirittura rompere le sequenze di gioco e ottenere armi e potenziamenti prima del normale andamento del gioco; non a caso, questo è uno dei giochi più gettonati dagli speedrunner, i cui scopi sono completare determinati giochi nel minor tempo possibile. Tornano tutti i power up dei precedenti titoli insieme ad alcuni nuovi, come la supercinesi, il visore a raggi-x, la giga-bomba e altri, che finiranno per diventare degli standard per tutta la serie. Grazie alla cartuccia di 24MB, la più grande mai prodotta prima dell’arrivo di Donkey Kong Country, è stato finalmente possibile inserire un’immensa mappa all’interno del gioco in grado di segnalare i luoghi già visitati e quelli ancora da scoprire, decretando così la fine dei giorni in cui giravamo a vuoto per Brinstar o ci arrangiavamo con carta e penna. Grazie inoltre alla potenza del Super Nintendo è stato possibile creare una grafica iper-dettagliata (per l’epoca) che finalmente riusciva davvero a dare quelle sensazioni che il primo titolo sperava di dare, ovvero quel senso di profondità, isolamento, e anche paura, dovuto all’isolamento, alla solitudine e al doversi trovare a che fare con specie aliene di cui non sappiamo niente; il tutto accompagnato da una componente di storytelling che si srotola senza alcun dialogo ma sempre chiara: man mano prendono luogo i momenti salienti della trama, specialmente durante l’avvincente finale del gioco, e da una colonna sonora magistrale resa possibile grazie all’impressionante chip sonoro S-SMP. Per tutti questi motivi Super Metroid si annovera fra i migliori giochi mai creati e ancora oggi risulta incredibilmente attuale e intenso, come del resto lo è sempre stato. A oggi ci sono molti metodi per giocare questo gioco: se avete a casa un Nintendo 3DS o un Wii U potrete trovarlo tranquillamente sull’E-Shop, ma se volete un’esperienza più vicina all’originale allora vi converrà comprare uno SNES Classic Edition e giocarlo con il suo controller originale.

Pausa e ritorno in grande stile

Dopo il successo di Super Metroid nel 1994 era normale aspettarsi un nuovo capitolo della saga in 3D per il Nintendo 64, con nuovi controlli e un gameplay ancora più spettacolare del precedente. Tuttavia, Yoshio Sakamoto, il creatore, e Shigeru Miyamoto si ritrovarono senza alcuna idea per la nuova generazione, specialmente per ciò che riguardava i controlli e la prospettiva del gioco. Proprio per questo motivo non vi fu alcun Metroid per questa generazione. la sua unica apparizione su N64 fu per il divertentissimo Super Smash Bros. nel 1999 e poco dopo la sua uscita si riaccese la speranza di rivedere presto la cacciatrice di taglie più famosa di tutta la galassia. I fan dovettero aspettare ancora altri tre anni ma furono premiati con l’uscita di ben due nuovi giochi della saga per due diverse console: il primo fu Metroid Fusion, in 2D e sviluppato dalle stesse persone che lavorarono su Super Metroid e rilasciato su Gameboy Advance. la storia vedeva Samus Aran accompagnare una squadra di ricerca sul pianeta SR388 quando all’improvviso venne attaccata da una specie sconosciuta; mentre stava tornando alla base per ricevere soccorso, il parassita conosciuto come X entrò nel sistema nervoso di Samus arrivando alla stazione di ricerca in fin di vita. I parassiti X, che nel frattempo si stavano moltiplicando, avevano letteralmente fuso alcune parti della sua armatura sul corpo della protagonista, tanto è vero che i medici dovettero operarla con l’armatura addosso, rimuovendo le parti infette, con Samus in fin di vita; fortunatamente qualcuno trovo una cura, ovvero un siero a base del DNA del Metroid, predatore naturale del parassita X. Così, Samus fu salvata, perdendo buona parte dell’armatura, ma in compenso diventò immune ai parassiti X. Un altro prezzo da pagare fu l’avere le stesse debolezze di un Metroid, come la forte sensibilità al freddo; adesso si poneva una nuova avventura davanti a lei: recuperare le parti della sua armatura rimosse chirurgicamente e mandate alla stazione di ricerca B.S.L., luogo da dove ricevette inoltre un preoccupante allarme.
L’altro nuovo titolo, sviluppato da Retro Studios, era invece Metroid Prime, che avviava pertanto la nuova sottoserie in 3D. Il nuovo titolo per Gamecube fu visto all’inizio con molto scetticismo ma con le prime recensioni da parte di critici e fan, il gioco raggiunse presto il successo sperato. Si sentiva nell’aria una sorta di fallimento assicurato: si pensava che potesse succedere alla saga di Metroid quanto accaduto con Castlevania su Nintendo 64 ma fortunatamente, avvenne l’esatto contrario. Ogni elemento che rese grande la saga, come appunto le sezioni in morfosfera, l’esplorazione graduale e il forte senso di isolamento, fu rivisitato e rinnovato per un mondo 3D dinamico che funzionava alla perfezione; persino la mappa in 3D era chiara e capire dove si era stati e dove no era semplice come in Super Metroid. I controlli non si si rifacevano invece asparattutto “pre-dual analog” per Nintendo 64 come Goldeneye 007 o Turok; il secondo analogico, presente comunque nel controller del Gamecube (se è per questo, usato normalmente in altri FPS che uscivano sulla console), veniva usato per scegliere una delle quattro armi disponibili ma il gioco offriva un sistema di puntamento di precisione, a discapito dei movimenti e un sistema di mira automatica durante le battaglie più movimentate, compensando in maniera completa l’assenza di questa opzione. Il sequel Metroid Prime 2: Echoes, uscito nel 2004, presentava lo stesso schema di controlli ma, così come per il primo titolo, non rappresentò per niente un ostacolo per il successo del gioco. L’avventura, in questo capitolo, veniva letteralmente raddoppiata in quanto a un “light world” si sovrapponeva un “dark world“, un po’ come accadeva in The Legend of Zelda: a Link to the Past, e il gioco prese appunto nuove componenti di gameplay mai viste in precedenza: i controlli furono cambiati e in un certo senso ultimati in Metroid Prime 3: Corruption per Wii che sfruttavano, ovviamente, il sistema di puntamento proposto coi Wii-mote, sposandosi al meglio con un gameplay da FPS della saga Prime. Più tardi, nel 2009, tutti i tre titoli Prime furono rilasciati nella collection Metroid Prime: Trilogy, introducendo così i motion controlller anche nei primi due titoli della sotto-saga.

L’ultimo capitolo e i tempi recenti

Dopo la trilogia Prime, acclamata come una delle migliori della scorsa decade, garantire la medesima qualità era una mossa molto ardua, specialmente senza l’aiuto di Retro Studios che si concentrava a ridar vita a un altro franchise Nintendo smesso in disparte: Donkey Kong Country. In una mossa a sorpresa, Nintendo decise di allearsi con Team Ninja, autori delle acclamatissime serie Dead or Alive, Ninja Gaiden e Nioh, per concentrarsi su un Metroid che unisse sia componenti in 2D, sempre molto richiesta dai fan, che elementi in 3D. Ciò che ne venne fuori, nel 2010, fu Metroid: Other M, un titolo ibrido con sezioni in 2D ispirate a Super Metroid e fasi in 3D che presentano un gameplay dinamico, che ricorda in parte Ninja Gaiden, in cui in ogni momento possiamo cambiare la visuale in prima persona (sempre a discapito dei movimenti). Tuttavia, il punto focale era dare a Samus una voce e presentare il suo personaggio in una maniera tutta nuova, con dialoghi e monologhi (tal volta forse troppo lunghi). Il gioco ricevette opinioni discordanti da parte di critici e fan ma in fondo il tutto si riduceva a pareri soggettivi: il gioco in sé era buono e non presentava grosse sbavature ma in molti, di fonte a così tante novità, faticarono ad apprezzare il lavoro di Team Ninja e così Metroid: Other M rimane a oggi un bel gioco ma non imperativo per godere della saga di Samus.
La saga rimase dormiente fino al 2016, anno in cui fu rilasciato Metroid Prime: Federation Force per Nintendo 3DS, uno spin-off che nessuno voleva. All’E3 2015 il trailer ricevette 25.000 dislike e solamente 2500 like su YouTube; partì persino una petizione su Change.org per raccogliere 20.000 consensi per cancellare questo nuovo progetto ma nonostante le 7500 firme in un’ora l’obiettivo non fu mai raggiunto. Il gioco venne rilasciato l’anno successivo e, contrariamente a ciò che si presagiva, il gioco non fu distrutto dalla critica ma semplicemente accettato per quello che era. Fortunatamente, nel 2017, Nintendo si è rifatta, lanciando il già citato remake Metroid: Samus Return e, all’E3 dello scorso anno, un teaser trailer in cui fu annunciato che Metroid Prime 4 è momentaneamente in sviluppo per Nintendo Switch (anche se d’allora non abbiamo più ricevuto notizie).
L’esperienza dei fan con la saga ci insegna principalmente una cosa: Metroid è uno dei brand più importanti di Nintendo ed è proprio per questo motivo che non vediamo uscite frequenti, visto che ogni release, sia per i fan che per la compagnia stessa, deve essere speciale, portando una grande innovazione a livello di gameplay. Basta dare un occhiata al comparto spin-off della saga per niente numeroso: abbiamo solamente Metroid Prime: Hunters, Metroid Prime Pinball e Metroid Prime: Federation Force e ciò dimostra le intenzioni di Nintendo per non far di questa saga una sorta di Call of Duty o Assassin’s Creed; nonostante abbia un fortissimo appeal e grosse potenzialità il brand è intenzionato a mantenere quell’aura di sacro che da sempre l’ha contraddistinta e anche se i fan ogni volta dovranno attendere molto tempo fra un gioco e l’altro almeno si ha la semi-certezza che alla consegna verrà rilasciato un grande gioco, che sia un episodio principale o uno spin-off. Incrociamo le dita e aspettiamo pazientemente il prossimo Metroid Prime 4!




Un nuovo gioco di Alien in arrivo?

Ebbene sì, il nuovo gioco dedicato al franchise Alien arriverà presto. Il nuovo titolo è in fase di sviluppo negli studi di Cold Iron Studios, sviluppatore abbastanza recente, acquistato poco tempo fa da FoxNext Games. Il gioco promette bene visto la quantità di veterani del settore che hanno partecipato al progetto, i quali hanno contribuito alla realizzazione di titoli come NeverwinterBioShock InfiniteBorderlands, e Metroid Prime.
Non sappiamo molto; le poche informazioni che abbiamo ci suggeriscono che questo sarà il primo titolo dello studio,  e definito come «uno sparatutto per PC e console ambientato nello scenario cinematografico di Alien». Ovviamente mancano informazioni relative alla data di uscita o su quale piattaforma sarà presente, ma siamo sicuri che arriveranno novità a breve.
Sarà particolarmente interessante vedere l’approccio del nuovo team al franchise di Alien data la sua lunga storia cinematografica e videoludica. Possiamo solo sperare che non si discostino tanto dalle atmosfere originali, visto che, a livello videoludico, c’è ancora tanto potenziale inespresso.




Alien: Isolation – A Casa Nessuno Può Sentirci Urlare

In occasione dell’uscita di Alien Covenant nelle sale cinematografiche, ci è sembrato giusto riprendere tra le mani un titolo videoludico che ripropone ottimamente le atmosfere del capostipite della saga del 1979: Alien Isolation.
Rilasciato nel 2014 e sviluppato da Creative Assembly, Alien Isolation ha riscosso un grande successo tra critica e pubblico, soprattutto per l’alta qualità raggiunta in quasi tutti gli aspetti del videogioco.
Ma vediamolo più nel dettaglio.

Alien 1.5

Alien isolation è ambientato 15 anni dopo gli eventi del primo film di Ridley Scott. La protagonista è Amanda Ripley, figlia di Ellen Ripley (protagonista della pellicola) che, in cerca di informazioni su quanto accaduto alla madre, si catapulta, con non poche difficoltà, sulla Sevastopol, una gigantesca stazione spaziale che sarà l’hub principale delle nostre disavventure.
La storia, per quanto semplice, è ben narrata, grazie anche all’utilizzo di ottime cutscene, audiolog e a varie informazioni che possiamo raccogliere con frequenti citazioni ai film. Questo è dovuto alla collaborazione che i producer del gioco hanno siglato con 20th Century Fox che ha permesso l’accesso a tutti i documenti disponibili sulla saga.
Le tematiche presenti sono le stesse del film originale: avidità e giochi di potere nonché l’angoscia e la solitudine esercitata grazie alla minaccia principale del gioco, lo Xenomorfo.
L’ormai iconico antagonista della serie ci accompagnerà per quasi tutta l’avventura, rendendo una semplice missione un vero incubo.

Nessuno può sentirti urlare

Alien Isolation si presenta come un survival horror nudo e crudo. Frequenti saranno le morti, ma questo non porta il giocatore alla frustrazione poiché è possibile trovare modi diversi per affrontare una determinata sezione. Si può morire in qualunque frangente, anche durante il salvataggio, visto che il gioco va in pausa soltanto aprendo la mappa o aprendo il menu. L’astuzia, l’ingegno e la silenziosità saranno necessari per completare l’avventura, che si attesta intorno alla ventina di ore.
La stazione spaziale è liberamente esplorabile, soprattutto se avete tutto il necessario per aprire determinate porte; sta a noi decidere se andare spediti verso l’obiettivo o andare alla ricerca dei numerosi collezionabili, sempre che la paura per lo Xenomorfo non sia un ostacolo troppo grande da superare.
Proprio lo Xenomorfo è il fiore all’occhiello della produzione e vi darà la caccia inesorabilmente per quasi tutta l’avventura. Le sue routine comportamentali sono tra le migliori viste in un videogame, per cui sarà veramente difficile capire in che modo reagirà ad una determinata situazione o i suoi percorsi di pattugliamento. È pressoché invincibile, ma può essere distratto con l’equipaggiamento che possiamo trovare nel corso del gioco o eventualmente costruire grazie anche all’ottimo sistema di crafting. Sono presenti anche armi da fuoco da usare solo se strettamente necessario, in quanto i forti rumori non fanno altro che richiamare l’alieno.
Imprescindibile è poi l’utilizzo del famoso rilevatore di movimento, utilissimo in ambienti aperti, meno all’interno del nascondiglio, dove il “bip” emesso dallo strumento non farà altro che attirare l’alieno verso di voi.
Lo Xenomorfo in realtà non è l’unico nemico della stazione: sono presenti infatti anche umani e androidi che purtroppo vantano una scarsa intelligenza artificiale, basilare e a volte lacunosa; fortunatamente li affronteremo solo in brevi sezioni ma è un peccato constatare ciò visto l’alto livello qualitativo raggiunto con tutto il resto.

Come il film

Da un punto di vista tecnico il gioco si presenta piuttosto bene, con ottimi effetti volumetrici e un comparto luci di riguardo. La modellazione degli ambienti è certosina, così come quella dello Xenomorfo, davvero ben realizzato.
Un po’ meno buona è la modellazione di androidi e umani, che peccano sul piano dei dettagli e delle animazioni. Il comparto artistico è eccezionale, con ambienti contestualizzati al periodo storico narrato nei film: terminali, armi, soprammobili, tutto ricorda le celebri atmosfere dell’Alien cinematografico.
Stessa minuzia anche nel comparto sonoro. Le musiche sono riprese dal film, con alcune di esse ricreate e arrangiate diversamente. Non sono sempre presenti ma, quando appaiono, avvolgono l’azione sapientemente creando maggiore tensione quando serve o enfatizzando i momenti più concitati. Effetti sonori sublimi, non c’è nulla fuori posto tanto che, chiudendo gli occhi, si farà fatica a distinguere il videogioco dai film originali.
Anche lo Xenomorfo è reso benissimo, dalla discesa dai condotti ai suoi effetti vocali, praticamente perfetto. Discorso a parte merita il doppiaggio. Ottimo quello di Amanda, davvero ben realizzato: la paura, la tensione, la frustazione sono ben incisi, regalando
un personaggio assolutamente credibile. I comprimari invece, pur avendo una voce adeguata per il più delle volte, peccano di tanto in tanto di recitazione, utilizzando un tono magari fuori contesto.

In conclusione

Alien Isolation è sicuramente il miglior titolo dedicato a questa saga, nonché un grandioso esponente dei survival horror. Questo non solo per il lato artistico ma soprattutto per le emozioni che riesce a suscitare. L’impressione è sempre quella di essere impotenti di fronte alle circostanze e ogni salvataggio diverrà una vera e proprio fonte di salvezza. Allo spuntare dei titoli di coda, dopo una sequenza finale al cardiopalmo, non potrete che sentirvi soddisfatti, con la consapevolezza di aver compiuto una vera impresa.




Smentito il rumor per Alien Isolation 2

La scorsa settimana alcuni rumor riportavano che il team di Creative Assembly, attualmente al lavoro su Halo Wars 2, avesse in mente un possibile sequel del famoso gioco Alien.

Se è vero che vi sia in cantiere lo sviluppo di un nuovo gioco, bisogna smentire però il fatto che si tratti di un nuovo capitolo della saga Alien, poiché quasi tutto il team che ha lavorato allo sviluppo di Alien Isolation non fa più parte di Creative Assembly.




Creative Assembly pensa ad un seguito per Alien Isolation

Sembra che Creative Assembly sia al lavoro su un seguito del famoso Alien Isolation. Grazie alla rivista Official PlayStation Magazine UK, è comparso un rumor che sosteneva che gli sviluppatori di Alien Isolation dopo aver completato i lavori su Halo Wars 2 si sarebbero dedicati allo sviluppo di un gioco del franchise di Alien.
Ecco la citazione:

“Le nostre fonti ci dicono che dopo aver finito il lavoro su Halo Wars 2, un nuovo gioco di Alien potrà iniziare lo sviluppo”.

Vi ricordiamo che sono solo rumor e che non c’è ancora nulla di ufficiale. Ma ipotizzando che il sequel sia in preparazione, quanti di voi lo aspettano con hype?