Castlevania: Grimoire of Souls per iOS. I perché di tali scelte

Konami ha fatto un po’ di fatica da quando Hideo Kojima ha lasciato la compagnia che ha dato i natali al suo Metal Gear e altre popolarissime serie come Contra, Ganbare Goemon e Silent Hill; sono diversi anni ormai che il popolarissimo developer cerca di trovare una propria identità all’interno della scena videoludica. In fondo, si fa viva quando c’è da lanciare qualche  nuova IP come il recentissimo Metal Gear Survival o l’annuale Pro Evolution Soccer anche se, specialmente per i fatti relativi al licenziamento di Kojima, non sembrano entusiasmare mai i fan. A ogni modo non è che lo storico developer non abbia titoli da sfornare o non sia pronto per un ritorno in grande stile: i fan ebbero un barlume di speranza quando, nel 2015, Konami lanciò un sondaggio che chiedeva agli utenti quali fossero i titoli che più conoscevano e, un primo risultato si vide con l’uscita di Super Bomberman R per Nintendo Switch, un titolo addirittura ripescato dalle IP di Hudson Soft (compagnia che Konami comprò nel 2012).
In questi giorni è apparso un nuovo probabile frutto di quel sondaggio, il ritorno di una delle saghe più amate di sempre: Castlevania: Grimoire of Souls. La popolare saga degli ammazza-vampiri è in stallo da Castlevania: Lords of Shadows 2, un bel gioco ma che, come i precedenti Lords of Shadows e Lords of Shadows: Mirror of Fate, portò la saga in acque sconosciute. Koji Igarashi, lo storico direttore che diresse la saga dopo il leggendario Symphony of the Night, lasciò Konami perché contrario alla loro decisione di metterlo dietro allo sviluppo di titoli mobile distogliendolo, se non altro, dalla sua visione di Castlevania in favore di MercurySteam (gli sviluppatori dietro agli ultimi tre capitoli della saga) che non vedeva di buon occhio.
D’allora Igarashi, similarmente a Keiji Inafune quando lasciò Capcom, lanciò uno dei kickstarter più efficaci della storia, indirizzato verso la creazione di Bloodstained: Ritual of the Night, con l’obiettivo finale di 500.000 dollari; raggiunse 5 milioni in pochissimo tempo e si aspetta il suo rilascio in questo 2018. Konami, visto anche l’interesse dei fan verso il titolo indipendente di Igarashi, ha sicuramente pensato bene di produrre e annunciare Castlevania: Grimoire of Souls (un po’ come ha fatto Capcom con l’annuncio di Mega Man 11, giusto per offrire un’alternativa al malandato Mighty No. 9), annuncio che è stato in grado di far tremare la terra per una frazione di secondo. Anche se le immagini mostrano molti personaggi cari alla saga, un art-style tradizionale, una grafica 2.5D e,  uno “story mode” con la possibilità di un multiplayer in cooperativa (simile forse a quella già vista in Castlevania: Harmony of Despair), Konami ha comunque – e decisamente – smorzato l’entusiasmo generale, annunciando il rilascio per dispositivi iOS. I prodotti Apple, anche se non pensati appositamente per il gaming, sono ottimi dispositivi in grado di restituire un’azione di tutto rispetto, ma è chiaro che quando si pensa a titoli classici come questi non è la prima piattaforma che viene in mente ai giocatori; dunque, perché questa scelta?

È probabile che Konami non voglia semplicemente lanciare titoli per l’utenza che conosce e desidera ancora dei nuovi Castlevania ma, da quel che sembra, una mossa del genere evidenzia la volontà di raggiungere più giocatori possibili. Ogni persona fisica con un cellulare, in fondo, è un potenziale giocatore e, in un’epoca in cui il mercato cinese si apre verso il gaming, in grado di diventare in pochissimo tempo leader nel settore, è chiaro che Konami voglia ricavarsi uno spazio in questo nuovo scenario rinnovando, nel processo, la sua immagine; se non altro, anche se non nel modo in cui potremmo pensare, Konami è stata molto presente nella scena mobile in questi ultimi anni ed è possibile che il loro core business si stia spostando piano piano in quel determinato settore. Può dunque essere che Castlevania: Grimoire of Souls non sia “il loro Mega Man 11” poiché non vogliono semplicemente consegnare qualcosa ai fan della saga storica ma anche far conoscere la saga a chi non l’ha mai presa in considerazione, soprattutto in un paese come la Cina in cui le saghe classiche sono semi-sconosciute.
Tuttavia, Konami sa ancora che i giocatori che vogliono un loro ritorno in pompa magna si trovano principalmente fuori dalla scena mobile ed è per questo che titoli come Metal Gear Survive e Super Bomberman R non sono mancati, assenti nell’App Store e Google Play e che probabilmente, mai ci saranno. Gli iPhone e gli iPad non sono le “migliori console di gioco” (anche se i comandi su touch screen possono essere quasi sempre sostituiti da un bel controller fisico bluetooth) ma ciò non significa che non potremmo vedere questo titolo in altre piattaforme. Nintendo Switch, per esempio, ha accolto positivamente molti titoli già presenti su mobile (come Sparkle 2) e il processo contrario non è neppure un’assurdità al giorno d’oggi (basti pensare alle versioni mobile di Minecraft o Playerunknown’s Battleground). Ci sono ancora pochissime informazioni su questo nuovo titolo Konami: anche se stiamo parlando di un titolo mobile, le immagini sembrano promettere bene (ricordando molto Castlevania: The Dracula X Chronicles per PSP) e il solo fatto di rivedere Simon Belmont, Alucard, Soma Cruz, Charlotte e Shanoa e altri, scartando così lo stile e i personaggi dell’universo alternativo di Lords of Shadows, è certamente un buon punto a loro favore.
Qualsiasi saranno le scelte di Konami, tuttavia, sappiamo che queste non saranno mai fatte senza logica e se hanno deciso di puntare su mobile avranno certamente dati di mercato a supporto delle loro azioni anche se, comunque, non esclude a prescindere un rilascio per console o PC più in là. Ci auguriamo, inoltre, che questo non sia l’ultimo revival delle saghe storiche Konami e che potremo presto vedere presto dei nuovi Contra, Gradius, Ganbare Goemon, Zone of the Enders o Suikoden su console, PC o mobile (tutto pur di poterli rigiocare).




Culturalizzazione: migliorare i contenuti nel rispetto di tutti

Il rosso in Cina è il colore della fortuna e della prosperità, dunque un colore positivo, ma in termini di gaming questo colore è spesso associato ai danni o a un qualcosa di negativo; il lutto, in Asia, è rappresento dal bianco anziché dal nero ed è inoltre inappropriato avere degli scheletri come nemici in un gioco perché ciò è visto come inappropriato verso i defunti. Questi sono solo alcuni esempi di come il contesto di un videogioco possa cambiare a seconda della popolazione che lo gioca; non si può consegnare un gioco, che possa soddisfare tutti, senza considerare le diverse credenze religiose, tradizioni e diversi punti di vista ed è per questo che le uscite passano sempre attraverso il processo di localizzazione.

Questo non prevede la sola traduzione del comparto testuale o dei dialoghi ma serve per far si che la cultura di arrivo possa comprendere, anche con termini propri, la cultura d’origine. Vi facciamo un esempio più chiaro: ricordate il buon vecchio anime Rocky Joe? Quando lui e il caro Nishi volevano un qualcosa di gustoso mangiavano un bel piatto di “spaghetti” e non di “udon”; se è per questo il nome “Rocky Joe” non è proprio un nome così giapponese. Questo perché i traduttori che lavorarono all’opera avevano bisogno di trovare dei corrispettivi culturali italiani che il pubblico avrebbe potuto comprendere e accettare senza, necessariamente, dar troppa importanza agli elementi che apparivano nelle scene del cartone (anche perché all’epoca gli anime e la cultura giapponese non erano così popolari); gli spaghetti sono simili agli udon ma non sono la stessa cosa, così come “Joe Yabuki”, in Italia, non ha la stessa carica di “Rocky Joe”, il cui termine sfruttava la popolarità sia del pugile italiano Rocky Marciano che l’allora nuovissima saga di Rocky. Umberto Eco, quando parlò della sua esperienza come traduttore, parlò appunto di “Dire quasi la stessa cosa”, poiché, in termini brevi, non esistono corrispettivi identici da una cultura “A” a una “B”.

Localizzazione e culturalizzazione

Kate Edwards, l’ex direttrice esecutiva della International Game Developers Association (IGDA), spinge gli attuali sviluppatori a puntare di più sui processi di culturalizzazione, un processo un po’ diverso dalla localizzazione che abbiamo imparato a conoscere. A tal proposito spiega:

«La culturalizzazione serve a tutto quel contenuto che potrebbe influenzare negativamente un determinato pubblico. Possono essere simboli, gesti, colori, character design – può essere persino la storia stessa se al suo interno sono presenti determinate allegorie storiche, alla quale la gente potrebbe reagire negativamente. […] Il linguaggio è essenziale per la leggibilità di base, ma ciò che io spesso suggerisco è la culturalizzazione, perché rende il contenuto più fruibile. Si possono ricercare elementi all’interno di una cultura affinché il contenuto sia più interessante, per evocare un senso di cultura che non può essere gestito dal solo linguaggio. […] Io voglio che [i giochi] possano piacere a più gente possibile nel mondo e per fare ciò la lingua non è sufficiente. È possibile fare ogni tipo di traduzione ma se il contenuto presenta un qualcosa di potenzialmente problematico per la cultura d’arrivo, questo non sarà compatibile con i loro valori culturali».

Gli obiettivi della culturalizzazione sono molteplici ma il principale è quello di “migliorare il contenuto affinché possa raggiungere più fruitori possibili” eliminando elementi che possano interferire con l’immersione del giocatore o, peggio ancora, possano offenderlo; Edwards ricorda che se un qualcosa non è in sintonia con la cultura d’arrivo questo potrebbe “rovinare l’esperienza”:

«In alcuni casi un “elemento discutibile” potrebbe estendersi ai governi locali e potrebbero anche bandire un gioco per quel qualcosa di “offensivo”[…]».

Censura o essere politicamente corretti?

Edwards ci tiene a ricordare che il processo di culturalizzazione non ha nulla a che fare con la censura, ma bensì con l’essere politicamente corretto: Kate spiega che gli sviluppatori sono liberi di fare ciò che volgliono, in quanto crede fortemente che i giochi siano una forma d’arte, una forma d’espressione personale e di libertà di parola. Tuttavia, se gli sviluppatori concepiranno un gioco violentissimo o irrispettoso, il 99% del pubblico non lo giocherà e dunque si faranno una pessima reputazione anche se hanno tutto il diritto di pubblicarlo. Se invece vogliono fare soldi con la loro visione creativa allora dovranno essere messi di fronte a delle scelte di mercato.
La culturalizzazione, agli occhi della Edwards, ha due facce: la culturalizzazione reattiva, che comprende l’individuare (e dunque l’eliminare) le cose che possono provocare una reazione negativa, e la culturalizzazione proattiva. Quest’ultimo è un po’ il processo inverso in quanto coinvolge l’arricchire il contenuto con elementi che possano migliorare l’esperienza e che i giocatori, di una certa cultura, possano individuare; se i developer americani o europei vogliono aprirsi di più al mercato cinese o mediorientale allora è meglio – per loro – mostrare interesse verso le loro culture inserendo elementi che possano attrarli come un semplice personaggio della loro nazionalità in un gioco o persino dalle loro sembianze in un titolo ambientato in un mondo fantastico (senza scadere però in stereotipi scontati). Ciò non viene circoscritto solamente per questi nuovi mercati ma è una pratica che coinvolge la sensibilità delle culture occidentali; ne è un esempio il recente ban di Omega Labyrint Z nel Regno Unito, un gioco che poteva essere tollerato in Giappone ma non in molte parti d’Europa (poiché il gioco presentava delle quattordicenni spesso in contesti “troppo piccanti”. In Giappone, per legge, l’età del consenso è di 14 anni). Detto ciò, nonostante il “duro aspetto” degli  Stati Uniti d’America, la Edwards ci tiene a ricordare che il mercato USA molto attento su certi aspetti:

«[…] è uno stato molto sensibile a questioni come il sesso, la nudità e il razzismo. I developer non possono pensare che tutto può filar liscio negli Stati Uniti perché non è vero. L’unica differenza è che negli Stati Uniti, come in molti paesi liberi, non controlliamo il contenuto da un punto di vista governativo; noi ci affidiamo semplicemente ai venditori. Il motivo per cui non abbiamo tutti i giochi provenienti da oltremare negli Stati Uniti è perché Wallmart e Target si rifiutano di venderli, tutto qui! È il modello di vendita che blocca i contenuti, non il governo.».

Katrina, di Snatcher di Hideo Kojima, vide cambiata la sua età da 14 a 18 nel mercato occidentale.

La rivincita dell’impero Joseon

La culturalizzazione è un processo che andrebbe avviato il prima possibile, a differenza della più comune localizzazione che si avvia soltato verso la fine della produzione del prodotto, ovvero quando è pronto per essere trattato dai localizzatori; con la culturalizzazione si anticipano questi processi parlando con produttori, scrittori, artisti affinché possano consegnare un titolo che tutto il mondo, benomale, possa godere senza problemi.
Tuttavia ci saranno sempre da fare alcune eccezioni e la Edwards, lavorando come specialista della culturalizzazione da oltre una decade, lo sa bene; ricorda ciò che avvenne per il rilascio di Age of Empire, nel 1997, in Corea del Sud. Il gioco in questione conteneva uno scenario che riproduceva l’invasione della penisola coreana da parte della dinastia Yamato che mise l’impero dei Joseon sotto assedio. Il ministro dell’informazione coreano disse che quell’evento non avvenne mai, nonostante i documenti storici a supporto dell’invasione avvenuta (ricordiamo che la penisola coreana non ha – o per lo meno aveva – una relazione serenissima, specialmente per gli eventi accaduti nel ‘900, con il Giappone); Microsoft aveva in atto una strategia a lungo termine per inserirsi nel loro mercato e i sondaggi mostravano che i giochi di strategia in tempo reale erano molto popolari in Corea, e questo prima ancora del successo StarCraft. Fu così che la Edwards e Microsoft finirono per appoggiare le dichiarazioni del ministro rilasciando una patch, esclusiva al mercato sudcoreano, in cui accadeva l’(in)esatto contrario, ovvero che l’impero dei Joseon invadeva il Giappone. Edwards ricorda:

«Abbiamo preso una decisione che potesse far bene al nostro busines. […] La gente dibatte ancora: Microsoft ha oltrepassato il limite? Quale limite è stato oltrepassato? Se il limite era adattarsi alle aspettative locali allora hanno decisamente fatto la scelta giusta. Il loro obiettivo non era riportare i fatti storici; Age of Empire nasce per questa ragione? Io dico di no, visto che in altre versioni del gioco gli aztechi hanno i carri armati, e ovviamente non li hanno mai avuti. Non serve un background storico accurato per rendere un gioco divertente.».

In caso di emergenza

Edwards ricorda che la culturalizzazione, in fondo, permette ciò che è gusto per il gioco, gli sviluppatori e la loro visione del gioco; serve per far sì che il business non prenda scosse che possano rovinare la sua reputazione. Se dovessero presentarsi altri eventi simili allora si deve esser pronti a fare cambi del genere. Se Microsoft fosse andato contro il ministro (pur agendo in virtù dei fatti storici) allora avrebbero perso per sempre quel mercato. A detta sua, i governi si ricordano di ogni fatto relativo a censure e divieti di questo tipo perciò è bene per i game designers ne prendano nota; bisogna considerare sempre la sensibilità di un popolo altrimenti potrebbe chiudersi il mercato di una determinata area non solo per loro ma anche per l’industria in generale. Ricorda tutta via, che alcuni stati perdonano certi comportamenti, altri, come la Cina (che a oggi è un colosso della scena videoludica) semplicemente no.
Dunque cosa bisogna fare se un gioco, al suo rilascio, provoca caos in un determinato paese? Per prima cosa è bene mantenere la calma e non agire frettolosamente. Quando in un paese succedono cose simili è giusto anche non cambiare immediatamente il contenuto perché è possibile, invece, ottenere l’effetto contrario e dunque, peggiorare ancora di più la situazione; la vera domanda da porsi è: quali sono gli obiettivi del prodotto lanciato e qual è la strategia di mercato a lungo termine del developer in quel determinato paese? Se l’oggetto delle controversie riguardano il design, la narrazione, o altri aspetti dovrebbero essere invece pronti a difenderlo. La Edward designa delle linee guida per non perdere il controllo in situazioni simili:

«Bisogna avere una risposta pronta che non sia “l’abbiamo fatto perché pensavamo fosse figo”. […] L’ho visto accadere un sacco di volte e dunque incoraggio i developer a scrivere una o due pagine di spiegazione del perché di determinate scelte, con delle parole che possano meglio appellarsi a questi particolari casi. All’occorrenza è bene spiegare loro (governi, comunità religiose, etc…) i procedimenti che hanno portato a scelte simili e dire cose come: “guardate, noi abbiamo fatto questo procedimento logico, abbiamo parlato con questi accademici, parlato con queste persone, fatto le nostre ricerche di mercato e capito che non fosse questo gran problema… In poche parole abbiamo fatto i nostri compiti”.».

Così facendo si riguadagna un po’ di terreno nella lotta; la controversia non sarà conclusa ma almeno si dimostrerà il non aver agito con ignoranza da parte dei game developer. Questo è molto importante perché in molti pensano che queste ricerche non vengano fatte; tanta gente pensa che queste offese nascano per ignoranza oppure per offendere volutamente qualcuno ma in realtà il 99% delle volte gli sviluppatori agiscono in buona fiducia, senza alcuna intenzione di offendere qualcuno, ed è vero.
Tuttavia Kate Edwards ha sentito più volte molti developer, in situazioni del genere, dire cose come: «questa non è ottima pubblicità per il mio gioco? Che male c’è ho fatto qualcosa di offensivo e tutti ne parlano? Non è forse buono?». La verità è che tutto questo non si traduce tanto in “cattiva pubblicità” ma tanto che così facendo si finirà per diventare “la compagnia che fa arrabbiare la gente” o “quelli che se ne fregano” e il loro brand avrà sempre una connotazione negativa in determinati paesi; dunque tener conto delle differenze culturali fra paese è paese è importantissimo per far si non solo che il prodotto raggiunga più persone possibili ma anche per far sì che le loro strategie di mercato a lungo termine possano funzionare in una determinata area.




Vivendi esce da Ubisoft: tutti i dettagli dell’operazione.

Ubisoft ha annunciato di avere trovato un accordo con Vivendi per la fuoriuscita di quest’ultima dalla composizione societaria. Dopo una lunga lotta per contrastare l’acquisizione ostile da parte di Vivendi e numerose perplessità sull’operazione, la guerra per il controllo del colosso francese del gaming pare essere stata vinta dalla famiglia Guillemot.
Vivendi era entrata nell’assetto societario di Ubisoft nel 2015, ha investito 794 milioni di euro in tre anni e cedendo adesso l’intero pacchetto azionario del 27,3% (30.489.300 di azioni per un valore di circa 2 miliardi di euro) realizzerà una plusvalenza di oltre 1,2 miliardi di euro. Di queste, 18.368.088 verranno acquisite da investitori qualificati, 3.030.303 da Guillemot Brothers SE e la restante parte tornerà a Ubisoft.
Nell’ambito della cessione subentreranno due nuovi investitori a lungo termine, l’Ontario Teachers Pension Plan, che ha acquistato azioni tramite il ramo Relationship Investing della divisione Public Equities, e il colosso cinese Tencent, con il quale è stata sancita una partnership strategica che accelererà l’ingresso in Cina dei franchise della società transalpina.

In particolare, l’operazione sarà così strutturata:

Ontario Teachers’ Pension Plan ha acquistato 3.787.878 di azioni, pari al 3,4 % del capitale, per un prezzo di circa 250 milioni di euro.
Tencent ha acquistato 5.591.469 di azioni Ubisoft, pari al 5.0% del capitale, per un prezzo di circa 369 milioni di euro.
Quella fra Ubisoft e Tencent sarà un’alleanza strategica che accelererà significativamente la crescita dei prodotti Ubisoft in Cina nei prossimi anni.
Ubisoft ha accettato di riacquistare 9.090.909 delle proprie azioni (pari all’8,1% del capitale, per un prezzo di circa 600 milioni di euro) da Vivendi attraverso una transazione strutturata sotto forma di forward sale (vendita a termine) tramite Crédit Agricole Corporate Investment Bank (CACIB) e di un successivo meccanismo di buy-back  (riacquisto di azioni proprie), che consentirà a Ubisoft di acquistare progressivamente le azioni in un arco di tempo che va dal 2019 al 2021. Il riacquisto sarà strutturato, da un lato, tramite uno strumento derivato con il quale Ubisoft stipulerà un accordo di pagamento anticipato su parte delle azioni, con liquidazione delle azioni alla scadenza nel 2021 o anticipatamente e, per le restanti azioni, tramite un total return swap con liquidazione a scadenza o anticipata a discrezione di Ubisoft, o in contanti (con Ubisoft che beneficerà o sopporterà la variazione del valore delle azioni) o con un regolamento in azioni a fronte del pagamento del prezzo delle stesse azioni. Il riacquisto di azioni sarà finanziato principalmente attraverso le risorse finanziarie di Ubisoft. In caso di aumento delle dimensioni del Private Placement (l’insieme di operazioni attraverso cui emittenti pubblici e privati offrono strumenti finanziari di nuova emissione che vengono collocati presso un numero limitato di destinatari internazionali), il numero di azioni che saranno riacquistate da Ubisoft verrà ridotto di conseguenza.

Nell’ambito della transazione, la Guillemot Brothers SE acquisirà 3.030.303 di azioni (pari al 2,7% del capitale, per un prezzo di circa 200 milioni di euro), arrivando a un totale di 17.406.414 di azioni per un totale del 19.4% dei diritti di voto e il 15.6% del capitale azionario: sommando le azioni del CEO, i Guillemot avranno un totale di 20.636.193 di azioni, che si traducono nel 24.6% dei diritti di voto in assemblea e nel 18.5% del capitale azionario. L’acquisto sarà strutturato sotto forma di strumento derivato, Guillemot Brothers SE aderirà a un contratto a termine con CACIB e a un collar (strategia per cui, ad ogni 100 azioni acquistate, viene associato l’acquisto di 1 put e la vendita di 1 call) sulle azioni Ubisoft, a scadenza nel 2021 o anticipato, e liquidato in azioni o in contanti. Le azioni sottostanti il ​​collar vengono date in pegno a CACIB, che sarà autorizzata a riutilizzarle da Guillemot Brothers SE a determinate condizioni specificate nell’accordo.
La rimanente quota ceduta da Vivendi, 8.988.741 di azioni (pari all’8,0% del capitale), sarà venduta tramite un Accelerated Bookbuilding (procedura svolta in tempi rapidi con cui vengono cedute a investitori istituzionali quote societarie particolarmente rilevanti) le cui dimensioni, in base al livello di interesse nel collocamento, potrebbero essere aumentate fino a 1.500.000 di azioni, riducendo di conseguenza il numero di azioni riacquistate da Ubisoft. J.P. Morgan Securities Plc fungerà da Sole Global Coordinator (dunque unico coordinatore globale) per l’Accelerated Bookbuilding. CACIB, come controparte di Guillemot Brothers SE nel contratto a termine e nel collar, venderà anche 2.887.879 azioni nell’hedging delle sue operazioni in strumenti derivati. Per chiarezza, l’hedging consiste in una serie di operazioni di copertura del rischio per proteggersi dagli eventi negativi legati a un altro investimento.

Il prezzo di acquisto per ogni azione è stato concordato in 66 euro, e oggi il titolo ha chiuso alla borsa di Parigi a 68,56 euro.
A seguito della transazione, Vivendi si impegna a non detenere più alcuna partecipazione in Ubisoft né ad acquisire azioni in Ubisoft per 5 anni.

Yves Guillemot, CEO e Co-Founder di Ubisoft, ha dichiarato:

«L’evoluzione del nostro assetto azionario è una grande novità per Ubisoft, ed è stato reso possibile dall’eccezionale messa in atto della nostra strategia e dal decisivo supporto degli “Ubisoft talents” e “players” e dei nostri azionisti. Voglio ringraziarli tutti calorosamente. L’investimento dei nuovi azionisti di lungo termine dimostra la loro fiducia nel futuro e nella creazione di valore di Ubisoft, e il riacquisto delle azioni da parte di Ubisoft sarà un vantaggio per tutti gli azionisti. Finalmente gli accordi di partnership strategiche  che abbiamo sottoscritto ci permetteranno di accelerare la nostra crescita in Cina negli anni a venire e di entrare in un mercato dal grande potenziale.
Oggi Ubisoft sta raccogliendo i frutti di una strategia di lungo termine e la profittevole trasformazione verso un business che accrescerà i profitti. Ubisoft ha la posizione ideale per sfruttare i numerosi driver di crescita del mercato dei videogame nei prossimi anni: siamo concentrati più di prima nella finalizzazione del nostro piano strategico.»

Il gruppo di Vincent Bollorè aveva già acquisito Gameloft da Ubisoft e, nonostante l’exit dalla società, «conferma la sua intenzione di rafforzare la propria presenza nel settore dei videogiochi, particolarmente dinamico, che è uno dei capisaldi dello sviluppo del Gruppo».




Dinasty Warriors 9

Anno nuovo, musou nuovo: la serie con cui Koei Tecmo ha inventato il genere arriva al nono capitolo, e questa volta la casa nipponica prova a rinnovarla con cambiamenti sostanziali rispetto ai capitoli precedenti, primo fra tutti una mappa enorme interamente esplorabile con meccaniche open world.
Non tutto è andato per il verso giusto, al punto che ci troviamo forse con uno dei peggiori musou usciti negli ultimi anni, con una resa tecnica a volte ai limiti dell’imbarazzante e tantissimi bug che fanno sprofondare il gioco sotto la sufficienza nonostante una mole di contenuti notevole.

I tre regni

La storia di Dynasty Warriors 9 si ispira al Romanzo dei Tre Regni, tra la rivolta dei Turbanti Gialli e la fine del regno Shu; durante i 13 capitoli di cui si compone il titolo, assisteremo alle vicende dei tre condottieri principali, Cao Cao, Liu Bei e Sun Jian, disponibili fin dall’inizio, per poi poter controllare altri personaggi che si sbloccheranno con l’avanzare della storia, ognuno di essi avrà delle zone e finali inediti, rendendo necessario un elevato numero di ore di gioco per vedere il tutto.

Cao Cao meravigliao

Il comparto grafico del gioco è, ahimè, un vero disastro: Omega Force ha voluto rischiare adottando un nuovo motore di gioco che rende possibile attuare la modalità open world, ma la resa finale è un’accozzaglia di texture in bassa risoluzione, modelli poligonali dozzinali, frame rate pessimo anche su console mid-gen e PC ultra pompati; aggiungiamo a ciò un elevato numero di bug e glitch, ambientazioni spoglie e monotone, nemici che appaiono e scompaiono a caso, animazioni legnose e il disastro è completo.
Il comparto sonoro si mantiene invece nella media, con alcune musichette dal tono rock che talvolta stonano con l’ambientazione, mentre gli effetti audio sono quelli classici a cui la saga ci ha abituato, e risultano collaudati; è presente il doppiaggio in inglese, giapponese e cinese, e finalmente sono almeno presenti i sottotitoli in italiano.

Tanto fumo e poco arrosto

In Dynasty Warriors 9 ci sono tantissime attività da fare, ma soltanto in poche si salvano: molte quest secondarie noiosissime, si può andare a caccia e pescare, ma anche queste due attività sono noiose in quanto non offrono nessuna sfida, sono soltanto utili ad acquisire materiali, allungando il brodo inutilmente.
Ogni personaggio può equipaggiare tantissime armi, ognuna con moveset diversi, le armi possono essere acquistate o costruite, inoltre è possibile potenziarle e aggiungere delle gemme che aggiungono vari effetti per il combattimento.
Anche se è possibile controllare tanti personaggi diversi, alla fine si differenziano pochissimo, in quanto ognuno di loro può utilizzare qualsiasi arma, cambiano soltanto alcune mosse speciali uniche di ogni personaggio.
Il combat system è mutato rispetto ai precedenti titoli: questa volta non ci saranno più le combo tra attacchi leggeri e pesanti, ma ci saranno attacchi detti “variabili” e “reattivi“; inoltre premendo il tasto dorsale destro insieme a uno dei quattro frontali, potremo infliggere status negativi ai nemici, rendendoli vulnerabili a una serie di nostri attacchi. Infine è presente l’immancabile attacco musou, una mossa speciale che si attiva dopo aver riempito la barra apposita durante il combattimento.
Nonostante i cambiamenti, però, risulta sempre la solita caciara, sconfiggere i nemici non necessita di alcuna tattica, basta premere pulsanti a caso e il risultato è lo stesso, l’intelligenza artificiale dei nemici è vicina allo zero, e anche settando il livello di difficoltà massimo sarà possibile sconfiggerli prevedendo facilmente le loro mosse.
Un’altra novità è l’utilizzo di un rampino per scalare le pareti, che potrebbe essere anche un’aggiunta interessante, se non fosse per il fatto che si possono rompere facilmente delle meccaniche di gioco, ad esempio durante l’assedio di una roccaforte, è possibile utilizzarlo per affrontare direttamente il boss, rendendo inutile qualsiasi tattica.

Conclusioni

Dynasty Warriors 9 è un titolo evidentemente imperfetto, gravato da un comparto grafico vergognoso per una produzione tripla A di questo livello, anche se ricco di contenuti,  di cui solo pochi si salvano dalla noia che contraddistingue il resto.
Omega Force ha compiuto un passo falso, realizzando un titolo di qualità inferiore ai precedenti che non ci sentiamo di consigliare, se non ai veri appassionati della saga per ragioni di collezionismo.