I Soprano: Shakespeare, la Mala e la rivoluzione “Made in America”

Sapete qual è il punto forte dei drammi e delle commedie di William Shakespeare? I monologhi. Tramite questo espediente, il drammaturgo è riuscito a mettere a nudo i moti interiori dei propri personaggi, siano essi giovani innamorati di famiglie eternamente rivali o Re scozzesi completamente fuori di testa che bramano solo il potere. Con il monologo aprono le porte del loro animo e lo spettatore conosce ogni cosa che passa per la testa dei protagonisti. Perché lo scrittore di Stratford-upon-Avon, circa 500 anni fa, aveva capito che l’immedesimarsi con i personaggi è fondamentale. Il pubblico ha bisogno di raffigurarsi in questi soggetti complessi, spesso aristocratici o di alto lignaggio, ma pur sempre esseri umani. Al teatro, insomma, il monologo spacca.

La televisione è un’altra cosa. È follia anche il solo pensare di mettere un qualsiasi personaggio davanti a una telecamera e fargli sciorinare monologhi rivolgendosi al pubblico in maniera diretta. Uno spettatore medio spegnerebbe la TV dopo nemmeno cinque minuti. Bisogna creare un ulteriore elemento che permetta tutto questo, parlare da soli non basta, ed è così che comincia la rivoluzione de The Sopranos, serie televisiva prodotta dall’emittente privata HBO e scritta dall’autore David Chase, introducendo sin dalla primissima puntata un elemento nuovo, sia nel teatro “shakespeariano”, perché ancora non esisteva, sia in televisione, perché nessuno l’aveva ancora introdotta come parte integrante della vicenda: la psicanalisi.
Il protagonista è l’italo-americano Anthony “Tony” Soprano, astro nascente della famiglia mafiosa dei DiMeo, che spadroneggia da anni nello stato del New Jersey, Stati Uniti. Un uomo alto, massiccio, un po’ stempiato che veste con camice smanicate e pantaloni di lino. Ha ben due famiglie a cui pensare: la prima è quella composta dalla moglie Carmela, il figlio Anthony Junior e la figlia Meadow; la seconda, non meno importante, è formata dal suo vice Silvio Dante, i luogotenenti Paulie Gualtieri, Sal “Pussy” Bompensieri e il nipote Christopher Moltisanti. Entrambe le famiglie, in un modo o nell’altro, sono causa di forte stress per lui: la prima è da proteggere, la seconda invece è da tenere in piedi. Avere due nuclei da tenere a galla non è semplice, e Tony se ne rende conto a sue spese, dopo un violento attacco di panico durante il compleanno del figlio Junior. Scopre che non è invincibile, che le sue paure e i suoi demoni non possono rimanere ancorati alla sua anima senza conseguenze. Chi glielo doveva dire che sarebbe dovuto andare da una strizzacervelli come la dottoressa Jennifer Melfi, per essere in grado di mandare avanti le baracche?
La famiglia e la psicanalisi. Ecco due punti fondamentali, inscindibili nel personaggio di Tony. Un padre affettuoso da una parte e un Boss duro e spietato dall’altra, due personalità che si incontrano dentro uno studio circolare. La dottoressa Melfi rappresenta il punto di unione, ma anche la valvola di sfogo del nostro protagonista, sullo sfondo dell’America di fine secolo che si evolve e, dopo l’11 settembre, ha paura come lui. Il risultato è anche una serie estremamente onirica, che gioca col sogno in momenti cruciali della trama continuamente.

The Sopranos si è guadagnato l’appellativo di serie televisiva “Pop” non solo per il suo modo di trattare la realtà di un Boss proveniente da Avellino, ma perché racchiude anche elementi meta-cinematografici e dettagli visivi e sonori che hanno fatto la differenza. Per prima cosa la scelta del cast: gran parte degli attori hanno partecipato a film e collaborato con registi che hanno fatto la fortuna del genere gangster movie della New Hollywood: da Il Padrino di Francis Ford Coppola, passando per Prove Apparenti di Sydney Lumet, fino ad arrivare a Quei Bravi Ragazzi di Martin Scorsese. Quest’ultimo in particolare viene sviscerato da continui rimandi e citazioni all’interno della serie, ma anche le altre opere vengono omaggiate, perché The Sopranos è anche questo, un continuo “grazie” al genere cinematografico da cui trae ispirazione. Lo sviluppo dei personaggi, nel corso delle sei stagioni, è calcolato alla perfezione. Attori e attrici come Michael Imperioli, Dominic Chianese, Edie Falco o Lorraine Bracco, solo per citarne alcuni, danno una profonda caratterizzazione e riescono a mettere alla luce i profondi chiaroscuri dei loro doppi televisivi. Ma la vera star è lui, James Gandolfini, che nell’interpretazione di Tony Soprano regala alla televisione un gangster cattivo, impulsivo, forte, ma con molti demoni da combattere che ritornano dal suo passato tormentato e dal rapporto, mai totalmente risolto, con i genitori Johnny e Livia Soprano. Il tutto combinato a una regia notevole, un ulteriore passo avanti rispetto alla televisione precedente. E la musica, anche lei, considerata come “personaggio”, è ricercata in ogni scena in cui appare: si passa dai Rolling Stones a Pavarotti, dai Journey fino a Jovanotti.

In definitiva: una delle più importanti opere “Made in America”, citando il titolo della puntata finale della serie, che ha rappresentato il punto di svolta nella serialità dal 2000 in poi. Parliamoci chiaro: Breaking Bad, Game of Thrones o Stranger Things non sarebbero mai nate, se non fosse stato per The Sopranos. Lo zenit di quella che viene definita “Età dell’oro delle serie TV”. Se non l’avete vista, male: e da vedere, rivedere, e  amare. Perché, di Tony Soprano, ce n’è uno solo.




C’era una volta ad…Hollywood – Analisi senza spoiler

1992-2019

Sono passati esattamente 27 anni dal folgorante esordio al cinema di questo talentuoso cineasta, quando con Reservoir Dogs (da noi banalizzato semplicemente in Le Iene) Quentin Tarantino è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo di milioni di persone. Una sceneggiatura praticamente senza sbavature, una regia matematicamente perfetta ed una conduzione degli attori impeccabile. Tarantino ha sempre sfoderato una sensibilità rispettosa verso certi canoni classici, ritraducendoli in chiave moderna o Pulp, come piace dire a certa critica. E di certo Lui non si tira indietro davanti a certe etichette preconfezionate, da buon amatore del cinema di genere, ed ecco che consegna il suo capolavoro stampando sulla copertina quello stesso termine che da lì in poi marchierà indelebilmente la sua dialettica: Pulp Fiction; appunto la finzione del cinema cosparso sopra la superficie di quella verità arida e a volte cruda che è la vita. Era il 1994, gli albori di quegli anni ’90 ormai disillusi e privi dello sfarzo tipico del decennio precedente. Si può tranquillamente affermare che il cinema di Tarantino è il ritratto sincero di quel periodo, insieme ad altri illustri colleghi come i fratelli Coen. Ma adesso siamo nel 2019, i tempi cambiano e la visione del mondo segue il corso degli eventi. C’è chi sostiene che il regista texano abbia sparato tutte le sue cartucce migliori, che non abbia più nulla da dire. Un artista fatto e finito, che ha compiuto totalmente il suo percorso e arranca nel disperato tentativo di non uscire dal circuito mediatico. Secondo il nostro parere, “Mr. Brown” è più in forma che mai.

C’era una volta Quentin Tarantino

I maggiori detrattori dell’ultima opera firmata Tarantino, sono i suoi stessi fan. Delusi per le aspettative mancate, d’altronde l’attesa era altissima, hanno dipinto C’era una volta ad…Hollywod come un film inconcludente, senza una trama a sorreggere l’intera impalcatura, dimostrando palesemente la loro mala fede verso l’autore. Al contrario, il nono film del regista texano possiede una trama ben precisa e delineata con la differenza, questa volta, di raccontarla attraverso lo scorrere delle immagini più che con le parole. Una rivoluzione straordinaria rispetto ai suoi lavori precedenti, che dimostra ancora una volta quanto Tarantino sia maturato nel suo approccio alla creazione. E così quei dialoghi incessanti e fulminanti che caratterizzavano le sue pellicole, rendendoli dei cult anche per questo motivo, vengono tranciati di netto lasciando spazio a lunghe carrellate in macchina a ritmo di un’ottima colonna sonora — in verità non vedevamo l’ora di sentire un film di Tarantino ambientato alla fine degli anni ’60 — . E va bene così, le immagini prima di tutto perché il cinema è fatto di questo. C’era una volta ad…Hollywood emana una forza creativa ormai rara nelle produzioni ad alto budget. Nell’era del digitale, dove ogni cosa passa alla velocità di un battito di ciglia e dove i film diventano prodotti da consumare come nei fast food, Tarantino inverte la rotta: rallenta il ritmo, lascia che la pellicola scorra da sé e che i personaggi si prendano tutto il tempo possibile per esternare le proprie emozioni, capitanati da un Leonardo Di Caprio come sempre impeccabile ed un Brad Pitt sconvolgente.
Il film è una summa totale dell’arte “Tarantiniana”, non manca proprio nulla all’appello: dall’omaggio onnipresente al cinema italiano, fino all’immancabile momento gore che piace tanto a noi (senza spoilerare nulla, vi diciamo soltanto che ci ha ricordato molto le esplosioni di violenza alla Nicolas Refn, coincidenze?). Il regista riesce anche a sondare terreni fino a ora per lui mai esplorati, girando un’intera sequenza dove la tensione si fa sempre più alta, giocando con le aspettative del proprio pubblico. Ma quindi tutte rose e fiori? Beh…non proprio. L’aspetto che meno ci ha convinto è la storyline secondaria con protagonista Sharon Tate (Margot Robbie perfettamente calata nella parte) e la terribile vicenda che le tolse la vita nel 1969, brutalmente trucidata da una banda di fanatici appartenenti alla Manson Family. È un peccato notare la grandissima differenza di spessore psicologico tra i personaggi di una linea narrativa e l’altra, considerando che i character femminili del regista, risultano sempre quelli più interessanti e forti. Certamente, argomentare sugli omicidi perpetuati da Charles Manson in quegli anni avrebbe richiesto un minutaggio di 180 minuti a parte e comprendiamo le grosse difficoltà di rendere i fatti fruibili a un pubblico eterogeneo, ma così sembra soltanto un evento di sottofondo, completamente distaccato dalle vicende dei protagonisti. Una sbavatura questa, che non intacca la compattezza e la complessità dell’intera opera, arrivata a quattro anni di distanza dal teatrale The Hatefull Eight.
Il film è stato anche accusato di razzismo e di essere filo reazionario, cosa abbastanza comprensibile se analizziamo le origini geografiche dell’autore. Ma se scendiamo più nel profondo, senza fermarci alle apparenze, notiamo che i personaggi che rispecchiano queste due caratteristiche sono dei veri e propri loser, uomini che hanno avuto il loro grande momento di gloria e che ora si ritrovano a sgomitare per rimanere a galla. Segno dei tempi che passano e del cambiamento umano, proprio come la visione dell’autore sul proprio lavoro o del pubblico sulle opere altrui (ecco un’altra chiave di lettura).

See You West Cowboy…

Siamo quindi giunti alla conclusione di questa riflessione sul penultimo (sigh!) film di Quentin Tarantino; un’opera straordinariamente complessa che racchiude in sé mille simboli e chiavi di lettura. Un film che va rivisto almeno una decina di volte per potere cogliere ogni riferimento e segreto nascosto. Un atto d’amore (come se ce ne fosse bisogno) verso quella grande macchina fabbrica sogni che è il cinema e che, fortunatamente, non si limita all’auto celebrazione ma ne esalta la potenza e la debolezza al tempo stesso.
Un’opera matura, riflessiva, adulta, chiamatela nei mille modi possibili e immaginabili, ma non dite che C’era una volta ad…Hollywood sia un pessimo film. I pessimi film sono altri, basta guardare i mille remake sterili e privi di qualsiasi inventiva. In un’industria che ricicla se stessa, Tarantino esce fuori dal coro e lo fa a modo suo, come sempre. Se non ve ne siete accorti andate a riguardare tutta la sua filmografia, perché questo è il cinema di Quentin al 100%.




Nahar Comics & Games 2018

Il 5 agosto 2018 si è svolta la seconda edizione di Nahar Comics & Games presso il Palazzo Malfitano di Naro, bene storico costruito durante il XV secolo, al quale gli organizzatori si sono ispirati per creare per la propria città un’originale versione a tema medievale della fiera del fumetto che si tiene da anni in molte altre città italiane.
Entrando dal portone sul lato ovest del palazzo, superando la biglietteria, si accedeva subito all’arena medievale del gruppo La Fianna, dove tra le ore 10:00 e le 20:00 era possibile sfidarsi in tornei di spade e in gare di tiro con l’arco, mentre accanto vi era un’area caffè allestita dalle Maidolls, Maid Cafè che mischia la cultura giapponese con lo stile vittoriano ormai molto in voga nelle fiere di settore.

Inoltrandosi nel castello si poteva accedere al primo piano per arrivare all’area gaming allestita dai Not Found ASD, dove molti hanno potuto giocare a noti esport come Overwatch, Fifa 2018, League of Legends e, dalle 16:00 in poi, hanno potuto sfidarsi in tornei di Tekken 7, Fortnite e Hearthstone.

Dall’altro lato dello stesso piano si trovava invece l’area conferenze, dove l’artista Daniele Procacci, forte di un’esperienza decennale in varie Accademie di Belle Arti, ha illustrato le sue tecniche di concept art per il cinema, e i migliori modi per dare vita a creature e mostri che possano ispirare un copione.

Restando invece nel corridoio e uscendo dalla porta a sinistra, si poteva accedere a un giardino con l’area espositiva allestita dal falconiere Gianfranco Guarino, dove era possibile osservare un falco pellegrino, un gufo e un barbagianni, addestrati per essere tenuti in mano o accarezzati.

Sotto il giardino vi era un’area palco, dove si è tenuta la conferenza con lo youtuber MrPoldoAkbar che ha spiegato come hanno avuto origine e come si sono diffuse le memes, e il cosplay contest.

Proseguendo oltre l’area palco vi era l’area illustratori, dove era possibile farsi fare dei disegni su misura, mentre nella stanza accanto, in un’area dedicata ai giochi da tavolo, allestita dalla fumetteria Kalòs Games & Comics, era possibile giocare a boardgame e cardgame come Callisto Uno, sfidarsi in un torneo di Yu-Gi-Oh! o comprare action figure e manga.

Proseguendo, nella stanza accanto vi erano vari stand, da quello dedicato alla vendita di gadget per nerd a uno a tema Harry Potter a uno dove si poteva acquistare il Bubble Tea e dei dolci confezionati giapponesi.

Nonostante alcuni problemi tecnici in area conferenze, e un temporale che ha causato l’interruzione della gara di cosplay, che è stata in seguito ripresa, e vinta da Martina Campo con la rappresentazione di Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame, la fiera del fumetto narese è stata una bella esperienza e pensiamo che nelle prossime edizioni possa solo migliorare.




Game Jam: The Movie

Uno dei concetti alla base della game theory, e del gioco sin dai primordi, è quello di sfida: che ci sia o meno dello storytelling dietro un’attività ludica, è la volontà di superamento dell’ostacolo a muovere l’engagement. La motivazione generata dalla gara e da una meta da raggiungere incrementa il potenziale creativo e l’ingegno, ed è per questo che oggi metodi come la gamification trovano considerevole spazio anche in ambienti business, per assolvere a finalità che con il puro entertainment non hanno nulla a che fare.
Un altro concetto non meno importante alla base del gioco è quello di cooperazione: seppur meno irrinunciabile rispetto al primo (giocare in single player è un’attività nata ben prima dei solitari con le carte), l’attività in co-op è alla base delle attività ludiche di gruppo, degli sport di squadra e di buona parte del gaming moderno, e oggi ne sono studiati i benefici in termini di team building soprattutto nei contesti aziendali.
Non deve stupire, quindi, se uno dei momenti di maggior creatività nella produzione videoludica odierna sia rintracciabile nelle Game Jam. Nate come forma specialistica degli hackaton (dall’unione dei termini “hack” e “maraton”, maratone dedicate in cui vari sviluppatori univano le forze per trovare soluzioni comuni e innovative, come fu il primo caso di hackaton che unì vari sviluppatori in ambiente OpenBSD), le Game Jam sono sessioni collettive di professionisti o appassionati dotati di  capacità tecniche e creative che, richiamando il concetto musicale di jam session, si trovano a mettere insieme le proprie competenze per creare un videogame in un lasso determinato di tempo.
Negli anni, queste manifestazioni che hanno raccolto team di sviluppo in ogni dove sono cresciute al punto da richiamare migliaia di partecipanti, aspiranti developer con idee alla base o semplicemente gente che voleva mettersi alla prova. Nelle Game Jam si sono alternati grandi fallimenti e idee geniali, sviluppatori che riuscivano a concretizzare idee straordinarie in un tempo brevissimo e altri che invece non riuscivano a finire il progetto iniziato. Spesso i team hanno già una coesione di base, ma non è raro trovare gente che unisca le forze in vista di una singola jam senza aver mai lavorato assieme, solo perché ci sono le giuste competenze da unire e provare può valerne la pena.

Le game jam hanno prodotto veri e propri obbrobri accanto a giochi interessanti fino a titoli che poi sono approdati sui principali store mondiali: non si può non pensare a SuperHot, la cui idea vide luce durante la 7 Day First Person Shooter Game Jam (7DFPS) prima di approdare su Greenlight e diventare il gioco straordinario che è oggi, vantando anche una versione VR su tutte le principali piattaforme di gioco.
Le Game Jam sono state anche culla di idee bizzarre come Surgeon Simulatorcreato durante la Global Game Jam 2013, o Goat Simulator, ideato invece durante una jam interna di Coffee Stain Studios, che avevano appena finito lo sviluppo di Sanctum 2: lo avrebbero mai detto che simulare la vita di una capra gli avrebbe fruttato 12 milioni di dollari contro gli appena 2 entrati con ogni capitolo di Sanctum? Non è strano che quindi appuntamenti come la Global Game Jam, Indie Game Jam, Ludum Dare e Nordic Game Jam siano diventati importanti banchi di prova per sviluppatori indipendenti, ma anche momenti  interessanti per i grossi publisher.

Piccoli universi con una vita limitata, nei quali si concentrano ogni volta storie, idee, creatività e sinergie che vale la pena raccontare.
A farlo sono stati Scott Conditt e Jeremy Tremp, registi, e anche produttori con la loro CineForge Media, di Game Jam: The Movie, documentario che narra in meno di un’ora il lavoro di 12 team in gara per un premio durante i due giorni di una Game Jam.
Uscito nel marzo 2018, il documentario distribuito da Devolver Digital Films è diviso in due parti: la prima si concentra sulla vera e propria Game Jam, con interviste agli sviluppatori e un focus sul loro lavoro. Emerge quel senso della sfida che mette in moto la creatività durante queste manifestazioni, l’ansia di non farcela, la paura di non finire in tempo. Ma è anche il momento in cui il brainstorming produce il massimo, dove le varie competenze si fondono e dove, dall’intersezione di concetti di game design a concept di visual art e intelligenti soluzioni  di coding, arrivano le idee dalle quali nascono i giochi. I team si mettono a nudo e non nascondono timori e a volte un senso di inadeguatezza, ma esce fuori inevitabilmente anche il narcisismo di ognuno, il compiacimento riguardo un’idea di base che sembra azzeccata e su cui è possibile fare del proprio meglio, la volontà di puntare sulle proprie abilità migliori, chi in quella di creare efficaci ambienti in VR chi invece nell’abilità nel sound design.
La seconda parte segue invece i soli team vincitori della Game Jam, i due che si sono meritati il passaggio all’IndieCade. Si tratta di un percorso interessante per chi non abbia mai visto come funziona la long road di un videogame verso la pubblicazione, emerge l’importanza di aver un buon publisher perché il gioco emerga dal mare magnum degli indie game quotidianamente rilasciati sul mercato e quindi è messo in luce il peso di un buon pitch con chi dovrebbe comprare l’idea: gli sviluppatori, tutti giovanissimi e spesso non forti di grandi doti comunicative o di marketing, hanno l’occasione di esporre i propri lavori ad aziende del calibro Sony e Oculus, e devono  farlo in soli 5 minuti. 300 secondi, una media che si ripete ovunque, di certo non solo all’IndieCade, chi frequenta questi eventi lo sa bene. I grossi publisher sono in cerca di prodotti di loro interesse, ma sanno che ne troveranno ogni volta 1 su 500, bene che vada: vale la regola della prima pagina che attuava Aldo Busi quando selezionava i romanzi per Mondadori, se la prima pagina non funzionava il testo veniva scartato. Il metodo non era forse efficace, ma di certo risulta  e risultava efficiente e, piaccia o meno, è così che funziona il mercato, al punto che l’incaricato di Cartoon Network spiega che incontrare gli sviluppatori è importante al pari del gioco: su un prodotto, del resto, il publisher vuole sempre avere una voce in capitolo, e avere a che fare con lavoratori affidabili, elastici e disponibili a effettuare variazioni per la miglior riuscita del prodotto sul mercato diventa fondamentale. Probabilmente per questo il team di Terrasect è riuscito poi a pubblicare il proprio Wizards: 1984, prodotto VR ancora presente sugli store mobile: il gioco era inizialmente concepito in maniera diversa, sono state necessarie varie modifiche sostanziali perché il publisher accettasse di distribuirlo.
In entrambe le fasi, il Virgilio d’eccezione è Jess Conditt, sorella di uno dei registi e Senior Editor di Engadget, che ha il compito di spiegare i retroscena dell’indie development e di chiarire alcuni aspetti che altrimenti risulterebbero meno intellegibili ai non addetti ai lavori.

Un documentario breve ma di certo interesse nel suo raccontare un percorso che oggi riguarda tutti gli sviluppatori non affermati, e che in questi anni è diventato rilevante nell’industry, dato il crescente peso degli indie game sul mercato videoludico.
E che non dà spazio soltanto ai vincitori: alcuni lavori che trovano voce solo nella prima parte del film andrebbero tenuti d’occhio e con loro alcuni giovanissimi developer che dimostrano di avere un a buona base di idee. Del resto, la storia del settore ci ricorda che anche quando i risultati non sono immediati, in certi casi si può intravedere già del talento su cui investire.
A tal proposito, mi pare utile ricordare in chiusura quel che fecero Edmund McMillen e Tyler Glaiel alla Global Game Jam Creators del 2009. I creatori di Super Meat Boy all’epoca si limitarono a creare un idle clicker dal titolo AVGM (Abusive Video Game Manipulation), gioco che oggi può essere recuperato nella The Basement Collection che raccoglie i lavori del primo McMillen e il cui gameplay consiste soltanto nel premere un interruttore per spegnere e accendere la luce in una stanza vuota, con l’obiettivo di ottenere ogni volta nuovi oggetti dopo un certo numero di click. Il gioco è semplicissimo ma, come ha spiegato lo stesso McMillen, nasceva da un esigenza di risposta a un certo tipo di prodotti quelli che creano nel giocatore l’esigenza della ripetizione di determinati comportamenti, che si traducono in tempo investito per ottenere degli item digitali, in una “manipolazione della volontà” che induce, infine, a spendere denaro per risparmiare quel tempo e ottenere gli stessi vantaggi.
Vi ricorda qualcosa? McMillen analizzava questo fenomeno già quasi un decennio fa, e ha definito infatti AVGM come «a commentary on the formula that’s used in most massively multiplayer RPGs and a lot of online games that are on Facebook and stuff like that like Pet Society and Farmville – especially Farmville – where you are basically rewarded with digital items for time spent and clicks».
Una realizzazione semplice di un’idea intelligente e reazionaria, insomma, ideale per i tempi brevi di una Game Jam, e non è un caso, infatti, che gli oggetti che appaiono su schermo siano sempre raccapriccianti.

E un simile esempio di creatività, libera, riottosa e provocatoria, ci pare già abbastanza per poter auspicare che il mondo delle Game Jam continui a crescere e proliferare, portando sempre più autori indipendenti all’attenzione dei moderni videogiocatori.




La realtà virtuale secondo Chris Milk

Con l’uscita di Ready Player One nei cinema, l’argomento della realtà virtuale si fa sempre più diffuso e comprende molte più diramazioni. Oggi analizzeremo una di queste, quella della realtà virtuale in campo cinematografico, di cui uno dei pioneri è Chris Milk. Famoso regista e fotografo statunitense, Milk si è specializzato nella realizzazione di video musicali, che ha girato per molti nomi internazionali come Kayne West, U2Audioslave e molti altri ancora. Ultimamente ha intrapreso un progetto interessante, in grado di unire il mondo cinematografico con quello della realtà virtuale che, da un paio di anni a oggi, ha visto una vertiginosa scalata nel mercato in campo videoludico. Il suo primo progetto è stato un video musicale girato in VR, che riprendeva una cover di Beck Hansen, di un vecchio brano di David BowieSound and Vision. Ai tempi di questo primo progetto, la realtà virtuale era ancora agli albori e molto costosa, e quindi non tutti avevano la possibilità di creare questi video. Milk racconta che in precedenza si attaccavano digitalmente fra di loro molteplici filmati ripresi con le microcamere GoPro, per ottenere un effetto simile.  Secondo Milk la VR, ha molto più potenziale rispetto ai film, alle canzoni o ai libri, in quanto si potrebbero collegare molte esperienze più profonde, cosa che un normale libro difficilmente riesce a fare. In proposito Chris Milk dichiara:

«Un esempio semplice è che una canzone che è o è stata la tua canzone preferita quell’estate. Quella canzone e l’esperienza di quell’estate sono collegate insieme, e quando senti quella canzone ti riporta indietro a quel tempo. La VR ha il potenziale non solo di ricreare ciò che quella canzone significa per quell’estate, ma può farci ricordare l’intera esperienza. E se potessi tornare indietro e vivere quell’estate di nuovo attraverso la memoria scatenata da quella canzone? Come formato artistico è molto interessante: se è la tua tela, puoi dipingere un sacco di immagini interessanti su di essa.»

Infatti la VR è passata da semplice oggetto di curiosità tecnologica, a essere presente nelle conferenze cinematografiche più importanti tra cui Tribeca, Sundance, Toronto e Cinequest, fino a quando nel 2017 un progetto in VR, Pearl, fu persino nominato agli Oscar. Al Festival di Cannes del 2017, il progetto in VR di Alejandro G. Iñárritu, ha portato alla luce un’argomento molto scottante, quello dell’immigrazione clandestina tra USAMessico. Oggi la VR è molto diffusa anche grazie ai visori come PSVRHTC Vive Lenovo Mirage Solo e il nuovo visore di FacebookOculus Go, che verrà lanciato entro l’anno.

«Penso, e la maggior parte delle persone fa lo stesso, che avere un dispositivo indipendente che è solo per VR sia la soluzione migliore. I dispositivi attuali, legati a un computer, che si appoggiano su basi di ricarica, che si indossano e viceversa, sono barriere di accesso, ostacoli che devi attraversare per poter entrare in un’altra realtà. »

I filmati registrati in VR si fanno sempre più diffusi e la società acquisisce sempre più esperienza in questo campo, stimolando le case cinematografiche a investire in questa nuova tecnologia, producendo delle pellicole in VR che potrebbero avere molto successo. Ci vorranno ancora molti anni per avere il modello di VR definitivo e numerose innovazioni, ma il futuro corre verso la realtà virtuale.




Videogiochi e cinema: il lento dialogo tra industrie

Il mondo dei videogiochi e quello cinematografico hanno linguaggi comuni e, pur serbando i due mondi non poche differenze, entrambi vanno avvicinandosi sempre più in termini di linguaggio e anche di rilevanza sul piano sociale e culturale.
I dati parlano chiaro, e le testimonianze di questo avvicinamento sono sempre maggiori. Fra queste, è interessante leggere quella di Gina Ramirez, agente all’APA (Agency for the Performing Arts), che in un’intervista rilasciata a GamesIndustry.biz, spiega i vari aspetti per cui i videogiochi e il cinema venivano considerati universi differenti, per quanto riguarda il marketing e la scelta degli attori e la loro evoluzione nel tempo.
L’APA si occupa di rappresentare attori, scrittori, produttori, registi, ma negli ultimi anni l’agenzia si è interessata anche al mondo dei videogiochi, che nell’ultimo decennio ha avuto una crescita esponenziale.
L’agenzia per cui lavora Ramirez, oltre a rappresentare colossi come Capcom per la realizzazione di film e nuove iniziative o Activision, è riuscita a far collaborare piccoli produttori con i grandi marchi del mondo dei videogame, come la stessa Activision, che ha permesso a un giovane scrittore di lavorare a un DLC per Call Of Duty. Ma non si occupano solamente di grandi aziende: hanno infatti anche rappresentato DJ2 e alcuni sviluppatori indie e le loro relative pubblicazioni, come We Happy Few, Little Nightmares e Ruiner.
Secondo la Ramirez, i videogiochi devono ancora affermarsi del tutto nel mondo del business, ma la strada pare essere quella giusta. La stessa Ramirez ha lavorato per varie agenzie fino ad arrivare, nel 2013, ad Activision; proprio lavorando lì si è resa conto che il mercato videoludico è ancora troppo “giovane” per poter essere uno standard di business per le aziende.
Durante la sua esperienza in Activision, Gina Ramirez ha notato l’evoluzione dell’atteggiamento delle celebrità verso il mondo dei videogiochi: anni fa lavorare con i videogiochi era visto alla stregua del fare da testimonial a merendine o bibite, ma lei è riuscita a sensibilizzare la maggior parte dei VIP ed è riuscita a coinvolgerli personalmente ed emotivamente, ottenendo così prezzi più economici per la loro partecipazione.
Molte aziende, però, non riescono a comprendere l’importanza del coinvolgimento dell’attore nella creazione del videogame e si intestardiscono nell’ingaggiare un attore, magari perché famoso o perché lo credono perfetto, ignorando la sua voglia di partecipare e il suo reale coinvolgimento.
Gina Ramirez nel 2015 lascia Activision con la convinzione che il dialogo tra Hollywood e il mondo videoludico sia impossibile ma, quando firmò con l’APA, l’agenzia disse di credere che un incontro tra le due forze era possibile. Nonostante le perplessità, la Ramirez volle ritentarci e stavolta con buoni risultati.
A lungo andare, oltre agli attori/doppiatori, anche l’intero mondo cinematografico è diventato molto più economico per gli sviluppatori: prima gli studi cinematografici, per utilizzare una loro IP, pretendevano per l’acquisto di una licenza una quota molto alta, invece adesso lavorare con i videogiochi viene visto come una pubblicità, una mossa marketing intelligente e di conseguenza il costo delle licenze per l’utilizzo di IP già registrate è sceso.
Ancora oggi quello tra il mondo dei videogiochi e quello cinematografico non è un dialogo semplice, dovuto a molte – troppe – rigidità da un lato e dall’altro, Ramirez, i due mondi si avvicinano sempre di più, a testimonianza di come il videogame rivesta un valore sempre più importante anche sul piano artistico.




Oh…Sir! The Hollywood Roast

Il mondo dei videogiochi è un posto bellissimo: un universo dove convivono titoli strapubblicizzati con budget hollywoodiani e… un simulatore di insulti nato durante una game jam e divenuto virale tramite gameplay su Youtube o Twitch.

Questa è la storia di Oh…Sir! The Insult Simulator, titolo creato dai polacchi di Vile Monarch, che prende largamente spunto dall’umorismo british dei Monty Python. Il successo del gioco è incredibile, se consideriamo l’argomento di nicchia: da sempre il british humor è considerato complesso da capire e apprezzare. Eppure il primo Oh…Sir! è arrivato anche sulle piattaforme mobile ed è prossimo all’uscita su Playstation 4 e Xbox One.
Sorte simile viene condivisa anche da questo Oh…Sir! The Hollywood Roast, uscito sia su PC che su iOSGoogle Play,  e prossimamente in arrivo anche su Nintendo Switch. Ma sarà all’altezza del predecessore oppure sarà lo spin-off che il pubblico non voleva vedere nelle sale?

Appena avvieremo Oh…Sir! Verremo subito catapultati nello spirito del gioco, intriso di citazioni cinematografiche: infatti, le schermate degli sviluppatori ricordano rispettivamente i celebri crediti introduttivi della 20th Century Fox e della MGM.
Il gioco consta di modalità single player e multiplayer: la prima, è a sua volta composta da un tutorial, esaustivo e ben fatto, dalla modalità carriera e dalla partita singola. Mentre quest’ultima non è altro che un normalissimo uno contro uno, la carriera è invece strutturata sul modello dei giochi mobile. Per ogni sfida dovremmo completare dei task e ottenere i “pappagalli d’oro”, che sbloccheranno nuove frasi da usare nelle battaglie. Peccato che tale modalità sia molto corta: solamente cinque incontri per ogni personaggio. Considerando il setting hollywoodiano, l’aggiunta di una modalità storia, magari creata ad hoc sul modello di ogni avatar, avrebbe giovato non poco alla longevità del titolo.
Probabilmente, come per il titolo precedente, il gioco è stato pensato più in un ottica multiplayer: che sia in locale con un paio di amici oppure online, Oh…Sir! dà il meglio di sé quando viene approcciato in compagnia.

A proposito dei protagonisti che useremo negli scontri verbali, i ragazzi di Vile Monarch hanno pescato a piene mani dal calderone hollywoodiano, dandoci una buona varietà di protagonisti: si va dalle parodie di attori come Marylin Monroe, Bela Lugosi e Jane Fonda, ai personaggi come l’esilarante mash-up di supereroi Marvel, Harry Potter e Gandalf il grigio, tutti con i loro bonus e malus da sfruttare durante la gara di insulti. Per esempio, il simil-Deadpool soffrirà quando attaccheremo la sua mancanza di originalità, oppure la parodia del maghetto di Hogwarts la prenderà sul personale quando bersaglieremo la sua mancanza di virilità.
Parlando del gioco vero e proprio, ogni scontro consta di una serie di frasi e aggettivi, colmi di riferimenti cinematografici e del gossip hollywoodiano, da scegliere e concatenare per ottenere il nostro insulto perfetto. Come detto in precedenza, bisogna stare attenti ai punti deboli del nostro nemico e soprattutto a usare una corretta forma grammaticale, pena la perdita di qualche nostro punto vita. Purtroppo il gioco è interamente localizzato in inglese, e, reggendosi tutto sulla sintassi, potrebbe dare difficoltà a chi non è ferrato nella lingua di Albione.

Tutto sommato questo Oh…Sir! The Hollywood Roast regala alcuni momenti di divertimento, a patto di cogliere le molteplici citazioni cinematografiche. La ridotta longevità della modalità single player è un difetto di non poco conto, ma il comparto multiplayer può dire la sua come party game in compagnia di amici. Forse è più adatto a delle sessioni di gioco brevi, classiche dei titoli usciti su smartphone e tablet. Non un gioco da premio Oscar, ma nemmeno da Razzie Award.




Svelato il primo trailer per il film Slender Man

Slender Man, noto personaggio di numerosi titoli, nonchè di altrettante leggende metropolitane, arriverà il 18 maggio anche sul grande schermo con il suo film personale, diretto da Sylvain White, il cui trailer è stato rilasciato da poco. Slender Man ci parlerà di una figura misteriosa molto alta con lunghi arti, viso privo di caratteristiche, ritenuto il responsabile di innumerevoli scomparse e suicidi, di bambini e adolescenti, rimanendo fedele alla leggenda originale.




Paramount ha intenzione di creare un cinema VR per la casa

La realtà virtuale è ormai una realtà ormai alla portata di tutti, specie in campo videoludico. Tale tecnologia esiste da decenni, ma recentemente ha fatto enormi passi in avanti grazie alla sua commercializzazione in abbinamento a PS4 e PC. Oggi è possibile ottenere un set per realtà virtuale a buon mercato, ma i progressi non sono ancora finiti. La Paramount Pictures sta lavorando in tal senso e sta pensando di trasformare le nostre case in cinema virtuali, in grado di riprodurre un ambientazione simile a quella di un cinema con tanto di visitatori.
Fra i primi progetti in VR è stato già annunciato Top Gun, e si parla anche diTerminator 3D.




IT: rilasciati due nuovi trailer in VR

 

In attesa dell’uscita del nuovo remake di IT, vecchio capolavoro di Stephen King, la Warner Bros. ha rilasciato due nuovi trailer in VR della durata di quattro minuti circa. I video ci catapultano per le strade e le fogne di Derry, piccola cittadina del Maine dove è ambientata la storia di Pennywise, il clown assassino che terrorizzerà a morte un gruppo di ragazzini, I Perdenti, che dapprima lasceranno Derry convinti di aver ucciso Pennywise, ma 30 anni dopo si accorgeranno che le cose non erano andate esattamente come avevano pensato. Sotto riportiamo il trailer.