L’incredibile crescita degli eSport

Il 2018 ha visto continuare la marcia inarrestabile degli eSport, sotto ogni punto di vista: se sul lato commerciale risaltano i grandi numeri ottenuti dalla prima edizione della Overwatch League, con quasi undici milioni di spettatori dichiarati da Blizzard per la finale del campionato e 126 milioni di visualizzazioni in totale sul proprio canale Twitch, non sorprendono nemmeno le cifre da capogiro dichiarate sul lato finanziario: l’industria del videogioco professionistico ha guadagnato quasi un miliardo di dollari in quest’anno, con una previsione di crescita del 18,6% per il 2023, che porterebbe l’intero settore a un guadagno di ben 2.17 miliardi!

Ma non è tutto rose e fiori: recentemente, il CIO, lo stesso Comitato Olimpico Internazionale che precedentemente si era espresso a favore degli eSport come disciplina olimpica da testare nei giochi asiatici del 2022, ha frenato esprimendo il proprio dissenso verso i cosiddetti killer games. A tal proposito, il presidente Thomas Bach ha dichiarato:

«Non possiamo avere nel programma olimpico dei giochi che promuovono violenza e discriminazione. Dal nostro punto di vista rappresentano una contraddizione dei valori olimpici e non possono essere accettati»

Una dichiarazione che chiude le porte ai vari League of Legends, Dota 2 e Fortnite, ma vi è invece, uno spiraglio aperto per giochi più “pacifici” come FIFA, Rocket League o Street Fighter. E anche per uno sport che cerca di entrare nel carrozzone olimpico da molti anni, come la Formula Uno: recentemente Sean Bratches, direttore commerciale del brand motoristico, ha espresso il proprio interesse per includere lo sport, anche se in forma virtuale. Vi è già un campionato di eSport, la Formula One eSport series che, nella stagione inaugurale del 2017 ha richiamato 63.000 appassionati che hanno seguito nove delle dieci scuderie presenti nel campionato motoristico (unica e grandissima assente l’italiana Ferrari).

Anche in Europa si sta muovendo qualcosa: se già Francia (prossima partecipante alla Overwatch League con la squadra di Parigi), Spagna e Russia (dove spopolano titoli come DOTA 2 e Counter Strike: Global Offensive) possono contare su un settore già pronto, come si pone il nostro paese nel mercato? In realtà, non molto bene, nonostante la creazione di alcuni eSport team dedicati a FIFA, come Sampdoria (primo club calcistico italiano a lanciarsi nel settore), Roma, Empoli e recentemente anche Cagliari, Perugia e Parma. Ma hanno destato interesse le recenti dichiarazioni al Corriere dello Sport del patron del Napoli e del Bari, Aurelio De Laurentiis, interessato a entrare nel settore degli sport virtuali. Per quanto possa sembrare strano l’interesse di un imprenditore così importante, soprattutto nel nostro paese, non sorprende vedere grosse aziende dietro una squadra di eSport: basti pensare al gruppo Kraft, proprietari dei New England Patriots, una delle più vincenti squadre di football americano della NFL e proprietari anche dei Boston Uprising della Overwatch League, oppure la Kroenke Sports & Entertainment, holding che controlla sia l’Arsenal, popolare squadra di calcio della Premier League, che i Los Angeles Gladiators, sempre della OW League.
Con questa potenza economica dietro, non sorprende vedere la crescita del settore, anno dopo anno. E chissà, magari entro il 2023, si creerà qualcosa di importante anche nel nostro paese: d’altronde, lo sport non è solamente prestanza fisica, ma anche una girandola di emozioni uniche, esattamente come i videogiochi.




eSport e Olimpiadi sempre più vicini

Si parla ormai da mesi della possibilità di introdurre gli eSport all’interno dell’evento sportivo più antico e famoso al mondo; c’è chi è contrario perché, così facendo, si andrebbe a “imbrattare” lo spirito delle olimpiadi stesse, chi è favorevole e reputa che i videogiochi competitivi vadano trattati alla stregua delle competizioni sportive, chi pensa che sia tutta una trovata commerciale, chi no, e così via. È sicuramente un tema che ha fatto, fa e farà discutere e potrebbe persino cambiare le sorti di come il videogioco viene considerato dal pensiero comune. Ma mentre se ne continua a parlare,  c’è chi sta facendo effettivamente qualcosa, a partire dall’Olympic Council of Asia che inserirà ufficialmente gli eSport all’interno dei Giochi Asiatici di Hangzhou 2022.

Nel frattempo anche il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) sta iniziando a prendere seriamente la cosa, avendo organizzato un meeting con il GAISF (Global Association of International Sports Federations), ma anche giocatori professionisti, sponsor, publisher, organizzatori, media e rappresentanti del Movimento Olimpico, per esplorare le sinergie, costruire dei punti in comune e impostare una piattaforma per la futura unione tra gli eSport, l’industria del gaming e appunto, il Movimento. Il meeting si svolgerà all’interno del Museo Olimpico di Losanna, in Svizzera, il prossimo 21 luglio. Verranno trattati anche delle particolari tematiche, come “Il mondo degli eSport”, “Cosa definisce il Movimento Olimpico?”, “Un giorno nella vita di un giocatore professionista” e “Parità dei sessi in tutti gli sport”.
Qualunque sia l’esito della riunione, che comunque rappresenta un passo molto importante nella storia dei giochi olimpici, gli eSport non potranno sbarcare alle Olimpiadi prima di Parigi 2024 (anche se vederli per la prima volta a Tokyo 2020 sarebbe stato il massimo). Non resta che incrociare le dita.

 




Ritirarsi dagli eSport a 24 anni

Come citato da Engadget, dopo 11 anni di attività, Matthew “Burns” Potthoff si è ritirato da player professionista di Call of Duty ad appena 24 anni. Oggi, due anni dopo il ritiro, lavora dietro le scene per eUnited, una squadra di eSport con giocatori professionisti di Call of Duty, Counter-Strike: Global Offensive, Gears of War, Smite e Playerunknown’s Battleground.

Fa strano sentire di un player professionista che si ritira a questa giovane età: negli sport tradizionali, come il calcio, siamo abituati a sentire di ritiri dal professionismo dopo i 35, o 40 anni. Eppure negli eSport, settore nato da poco, ma in grandissima espansione, tanto da ricevere grossi investimenti e apprezzamenti da figure storiche del gaming, come John Romero, e addirittura da parte del CIO, il comitato olimpico internazionale, il ritiro di Potthoff fa notizia. Com’è possibile ritirarsi dalle competizioni in giovane età? Ce lo spiega proprio lui, raccontando la sua storia.

Gli inizi di Matthew sono umili: il padre lo accompagna al suo primo torneo nel 2005, in una piccola esibizione per giocatori di Halo e Call of Duty. Burns ha partecipato a entrambi i tornei, riuscendo a vincere pure un premio, ma di entità inferiore a quanto pubblicizzato, e quindi il genitore sentenziò che gli eSport erano una truffa.

Tredici anni fa, la situazione del professionismo videoludico era molto diversa rispetto a quella che conosciamo adesso: nonostante piccoli tornei già attivi sul suolo americano, mancava la scintilla che avrebbe acceso la miccia degli eSport. Ci toccherà attendere quattro anni per l’exploit mondiale di League of Legends, e addirittura sei anni per il primo torneo milionario di Dota 2. Sei anni che ci separano pure dalla nascita di Twitch, fattore fondamentale per la crescita di questo settore.

Ma Potthoff aveva fiutato il potenziale del pro gaming, e cominciò a partecipare sempre a più tornei possibili, fino a vincere un free-for-all nazionale di Modern Warfare 3, portando a casa ben 25.000 dollari.
A proposito del suo iniziale approccio al professionismo, Burns ha dichiarato:

«Penso che molti giocatori possano capirmi: ai tempi usavo i videogiochi come uno strumento per sfuggire dalla dura realtà. I miei genitori si erano appena separati, e vivevo tra la casa di mia madre e quella di mio padre, e l’unico modo che avevo per non perdere i contatti con i miei amici era quello di giocare online insieme. Dopo qualche anno ho notato che avevo del talento, e che a scuola parlavano tutti di quanto fossi forte. Ma nonostante la creazione di DeathWisH, il mio team, ho deciso che era meglio accantonare il mondo degli eSport e concentrarmi sul college: solamente dopo essermi laureato in economia dell’intrattenimento ho deciso di ritornare a tempo pieno nel campo del gaming professionistico.»

Anche qui, sembra che il destino abbia compiuto un cattivo scherzo al ragazzo: solamente nel 2014, due anni dopo aver preso la laurea, è stata introdotta la prima borsa di studio dedicata agli eSport, a cura della Robert Morris University. Solamente due anni dopo sarebbe nata la National Association of Collegiate eSports, un ente che riconosce e gestisce programmi di eSport in più di 60 college americani e che punta a diventare l’equivalente videoludico dell’NCAA, la lega collegiale americana di sport come basket e football.

«Cos’avrei fatto se la scena professionistica di allora fosse come quella odierna? Probabilmente avrei lasciato il college per dedicarmi agli eSport al 100%. Dico così perché allora i salari erano molto inferiori rispetto a quelli odierni: quando avevo 21 anni guadagnavo circa 500 dollari al mese ed ero costretto a vincere tornei per portare il cibo in tavola. Adesso ci sono ragazzi di 16 o 17 anni che guadagnano quanto guadagnavo a 21 anni, e hanno tutto il tempo per migliorare le loro abilità.»

La questione dei salari merita un approfondimento: l’industria degli eSport è in crescita e si sta stabilizzando, con giochi di prima fascia come League of Legends oppure Overwatch dove sono stati istituiti i salari minimi per i giocatori professionisti, rispettivamente a 75.000 dollari per il MOBA di Riot Games e 50.000 dollari per il titolo di Blizzard. Però non sono tutte rose e fiori, e anche un sistema in rapida crescita presenta delle discrepanze: infatti Call of Duty non garantisce un salario minimo e non ha le stesse regole dei due giochi citati in precedenza.

All’epoca anche la CWL Pro League, il campionato mondiale di Call of Duty, era strutturato in un modo diverso: veniva usato un sistema simile ai campionati calcistici europei, con promozioni e retrocessioni, dove la squadra con più punti partecipava ai mondiali, dove il premio consiste in 1,4 milioni di dollari. Era lo stesso sistema usato da League of Legends e Overwatch, almeno fino allo scorso anno, dove sono stati introdotti i salari minimi – come citato prima – ma soprattutto, il passaggio dai team a veri e propri franchise, adottando quindi un modello simile a quello che si vede sui parquet dell’NBA o negli stadi della NFL.
Anche a causa del sistema non al passo con i tempi della CWL, Potthoff, ha deciso di ritirarsi, dopo la sconfitta decisiva per 4-3 in un’entusiasmante duello tra gli H2K e il suo team, i Liquid.

«Vincere quella serie avrebbe rilanciato la mia carriera, oltre che aumentato il mio stipendio. Avrei potuto vivere tranquillamente per 8-9 mesi, ma è andata male, e non c’era un torneo da disputare per 4-5 mesi. Avevo pure smesso di giocare, perché la ferita era troppo profonda. Ho riprovato a tornare in carreggiata con un paio di tornei dove sono arrivato tra i primi 24 e i primi 16, ma lì ho capito che non c’era più niente da fare, e quindi ho appeso il pad al chiodo.»

Burns aveva deciso di mollare la vita da pro-player, ma non quella del mondo che ha amato per anni: a 26 anni, nel 2016, entra in eUnited prima come head coach e adesso ricopre la carica di general manager, dove si occupa dello sviluppo e del recruiting di molti giocatori giovani.
A proposito di quest’incarico, Potthoff dichiara:

«Abbiamo anche reclutato quattro giocatori minorenni, ma non metterò mai gli impegni del team prima dei loro obblighi, come scuola e famiglia. Ma ci stiamo impegnando per renderli dei veri professionisti: personalmente penso che siano già a un buon livello, e la loro giovane età li mette in un’ottima posizione, visto che sono gli unici giocatori minorenni della comunità professionista di Call of Duty, e vogliamo dare il giusto input per far partire la loro carriera da pro-players, così come loro vogliono mettercela tutta per riuscirci.»