Travis Strikes Again: No More Heroes

“Non ci sono più gli eroi di una volta”, cantavano gli Stranglers nell’ormai lontano 1977, quegli stessi eroi che hanno ispirato intere generazioni e alimentato fantasiose leggende tramandate di padre in figlio fino a diventare parte e sostanza di una storia alternativa forse più accessibile, ma non per questo priva di una profonda rete di significati e simboli che per certi versi risultano più tangibili di qualsiasi altra entità materiale.

Tutto questo preambolo per dirvi che Travis Touchdown non è più l’uomo di una volta, appesantito dalla violenza perennemente costante nella sua vita. D’altro canto è un assassino, e nessuno di noi è chiamato a scegliere ciò che siamo: lo siamo e basta. Ed è per questo che l’unica maniera per rifugiarsi lontano dalla realtà a volte è quella di fuggire dalla stessa, magari viaggiando verso il Texas a bordo di un camper in compagnia dei nostri videogiochi preferiti. Ma il passato è duro a morire ed è inevitabile portarsi dietro qualche strascico, specialmente se sei un killer professionista. Così la quiete appena conquistata viene turbata dalla visita inaspettata di Badman, anche lui alla ricerca disperata di un lieto fine per i suoi tormenti. Portatore di un odio smisurato nei confronti del nostro Travis, reo di aver ucciso senza pietà la figlia Badgirl incontrata durante la sua prima scalata nell’olimpo degli assassini, Badman si ritrova suo malgrado ingarbugliato in una brutta faccenda: la console a cui Travis si diletta a giocare ai videogame è la terribile Death Drive MK-II, una pericolosa arma di distruzione di massa in grado di trascinare i nostri eroi all’interno del software e rendere un incubo lisergico partorito dalla mente malsana di Suda 51 quello che fino a pochi attimi prima era un innocuo passatempo elettronico.

Queste sono a grandi linee le premesse dello spin off di No More Heroes, uscito in esclusiva su Nintendo Switch con un grande carico di aspettative da parte dei fan. Ma uno strano presentimento aleggiava nell’aria sin dai primi trailer mostrati al pubblico. Quello che abbiamo avuto modo di vedere non era esattamente quanto ci potessimo aspettare da un nuovo capitolo della avventure di Travis ma fu Gōichi Suda in persona a ribadire a più riprese che questo Travis Strikes Again non sarebbe stato un titolo canonico ma un passaggio obbligato verso il compimento di una possibile (?) trilogia. È andato tutto per il verso giusto?

NO MORE HEROES ANYMORE

Iniziamo subito con l’affermare un concetto: il modo migliore per capire l’idea dietro questo spin-off è conoscere l‘iter creativo alla base. Può sembrare una banalità, ma è sempre un bene ribadirlo in virtù del fatto che stiamo parlando di un gioco di Gōichi Suda, dove alle volte scelte stilistiche o di gameplay vanno al di là di esigenze puramente commerciali o di budget, e mai come in questo caso. Dopo l’esperienza passata in Electronic Arts in compagnia del maestro Shinji Mikami che ha visto trasformare il suo titolo più ambizioso – quel Shadow of the Damned nato da un dream team di nomi illustri – in un semplice action shooter in terza persona più volte rimaneggiato e castrato dai produttori, il buon Suda ha preso prepotentemente le distanze da un modo di concepire l’intrattenimento videoludico come forma di ricavo economico sicuro e calcolato che si tiene alla larga dal correre rischi attraverso meccaniche collaudate pronte per il mercato.
Parliamo di un game designer che ha imparato a proprie spese cosa voglia dire lavorare per un colosso come Electronic Arts, nel quale per forza di cose è necessario comprimere gran parte della propria libertà autoriale. Il bisogno di tornare sui propri passi è stato la causa diretta del suo ritiro dalle scene per otto lunghi anni, durante i quali ha potuto trovare una nuova fonte di ispirazione e in qualche maniera una rinnovata fiducia verso un settore ormai pigro e disincantato.
Il mercato dei giochi indipendenti occidentali, o che a dir si voglia indie, è stato per Suda il trampolino di lancio verso una rinascita artistica ed è proprio qui che si colloca lo sviluppo di Travis Strikes Again. Ripartire in piccolo con un budget contenuto, ma con una consapevolezza di se stessi più forte che in passato, con la voglia di sperimentare e andare al di là dei generi fino ad ora conosciuti, creando qualcosa di indefinibile ma allo stesso tempo alla portata di tutti, significa creare un gioco d’avanguardia e un dichiarato atto d’amore verso le produzioni indipendenti che ormai regnano negli store digitali. Ma le sole buone intenzioni non bastano a creare un buon videogame.

MOE~

Il gioco nella sua semplice struttura può essere divisa in due diverse fasi: la prima è quella dove si sostanzia il gameplay vero e proprio, ambientata totalmente dentro i software della demoniaca console da salotto del nostro Travis. Ci troviamo lì innanzi a un hack ‘n slash vecchia maniera, dove tempismo e riflessi risultano essere l’arma vincente per districarsi nelle caotiche situazione create dagli sviluppatori. Per combattere avremo dalla nostra la Beam Katana, entrata pienamente di diritto nell’immaginario della serie. Gli attacchi di Travis si traducono principalmente in leggero, utile per eliminare facilmente e velocemente grossi agglomerati di nemici, e pesante, che dovrà essere sapientemente dosato, ma in grado di causare ingenti danni ai nemici singoli. Per ogni attacco inferto, la barra energetica della vostra spada andrà esaurendosi fino alla completa inibizione dell’arma, motivo per il quale sarete costretti a prendere un attimo di respiro per ricaricare l’arma attraverso un movimento (abbastanza ammiccante) del vostro Joy-con (parlando della versione per Nintendo Switch). Per variare queste semplici meccaniche di base, il giocatore avrà a disposizione diversi attacchi speciali sbloccabili durante la run in anfratti nascosti dei livelli o subito dopo una boss fight. Aggiungono dinamismo e un pizzico di strategia ai combattimenti ma alcuni di questi sono totalmente trascurabili ai fini dell’avanzamento. I nemici principali sono costituiti dai Bug, creature antropomorfe che nel loro particolare design richiamano fortemente gli Haven Smile di Killer 7. Potrete recuperare le vostre forze da un venditore ambulante di ramen che vi presenterà un piatto diverso per ogni livello. Il gioco è tutto qui.
Per tutta la durata del titolo gli sviluppatori si propongono di conferire un minimo di varietà alle situazioni che mandano avanti il plot e, a essere sinceri, certe volte ci riescono brillantemente trovando delle soluzioni sorprendenti e simpatiche, tutto ciò però a discapito delle coerenza interna, rendendo di fatto il proseguimento un po’ troppo sfilacciato e poco uniforme, aspetto che caratterizza la maggior parte dei giochi di Grasshopper Manufacture, ma che può risultare indigesto per un pubblico più eterogeneo. In questo senso, i continui omaggi e rimandi ai titoli indie (ma non solo) più importanti del settore, oltre che alle numerose autocitazioni del designer (che arriva a inserire se stesso come uno dei villain) risultano in un primo momento apprezzabili e con un loro senso all’interno della trama, ma con l’avanzare delle ore di gioco verranno a noia molto facilmente. Ovviamente la possibilità di giocare insieme a un amico in locale alza l’asticella del divertimento, sempre che riusciate a trovare qualcuno capace di sopportare la tediosa ripetitività di fondo dell’avventura, ingigantita ulteriormente dalla struttura a corridoio dei livelli. Insomma, la maggior parte del tempo lo passerete avanzando attraverso percorsi fin troppo elementari e poco stimolanti.

La seconda fase probabilmente peserà come un macigno a tutti quei giocatori che non hanno una spiccata passione per gli infiniti blocchi di testo. In buona sostanza il buon Gōichi ha pensato bene di mandare avanti la trama del gioco tramite schermate di testo in 8 bit sulla falsa riga di un Metal Gear Solid qualsiasi. La scrittura dei dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi secondari è in pieno stile Suda51, piacevole e divertente, e il designer spesso gioca su questa particolare scelta stilistica; col passare delle schermate e delle parole si insinua un pensiero lancinante, ovvero che lo scherzo e l’autoironia possa trasformarsi in un mea culpa non troppo velato dettato da un budget risicato e da tempi di produzione stringenti, che di certo non è una buona giustificazione per coprire la svogliatezza con la quale sono stati realizzati certi aspetti del gioco, ma questo argomento lo approfondiremo più avanti.

Queste due fasi distinte del gioco sono intervallate da un HUB centrale rappresentato dal camper dove Travis trascorre le sue notti solitarie in compagnia di Hotline Miami (a quanto pare molto amato da Suda). Qui potrete scegliere il vostro vestiario preferito scegliendo tra numerose T-shirt a tema videogame, in continuo aggiornamento tramite update, potrete salvare i vostri progressi andando al bagno e dare una votazione tramite il web al ramen ingurgitato durante le vostre avventure all’interno della Death Drive MK-II.

What happened to the Hero?

Se già la ripetitività di fondo ha fatto storcere il naso, le cose non vanno meglio con il comparto grafico del titolo. Le potenzialità dello sbandierato Unreal Ungine 4 con il quale i ragazzi capitanati da Suda hanno imbastito le fondamenta del gioco (tanto da inserirlo come skin delle t-shirt selezionabili) non vengono minimamente sfruttate. A fronte di ristrettezze economiche produttive è più che lecito chiudere un occhio sulle diverse magagne tecniche riscontrate durante la partita, ma qui ci troviamo di fronte a una totale mancanza di idee e originalità, salvo alcuni particolari casi; fondali e pattern ripetuti in un eterno loop con una pochezza di poligoni imbarazzante. La cosa fa ancora più rabbia nel momento in cui a livello stilistico il gioco è al 100% made in Suda 51, con i suoi continui richiami a un certo tipo di estetica vintage di indubbio fascino. Se qualcosa in più si poteva fare, insomma, non è stata di certo fatta, probabilmente per la poca familiarità con il nuovo motore grafico della Unreal, non riuscendo ad ottimizzare al massimo il risultato dello sviluppo. A conti fatti questa è la prima produzione del team Grasshopper sull’ibrida Nintendo ed è come se l’intero titolo sia stato concepito come terreno di prova per futuri lavori.
Discorso diametralmente opposto per l’audio: il lavoro compiuto dal team è ottimo quanto per l’effettistica tanto che per la colonna sonora elettronica che riesce ad accompagnare perfettamente l’azione su schermo, alternando brillantemente loop in stile minimal a sinfonie strumentali riuscendo a dare carattere all’intera atmosfera di gioco.

In definitiva, il nuovo gioco di Gōichi Suda non spicca il volo come tutti speravamo. Non siamo di fronte a un disastro completo, questo è certo, nella sua immediatezza il titolo riesce comunque a divertire se preso a piccole dosi e possibilmente in compagnia di un secondo giocatore, ma un maggiore impegno ne avrebbe sicuramente giovato in termini di fruibilità e soprattutto di resa commerciale, dato che allo stato attuale esistono diverse alternative miglioriTravis Strikes Again a meno della metà del prezzo. Quindi c’è da riflettere a chi questo titolo è veramente indirizzato; alla piccola nicchia dei fan che lo acquisteranno quando il prezzo sarà diminuito o al grande pubblico generalista? Una spesa di 40 euro completa di Season Pass (2 DLC a oggi disponibili) per un gioco che non ha la minima voglia di farsi capire e di farsi piacere alle grandi masse è decisamente una presa di posizione azzardata e controversa. Ma d’altronde stiamo parlando di un gioco di Suda51 e in realtà c’è molto poco da capire, o si ama o si odia. Se appartenete alla prima categoria alzate il voto finale di mezzo punto.




Hi,my name is… Gōichi Suda

In quali termini e in quale misura un creativo può essere definito “autore”? Accade quando crea qualcosa di innovativo e originale? O quando plasma un proprio personale linguaggio all’interno del medium di riferimento? Se dovessimo dare una risposta affermativa a queste domande, allora Gōichi Suda (in arte Suda51) rientrerebbe di diritto nella categoria.
Classe 1968, Suda51 è riconosciuto all’unanimità come uno dei più eccentrici game designer della storia videoludica.

Il suo percorso lavorativo inizia nella Human Entertainment come scenario writer per la serie wrestling Super Fire Pro Wrestling su Super Nintendo. Ben presto si rende conto che lavorare per conto di terzi e avere poco margine creativo all’interno della produzione non è il massimo delle sue aspirazioni. Con un gesto provocatorio conclude la sua esperienza alla Human scrivendo il controverso finale del quarto capitolo della saga sportiva, creando un cortocircuito narrativo senza precedenti per quei tempi. Trasferisce la sua passione altrove entrando a far parte della Grasshopper Manufacture, divenendone presto CEO e produttore esecutivo. Qui Goichi è libero di esprimersi al meglio ed è qui che crea il suo primo personalissimo lavoro: The Silver Case (1999). Si tratta di una visual novel dalla forti tinte thriller, nella quale saremo chiamati a investigare su una serie di macabri omicidi procedendo parallelamente attraverso due punti di vista diversi. Uscito nel solo mercato orientale sulla prima PlayStation, il gioco è il chiaro esempio della visione proto-punk del game designer. Declinando un’estetica forte e stridente a un gameplay molto semplice nelle meccaniche, quasi minimale nella sua voglia incontrollata di porre il giocatore nella condizione di spettatore passivo dei fatti narrati, concedendo una limitata interazione attraverso puzzle ambientali. Nel 2017, un po’ a sorpresa, produce un sequel-remake per console di attuale generazione: The 25th Ward: The Silver Case, mantenendo intatta quell’aurea inquietante tipica del primo capitolo.

Chiusa la parentesi Silver Case, Suda ha ancora voglia di sperimentare con il genere delle avventure grafiche in terza persona. Inizia a lavorare così a un progetto insolito: un misto tra Alice nel Paese delle meraviglie e un incubo lisergico à la David Lynch; quello che ne viene fuori è lo strambo Flower, sun and rain (2001).

Uscito ai tempi di PlayStation 2 solo sul mercato giapponese, il gioco vede protagonista l’enigmatico Sumio Mondo, un tuttofare abile nel risolvere qualsiasi tipo di problema attraverso l’uso di una valigetta capace di connettersi (letteralmente) a tutto ciò che circonda il protagonista. Dietro storie di fantasmi, persone scomparse, attacchi terroristici, spiagge dorate e piscine luccicanti si nasconde un gameplay vecchio stampo, focalizzato nella risoluzione di puzzle matematici disseminati nell’area d’azione. Il giocatore questa volta ha una maggiore possibilità di interazione, dialogando con le strane personalità che popolano il suggestivo hotel da cui prende nome il gioco. Il designer calca la mano sulle assurde situazioni in cui si viene a trovare Mondo e gli strampalati dialoghi con i personaggi secondari, dai quali estrarre indizi per la soluzione dell’enigma. Suda riesce a creare un’atmosfera rilassata e solare ma allo stesso tempo ambigua, con dettagli e tinte alle volte disturbanti. Il tutto accompagnato dalle splendide composizioni di Masafumi Takada. Sette anni dopo l’uscita su PS2 la casa di produzione decide di lanciare un remake per la portatile Nintendo DS, aggiornando il sistema di controllo al touch screen e con un adattamento sul fronte tecnico, dando questa volta la possibilità anche ai giocatori europei e americani di mettere mani al gioco.

Passano quattro anni prima che Suda51 ritorni dietro la cabina di regia. In questo tempo trascorso la GH dietro la sua direzione produce numerosi giochi dall’esito commerciale altalenante: si passa dal prodotto discreto che riesce a trovare un posto nel mercato, al fallimento su tutta la linea (chi ha avuto modo di giocare a Michigan: Report from Hell ne sa qualcosa). Poco budget e tempi di sviluppo molto stretti per un piccolo team che spesso viene affiancato da sviluppatori esterni quando si tratta di giochi su commissione. È nel 2005 che Goichi torna sulle scene con il suo titolo più conosciuto e controverso.

Sono i tempi in cui Nintendo rincorreva le terze parti per tappare i buchi del parco titoli del suo Game Cube, siglando un accordo con Capcom per una serie di 5 esclusive (quasi tutte temporanee) che avrebbero fatto la gioia dei consumatori. Tra i titoli si nascondeva un allora misterioso Killer 7, gioco di cui si sapeva molto poco e quel tanto che si conosceva non faceva altro che confondere ulteriormente le acque. Uno sparatutto su binari in terza persona con grafica cel-shading, iper violento e oscuro. Dietro il progetto si nascondeva Goichi in qualità di director sotto la supervisione attenta della Capcom, lasciando però ogni libertà creativa.
Probabilmente l’opera più matura e personale di Suda, nonché il gioco che ha sdoganato il suo nome in tutto il mondo, rendendolo una figura atipica nel settore.

Il gameplay di Killer 7 fonda le sue basi sulla possibilità di controllare sette diversi personaggi (i sette Killer Smith), ognuno con il suo corredo di skill e abilità esclusive. Si corre in corridoi stretti e claustrofobici, seguendo percorsi prestabiliti che a loro volta si diramano in bivi e strade secondarie. Il giocatore mantiene la concentrazione sull’eventuale presenza degli Heaven Smile, disturbanti creature antropomorfe che avanzeranno verso il giocatore fin quando verranno abbattute sparando in precisi target point utili per guadagnare blood da spendere nel potenziamento delle caratteristiche dei personaggi giocabili. In tutto questo non mancano i classici puzzle ambientali da risolvere tramite il ritrovamento di oggetti lungo il percorso. Con Killer 7 la follia visionaria di Suda raggiunge traguardi altissimi creando un corollario di personaggi secondari inquietanti e moralmente ambigui. La trama che sorregge il tutto è volutamente criptica e soggetta a diverse interpretazioni, toccando temi importanti come lo smercio di armi chimiche, i giochi di potere politico e le violenze psico-fisiche insite nella società dei tempi moderni. Pone continue riflessioni sulla natura sadica dell’animo umano e sul rapporto che questo ha con le entità superiori; domande che sapientemente vengono lasciate in sospeso.
Non un gioco perfetto, nei suoi limiti tecnici e strutturali funziona solo discretamente, ma rappresenta di certo una mosca bianca nel panorama videoludico, riuscendo a mantenere il suo fascino morboso ancora oggi: è notizia recente che la Grasshopper rilascerà il gioco sulla piattaforma Steam nell’arco del 2018, tredici anni dopo la prima release.

Dopo l’exploit Killer 7, Suda si concede qualche anno di stop tornando a produrre con la sua piccola casa di sviluppo. Tra i tanti titoli a marchio Grasshopper è sicuramente Contact (2006) a farsi notare maggiormente. Sviluppato per la portatile a due schermi di Nintendo, Contact è un bizzarro GDR con fasi gestionali; vede come protagonista uno sventurato ragazzino sperduto sopra un’isola deserta accompagnato da un singolare scienziato rinchiuso nella sua astronave. Un piccolo gioiello di stile che vede il nostro Goichi come collaboratore esterno nella creazione del concept e nell’elaborazione del gameplay.

Nel 2007, il genio inquieto di Suda51 ritorna prepotentemente con l’uscita di No More Heroes per la nuova console Nintendo Wii. L’idea del designer era di riuscire a sfruttare a dovere i sensori di movimento della nuova macchina Nintendo, senza rinunciare alle sue classiche trovate fuori dagli schemi ed alla sua ossessiva ricerca per l’estetica a 8 bit. Quello che ne viene fuori è un godibilissimo action in terza persona interrotto qua e là da alcuni minigiochi facilmente dimenticabili e da una pessima fase open world. Con No More Heroes (come l’omonimo album degli The Stranglers) Suda consegna alla storia del videogioco uno personaggi più carismatici e meglio riusciti della sua carriera. La figura di Travis Touchdown colpisce per la svogliata personalità, il linguaggio sboccato e la sua ossessione costante per il gentil sesso. Travis dovrà scalare la classifica mondiale dei più grandi cacciatori di taglie nel tentativo di portarsi a letto l’organizzatrice dell’evento. Tutto questo si traduce in una struttura di gioco molto classica: livello da esplorare, mob da uccidere e il boss di fine zona da deflagrare senza pietà. Il gameplay regge bene per metà del percorso se non fosse per la noiosa fase di accumulo di denaro, passaggio obbligatorio per proseguire nella scalata della classifica. A metà dell’avventura, la pesantezza e la ripetività delle azioni iniziano a farsi sentire non poco. Per quanto riguarda lo stile grafico, Suda si diverte a infarcire il gioco di citazioni Pop e conferisce all’intera produzione un sapore vintage godibilissimo ( i retrogamer ne andranno pazzi). Fu un discreto successo commerciale, tanto da convincere la produzione a lavorare ad un seguito (No More Heroes 2: Desperate Struggle, non diretto da lui personalmente) e un remake per console in alta definizione. Considerato da gran parte della critica come il manifesto stilistico del designer nipponico, NMH è sicuramente un buon inizio per conoscere la visione distorta di questo autore, oltre ad essere il suo brand più famoso.

Arriviamo così al 2011, l’anno in cui Suda ci ha fatto sognare ad occhi aperti disattendendo, però, le speranze di molti giocatori. Electronic Arts annuncia di aver in cantiere un horror affidato a un dream team che, per i nomi coinvolti, avrebbe dovuto scatenare un terremoto nel mercato PS3 e Xbox360. All’interno del gruppo figuravano personalità come Shinji Mikami e Akira Yamaoka, rispettivamente il director di Resident Evil e il compositore della saga di Silent Hill. Quello che ne viene fuori è Shadow of the Damned, sparatutto horror in terza persona sulla falsa riga del ben più grande Resident Evil 4. Protagonista della vicenda è Garcia Hotspur, un efferato cacciatore di demoni che si ritrova, suo malgrado, a dover rincorrere il Signore delle Mosche colpevole di aver rapito la sua psicotica ragazza. Il giocatore dovrà scendere negli abissi dell’inferno per salvare la sua amata e tornare ad una vita normale. Il gameplay fa il suo compito in maniera discreta, prendendo quanto di buono fatto con RE4, svecchiandone le meccaniche e aggiungendo qualche simpatica novità. Quello che colpisce di più è tutto il contesto scenico e attoriale del gioco, partorito direttamente dalla mente malsana di un Suda in apparente stato di grazia (?). L’inferno ricreato è disturbante, acidissimo e con una punta di ironica crudeltà. I colori saturi si sposano perfettamente con l’evolversi degli eventi raccontati; tutto è studiato in modo tale da colpire il giocatore e coglierlo di sorpresa, proponendo situazioni al limite dell’assurdo e personaggi improbabili che si fanno amare sin da subito per la loro simpatica follia. Il tocco da maestro, però, è da cercare nell’accompagnamento sonoro e nell’effettistica affidata alle sapienti mani di Yamaoka (che, orfano di una Konami sempre più ottusa, decide di volare dalle parti della Grasshopper, diventando un membro fisso dello staff). Certamente non si tratta del capolavoro che tutti aspettavano, a ragion veduta, ma secondo il parere di chi scrive è uno dei prodotti più originali e divertenti della scorsa generazione. E scusate s’è poco.

Esattamente un anno dopo Suda si rimette al lavoro grazie a una partnership con la Warner Bros. Interactive Entertainment. Questa volta collabora alla scrittura con il cineasta americano James Gunn (si proprio quello de I Guardiani della Galassia) da sempre grande fan degli horror di serie b. Lollipop Chainsaw (2012) è un classico gioco d’azione in terza persona, simile nelle meccaniche a NMH ma molto meno funzionale nel risultato. La protagonista, Juliet, è una cheerleader che ha perso il fidanzato a causa di un’apocalisse zombie; tutto quello che rimane di lui è la testa parlante in grado di dispensare ancora consigli su come affrontare la tragedia. Juliet utilizza una gigantesca motosega come unico strumento contro i non-morti, combinata alle sue doti da combattente. Come da tradizione, il gioco è disseminato di collezionabili utili per sviluppare le abilità motorie della protagonista e rendere le combo varie e complesse. Purtroppo tutto questo si riduce ad un convulso button mashing che molto presto si traduce in monotonia e noia. Un vero peccato perché l’ironia di Gunn funziona e le citazioni al cinema italiano di genere faranno la felicità di molti appassionati, ma dietro una simpatica presentazione si nascondono delle falle di gameplay che ingoiano l’intero gioco in una voragine di mediocrità. Anche tecnicamente è un bel passo indietro rispetto al lavoro precedente dei Grasshopper, complice anche un budget molto meno generoso rispetto al recente passato. Probabilmente il punto più basso toccato da Suda51 sino a ora, ma paradossalmente il suo successo commerciale più forte.

Da Lollipop Chainsaw Suda ha preferito rimanere in disparte partecipando come consulente esterno a quasi tutte le produzioni della software house (Sine Mora, Killer is Dead, Let it Die) tornando a far parlare di sé solo nel 2018 annunciando in pompa magna uno spin off della serie NMH: Travis is strikes back, in uscita nel corso dell’anno in esclusiva per Nintendo Switch.

Goichi Suda è stato e continua a essere una personalità unica e singolarmente vicina ad un modo di concepire il “videogioco” non solo come mero intrattenimento ma anche come espressione di una visione totale, che guarda con molta attenzione al passato (nella estetica) rielaborandolo in maniera del tutto personale. Suda51 non passerà alla storia come un portatore di idee rivoluzionare, come possono esserlo alcuni suoi colleghi, ma mi piace considerarlo alla stregua di quello che rappresentò Lucio Fulci nel cinema italiano: un terrorista del genere, o ancora meglio l’anarco punk più trasgressivo del panorama videoludico. Tra alti e bassi la sua dialettica meta-stilistica continua nel suo percorso di ribellione a delle leggi di mercato che ormai soffocano e costringono il settore ad auto riciclarsi per paura di uscire da quella comfort zone dal guadagno facile ed assicurato. Suda non va incontro al gusto dei giocatori ma sono loro a dover scardinare ogni pregiudizio e categoria mentale per lasciarsi violentare dolcemente da questo pazzo ometto giapponese; tra un giubbotto di pelle ormai demodè ed una canzone degli The Smiths ad accompagnarci nei nostri pomeriggi da videogiocatori.




Il gaming estivo di un musicista ramingo

La vita del musicista, d’estate, è la più bella che ci sia: fare chilometri e chilometri con l’auto piena a tappo di strumenti, casse e costosissime apparecchiature per poi ripercorere le strade a ritroso in tarda notte; quando la musica finisce, le vie sono vuote e la gente esausta torna a casa. Ogni sera un luogo diverso, gente diversa e mangiare diverso, notti fatte di scoperte, conoscenze e, talvolta, anche assurdi imprevisti.
Tuttavia, per un giocatore quel tempo investito in musica si traduce anche nel dover mettere da parte la propria console e nel giocare quando il tempo lo permette, nelle rare serate quando nessun pub, bar, chiosco o comune richiede la presenza della propria band; ci si sveglia tardi per la stanchezza della sera prima, ci si prende un caffè, si va a pranzare poco dopo e presto bisogna fare una doccia perchè la prossima serata è ormai a un paio d’ore. La console rimane impolverata accanto allo scaffale e la pila di giochi che hai comprato rimane lì, in attesa che tu possa prendere il controller e passare delle sane ore di gaming.

Quando finalmente il calendario non segna un impegno della tua band, ci si chiude in camera, si regola il condizionatore a 18°, si mette il cellulare in modalità silenzioso e via, soli con l’avventura del momento e il caldo afoso fuori, fino a quando il sole non si fa color porpora; dopo tante serate passate a suonare per il divertimento dei clienti in un locale, del tempo per noi stessi in cui goderci quel gioco compato a inizio estate e che fino a quel momento non si è riusciti a giocare.
Quando questa speciale sessione a tu per tu con la console termina si fa un salto da qualche parte con gli amici e si finisce ancora a parlare di quella avventura che si sta giocando e che nel frattempo sta affrontando anche l’altro amico: ci si confronta su chi è andato più avanti, chi ha preso quell’arma, chi ha incontrato quel NPC…

E poi finalmente – abbastanza assurdo d’estate – si va a letto a un orario abbastanza decente e ci si sveglia beatamente l’indomani. Ma la quiete viene interrotta dagli amici che bussano a casa per giocare a Donkey Konga fino a farsi diventare le mani rosse, sapendo peraltro che quella sera ci si ritroverà nuovamente a suonare! Anche quando tenti di tenerla fuori, la musica continua sempre a inseguirti e, per quanto bella, quando incontra i videogiochi può esserlo ancora di più.




Un’estate al nerd

La spiaggia, strade assolate, vento che sferza in faccia durante un giro in motorino, arrivare al mare, distendersi e dimenticare ogni cosa: la scuola, il lavoro, inverni e autunni di pensieri, responsabilità e preoccupazioni. L’estate è questo, ed è serate nei chioschi, chitarre davanti a un falò, baciarsi distesi sulla battigia e andare a dormire soltanto al palesarsi dell’alba. Per alcuni è i giochi all’aperto quando si è piccoli,  per altri le passeggiate in bicicletta, per altri le birre, le prime limonate… ha il sapore di ogni età, l’estate, e c’è sempre spazio per ogni cosa, e c’è il tempo per farla, quella cosa, nella calma placida di ogni ora libera e vacanziera.
In questo abbondare di tempo libero, volete non si trovi spazio per i videogiochi? Perché fra una pausa e l’altra del dolce far niente, tra una partita a pallone e una gara di tuffi, il tempo per una partitina in formato handheld o per un giro di joypad nella propria stanza si è sempre trovato. O, se si era in giro, non si lesinava una visita alla sala giochi, per chi abbia vissuto quell’epoca d’oro di luccicanti coin-op.

Per l’estate vogliamo regalarvi uno spazio amarcord, un momento dedicato ai ricordi estivi, piccoli racconti che testimoniano un altro frammento della nostra passione per i videogiochi. Passione che non ha tempo, né stagioni deputate, che se ne infischia del caldo boia e delle ore che passano fino a che si è fatta notte fonda, istanza del cuore che ti dice: gioca, tanto tornerà un altro inverno, gioca e non pensare ai mille petali di rose.

E quei giorni noi siamo qui a ricordarli, noi che abbiamo una redazione che spazia dai 17 ai 40 anni. Vogliamo raccontarveli tutti, questi decenni di differenza, queste estati che, pur segnando un arco lungo quasi un quarto di secolo, ci hanno riunito qui, sotto l’emblema di una bussola, uniti da un’unica passione. Dunque sedetevi con noi in riva al mare, prendete una bevanda gassata, mettete le cuffie e lasciatevi trascinare indietro nel tempo questi brevi racconti fatti di pixel e parole, righe che raccontano di estati al sapore di nerd.




Nintendo Classic Mini: Il tanto agognato ritorno diventa realtà

Nintendo Classic Mini, dopo il suo rilascio ufficiale nel non troppo lontano novembre 2016, fece quasi immediatamente sold-out a causa delle quantità limitate prodotte per la distribuzione da Nintendo, che registrò al suo primo mese circa 200.000 unità vendute, fermandosi il 31 dicembre 2016 (a distanza di soli 2 mesi) con un picco di 1.5 milioni di pezzi venduti in tutto il mondo. Il piccolo gioiello di casa Nintendo, che ebbe una critica piuttosto positiva pur accusando qualche piccolo difetto relativo alla qualità di emulazione, soprattutto dell’audio, divenne subito dopo, un oggetto tanto raro quanto prezioso: particolare questo, che portò i pochi possessori di questo memorabilia, a una feroce speculazione sul suo prezzo di vendita, sia nuovo che usato, arrivando anche a sfiorare il 300% in più del suo prezzo originario di 59,99€.

Nintendo America ha annunciato che il Nintendo Classic Mini, sarà nuovamente disponibile dal 29 giugno, per allietare le estati di collezionisti e fan della grande N che – come il sottoscritto purtroppo – non hanno avuto la possibilità di acquistarlo in precedenza a causa del prematuro sold-out. Continuando con l’annuncio, Nintendo non si è voluta sbilanciare sulla quantità di pezzi che verranno prodotti per questo secondo giro di ruota, ma aggiunge che sia NES Mini che SNES Mini, continueranno a rimanere disponibili ai distributori fino al termine di quest’anno.

Che dire, data la forte domanda del pubblico, in costante aumento, si spera che questa volta Nintendo abbia fatto i giusti calcoli, in modo da poter ricoprire una fetta più ampia di utenza con una produzione leggermente più corposa rispetto alla precedente. Ma fortunatamente per chi – come me –  non ha fatto altro che attendere con ansia che quei rumor sul ritorno di NES Mini divenissero realtà, non dovremo attendere molto prima del rilascio ufficiale della piccola grande console domestica per eccellenza, Nintendo Classic Mini.




Mamme e videogiochi possono andare d’accordo

Sin da piccolissima, casa mia è stata letteralmente piena di strumenti “tecnologici”: computer, telefoni fax, i primi cellulari, stampanti, tutti oggetti che avrei imparato a usare crescendo; ma da quando ho ricordi, erano quattro gli apparecchi che sapevo più o meno usare: la tv, il videoregistratore (sfruttato prevalentemente per guardare e riguardare i VHS dei film Disney), la prima PlayStation e il Game Boy, questi ultimi appartenenti a mio fratello. Non era raro che mentre uno di noi due giocava, sopratutto alla console di casa Sony, nostra madre ci guardasse, un po’ per capire per cosa avesse speso quelle 50 mila lire, un po’ per aspettare il suo turno.
Ebbene sì, sono tra i pochi fortunati cresciuti tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000 ad avere una mamma “gamer”,o che almeno, lo è stata un po’ da giovane. Avendo vissuto a pieno il periodo della nascita delle console, aveva in casa un’Amiga 600 e un Commodore 64 con giochi come Impossible MissionArkanoidPac-ManTetris Donkey Kong, che usava insieme ai fratelli più piccoli. Forse per sentirsi di nuovo ragazza, o forse per vedere personalmente come fossero cambiati i videogiochi nell’arco di 10-20 anni, ogni tanto accorreva in nostro aiuto quando non riuscivamo a superare un determinato livello in Crash Bandicoot, e la cosa la faceva divertire molto, tanto da aver trovato in quella serie i suoi videogiochi preferiti.

Passano gli anni, in casa arrivano una PlayStation 2  e un Game Boy Advance SP, la prima console che ho chiesto personalmente, che potevo considerare mia e che fu una delle ragioni che mi portò ad amare Nintendo. Trascorrevo intere giornate a giocare a Pokémon Smeraldo e Rosso Fuoco, che però non suscitarono interesse in mia madre,  troppo occupata a capire giochi come GTA Vice City e San AndreasNon era certo la prima volta che vedeva giochi violenti, avendo comprato in precedenza Tekken 3 Mortal Kombat 4, sempre a mio fratello, sempre sotto la sua supervisione, ma la vastità di cose che era possibile fare, il linguaggio scurrile e la grafica (ai tempi) fotorealistica sono sicuramente fattori che possono sì intrigare un bambino (personalmente li vedevo come qualcosa di totalmente nuovo e fu per questo che mi avvicinai a titoli del genere), ma anche allertare una mamma, specie se li associa all’influenza che questi possono avere sui figli di 6 e 11 anni. Insomma, non era proprio contentissima di quegli acquisti, nonostante le fosse chiaro che ci divertivamo come matti e mai avremmo voluto fare quelle cose nella vita reale. Non arrivò mai a sequestrarceli completamente, ma temeva che giocarci troppo potesse influenzarci in modo negativo, sopratutto me, che ero la piccola di casa e sopratutto femmina.
Ammetto di essere sempre stata un po’ maschiaccio dentro, nonostante mamma avesse provato di tutto per farmi essere più femminile (e tutt’ora ci prova), e quando ero piccola, la distinzione tra “cose da uomini” e “cose da donne” era sicuramente molto più marcata di adesso; e giocare ai videogiochi, secondo il pensiero comune, non sarebbe dovuto rientrare nei miei canoni, figurarsi farne una vera e propria passione. Forse è stato proprio questo che per un po’ ha messo mamma in allerta non facendole accettare totalmente la cosa, poiché per lei giocare era solo un passatempo come un altro, ma per me era molto di più. Ogni tanto mi chiedeva se non preferissi fare qualcos’altro, mi esortava a giocare di meno, mi diceva, un po’ per spaventarmi, che rischiavo di rimanere incollata alla tv senza capire più niente (cosa che ho scoperto essere possibile, ma impiegando il triplo delle ore che trascorrevo davanti allo schermo) o addirittura di poter diventare violenta. Ma tutt’altro, sono sempre stata tra le persone più miti sia a scuola che con gruppi di amici.
Lentamente ho ottenuto la mia “vittoria”: ora ho 20 anni, ormai da tempo non ho più bisogno di chiedere a mia madre se le sta bene che io compri un determinato videogioco (a meno che non abbia bisogno di soldi) e ho iniziato a portare questa passione su un altro livello, ricevendo anche supporto da parte sua. Sono stata arbitro di videogiochi Pokémon per circa un paio d’anni e dovevo recarmi molto lontana da casa per andare ai tornei, trascorrendo l’intera giornata fuori, ma non mi è mai stato impedito di andarci. Inoltre, scrivo da più di un anno per questa testata e vedere i miei contenuti pubblicati non può che riempirla d’orgoglio, a prescindere da quale sia il tema che tratto.
Grazie mamma, per darmi sempre la possibilità di fare ciò che amo di più.




Epic Games: la barriera tra Xbox e Playstation cadrà inevitabilmente

Fortnite è uno di quei prodotti che ha fondato un nuovo modello di gioco nella games industry, secondo Tim Sweeney, CEO di Epic Games,  e uno dei motivi per il quale le barriere tra le piattaforme verranno presto abolite promuovendo il cross-platform.

Sweeney, parlando durante la sessione State of Unreal di Epic al GDC, ha descritto il boom dei giochi mobile negli ultimi dieci anni come una delle cose più eccitanti che possano accadere nel settore videoludico. Tuttavia, quello che una volta risultava essere nuovo ed entusiasmante forse oggi non lo è più:

«Per un po’, questa industria mobile è stata stagnante. Ci sono oltre 100.000 giochi pubblicati ogni anno sugli store, molti dei quali sono giochi ad-driven e molti di loro hanno modelli di monetizzazione abbozzati. L’industria ha davvero bisogno di rivitalizzazione».

Tuttavia, nei mercati asiatici si è sviluppata una nuova tendenza, una che mette in discussione l’ipotesi che il mercato della telefonia mobile sia dominato dai “casual games”. Parlando con GamesIndustry.biz in una riunione prima dello State of Unreal, Sweeney ha descritto questa “tendenza” come: «la cosa più eccitante per Epic nel settore in questo momento.»

«Stiamo assistendo a un cambiamento di tendenza, dove prima esistevano i casual games, adesso, come successo in Corea e in Cina, ci sono dei veri e propri giochi per “gamer”. Lo abbiamo visto con Lineage 2, un MMO open-world che ha avuto un successo enorme. Adesso in moltissimi paesi giochi come questo, segnano grandi numeri per le entrate, per il tempo di gioco e per la nuova forma che stanno dando al settore nella games-industry

Epic ritiene che stia cominciando ad accadere lo stesso processo in mercati come gli Stati Uniti e l’Europa, grazie in gran parte alle rifiniture e ai miglioramenti apportati al motore grafico Unreal Engine. Sempre durante lo State di Unreal, i co-fondatori di Studio Wildcard, Doug Kennedy e Jesse Rapczak, sono saliti sul palco per parlare di Ark: Survival Evolved su smartphone, annunciando anche il porting su Nintendo Switch.

Un altro esempio è ovviamente Fortnite della stessa Epic Games, che secondo Sweeney è l’esempio migliore, considerato lo sviluppo su Unreal Engine oltre che ovviamente per il “trend” che ha fino a ora sviluppato il gioco in sé.

La versione per Android di Fortnite deve ancora essere rilasciata, ma quando  questo avverrà, sarà il prodotto che girerà su tutte le principali piattaforme, con la stessa esperienza condivisa al suo interno e proprio questo, secondo Sweeney, sarà un aspetto essenziale di come la game-industry cambierà e continuerà a crescere negli anni a venire.

«Non riesco a immaginare nulla di meglio per la crescita collaterale del settore console rispetto a questa nuova generazione di bambini, cresciuta con dispositivi Android e iOS e che stanno imparando a giocare lì. Magari giocando a Fortnite [sui dispositivi mobili, ndr], che poi magari vorranno giocare sulla TV di casa, con controlli più precisi grazie a un joypad e una migliore esperienza visiva, facendo quindi un passaggio a piattaforme come PlayStation o Xbox.»

Ovviamente, l’idea che i possessori di PlayStation e Xbox possano un giorno giocare insieme, è e rimane un tema di grande attualità. Fortnite sarà solo uno in più tra quei giochi che non possono essere riprodotti su entrambe le piattaforme, con Microsoft che sostiene molto più la necessità di cross-play rispetto a Sony. Da parte sua, Sweeney è un grande sostenitore del cross-platform, ma è attento anche a sottolineare la natura senza precedenti di Fortnite, pienamente inter-operabile su mobile, PC, Mac e console. Proprio per questo motivo crede fermamente che questa situazione di stallo, non durerà ancora per molto. Sempre durante l’evento, il CEO di Epic, menziona anche la legge di Metcalfe, secondo la quale “il valore di qualsiasi esperienza connessa per un determinato utente è direttamente proporzionale al numero di persone a cui è possibile connettersi nel mondo reale”. In parole povere il prossimo passo logico nel settore console, sarebbe quello di eliminare le barriere tra gli utenti Sony e il resto del mondo.

In effetti ormai i giochi sono diventati esperienze sociali allo stesso modo di Facebook o Twitter, e queste esperienze hanno davvero senso e possono definirsi tali, solo se gli utenti possono comunicare con tutti i loro amici indistintamente.




Duke: la storia di un pad che ha rivoluzionato il mercato console

Se siete videogiocatori conoscerete sicuramente il pad Xbox e le sue particolarità, ma non tutti sanno che prima di avere un prodotto super compatto ed ergonomico, come quello della One, ci sono voluti anni e anni di continui test e ricerche mirate che, in precedenza, hanno portato alla creazione di uno dei controller più criticati e discussi della storia delle console. Stiamo parlando del Duke, un pad quasi il triplo più grande del DualShock PlayStation e quindi molto più pesante e ingombrante.
Non tutti conoscono la storia della creazione di questo controller e della fatica di  Microsoft nel realizzarlo.

La principale ideatrice fu Denise Chaudhari, prima donna a entrare nel team Xbox ed esperta di design industriale ed ergonomia. Chaudhari però, non aveva mai avuto a che fare con controller ma questo, l’ha aiutata a entrare nel team, visto che la sua idea non era condizionata da scelte di design e funzionalità di terzi.
Chaudhari non cominciò la progettazione del controller da zero, ma è stata aiutata dal direttore creativo di Xbox Horace Luke, fornendole alcuni schizzi e dei prototipi dei circuiti di base. Questi circuiti, però, erano grandi, ingombranti e soprattutto erano stati stampati su un’unica pista che di certo non facilitava la creazione di un prodotto maneggevole e delle dimensioni ridotte, al contrario del Dualshock di PlayStation che prevedeva un circuito stampato su due piste differenti e poi sovrapposte per salvare spazio, creando di conseuenza un pad più piccolo.
La stessa Chaudhari cercò di replicare il progetto di Sony, ma trovò moltissima difficoltà nel lavorare con il produttore degli stessi circuiti Mitsumi, che ha rifiutato di lavorare con Microsoft, forse perché non giapponese ma americana. Questo episodio non scoraggiò il team Xbox che continuò a lavorare al progetto, creando le caratteristiche che ancora oggi ritroviamo nei moderni pad (stick analogici non paralleli, la disposizione dei tasti A, B, X e Y e molto altro).

Ma il problema non fu tanto il dover implementare delle sostanziali novità nel mondo dei pad per console, ma la dimensione: molti potranno sostenere che le dimensioni non contano, ma il popolo orientale la pensa diversamente. Infatti la divisione Microsoft Japan, al contrario del resto del mondo, disprezzava univocamente il controller; si pensa che abbiano anche consigliato ad alcuni sviluppatori giapponesi di non creare titoli per quella console se prima le dimensioni del controller non fossero state modificate, creando non pochi problemi alla casa di Redmond. Per questo, Chaudhari fu inviata, insieme a parte del suo team, nella terra del sol levante per riuscire a studiare e progettare le modifiche in base alle esigenze del mercato nipponico.
Al suo ritorno in America, però, non fu soddisfatta dei test effettuati, anche perché l’interprete giapponese era totalmente contrario al Duke, odiandolo con tutto il cuore e, secondo Chaudhari, aveva sicuramente omesso alcuni particolari per la realizzazione di un pad migliore; inoltre, la maggior parte delle lamentele erano rivolte alla grandezza del controller, cosa che ovviamente il team Xbox non si aspettava minimamente.
Ma anche se i risultati del test diedero esisto negativo: il 15 novembre 2001, in America, uscì l’Xbox e il pad contenuto nella confezione era proprio il Duke, senza alcuna sostanziale modifica nella forma. In Giappone, però, visti i risultati totalmente negativi, i progettisti industriali di Microsoft, crearono un Controller S, esclusivo per il mercato nipponico che uscì qualche mese dopo insieme alla console. Questo nuovo joypad era molto più piccolo rispetto al Duke originale (circa i due terzi) e apportava alcune modifiche, come la distanza e la disposizione di alcuni tasti o il loro colore.
Il lancio di questo nuovo controller ha avuto moltissimo successo rispetto al Duke, visto che la maggior parte degli utenti si lamentò della grandezza e della scomodità, e fu per questo motivo che ben presto il Duke, che si trovava all’interno delle confezioni delle console, furono rimpiazzati da questo nuovo modello.
Chaudhari è comunque orgogliosa del lavoro fatto, anche se nel giro di pochi mesi il suo controller, dopo moltissimi test e ricerche, è stato “cestinato” da Microsoft per fare spazio al Controller S. Questo perché ha lasciato un segno indelebile sullo stile e sull’ergonomia dei pad Xbox: basti pensare agli stick analogici che oggi come oggi sono un segno distintivo dei controller Xbox.




Microsoft Mixer pronto a rivaleggiare con Twitch

Microsoft Mixer, piattaforma fondata nel 2016 dalla omonima azienda, è una validissima alternativa a Twitch, con una possibilità di intrattenere il pubblico molto più elevata e una qualità video praticamente paragonabile all’ormai famoso portale Amazon. Grazie all’ultimo aggiornamento, è stata aggiunta un ulteriore funzione, la quale permetterebbe, se ben implementata e pubblicizzata, alla nuova piattaforma di poter competere con tutte le maggiori piattaforme streaming esistenti.
Ma in cosa consiste questa funzione? Ebbene, durante lo streaming di un gioco tramite Mixer, è possibile consentire a uno spettatore di assumerne il controllo, utilizzando l’emulazione del gamepad su schermo o il proprio controller collegato a un PC. Gli utenti che prenderanno possesso, non saranno in grado di usare il tasto home per uscire dal gioco o per controllare la console; potranno soltanto giocare o da soli o con lo streamer di turno per superare livelli particolarmente difficili.
Oltre a questo, l’ggiornamento è intervenuto su altri aspetti: il  browser Microsoft Edge è stato reso più semplice, facilitando la navigazione, nuovi strumenti di filtro per i club, e infine, la risoluzione 1440p è supportata sia su Xbox One S che su Xbox One X, oltre a una nuova opzione che consente di bilanciare l’audio del gioco con la musica di sottofondo in esecuzione in una playlist.




Microsoft tra Xbox, PC… e ravioli cinesi

Il CEO di Microsoft, Satya Nadella, durante la Morgan Stanley Technology, Media and Telecom Conference a San Francisco,  ha dato una nuova chiave di lettura riguardo l’attività dell’azienda americana per quanto concerne il settore videoludico. Nadella ha posto l’accento sull’operato di Microsoft e sul fatto che stia cercando di produrre un servizio a misura di videogiocatore, che guarderà al futuro sia delle console, possedute dalla stragrande maggioranza dell’utenza, si del  PC Gaming, che coinvolge sempre più persone. Il CEO ha anche parlato dell’importanza del ruolo ricoperto da Xbox Live come servizio di abbonamento, definendolo una grande opportunità.

Nadella si ritiene anche soddisfatto e molto felice riguardo la dimensione del brand Microsoft nel mondo videoludico, dandone pari merito a Xbox e al PC, asserendo:

«Quel che molti dimenticano, è che noi siamo i proprietari di entrambi.»

Il discusso servizio di abbonamento Xbox Game Pass sarà l’inizio di una fase di transizione, sostiene Nadella, in cui console e PC saranno sempre più importanti:

«È questa la direzione nella quale stiamo andando, grazie agli abbonamenti Game Pass ma anche a Mixer, che sta crescendo molto velocemente, in termini di streaming ma anche con il brand che viene portato in giro per il mondo con gli eSport dei nostri giochi. Abbiamo vari punti su cui far leva. Ma fondamentalmente, abbiamo una forte eredità derivante dal fatto di essere sul mercato del gaming da vari decenni e dal fatto di essere capaci di di poter agire in più mercati differenti»

Parlando sempre di Game Pass, Microsoft ha annunciato una nuova line-up di titoli che verranno inclusi a breve nel servizio in abbonamento, tramite un divertente spot pubblicitario in cui si farà riferimento a un paragone un po’ bizzarro ma alquanto veritiero.

Vediamo se questo video convincerà anche voi ad acquistare il servizio di abbonamento GamePass, che per 9,99 € al mese, vi darà accesso a circa 100 titoli tra i più e meno recenti, compreso il tanto atteso Sea of Thieves.