Nioh: Drago del Nord (DLC)

È passato ormai qualche mese da quando vi abbiamo lasciato la nostra primissima recensione riguardo Nioh e la sua patch 1.05 e non possiamo certo dire che i nostri punti di vista e criteri non siano cambiati. Il dlc Drago del nord e la nuova patch 1.09 hanno stravolto sicuramente diversi aspetti del gameplay: ma siamo sicuri che ciò abbia apportato giovamenti al gioco?

Una ventata di novità

Il primo dlc Drago del nord ci invierà nella regione di Oshu, nel quale il sovrano Masamune Date (Jena Plissken, per gli amici) non disdegnerà di palesare quanto il suo sguardo sia frutto di doppiogioco. Da parte del Team Ninja reputo sia una scelta molto coraggiosa rendere giocabile la nuova espansione, strettamente collegata al finale, solo una volta terminata la storia: mossa commercialmente rischiosa, che fa intendere di aver le spalle molto larghe e nello stesso tempo lungimiranza riguardo la storyline dei prossimi dlc. Il nuovo contenuto contiene 3 nuove mappe, 4 boss (di cui solo uno particolarmente ispirato), armi e armature inedite, diversi yōkai ( con la straordinaria partecipazione di Las plagas di RES 4), la possibilità di tenere in battaglia fino a 2 spiriti guardiani potendo scegliere di cambiarli a proprio piacimento e, infine, la nuovissima tipologia di spada Odachi, un lunghissimo spadone scalante principalmente sulla statistica forza che ci divertirà non poco col suo moveset AoE. L’espansione ha un livello di difficoltà nettamente più alto rispetto al resto del gioco, fattore che può potenzialmente portare frustrazione a chi abbia appena finito La via del samurai.

Non è tutto Amrita ciò che luccica

Ritornando alle patch, non si può certo dire che il Team Ninja non risponda ai feedback, poiché i cambiamenti al fine di appoggiare la fanbase non sono stati pochi. Un pesante lato negativo che ha afflitto Nioh è stato l’annullamento del contesto gdr e della difficoltà a causa dell’estrema facilità della farm di Amrita: i giocatori potevano raggiungere il level cap (il livello 750) in una manciata di giorni grazie al giusto equipaggiamento, e ciò sottraeva quel sapore di individualità e sfida nelle missioni. Oggi un simile eclettismo è stato ridimensionato abbassando il level cap a 400 e aumentando sensibilmente le Amrita necessarie per livellare, sono state nerfate parecchie armi ed eliminato tutto ciò che boostava il nostro William fino a renderlo il maestro del Giappone in poche ore di gioco. Ricalcando il fattore difficoltà, sono ben lieto di aver trovato La via del demone (o NG++,  a voler semplificare). Ora finalmente le missioni sono tarate per un livello superiore al nostro cap, rendendo tutto estremamente ostico e realmente minaccioso anche nel caso in cui il personaggio sia buildato glass cannon; i vecchi yōkai verranno buffati al punto che questi potranno shottare chiunque ostenti una difesa leggera; d’altro canto si potranno trovare equipaggiamenti ben superiori al livello 150, riequilibrando il tutto.

Pvp? No grazie

Parlando invece di come non si strutturi un pvp, il Team Ninja ha pienamente centrato il bersaglio: le arene sono strutturate in modo da ottenere un grado di valutazione nella classifica che va dal D- al AAA, non valutando, invece, il vero combat rating durante il matchmaking: questo ha portato a pesanti dislivelli duranti gli scontri, elemento che, miscelato con la componente lag, rende il tutto così superficiale e mal pensato. La patch 1.09 ha portato dei miglioramenti nel versante pvp non ancora appaganti, ma il Team Ninja ha dimostrato di prediligere i litri di caffè piuttosto che dormire sacrificando le ore notturne a favore del soddisfacimento della fanbase: questo rende ben speranzosi riguardo al fatto che presto troveranno il giusto equilibrio.

Aspettative

In conclusione, si può intuire che il prodotto non verrà abbandonato presto poiché a ogni aggiornamento si percepisce quel sentore di freschezza che allontana la noia e la ripetitività. Ogni patch fa emergere quanto la casa di sviluppo sia minuziosa e sia attenta ai particolari, rielaborando, se necessario, i propri fallimenti al fine di farli rivivere di luce propria. Si ha la percezione platonica di sentirsi presi per mano, mai abbandonati, supportati in risposta a ogni possibile critica riguardo il gioco; il team Ninja in questi mesi non ha fatto altro che alimentare la mia speranza nel giusto riequilibrio del titolo, pregustando già da oggi quello che probabilmente diverrà Nioh domani.




The Surge – Attenzione, Il Potenziale C’è! Al Prossimo Giro Però

Dopo Lords of The Fallen, The Surge è da considerarsi come il titolo di maturità per Deck 13. Nonostante l’evidente richiamo al titolo originale, questo soulslike si distacca abbastanza da avere una propria identità, anche se non tutto va nel verso giusto.

In un mare di ruggine

In un futuro prossimo il mondo è in pericolo: riscaldamento globale, cambiamenti climatici, crisi finanziaria e altri fatti poco piacevoli, rendono C.R.E.O. Industries l’unica in grado a mettere una pezza a quanto sta accadendo. Tutto parte dai suoi Esoscheletri, non solo in grado di migliorare le abilità umane ma anche di rimettere in piedi gli infermi, come il nostro protagonista, Warren. Il progetto per salvare il mondo ha inizio ma, già al nostro risveglio, capiamo che non tutto è andato nel verso giusto.
Già a partire dall’incipit si può intuire come la trama non sia il punto forte del titolo: i richiami ad altri film e videogiochi di fantascienza sono palesi, ma sono aggrovigliati in modo da non intrattenere il giocatore, al punto che, passata qualche ora, potrebbe non importarvi più di raccogliere gli audiolog in giro per la mappa per conoscere ulteriori dettagli sulla storia. Anche i personaggi di certo non aiutano: Warren, il nostro protagonista, nonostante si trovi fin da subito invischiato in una situazione fuori controllo, con zombie armati di esoscheletri pronti a ucciderlo in qualunque momento, appare assolutamente avulso da quanto stia accadendo, come se stesse partecipando forzatamente alla trama. I comprimari sono addirittura peggio sceneggiati, e anche sulla storia di questi pare si sia fatto abbastanza per mantener vivo il disinteresse: non pare rilevante il perché si trovino lì e, nonostante i dialoghi a scelta multipla, non sembrano aver nulla da dire, a parte consegnare alcuni incarichi secondari che, se completati con successo, porteranno il nostro inventario ad arricchirsi.
Si ha come la sensazione che molte cose siano soltanto abbozzate: ad esempio, potremmo attaccare dei npc pacifici o delle guardie non ostili, che ovviamente risponderanno come si deve ma, dopo il reset del gioco, dopo una morte o dopo essere entrati nel MadBay, l’hub centrale, tutto tornerà come prima, come se nulla fosse successo. Quindi niente sistema di reputazione, il che ci permette di fare ciò che vogliamo senza conseguenze. Anche riguardo il MadBay ci sono buchi di sceneggiatura non da poco: cos’è? Perché quando ci entriamo tutto il mondo di gioco si resetta? Perché respawniamo lì? Domande a cui non troveremo risposta: quest’hub sembra essere presente semplicemente “perché deve essere così”, senza nessuna contestualizzazione nella trama o nella lore.
È un vero peccato, perché bastava davvero poco a creare una storia che legasse in qualche modo il nostro peregrinare da una zona all’altra del mondo di gioco. Il paradosso è che The Surge finisce proprio quando le cose cominciano veramente a farsi interessanti.

1000 modi per morire

Fortunatamente i pregi sono altri e diciamolo subito: The Surge è un gioco cattivo, tanto.
Rispetto al titolo From Software, ogni nemico base può farvi molto ma molto male, a tal punto che ogni combattimento diventa una vera sfida. È proprio questa la parte più riuscita del titolo: ogni scontro ha qualcosa da dire e bisognerà essere molto tattici se si vuole sopravvivere. Tutto è all’insegna della familiarità nei colpi, tra leggeri e pesanti, la schivata simil Bloodborne, eccezion fatta per la parata, la cui posa non consente al personaggio di muoversi e che, a colpo ricevuto, consumerà una delle tre barre presenti, quella della stamina; la barra della salute e la barra dell’energia completano il quadro, dove quest’ultima può essere impiegata, una volta raggiunta una certa carica, per eseguire colpi finali, ricaricare la salute con appositi iniettabili e potenziare gli attacchi del Drone, che sarà una risorsa utile non solo come aiuto offensivo ma anche per aprire alcune porte altrimenti inaccessibili. È possibile anche potenziarlo lungo il corso dell’avventura e sceglierne il tipo d’attacco una volta selezionato il bersaglio. La sua utilità diventa fondamentale qualora ci si ritrovi davanti un gruppo di nemici; grazie al drone potremo colpirli e attirarli singolarmente, sfruttando la basilare IA dei nemici. Proprio il sistema di targeting si presenta innovativo: è possibile distinguere e selezionare i diversi punti da colpire, tra arti, testa e corpo colpendo solo quel singolo punto. Diventa importante studiare un minimo l’avversario, capire se ci sono parti non ricoperte dall’armatura e quindi vulnerabili oppure, al contrario, selezionare una parte dell’equipaggiamento, danneggiarla e, attraverso un colpo finale, ricevere un loot. I cadaveri li rilasciano abbastanza spesso e sarà possibile visionarli ancor prima di raccoglierli. Ogni nemico rilascia rottami da utilizzare per potenziare la batteria nucleare, le armi e le armature e addirittura crearle, ma solo se abbiamo a disposizione gli schemi ingegneristici. Oltre ai rottami, per poter costruire servono determinati oggetti: ogni pezzo d’equipaggiamento utilizzato consuma una certa quantità di energia quindi è essenziale potenziare la batteria nucleare per poterne utilizzare uno migliore. A livello estetico, l’equipment in sé non è personalizzabile, soprattutto durante i potenziamenti, essendone modificabili solo le caratteristiche.
Sono presenti anche dei perks attivi e passivi: quelli attivi, chiamati iniettabili, permettono soprattutto di ricaricare la salute o, per esempio, di potenziare gli attacchi, mentre quelli passivi possono aumentare le nostre statistiche ma, ogni qualvolta inseriti nel nostro equipaggiamento, consumeranno anch’essi l’energia della batteria.
Come nei Souls si perderanno tutti gli scarti tecnologici in nostro possesso in caso di morte e, ovviamente, anche qui sarà possibile recuperarli, ma con sostanziali differenze: abbiamo un tempo limite, dopodiché gli scarti verranno persi del tutto. Per aumentare il tempo a disposizione basta eliminare qualche nemico che si interpone tra noi e i nostri scarti.
Insomma, come potete aver capito è un titolo complesso e che migliora piccoli aspetti dei classici soulslike, a cominciare dalla possibilità di mettere in pausa il gioco, ed è fornito di menu molto chiari e intuitivi fino agli scontri con i boss. Anche i boss infatti regalano quel qualcosa in più a livello di gameplay e bisognerà studiarli con attenzione, abbastanza da rimanere uccisi diverse volte prima di sconfiggerli. A dir la verità i pattern d’attacco non sono molti ma il sapere che ogni colpo potrà eliminarvi senza pietà non rende più facile conoscerli. Tutti hanno un punto debole ma non sarà visibile immediatamente e, a differenza di altre boss fight, qui non è importante solo quando colpire, ma anche dove. Nonostante ciò, i boss si presenteranno solo come grossi ostacoli da superare. Non c’è emozione nell’affrontarli, nessun brivido particolare, manca quel “non so che” perché un titolo di questa categoria possa fare il salto di qualità.
Anche le mappe, in qualche modo, hanno qualcosa da dire nel bene e nel male: abbastanza grandi e articolate, con tanti passaggi di collegamento e le classiche scorciatoie tra il nostro hub e alcune zone d’interesse, necessitano di un’attenta esplorazione, in quanto è possibile trovare oggetti rari o nuove aree che non pensavamo esistessero. Una caratteristica fondamentale è che alcuni accessi saranno disponibili solo quando il nostro personaggio sarà a un livello tale da potervi accedere e, di conseguenza, spostarsi tra le varie mappe liberamente, in stile Dead Space. Ma anche qui, per ogni Yang esiste anche un Yin corrispettivo: la grandezza e l’articolatezza delle mappe porta a una certa dispersività, disorientando il giocatore e diventando non di rado frustrante, specie a causa della grande somiglianza fra molti ambienti che spesso mancano di elementi distintivi.

Déjà vu

Sul piano tecnico, il gioco si presenta abbastanza bene, con modelli poligonali per i personaggi più che buoni, come del resto gli oggetti equipaggiabili e gli oggetti di scena, e buoni filtri che regalano all’occhio una pulizia generale niente male; meno felici le texture, di qualità altalenante. Trovano risalto anche l’utilizzo degli effetti speciali, bellissimi da vedere soprattutto in aperto combattimento che lo trasformano in un balletto coreografico pieno di luci, scintille e onde d’urto.
Le poche cutscene sono ben realizzate anche se con qualche calo di frame di tanto in tanto mentre le parti giocate rimangono fluide, ancorate ai 60fps anche nei momenti più concitati. Sono previsti diversi setup grafici che rendono il gioco adattabile a tutte le macchine.
Purtroppo, il lato a colpire meno è proprio la realizzazione artistica: per quanto si sia cercato di dare un’identità visiva al titolo, non si può fare a meno di notare eccessive somiglianze con quanto visto in altri titoli – cinematografici e non – tanto da perdere interesse per i dettagli, che sono anche tanti ma che non invogliano a soffermarsi. Tutto sa già visto, soprattutto per via delle Exosuit, e non ci sono scorci mozzafiato e memorabili come nei titoli FromSoftware.
Fortunatamente il comparto audio rialza un po’ l’asticella con ottimi effetti sonori, dai singoli colpi fino ai vari suoni dei mezzi meccanici sparsi per tutta la mappa. Tutto è stato riprodotto con qualità e attenzione al dettaglio.
Anche la musica trova nel suo utilizzo, o meglio nel suo non utilizzo, una scelta azzeccata in quanto la maggior parte delle volte saremo circondati solo dai rumori ambientali che aumentano in maniera drastica l’immedesimazione di trovarsi in una landa distrutta, desolata e ostile.
Il doppiaggio, inglese, è probabilmente la cosa che colpisce meno nella parte sonora: non c’è enfasi, come se si sia fatto il proprio e basta. Ricordo che ci troviamo in una base distrutta, tossica, con macchine assassine eppure, a detta dei personaggi, sembra di trovarsi all’interno di una libreria il giovedì pomeriggio.

Commento finale

The Surge è a conti fatti un titolo riuscito a metà: se, da un lato, l’idea di portare un soulslike nel mondo della fantascienza è ottima, allontanando l’ombra di Dark Souls, dall’altro il gioco risulta povero di idee, e quelle che ci sono a volte sono poco approfondite. Se i combattimenti posso essere definiti buoni tutto il resto è segnato dal compromesso, non solo narrativo ma anche artistico portando questo titolo nel limbo dei giochi di cui non si avrà memoria. Il titolo ha paradossalmente una sua identità, è subito riconoscibile, ma nonostante ciò riesce a risultare al contempo anonimo. Le potenzialità ci sono tutte e magari in un secondo capitolo, dove si sarà ascoltato il parere della critica, troveremo un vero rivale dei titoli FromSoftware.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Darksiders III: analisi del gameplay

Dopo l’annuncio ufficiale, è arrivato anche il primo gameplay di Darksiders III, terzo capitolo della saga che vede come protagonisti i Cavalieri dell’Apocalisse. Sotto la guida artistica di Joe Madureira, la serie Darksiders è riuscita pian piano a conquistare pareri favorevoli da parte di critica e pubblico grazie a uno stile unico nel suo genere. Dopo Guerra e Morte, ora tocca a Furia cercare di riportare ordine nel caos tra Paradiso e Inferno.
Il video di IGN mostra un titolo ancora in pre-alpha ma capace già di far chiarezza sulle direzioni intraprese riguardo il gameplay e il comparto tecnico-artistico.
Vediamo più nel dettaglio quali sono e quali potrebbero essere le novità apportate.

Io sono Furia

La caratteristica essenziale in un titolo che prevede più protagonisti è la loro caratterizzazione, sia estetica che narrativa. Per ora possiamo osservare solo il primo aspetto, in quanto ancora si sa poco o nulla del background narrativo di Furia. I primi elementi che saltano all’occhio sono la sua armatura (anche se si prevede una certa personalizzazione dell’equipaggiamento) e il suo look, con lunghi capelli in perenne movimento, che ci permettono di farci un’idea del suo carattere: una donna forte, una guerriera, quasi una femme fatale, con un possibile passato burrascoso.
Salta inoltre all’occhio il suo stile di combattimento, che sembra unire le peculiarità dei protagonisti precedenti: l’agilità di Morte e alcuni moveset di Guerra nonostante la nostra eroina impugni un lunga frusta invece di Divoracaos, lo spadone del cavaliere del destriero rosso.

Nomen non omen

Passando alla parte principale del video, ovvero il puro gameplay, notiamo delle caratteristiche familiari: un mondo vasto e aperto da esplorare e soprattutto una vasta gamma di nemici da affrontare.
Il periodo sembra contemporaneo a quello che ha visto Morte protagonista nel secondo capitolo, con Guerra nel frattempo imprigionato dall’Arso Consiglio. Le vicende quindi si svolgerebbero prima di Darksiders, il che sembra confermare il progetto iniziale: un capitolo dedicato a ognuno dei Quattro Cavalieri e uno finale, diretto sequel del primo titolo.
Le mappe mostrateci ricalcano quanto già visto, ma con la novità di poter sfruttare piccoli passaggi di collegamento tra le diverse aree. Questo è dovuto alla caratteristica di Furia di potersi rannicchiare per potersi intrufolare in condotti o cunicoli vari, il che si presterebbe a sezioni di natura stealth, ma questa è solo una congettura.
Ovviamente è la frusta la vera protagonista: in questo video il suo moveset sembra abbastanza limitato, sicuramente ampliabile, ma con caratteristiche che non solo la rendono adatte a fendere, ma anche utile a fini esplorativi e di mobilità come, per esempio, il potersi aggrappare a sporgenze, dondolare e raggiungere la parte opposta. Un po’ come Indiana Jones.
In aperto combattimento i nemici sono tanti e diversi tra loro, per cui servirà un approccio specifico. L’agilità di Furia pare essere ottimizzata per effettuare rapide schivate dato che non sembra esserci alcun modo per pararsi. Per adesso i combattimenti mancano di quella frenesia sfoggiata dai primi capitoli, avvicinandosi più verso caratteristiche dei Souls in tal senso. Altra caratteristica interessante è che i nemici sembrano essere coerenti con l’ambiente di gioco. Ad esempio, creature simil-granchio le troveremo soltanto in prossimità di ambienti ove è prevista acqua, e insetti solo vicino ai propri nidi, ma servirà ulteriore approfondimento da questo punto di vista.
Purtroppo non sono state fatte vedere altre armi e soprattutto le abilità magiche della protagonista, cosa di cui si ha certezza anche dalla presenza di una seconda barra di colore azzurro oltre a quella dedicata alla vita.
Alla fine del video ci sarà anche una boss fight, Sloth – il Signore delle Mosche. È una lotta in più fasi e con la possibilità di stordire l’avversario. Si nota una certa tendenza a rendere il tutto più coreografico ma in alcuni momenti la telecamera di certo non aiuta.

Bello, ma non bellissimo

Ricordando che si tratta pur sempre di una pre-alpha, il lato artistico non sembra discostarsi tanto dai precedenti capitoli. La paura più grande è che per via della mancanza di direzione da parte di Joe Madureira, non più presente nel nuovo team di sviluppo, si perda un po’ di quella magia che ci aveva accompagnato sulla Terra post-Apocalisse. Per quanto si è potuto vedere, la coerenza artistica è presente, forse troppo, lasciando l’impressione che magari si sarebbe potuto osare un tantino.
Il salto generazionale sicuramente si vede: la mole poligonale è certamente aumentata, così come sono migliorate la risoluzione di texture e l’utilizzo di shader e materiali. Purtroppo non si ha parvenza di luci dinamiche ed effetti post-processing. Il risultato è che, se da un lato appare sicuramente più bello da vedere nel complesso, dall’altro si mostra il fianco a deficit sicuramente dovuti alla prematurità della release, ma anche al basso budget messo a disposizione per Gunfire Games, sviluppatori del titolo.
Da migliorare sicuramente anche il comparto animazioni, a volte un po’ slegate tra loro, e la telecamera, che a volte manca il bersaglio e varie compenetrazioni poligonali. Ma questi sono problemi sicuramente dovuti alla gioventù della release.

In conclusione

La visione del primo gameplay di Darksiders III ha lasciato più dubbi che certezze. Sicuramente lo sviluppo travagliato, il fallimento della casa madre (THQ) e innumerevoli problemi finanziari stanno minando un po’ il progetto. Ma la fine del 2018 (periodo previsto di rilascio) è ancora lontana, per cui rimaniamo in attesa di novità e miglioramenti già a partire dall’E3 di giugno.




Ecco il primo trailer di Code Vein

È stato pubblicato poche ore fa il primo trailer di Code Vein, il gioco firmato Bandai Namco ambientato in uno scenario post-apocalittico nel quale alcuni Revenant dovranno scoprire il mistero dietro il disastro che ha portato la civiltà alla rovina. Il trailer mostra un primo approccio al gameplay, che pare da subito simile a quello di un Soul.

Code Veinaction RPG in cui i protagonisti avranno a disposizione un’arma chiamata Blood Veil atta a succhiare dai nemici il sangue di cui si nutrono i Redidivi per sopravvivere, sarà distribuito nel corso del 2018, ma le piattaforme su cui uscirà non sono ancora state annunciate. Bandai Namco, probabilmente, svelerà qualche altro video sul gameplay durante l’E3 di quest’anno.




Svelato il misterioso titolo dietro #PrepareToDine

Qualche giorno fa abbiamo parlato di un misterioso trailer caricato sul canale dei Bandai Namco.
Con un paio di giorni di anticipo, il magazine giapponese Famitsu ha svelato il titolo dietro al misterioso gioco. Smentite le ipotesi più gettonate: non si tratta infatti di Dark Souls, né di un gioco ispirato a Tokyo Ghoul.
Il titolo oggetto del teaser è invece Code Vein, a cui sta già lavorando (si parla di uno stato di completamento del 35%) il team che ha curato la serie God Eater.
Secondo quanto riportato da FamitsuCode Vein sarà un RPG Action con motore Unreal Engine 4 e ambientato in un futuro in cui l’umanità sta svanendo. Protagonista sarà un vampiro della razza dei Revenant dotato di abilità sovrannaturali. Questi sarà accompagnato da un altro personaggio, non è dato sapere se giocabile o meno.

Gli antagonisti da fronteggiare saranno i “Lost“, dei Revenant che hanno subito una trasformazione per non essere riusciti a nutrirsi sufficientemente di sangue.
Il titolo uscirà nel 2018 e utilizzerà l’Unreal Engine 4, motore grafico sul quale si sta lavorando per sviluppi grafici improntati al fotorealismo.
Per ulteriori dettagli sul titolo bisognerà attendere il prossimo 20 aprile, giorno in cui Bandai Namco svelerà tutte le notizie sul gioco.




#PrepareToDine : il nuovo, misterioso Teaser Trailer di Bandai Namco

Bandai Namco ha appena caricato un teaser trailer sul proprio canale Youtube. Il trailer dovrebbe riferirsi a un nuovo progetto che sta impegnando la casa nipponica.

Alcuni utenti parlano di un riferimento al manga Tokyo Ghoul per la maschera che indossa la protagonista del video e al famosissimo RPG Dark Souls: Prepare to Die, a cui si riferirebbe la frase finale del video, “Prepare to Dine”.

Il mistero sarà svelato molto presto, visto che Bandai Namco ha detto che avremo più informazioni il 20 aprile.




Gamecompass #3 – Parte 1




Drago d’Oro 2017

Si è conclusa al Guido Reni District la quinta edizione del Premio Drago d’Oro, organizzato dall’AESVI (Associazione Editori e Sviluppatori Videogiochi Italiani).
Tantissimi i videogiochi in gara per ben 23 categorie (19 internazionali, 4 riservate agli italiani, più 1 premio assegnato dal pubblico votante. Senza contare che è stato assegnato anche un premio alla carriera). L’atmosfera è quella delle grandi occasioni: sul red carpet si vedono passare i primi ospiti di rilievo, da Hajime Tabata, game director e mente di Final Fantasy, a Fumito Ueda, in concorso con il suo The Last Guardian, per il quale è presente anche Takeshi Furukawa, composer della colonna sonora.
Sul palco, Rocco Tanica e Lucilla Agosti hanno il compito di condurre la serata e annunciare i premiati.
Poco dopo il nostro ingresso in sala, il countdown sul grande schermo ci annuncia che mancano un pugno di minuti all’inizio della cerimonia. Poco tempo da sfruttare al meglio. L’idea iniziale era quella di andare al bar e scolare tutto il whisky che potevamo; ma nella prima fila centrale scorgiamo Hajime Tabata, seduto placidamente in attesa dell’inizio della cerimonia e decidiamo di puntare dritti su di lui. Riusciamo a chiedergli una rapida intervista prima che la ragazza dello staff possa fermarci: Tabata non parla l’inglese, né tantomeno l’italiano – ha accanto a sé un interprete, un Gavin Poffley dal capello platinato, giubbotto in stile Ryan Gosling in Drive e marcato accento britannico – ma comprende e con garbo fa cenno alla ragazza dello staff del Drago d’Oro che non c’è problema, scambierà volentieri due chiacchiere con noi. Gasati dal primo successo, ci ritentiamo con Fumito Ueda, ma con meno fortuna: lo troviamo senza interprete e il nostro giapponese è un po’ scarsino per chiedergli di approfondire poetica e metafisica in The Last Guardian, ma anche per una semplice battuta sul Drago d’Oro, perciò ci contentiamo di rubargli un selfie mentre scorrono gli ultimi 40 secondi, dopodiché torniamo ai nostri posti e ha inizio la serata.

Dopo i saluti di Paolo Chisari, Presidente dell’AESVI, promotrice della serata, la premiazione ha inizio con l’unico premio “fuori concorso”, quello alla Carriera assegnato a Fumito Ueda, il quale, sul palco, ringrazia con laconicità rispettosa, e dichiara di non star attualmente lavorando a un nuovo gioco ma di star scegliendo fra più progetti elaborati durante la lunga gestazione di The Last Guardian. Aggiunge inoltre di essere contento per il premio anche perché è il primo a essergli assegnato alla carriera; e, diciamola tutta, per un autore neanche cinquantenne con tre soli giochi (seppur di grandissimo pregio) all’attivo può effettivamente risultare un po’ forzato: d’altro canto le altre categorie per le quali TLG ha ottenuto la nomination vedevano concorrenti probabilmente più meritevoli sotto quegli specifici aspetti e chiedergli di venire a ritirare il premio in vece di Trico sarebbe stato uno scarso incentivo alla sua venuta, dunque in fondo va bene così, considerando che una presenza come la sua fa bene a un Premio che si spera possa ancora crescere e che comunque il livello di autorialità delle tre opere di Ueda fa sentire meno in colpa in rapporto all’età non veneranda del game designer.
Si entra dunque nel vivo della premiazione e, come nel caso di ogni award, potremmo intitolare quanto segue – parafrasando i CCCP – “affinità e divergenze tra i compagni giurati e noi”, ma per semplicità ci limiteremo a dividere canonicamente i premi per categorie e a trattarli secondo l’ordine di assegnazione.

Già da questo primo premio sono partite le prime piccole divergenze con la giuria: se lo screenplay dell’ultimo Uncharted si mantiene sempre a livelli alti in termini di scrittura di genere, pur non risultando il migliore della tetralogia, e se Mafia III gode di buoni dialoghi, valorizzati soprattutto da un buon lavoro di doppiaggio che caratterizza i personaggi anche grazie a inflessioni e accenti, i due titoli che più incontravano il mio gusto narrativo erano gli unici due che presentavano personaggi “muti”. Inside è probabilmente il titolo che a parer mio meglio di altri unisce armonia di narrazione, gameplay e invenzione ma, anche per la sua natura di platform-puzzle game, non vede nella sceneggiatura l’elemento portante. Rimanevano in ballo Virginia e Firewatch, due giochi molto diversi per tecnica di racconto. Di Virginia ho apprezzato non solo la scrittura, ma anche il metodo narrativo. Una mistery-story ben gestita, con ritmi degni delle migliori serie tv di genere e che ha meritato il Writers’ Guild Awards. Sia chiaro, Firewatch non era un concorrente da meno, gode una scrittura degna dei grandi narratori americani: dialoghi secchi à la Richard Brautigan mentre si respira la polvere terragna dei sentieri di Cormac McCarthy, il tutto incorniciato nella durezza paesaggistica di Steinbeck e Fenimore Cooper. Alcuni buchi di sceneggiatura mi portano a vedere in Virginia una storia più compiuta e curata nella sua globalità, e per questo avrei assegnato al titolo di Variable State, preferendolo a un Firewatch comunque meritevole.

Una delle categorie di più difficile valutazione, partendo dal presupposto che ancora oggi si discute riguardo cosa si intenda esattamente per “gameplay”, concetto che va oltre la mera “giocabilità”. Credo che, per esigenze di semplicità, in questo caso si sia fatto riferimento a questa accezione, altrimenti credo che avremmo trovato altre nomination. Per quanto il sistema di controllo di Dark Souls III può essere buono in rapporto alla complessità di gioco, i problemi di telecamera (amati dai soulslikers, che ne vedono ormai una peculiarità) non tendono a farci dire che l’opera splendida e sfidante di Miyazaki sia un modello di gameplay (e questo pare far parte della sfida, sempre sentendo i soulslikers più incalliti). Cosa che invece accade certamente con Uncharted, titolo con un sistema di gioco ormai ampiamente collaudato e che probabilmente non meritava il premio proprio per questo, considerate le pochissime innovazioni rispetto ai 3 precedenti capitoli (dal rampino a qualche variazione nel sistema di combattimento passando per gli elementari cambi di tasto). Restano dunque gli altri 3 titoli, non a caso 3 fps, giocabilissimi, intuitivi, estremamente ben fatti. Se Doom si rifà a una modalità di gioco più classica, Titanfall 2 ha un’interessantissima modalità single player che lo renderebbe un buon candidato se non fosse per l’ultimo concorrente: il vorticoso Overwatch, vincitore di numerosissimi premi internazionali, è di certo il fps più innovativo, capace di rinvigorire il concetto di Arena Shooter come non si vedeva da anni e di garantire divertimento, godibilità, adrenalina e alta qualità di gioco, e la scelta dei giurati non può che trovarci in questo caso più che concordi.

Ricordo quando, nel primo Uncharted: Drake’s Fortune, fermavo la levetta sinistra per girare di 360° la telecamera con la levetta destra per ammirare le scogliere e i rompicolli di rocce che precedevano la fortezza, o le luci del porto illuminare il Bosforo nella notte di Istanbul nel secondo capitolo, per non parlare delle visioni lisergiche di Drake’s Deception prima delle meravigliosa architettura della città perduta. Dal punto di vista grafico, il lavoro di Naughty Dog su Uncharted è come il vino buono, migliorato di anno in anno in una maturazione sapiente e ben ragionata. Basti pensare alle sole sequenze animate, nei primi tre capitoli basate su video pre-renderizzati mentre in questo le troviamo in tempo reale. Non per nulla Digital Foundry, in un report d’analisi sul comparto grafico di Uncharted 4 ha affermato che “Uncharted 4 delivers the best image quality we’ve seen in a console game to date”.

La scelta qui deve essere stata davvero dura: se non bastassero nomi internazionali del calibro di 65daysofstatic, band post-rock che ha curato la soundtrack di No Man’s Sky, o composer giovani e talentuosi quali Austin Wintory, già autore dell’OST di Journey e qui impegnato in Abzû, e Mick Gordon (una garanzia in termini di colonne sonore “martellanti”, come ha dimostrato già in Killer Instinct, e i due Wolfenstein, The New Order e The Old Blood), in gara troviamo una delle più grandi quote rosa della musica videoludica, la Yoko Shimomura autrice della soundtrack di Xenoblade, Super Mario RPG e vari Kingdom Hearts e Parasite Eve, qui candidata con Final Fantasy XV. La compositrice giapponese era per me la miglior candidata al pari di Takeshi Furukawa, autore delle musiche di The Last Guardian al quale alla fine è stato assegnato il premio. Difficile dire se fosse questa la colonna sonora più meritevole in mezzo a tanti lavori di pregevolissima fattura; certo è che Furukawa è riuscito a restituire in pieno l’ambiente e i tempi del gioco tramite il sonoro, producendo un’OST straordinaria per la maniera in cui si armonizza alle meccaniche dell’opera di Ueda e che non perde la sua bellezza onirica anche senza il supporto delle immagini.

Questa è una delle poche categorie sulle quali mi pare ci sia poco da discutere: un videogame che consta di tanti personaggi interessanti è Overwatch, e la scelta del robot Bastion mi ha lasciato perplesso (Lucio, Genji, Sombra, Tracer, per dirne alcuni, mi pare abbiano caratteristiche più interessanti); di certo non gode della personalità dell’ormai adulta Emily Kaldwin di Dishonored 2; Lincoln Clay di Mafia III è un personaggio tosto ma che non sfugge ai tipici cliché del genere, come per certi versi il nostro caro Nathan Drake, di cui abbiamo seguito le vicende da un Uncharted all’altro e che ormai conosciamo bene. Potrebbe anche vincere lui in quanto personaggio più definito. Ma credo che pochi potrebbero spuntarla su Trico, personaggio ricco di mitologia nell’aspetto e nella storia, affascinante nel suo progressivo relazionarsi con il bambino monaco, bellissimo nell’insieme a vedere le sue movenze canine armonizzarsi con l’aspetto da grifone, dotato di personalità umanamente animale e animalmente umana al contempo, deuteragonista fra i più interessanti dei videogame di sempre, un personaggio unico, elegante, cesellato nei minimi dettagli, che rappresenta una summa poetica del gusto estetico trasfuso da Ueda in questo suo The Last Guardian.

Fosse per il mio gusto personale in termini di gioco qui avrebbe probabilmente vinto Redout, dato che godo più con gli arcade racing che con i normali giochi di corsa. Ma né il bel gioco di 34BigThings, né il Valentino Rossi di Milestone, né tantomeno il divertente TrackMania Turbo di Ubisoft sembrano poter reggere il confronto con giochi strutturati come F1 2016 e Forza Horizon 3. È il titolo di Playground ad avere la meglio e, considerando le mappe sterminate, i folgoranti paesaggi australiani, la straordinaria resa grafica e l’ottimo sistema di guida, non possiamo che ritenerci concordi.

Categoria piena di nomination di altissimo livello, dal cyberpunk Deus Ex: Mankind Divided al più classico, intramontabile, fantasy offerto da un sempreverde World of Warcraft: Legion o da The Witcher 3: Wild Hunt – Blood and Wine, DLC che vale quanto un gioco completo, fino a Final Fantasy XV, marchio che nella categoria role playing game si conferma ancora una volta una certezza. Ma su questo vincitore, in una prospettiva da pro-gamer, ci sentiamo assolutamente d’accordo, essendo Dark Souls III una delle vette più alte di una saga caratterizzata da una mitologia stratificata, da un gameplay complesso e sfidante, da una scrittura articolata e ambientazioni oscure e strutturate. Dopo l’incetta fatta lo scorso anno al Drago d’Oro da The Witcher 3: Wild Hunt, non si poteva trovare più degno successore.

Cominciamo con lo scartare, per questa categoria, il secondo capitolo di Watch Dogs che mi ha lasciato quantomeno dubbioso, e The Last Guardian, che, pur essendo un gioco straordinario, non vede nell’aspetto puramente action-adventure il suo differenziale, ci troviamo fra 2 giochi di matrice puramente stealth (Dishonored 2 e Hitman) e l’ormai grande classico dell’avventura Uncharted 4: Fine di un Ladro. Il titolo che ha per protagonista l’Agente 47 ha il pregio di essere stato proposto in una forma innovativa, da serie tv, che ha molto soddisfatto il pubblico, producendo una stagione con un ottimo riscontro di pubblico. La storia è del resto molto ben curata e il ritmo mai stancante: quel che forse manca ha questo titolo è la completezza tecnica degli altri due.

Procediamo anche qui subito per eliminazione: fuori Tom Clancy’s The Division, gioco interessante ma pieno di difetti, oltre a essere caratterizzato da una componente action-rpg open world in terza persona che lo rende del tutto differente (e un po’ fuori posto: perché non mettere Call of Duty: Infinite Warfare tra le nomination?) rispetto agli altri 4 fps in concorso, riguardo i quali invece la lotta si fa dura, dato l’ottimo livello qualitativo. Forse Overwatch ha vinto così tanti premi da indurre la giuria a non assegnargli un ulteriore riconoscimento (oltre a quello per miglior gameplay) che in questo caso era probabilmente meritato, non fosse per il fatto che da tempo non si vedeva un prodotto simile in tema di fps. E se a Doom si possono rimproverare alcune lacune a livello grafico e di level design, Battlefield 1 risulta forse il fps più interessante, pur offrendo una modalità single player inferiore a quella certamente più innovativa di Titanfall 2, il quale magari risulta meno spettacolare rispetto alla monumentale riproposizione della Grande Guerra offerta da EA, ma che risulta più godibile e diretto (anche grazie ad armi più vicine al gusto del nostro tempo). Hanno forse voluto premiare un gioco uscito nel momento sbagliato (nell’apice della lotta tra COD:IW e BF1, appunto) che di certo non offre minor qualità di gioco?

Ecco, se prima le divergenze con le scelte della giuria erano da poco, in questa sezione si apre un abisso: può risultare comprensibile non voler premiare Inside (al quale andrà poi un premio più onnicomprensivo, che non valorizza soltanto l’aspetto platform) o il seppur ottimo Unravelil quale ha il difetto di svelare troppo presto, nel gioco, tutto il suo potenziale, rischiando poi la ripetitività. Ma qui siamo in presenza di due ottimi esponenti del genere quali il classicissimo Ratchet & Clank e il sofferto e tribolato Owlboy. Dal canto mio, premierei un reboot di grande fattura quale il titolo Sony soltanto in assenza di concorrenti degni: ma Owlboy è stato un titolo salutato con gioia anche dai più diffidenti che, dopo tanta attesa, temevano  un vaporware, mentre si è rivelato un gioiello di pixel art dall’ottima giocabilità e dalle ambientazioni suggestive. Con tutto il rispetto per Super Mario Run, il premio doveva andare al titolo di D-Pad, riservando al nostro amatissimo idraulico ben altro premio.

Nei giochi sportivi, la sfida principe è ormai ogni anno da decenni quella tra FIFA e PES, una dicotomia che ha creato scuole di pensiero, clan e filosofie di approccio al gioco del calcio totalmente differenti. Ma è una contesa che, nonostante i progressivi miglioramenti di titolo in titolo, non vede grosse rivoluzioni né da una parte né dall’altra. Da questo punto di vista il titolo più anomalo è certamente RIGS Mechanized Combat League, un unicum pensato per PSVR che offre buoni spunti per lavorare sul genere in futuro, ma che non può ritenersi perfetto. Personalmente penso che i paesaggi di Steep, le ampie discese e il senso di libertà delle sue acrobazie potessero meritare qualche attenzione in più, ma il gioco sfocia a volte in un esercizio di libero arbitrio eccessivo, che toglie un po’ di linearità al titolo e fa scemare il senso della sfida. Effettivamente NBA 2K17, con il suo gameplay nettamente migliorato, l’estrema fedeltà al reale (molto più dei suoi corrispettivi calcistici) e l’ottimo sistema MyCareer, merita il premio della categoria. Ed è un piacere sentire il produttore Rob Jones ringraziare l’organizzazione del Drago d’Oro in un videomessaggio dove sfoggia il suo perfetto italiano.

Poco da dire su questa categoria: se The Banner Saga 2 e Total War: Warhammer presentano alcuni difetti in termini di intelligenza artificiale, della quale si decifrano purtroppo presto i pattern, togliendo un po’ di gusto alla sfida, Fire Emblem: Fates è un titolo bellissimo che punta molto su una storia ben strutturata che in questo caso soffre di qualche ingenuità nella trama. XCOM 2 è uno strategico che non solo tiene alto il nome del primo, storico titolo ma lo rilancia e, se non fosse per la perizia e la precisione con la quale Sid Meier ha studiato questo Civilization VI, meritato vincitore del premio, avrebbe potuto essere il miglior titolo della categoria.

Just Dance 2017 ci sembra un po’ meno per la famiglia e molto più per una serata tra amici, come al contempo è difficile immaginare padri e figli in giro piacevolmente a caccia di Pokémon (o meglio, può capitare: ma sai che due palle per i padri). Fra i titoli per la famiglia si distingue per bellezza Dragon Quest Builders, felice incontro tra uno dei migliori jrpg di sempre e le meccaniche di Minecraft. L’aspetto in cui LEGO Dimensions ha forse fatto la differenza, e che ne ha decretato la vittoria, consiste allora forse in quel surplus meramente “tattile” che manca al concorrente Skylanders Imaginators, oltre a una vastità e versatilità di personaggi presi da ogni campo dell’entertainment. Già solo per questo il mio voto sarebbe andato proprio a favore degli storici mattoncini colorati.

Pokémon Go ha il merito di averla diffusa su larga scala, ma la realtà aumentata non è esattamente una novità introdotta dal notissimo gioco mobile. Molto più interessante il concetto alla base di Superhot, sparatutto dalla grafica spiazzante caratterizzato da un gameplay che mette in piena relazione i movimenti del giocatore e quelli dei nemici, tale da diventare quasi una sorta di “chess shooter”, evocando una simile modalità di gioco i tempi di una partita a scacchi. Gli altri 2, Inside e The Witness, sono due puzzle-game straordinari e di altissima qualità, ma vuoi negare un premio al VR nell’anno della sua introduzione sul mercato? E con quale miglior gioco di Batman: Arkham VR?

Questa è una categoria che mi ha dato molta gioia: Abzû e That Dragon Cancer sono titoli esperienziali dalla straordinaria forza narrativa, il primo soprattutto per la potenza delle immagini, il secondo per la forza emotiva della storia in sé. Della qualità di Firewatch abbiamo parlato, ma lo vedo una tacca sotto a titoli come Inside e The Witness, entrambi puzzle game impegnativi ed estremamente godibili: ha vinto meritatamente il titolo di Playdead, con le sue atmosfere oscure, il suo piccolo e versatile protagonista, i suoi puzzle ingegnosi che contribuiscono a mettere insieme una storia e un titolo che ricorderemo a lungo.

Ecco, in questa categoria mi pare un po’ tutto sbagliato. Partiamo da quello che mi sembra il primo errore, ovvero parlare di miglior “app” e non di “gioco mobile”. Ma non ne è mia intenzione farne una questione di nomenclatura. È la scelta del vincitore che stona: Pokémon Go ha avuto una risonanza enorme, vero. È un fenomeno che al lancio ha influenzato i flussi cittadini, l’economia (ricordiamo autisti che si facevano pagare per portare ragazzini a caccia di Pokémon), i media, verissimo. Ma in termini di gaming? Non vediamo il valore aggiunto di un gioco che ha certo vari meriti, prima di tutto in termini di innovazione (non al punto di vincere un premio anche per questo, come abbiamo già detto, ma l’innovazione c’è), che può risultare ripetitivo ma comunque bello per i numerosi appassionati. Un po’ come Clash of Clans, gioco popolarissimo e ben fatto, ma che suona già visto per chi abbia avuto un discreto numero di esperienze con gli strategici. Meglio a questo punto l’impianto gestionale di Carbon Warfare, a cui si accompagna anche un insieme atto a sensibilizzare sul tema del riscaldamento globale, o Deus Ex Go, dove la famosa serie Square Enix si è fatta un puzzle game di qualità. Ma in realtà, diciamola tutta: non sarebbe stato il premio perfetto per un Super Mario Run che, pur non essendo il miglior platform dell’ultimo anno, è certamente uno dei migliori videogame usciti ultimamente su mobile?

E apriamo adesso una parentesi sugli italiani, aspetto importantissimo di questo Drago d’Oro, ed è un bene che abbiano 4 categorie riservate. In concorso per il miglior game design troviamo un titolo coraggioso nelle intenzioni, Active Soccer 2, trovandosi nella posizione di Don Chisciotte visti i numerosi colossi del settore, l’autobiografico Memoir En Code: Reissue, interessante nella struttura ad album in cui si dipanano le memorie dell’autore, e due titoli che ci hanno molto incuriosito mentre giravamo per il Let’s Play, il cooperativo Rope: Don’t Fall Behind, dalla grafica un po’ retrò ma molto originale, sfidante e ben congegnato, specie riguardo la parte co-op, e l’esistenziale The Way of Life Free Edition, titolo squisitamente esperienziale in cui è possibile vivere in prima persona le tre macro-età della vita. Fra questi interessanti titoli trionfa Little Briar Rose, punta e clicca dallo straordinario impatto visivo ambientato in un mondo chiaramente ispirato a quello della Sleeping Beauty e che ha ottenuto la nomination in tutte e quattro le categorie.

Quest’anno bisogna dire che lo sforzo da parte degli sviluppatori italiani sull’aspetto tecnico è stato ragguardevole: i ragazzi di Elf Games Works avranno dovuto impegnarsi non poco da questo punto di vista per ottenere una simile resa artistica, come del resto il team di Storm in a Teacup, che ha portato il suo Lantern anche su Oculus Rift e Htc Vive con risultati davvero ragguardevoli (e anche per questo meritava una maggior attenzione). Se una menzione speciale va ai catanesi di Rimlight Studios per il loro Zheros, beat’em up a scorrimento dalla grafica accattivante, dalla giocabilità fluida e ad alto tasso di godibilità, la contesa finale sembra riservata ai due giochi di corsa, l’arcade Redout di 34BigThing e Valentino Rossi: The Game dell’ormai affermato studio Milestone, il quale vince la contesa, anche se a noi rimane il dubbio che su questo titolo si potesse fare di più.

Questa categoria ci ha dato non poche soddisfazioni: se Woodle Tree 2: Worlds sembra un titolo visivamente più attrattivo per i più piccoli, probabilmente su cui ancora bisogna lavorare, una bella sorpresa è, dicevamo, Zheros, con personaggi che ricordano da vicino il pixariano The Incredibles e animazioni che rendono piacevole e cartoonesco un ambiente spiccatamente sci-fi. I titoli che peò probabilmente più spiccano dal punto di vista strettamente artistico sono certamente Lantern, con il quale Storm in a Tea Cup centra l’obiettivo di un videogame che intarsia una poetica suggestiva nella componente estetica del gioco, sulla falsariga dei titoli esperienziali ed emozionali di Thatgamecompany, Little Briar Rose, splendidamente disegnato in forma di mosaico su vetri colorati, e The Town of Light, in cui LKA è riuscita a riprodurre magistralmente gli ambienti e le atmosfere di un manicomio decadente riprendendo i cliché visivi del genere senza mai cadere nel banale e con una resa eccezionale che le è valsa il premio per la miglior realizzazione artistica.

Come sempre valutare il miglior prodotto nella sua complessità è arduo, per l’insieme di fattori in equilibrio che bisogna considerare. Potremmo dar maggior peso alla resa grafica e all’impianto favolistici di Little Briar Rose, al gameplay e al ritmo incalzante di Zheros (il secondo titolo più nominato, e questo la dice lunga sulla qualità del gioco, è mancato solo un premio a coronare il tutto), o alla storia e alla capacità di restituzione degli abissi della psicosi del magistrale survival-horror The Town of Light, che poteva anche meritare la statuetta di miglior gioco. Se l’aggiudica invece – e non meno meritatamente – Redout, per il quale va riconosciuto a 34BigThings l’enorme merito di aver fatto rivivere il genere dell’arcade racing citando grandi classici come F-Zero e Wipeout fuggendo la riproposizione pedissequa degli stilemi del genere, e superando in volata verso il primo posto i tipi di Milestone, reduci dai numerosi consensi di Valentino Rossi: The Game.

Qualcuno ha sentenziato “avrei detto GTA V”, traviato dalla recente notizia che il titolo di Rockstar ha raggiunto numeri tali da farlo diventare il 4° gioco più venduto di sempre. Ma è confondere il longseller con il bestseller, e giochi come Fifa 2017 sono proprio da annoverare in quest’ultima categoria, dovendo puntare a capitalizzare nell’arco di 365 giorni, prima che si aprano un nuovo calciomercato e un nuovo campionato che li facciano diventare seriamente obsoleti.

Che scelta difficile, quella di premiare il miglior videogioco dell’anno.
Di tutti questi titoli abbiamo parlato prima: voi premiereste l’ostico e sfidante Dark Souls III, con la sua storia oscura e il suo complesso gameplay? Lo steampunk incalzante di Dishonored 2? Lo pneumatico gore di DOOM, i super robot di Titanfall 2? O preferireste la poesia di The Last Guardian, l’architettura arguta di Inside, la forza cinematografica di Uncharted 4? O la bellezza e la fluidità di Forza Horizon 3?
Io non so quale fra questi sia effettivamente il più meritevole del 2016, probabilmente fra i succitati Dark Souls III e Uncharted 4 sono i giochi complessivamente migliori, ma so per certo che Final Fantasy XV ha tutti i numeri per meritare quantomeno il podio, e la sua vittoria non stona: grafica straordinaria, spiccata componente immaginifica, storia complessa seppur imperfetta, colonna sonora elegante e armonica, tutti elementi che contribuiscono a formare nell’insieme un ottimo action-rpg, atipico rispetto ai precedenti ma degno dei migliori capitoli della saga. Che l’assenso di Hajime Tabata a presenziare alla cerimonia abbia influito sulla vittoria? Probabile, sarebbe in linea con il discorso iniziale, riguardo il premio alla carriera assegnato a Ueda, in termini di giovamento d’immagine per il Drago d’Oro. Può essere stato questo l’ago della bilancia, può darsi. Ma che questo Final Fantasy XV meritasse uno dei premi più importanti questo pare fuori discussione.

Lasciando perdere al momento il gioco proclamato vincitore dalla giuria, proviamo ad analizzare il rapporto fra i giochi e il grande pubblico procedendo ancora una volta per esclusione: Battlefield 1, Call of Duty: Infinite Warfare, Gears of War 4, Tom Clancy’s The Division (che poi, diamine, mettete qui CoD dopo averlo lasciato fuori dalla categoria “miglior sparatutto” e non mettete il premiato, Titanfall 2? Misteri di Giuria) saranno stati votati soprattutto dagli amanti del genere shooter; LEGO Dimensions e LEGO Marvel’s Avengers sono appannaggio di una fascia d’età più limitata rispetto ai loro concorrenti, così come Pokémon Luna e Pokémon Sole pur trovando maggior consenso anche in altre fasce d’età, come anche Pokken Tournament, che, seppur diverso nel genere, attinge allo stesso immaginario; FIFA 17, Pro Evolution Soccer 2017, Football Manager 2017, NBA 2K17 e Valentino Rossi: The Game, come tutti i giochi sportivi, hanno un pubblico che consta di appassionati e di solito più orientato in termini di gender. Mi stupisce la presenza di titoli come Yo-Kai Watch e Stranger of Sword City, il primo perché, nonostante il grande successo in Giappone e il grande interesse che può destare per gli appassionati del genere, non ha avuto un così largo riscontro di pubblico in Italia, il secondo perché non può lontanamente essere assimilato per qualità a tutti gli altri giochi presenti in categoria, la sua presenza risulta davvero inspiegabile. Togliendo anche Just Dance 2017 che, in quanto party game, difficilmente può trovare fortuna in un ampio stuolo di giocatori single player o competitivi nel multiplayer che sostituiscono agli amici la console, resterebbero Dark Souls III, gioco che per la sua difficoltà e per le ambientazioni non incontra il consenso di gran parte di pubblico, Far Cry Primal, titolo dove la serie torna degnamente alla preistoria, ma non proprio osannato da critica e pubblico, Watch Dogs 2, secondo episodio che ha soddisfatto i fan più giovani ma meno la fascia più adulta che aveva invece apprezzato il primo episodio, e Mafia III, gioco lanciato con un gran clamore sgonfiatosi a seguito dei vari problemi tecnici ravvisati nel gioco e della ripetitività di varie missioni. Togliendo anche Ratchet & Clank, gioco straordinario con meno speranze di voto dovute alla sua natura di reboot, probabilmente i giochi che incontrano più i gusti di una fetta larga di pubblico sono Overwatch, che ha il pregio di aver trasceso la sua mera natura di arena shooter conferendo ai propri personaggi un’anima, una storia, tendenze sessuali, handicap e altri elementi che ne hanno allargato di non poco l’utenza, per ragioni empatiche oltre che legate all’ottimo gameplay; Final Fantasy XV, attesissimo dai fan della saga ma apprezzato da buona parte di pubblico che ne ha visto un open world scorrevole, non dispersivo, con una storia godibile; e Uncharted 4: Fine di un Ladro, che non mi stupisce sia risultato il vincitore finale.
Da anni Naughty Dog lavora tantissimo sulle storie, unendo tecnica cinematografica, arte del racconto e sapiente scrittura di genere. Nathan Drake è il nostro Indiana Jones, un personaggio non esattamente originale, con tratti comuni del tipico archeologo d’azione, sapiente ma un po’ cazzone, romantico ma sfuggente, abile con le armi ma non meno pronto a risolvere enigmi antichissimi. Le storie della tetralogia di Uncharted hanno appassionato il mondo occidentale, regalando un tocco di cinema di genere al nostro intrattenimento videoludico, offrendo trame godibili dai più e meno esigenti dal punto di vista dei contenuti e con ottimi dialoghi e colpi di scena.

Il resto in Tv

Il Drago d’Oro si chiude qui. Se dobbiamo elencare un altro paio di divergenze fra noi e la giuria queste consistono nel malriuscito siparietto su La La Land/Final Fantasy XV, maldestra parodia dell’errore di Warren Beatty all’ultima edizione degli Oscar cinematografici, e i papillon dorati al collo dei giurati.
Ma sono peccati veniali: ci auguriamo che questo premio possa crescere ulteriormente, regalando un’occasione in più all’industria videoludica italiana.

Il resto (lo speciale e le numerosissime interviste fatte in giro per tra Let’s Play e Drago d’Oro, fra cui quella ad Hajime Tabata) potrete godervelo in Tv, su Teleacras, canale 88 del digitale terrestre siciliano, sul nostro canale Twitch o sul nostro canale Youtube.




Nioh

Tredici anni dopo il suo annuncio e a distanza di poco più di dodici mesi dalla prima presentazione al Tokyo Game Show nel 2015, Nioh arriva sulle Playstation di tutto il mondo pronto a far bestemmiare di sé.

Il gioco di Team Ninja ha avuto modo di presentarsi – e anche molto bene – sin dalla sua prima apparizione sullo store Sony, attraverso l’alpha rilasciata nella scorsa primavera.
Da allora molto è cambiato, dal comparto grafico all’affinamento dei sistemi di combattimento e di utilizzo delle armi, ma il nocciolo è rimasto lo stesso: Nioh è un gioco difficile.
E non si tratta dell’ennesima copia di Dark Souls, questo salta subito all’occhio: il gioco imbocca la propria strada facendoci dimenticare tutti quegli elementi che effettivamente sì, sono mutuati dalle meccaniche del più famoso titolo di From Software ma che, d’altra parte, si combinano benissimo con la naturale evoluzione di tutto ciò che ha contraddistinto Ninja Gaiden. E parliamo del reboot a cura di Team Ninja ovviamente, dal quale questo gioco eredita molto più di quanto faccia dai Souls.

La Storia

Nioh narra la storia di William Adams, un soldato/navigatore/samurai inglese: alto, biondo e sicuramente parente di Geralt di Rivia. Un eroe, William, che sembra avere qualcosa in comune anche col Gatsu di Kentaro Miura e non soltanto per via dello spadone “bastardo” che raccoglie proprio all’inizio del gioco (dopo essersi liberato a pugni e calci da una cella di prigione sita nella torre di Londra) ma anche per lo spiritello alato e colorato pronto a dispensargli consigli sin dalle prime battute. Così, con un pretesto narrativo degno di ogni incipit nipponico che si rispetti, il nostro beniamino parte, nel 1600, alla volta di Zipangu (nome con il quale Marco Polo si riferiva al paese asiatico di Nihon, a noi conosciuto come Giappone) per trovare le famose pietre “amrita”, a quanto sembra capaci di veicolare poteri sovrannaturali che investono anche il nostro eroe.

Il Combattimento

Ma a far da traino al gioco non è tanto la storia, seppur inizialmente ispirata da una bozza di sceneggiatura del maestro Akira Kurosawa, quanto la profondità del gioco in sé: il sistema di progressione delle caratteristiche tipico degli RPG, unito a quello di combattimento che porta con sé numerose variabili e al complesso albero delle abilità che si possono acquisire tramite due diversi tipi di punti (Ninja e Magia Onymo), oltre alle affinità con le proprie armi e con il proprio spirito guardiano, rendono l’esperienza di gioco particolarmente personalizzabile: ci ritroviamo dunque a poter sviluppare, oltre al personaggio stesso, stili di combattimento completamente diversi tra loro. Ciò è dovuto principalmente al possibile utilizzo di due armi da mischia e di altrettante armi a distanza che spaziano dalle spade alle asce, dai martelli ai kusarigama e dagli archi ai fucili a scoppio, oggetti che possono essere ulteriormente potenziati e personalizzati insieme alle tantissime armature disponibili.

È nel sistema di combattimento però che Nioh offre il meglio di sé, regalandoci delle meccaniche facili da comprendere ma estremamente complesse da padroneggiare. Mentre infatti ci da la possibilità di scegliere fra tre diverse – e facilmente intercambiabili – posizioni di combattimento (alta, media e bassa) il gioco ci insegna a utilizzare il Ritmo Ki, una meccanica che mette alla prova costantemente la nostra abilità e che, se eseguita correttamente, ci permette di ricaricare più velocemente la barra della stamina favorendoci quindi nell’inanellamento di ulteriori combo. Grazie a queste possibilità di scelta ci ritroviamo di fronte a vastissimi orizzonti di interpretazione del gameplay: mentre qualcuno preferirà giocare un hack’n’slash votato alla frenesia del combattimento, qualcun altro deciderà di affrontare la sfida in maniera più ragionata infliggendo danni maggiori ai nemici a scapito della rapidità di movimento del personaggio. Ai giocatori più abili non è precluso il piacere di poter utilizzare tutti gli stili di gioco possibili contemporaneamente, alternando a seconda del nemico e della situazione la posa, l’arma, le magie e i trucchetti del ninja.
La campagna risulta lunga e impegnativa, costellata da missioni principali e secondarie che portano l’esperienza di gioco ad allargarsi oltre le quaranta ore, in più è presente una modalità “crepuscolo” nella quale ci ritroviamo ad affrontare le missioni in una salsa più piccante, ovvero con demoni da combattere al posto dei semplici nemici e una modalità PVP che il Team ha promesso di implementare presto.

Tecnica

Per quanto riguarda la parte tecnica, il gioco soffre della travagliata gestazione che ha dovuto subire, e ciò si traduce in un comparto grafico e in delle animazioni non proprio al passo coi tempi; difetto d’altra parte ampiamente ripagato dal fatto che si mantiene costantemente sui 60 fps anche nelle fasi più concitate, scegliendo la modalità azione che ci è sembrata anche l’unica possibile viste le caratteristiche tipicamente action del titolo. A questo si aggiungono la bellezza delle ambientazioni e le scelte artistiche che riguardano la caratterizzazione dei boss ed i combattimenti, elementi che fanno di Nioh un gioco sicuramente piacevole da guardare.
L’unica nota negativa, se così può essere definita, è certamente la difficile accessibilità. Come già detto nella premessa, Nioh è un gioco impegnativo che richiede particolare pazienza e voglia di imparare da parte del giocatore inesperto e ciò può rendere frustrante l’esperienza per chi cerca nel videogioco soltanto un passatempo divertente e non è in vena di accettare questo tipo di sfida.
Tutto sommato però, in un’epoca videoludica in cui titoli di natura narrativa e molto spesso semplici da giocare dominano gran parte del mercato, il successo di un gioco come Nioh rappresenta la prova che gli hardcore gamer sono nuovamente pronti a conquistare il mondo.