Star Wars Jedi: Fallen Order – Il Lato Grigio della Forza

Manca poco alla conclusione della nuova trilogia di Star Wars ma in qualche modo il brand trova sempre nuovi sistemi per tenersi in vita. Basti pensare alla nuova serie Disney+ The Mandalorian, con protagonista Pedro Pascal o, in tema videoludico, al nuovo lavoro di Respawn Entertainment Jedi Fallen Order. In questo contesto, il brand del fu Guerre Stellari ha vissuto di alti e bassi, finendo nell’ultimo periodo in discussione tra titoli dimenticabili e progetti cancellati: Star Wars 1313 e il progetto di Visceral Games sono solo due degli esempi in tal senso ed è interessante come il lavoro capitanato da Stig Asmussen, sia riuscito a sopravvivere sino all’uscita. Electronic Arts ha creduto al progetto, che vanta probabilmente una delle peggiori presentazioni della storia all’E3 2018, in cui Vince Zampella (Co-fondatore dello studio) presentò il titolo semplicemente citandone il nome, e nient’altro. Ma Star Wars Jedi: Fallen Order è ora tra noi, tra mille sorprese e qualche perplessità che a mano a mano sviscereremo.

Nella notte più profonda…

Ambientato quindici anni dopo l’Ordine 66, che eliminò quasi totalmente i Jedi dalla Galassia per opera del nuovo Impero, il titolo Respawn ci catapulta in una storia che non brilla certo per scrittura ma comunque godibile, trovando spazio nell’intricato universo espanso. Cal Kestis è dunque il protagonista, un giovane con abilità Jedi (fortunatamente Disney non c’entra nulla) alla ricerca del proprio passato e del proprio destino. Seguirà dunque un’avventura sparsa tra diversi pianeti, braccati dall’onnipresente Impero Galattico e dall’Ordine degli Inquisitori, creato appositamente per estinguere ogni traccia del lato chiaro della Forza.
Il problema principale di Jedi Fallen Order sta essenzialmente nella prima ora e mezza di gioco in cui tutto, dalla narrazione a molti elementi di gameplay faticano a uscir fuori, dando l’impressione d’esser privo di qualsiasi mordente. Fortunatamente, con un po’ di pazienza, l’avventura di Cal Kestis comincia a prender forma, seguendo a grandi linee il percorso di un certo Luke Skywalker: capire se stessi e il proprio posto non solo è la chiave che farà maturare (e rendere più interessante) il protagonista ma getterà nuova luce sui Jedi superstiti e alla lotta serrata contro il Lato Oscuro. Se, dunque, Cal Kestis può vantare una discreta maturazione e carisma, altrettanto si può dire dei comprimari (forse più accattivanti) e del piccolo droide ormai amico dei bambini BD-1, mascotte non solo essenziale per la narrazione ma, come vedremo più avanti nel gameplay. Ovviamente anche i villain di turno trovano un certo spazio, a cominciare dalla Seconda Sorella degli Inquisitori e qualche sorpresa che i fan di Star Wars apprezzeranno sicuramente. Anche perché, diciamocelo, di fan service il titolo è pieno ma sempre utilizzato con criterio. Come la nuova trilogia cinematografica ci ha insegnato, non basta gettare nella mischia un cast di personaggi storici e intrinsecamente carismatici per aumentare il valore di un’opera. La direzione di Stig Asmussen, che ricordiamo, è il papà di God of War III, ha reso Jedi Fallen Order un titolo con una sua identità e ben calata nel contesto creatosi tra Episodio III ed Episodio IV, vantando la diretta collaborazione di Lucas Arts e il suo team preposto al controllo della continuity con tutte le opere esistenti. Ne consegue dunque un titolo apertamente indicato a tutti gli amanti della saga, che troveranno numerosi riferimenti al franchise ma senza diventare mai melenso. Per chi non ha mai visto una spada laser in vita sua, potrebbe lasciar passare in secondo piano il contesto narrativo in favore di meccaniche magari già viste ma ben implementate.

Uno Jedi Shinobi… sulla carta

Se a primo acchito può venir in mente Il Potere della Forza con protagonista StarKiller, pad alla mano ci si accorge che di quel gioco non vi è alcuna traccia. Evidentemente Sekiro: Shadows Die Twice ha portato un nuovo modo di affrontare gli action/adventure e la sensazione di aver a che fare con un suo diretto discendente è molto forte. Ma tagliamo la testa al toro: il combat system di entrambi i titoli non sono minimamente paragonabili. In generale il lavoro di Respawn, da questo punto di vista, risulta meno rifinito, andando a discapito di moveset e precisione. Sì perché una delle cose che salta subito all’occhio è un tempo di risposta del comando della deflezione o comunque della parata meno preciso rispetto al suo papà giapponese oltre a un sistema di tracking che raramente permette l’aggiramento o schivate all’ultimo istante. L’avversario sembra quasi essere calamitato al protagonista, riuscendo a colpire in quasi tutte le direzioni. Questo fa un po’ storcere il naso perché il sistema generale di combattimento funziona, risultando anche appagante in certi frangenti. Quello che manca è il cosiddetto “passo in più” che consiste in una manciata di animazioni di supporto in modo da aumentare le possibilità di approccio in combattimento. Anche quando avremo nuove abilità dalla nostra fedele spada laser non potremmo mai veramente costruire combo concatenando le diverse abilità, diventando un balletto fatto di “spam” del tasto X e talvolta Y (quadrato e triangolo su PlayStation), sfruttando ovviamente i poteri della Forza.
Tutte queste abilità vengono sviluppate attraverso un classico “albero” in cui è possibile acquisirle tutte in una sola run. Ma da qui nasce un piccolo qui pro quo. Osservando tutte le abilità presenti, il nostro modo di agire, non si può non notare come le nostre azioni siano ben lontane da quelle proposte finora in un Jedi. Non c’è modo di girarci intorno: Cal Kestis è uno stermina Impero, un “vedovatore” di soldati, distruttore della fauna locale. Tutti i poteri a disposizione sono squisitamente offensivi e la barra che indica la Forza a nostra disposizione si ricarica colpendo o eliminando il nemico. Ovviamente il contesto è quello di un gioco d’azione e Cal Kestis è costantemente in pericolo, ma in qualche modo le nostre azioni sono comunque più vicine a quelle di un Sith che un vero e proprio Jedi.
Ma passando oltre, fortunatamente oltre al menare le mani c’è di più, e questo di più si chiama esplorazione: in qualche modo Respawn è riuscita a creare mappe molto aperte in un sistema che ricorda sicuramente i vari “metroidvania” ma anche la struttura dell’ultimo God of War: mappe ampie in diversi luoghi separati. Quello che ci troviamo di fronte dunque, è un titolo aperto che spinge il giocatore a cercare potenziamenti e segreti sparsi per le mappe, alimentando un codex in grado di non solo di approfondire quanto narrato ma anche di migliorare l’intero contesto. L’utilità del droide BD-1 la si scopre soprattutto in questi frangenti dove, con opportuni potenziamenti, il robottino sarà in grado di hackerare, migliorare le possibilità di movimento di Cal Kestis nonché di riuscire a guarirlo con gli Stim. Inoltre, è anche in grado di proiettare in maniera attiva l’intera mappa olografica della zona, estremamente utile per capire cosa rimane da esplorare. Ma quello che colpisce maggiormente è il level design, costituito da diversi percorsi, scorciatoie e anfratti segreti che enfatizzano le fasi platform e puzzle, che avvicinano il titolo – seppur con la dovuta cautela – alla serie Uncharted.
Prima di passare in rassegna l’altalenante comparto tecnico, c’è da segnalare un altro dettaglio: i punti di controllo su cui il protagonista può meditare, permettendogli di riposare, potenziarsi e rigenerare il numero di Stim del droide, apre un altro piccolo disappunto una volta comparso l’avviso indicante la riapparizione di tutti i nemici sconfitti. Se da un lato si capisce l’esigenza di gameplay, funzionando come veri e propri falò “soulsiani” tranne che non ci può teletrasportare tra di essi, dall’altro si avverte come questa meccanica sia assolutamente priva di senso e nemmeno contestualizzata. Perché il riposo dovrebbe far resuscitare tutti i soldati imperiali uccisi dalla nostra lama laser non ci è dato saperlo. Non è certo la prima volta che accade ovviamente: in tutti i titoli che traggono ispirazione dai lavori di Miyazaki vi è sempre questo stesso elemento, più o meno contestualizzato in base alla direzione narrativa intrapresa dal gioco. Ma qui è diverso. Nel contesto pluri-decennale di Star Wars, è una meccanica fuori luogo e lontana anni luce da quanto abbiamo visto, sentito, letto finora. Non basta prendere una meccanica semplicemente perché è funzionale: il genio di un team di sviluppo sta anche nel capire come adattare in contesti diversi qualcosa che sulla carta non ha il minimo collegamento.
Così come purtroppo le personalizzazioni estetiche fine a se stesse che consistono in skin per la Mantis (la nostra nave) e BD-1, oltre che per spada laser e Cal. Sono elementi, soprattutto quando si parla della nostra arma, che purtroppo non aggiungono nulla, nemmeno mezza caratteristica. È chiaro come negli ultimi anni siamo abituati a una certa “rpgzzazione” di quasi tutti i titoli presenti, ma in questo caso – e visto il contesto – è una mancanza che fa storcere il naso, dando addirittura l’impressione che non si abbia avuto il tempo di implementare queste possibilità.

È pur sempre la prima volta

Star Wars Jedi: Fallen Order è uno dei titoli che si discosta dalla volontà di Electronic Arts di sviluppare qualunque franchise sotto la potente ala del Frostbite Engine. Sviluppato dunque su Unreal Engine 4, motore ormai affidabile ed estremamente diffuso, il lavoro di Respawn mostra il fianco a qualche incertezza: nonostante l’impatto sia assolutamente di primo ordine, quasi di stampo cinematografico, numerosi sono i bug che infliggono il titolo, soprattutto nelle fasi di esplorazione. Cal Kestis sembra fin troppo spesso una marionetta in balia del caso, mancando semplici appigli, precipitando nel vuoto cosmico così come i nemici, compenetrati all’ambiente e persino esplosi, con mesh un po’ qui e un po’ la. Quello che manca è un evidente pulizia finale del codice che purtroppo alle volte crea alcuni problemi di avanzamento. Tralasciando questo aspetto però, Jedi Fallen Order è un titolo assolutamente godibile, vantando un’ottima realizzazione del cast e di tutti gli ambienti anche se è un peccato la mancanza di una reale varietà in assenza di ambienti urbani, ad esempio.
Interessante è poi la scelta stilistica di non mostrare interfaccia di gioco a schermo, demandando il controllo della salute ai led di DB-1, sempre sulle spalle del protagonista. Questo espediente, che ricorda tanto quanto visto in Dead Space di Visceral Games, riesce ad aumentare ancor di più la ricerca verso una visione cinematografica dell’opera, facendo comparire ciò che serve solo quando è opportuno.
Dal punto di vista sonoro, impeccabile è la riproposizione dei suoni classici della saga, oltre a musiche che riarrangiano non solo temi classici ma che riescono a proporre qualcosa di nuovo con brani calzanti nelle boss fight e d’accompagnamento (quasi goliardico) durante le fasi d’esplorazione, quando potremmo essere facilmente fatti a pezzi qualunque bestia sul nostro cammino. Divertente.
Il titolo si presenta completamente localizzato in italiano, in cui il doppiaggio esegue un lavoro di tutto rispetto mostrano tutti i lati caratteriali dei personaggi, con il giusto tono e senza mai commettere scivoloni. Ma c’è da dire che la versione originale (inglese), riesce a trasmettere qualcosa in più, soprattutto per l’utilizzo degli attori reali in fase di motion capture nella realizzazione delle cutscene.

In conclusione

L’unico sopravvissuto dei progetti Star Wars lanciati da Electronic Arts si mostra come una delle più convincenti sorprese dell’anno nonostante alcuni problemi che possono risultare limitanti per giocatori più esigenti. Si posiziona tra i migliori titoli dedicati al franchise negli ultimi anni, aprendo la strada a futuri sequel e magari alla “speranza” di rivedere sulla scena alcuni dei progetti abbandonati anzitempo. Star Wars Jedi: Fallen Order ci mette un po’ a carburare, ma superato l’impatto iniziale riesce a regalare ottimo intrattenimento soprattutto ai fan duri e puri di una delle saghe più apprezzate della storia.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




C’era una volta alla… Milan Games Week

Questo è un articolo diverso dal solito. Normalmente questa rubrica cerca di sviscerare tutte le tematiche possibili del mondo videoludico (da qui il nome 42), ma oggi no. Oggi vi propongo un racconto personale della mia prima esperienza alla Milan Games Week, una fiera che ho sempre voluto visitare ma che si è scontrata con le mie aspettative, quelle di un sognatore capace di meravigliarsi per qualunque cosa, anche di una “auto blu”.

Un nero mare di infinita gente

Saltando a piè pari il lungo viaggio che mi ha portato in quel di Milano, dopo lo straniamento causato da due palazzi adiacenti alla fiera, ecco che finalmente vedo l’ingresso della Milan Games Week 2019. Il primo pensiero è andato verso il tesseratto della società odierna, formato da tante piccole menti accomunate da un solo pensiero: la f…ortuna di trovarsi nel centro nevralgico del videogame in Italia. In poche parole, gente, gente e ancora gente. Incredibilmente, il paragone più efficace per far rendere l’idea è quello del casinò, un luogo chiuso, ipnotico, strapieno di luci e belle ragazze. Tralasciando il piccolo dettaglio che non viene servito da bere gratis, tutto risulta abbastanza similare, creando così l’effetto Trainspotting: pochi minuti diventano ore e, improvvisamente, è tutto finito. Ma andiamo con ordine.
Partiamo con lo stand di Cyberpunk 2077, per quanto mi riguarda il titolo che aspetto di più il prossimo anno. Stand carino come quelli di JoJo ma povero di contenuti come Pomeriggio Cinque. Ovviamente niente demo giocabile (ci mancherebbe) e con questa ultima frase potrei chiudere qui l’articolo. Ma mi faccio forza, recupero dalla delusione e proseguo.
Si, perché di stand ce ne sono a bizzeffe, alcuni con ottime trovate come in quello di FIFA 20, allestito con una gabbia al cui interno era possibile testare le nostre qualità di calciatori professionisti a parole. Purtroppo non sono riuscito a giocare fisicamente (avrei umiliato tutti quanti…) ma digitalmente si, visto che da diversi anni gioco al calcistico EA dopo una pre-adolescenza passata in Konami. La novità più eclatante è senza dubbio la Modalità Volta, come si evinceva dalla gabbia lì fuori: un FIFA Street dentro FIFA 20 è quello che Electronic Arts ci propone e nonostante funzioni, in qualche modo non mi ha entusiasmato. Inutile dire come le vere novità cominceranno ad apparire l’anno prossimo con l’avvento della nuova generazione, ma la stagnazione comincia a farsi sentire ed è per questo cari amici, che sono tornato da PES. Anche per Pro Evolution lo stand era ben presente ma visto che avevo provato abbondantemente la demo e il gioco completo precedentemente sono semplicemente passato oltre.
Le prove effettuate con diversi titoli sono state abbastanza interessanti, grazie anche alla scoperta di app atte alle prenotazioni dei vari test… ammesso e concesso che ci si riesca, certo.
L’unica prova prenotata con successo è stata quella di Nioh 2, seguito del fortunato RPG a tinte “souls like” di Team Ninja. Giocare con qualcosa che uscirà solo tra qualche mese è interessante per diversi aspetti: il primo è quello di sentirsi privilegiati, toccando con mano qualcosa che la gente comune vedrà solo nel prossimo futuro. Tralasciando questi finti sensi di onnipotenza, la prova è utile anche per poter discutere delle sensazioni preliminari con altri utenti e con gli sviluppatori (che ovviamente non erano presenti ma mi piace pensare che osservassero i nostri gameplay in gran segreto).
Terzo e ultimo punto, puoi suggerire cambiamenti o miglioramenti che ovviamente non verrebbero presi in considerazione a pochi mesi dal lancio. E quindi Nioh 2? Risulta molto simile al precedente capitolo, con la differenza che il nostro alter ego non è più un personaggio predefinito ma “customizzabile” e la possibilità di trasformarsi in un potentissimo Yokai, anche se ancora quest’ultima non sembra essere contestualizzata narrativamente, almeno per ora. Inoltre non vi è stato modo di testarne eventuali malus, un po’ come la trasformazione “draconica” dei Dark Souls ma, in ogni caso, è una soluzione che regala gran soddisfazione.

Non accontentiamoci

Passiamo a un gioco molto simile: Grid. Battute a parte, il nuovo remake Codemasters può diventare una delle migliori sorprese dell’anno, con quel sistema Nemesi che tanto ricorda (ma forse solo per omonimia) il tanto decantato La Terra di Mezzo: L’Ombra di Mordor o L’Ombra della Guerra, ma applicato ai piloti. Effettivamente l’intelligenza artificiale degli avversari sembra rivaleggiare con i Drivetar dei Forza Motorsport  e Horizon, anche se è ancora molto presto per sbilanciarsi. Il titolo sembra ricordare per diversi aspetti il precedente Grid: Autosport, un ibrido simulativo-arcade che può si aprire verso un pubblico molto vasto ma che rischia di non accontentare nessuno. Essendo un grande fan dell’originale Grid, non vedo l’ora di toccarlo con mano, per cui attendevi ben presto una recensione tra queste pagine.
Ma altro titolo molto atteso non poteva che essere il remake di Final Fantasy VII, progetto misterioso ma ora più concreto che mai. Il titolo si presenta molto bene, con quel gameplay ibrido che ha inizialmente suscitato molti dubbi ma che in realtà si rivela essere la scelta più azzeccata. Siamo comunque nel 2020, la gente è abituata all’azione e, per quanto un sistema a turni possa dare quel tocco di tatticismo in più, non riesce a regalare la giusta dose di adrenalina di cui siamo assuefatti nell’età contemporanea. Effettivamente, vedere un titolo giocato non so quanti anni fa in questa veste totalmente rinnovata fa abbastanza impressione: la cosa interessante, almeno per quanto mi riguarda, è che quando avevo l’età in cui la vita risulta molto semplice, il gioco, mi sembrava così, con la stessa veste grafica. In poche parole, era come se l’immaginazione mettesse del suo, producendo elementi che l’hardware non riusciva a riprodurre. Un po’ come il viso di Snake in Metal Gear Solid.
Saltando altri episodi discretamente interessanti, sono rimasto sorpreso dello spazio dedicato al mondo degli Indie, alcuni dei quali veramente interessanti come Forgotten Hill Disillusion e altri lavori che puntano non solo al divertimento in senso stretto ma in grado di approcciare l’apprendimento o il management in maniera innovativa. Inutile dire come alcuni Indie erano pressoché scadenti, nonostante le buone idee di base: l’impressione è che alle volte non si sfrutti pienamente il palcoscenico di una fiera così importante, mancando totalmente il bersaglio. Si può avere l’idea migliore del mondo ma se non si sa esprimere diventa essenzialmente come uno sputo in pieno oceano: è vero che il livello del mare aumenta, ma è del tutto irrilevante.

Sugli e-sport dedicherò probabilmente un articolo (più serio) a parte; del resto è un fenomeno interessante e che sta evolvendo precipitevolissimevolmente e uso questa parola semplicemente perché non ho mai trovato occasione per farlo.
La Milan Games Week arriva al termine dopo aver visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, aver incontrato tantissime persone e nuove realtà, aver provato titoli in anteprima e camminato per decine di chilometri. Il risultato: potrebbe essere fatto molto di più. Non fraintendete, è stata un gran bella esperienza, eppure il sentore che in qualche modo ci si accontenti permane. Forse servirebbero più anteprime, magari internazionali, ospiti di maggior livello ed eventi in grado di far partecipare più attivamente il pubblico.
La scena videoludica italiana sta crescendo, anche grazie a questa fiera ma forse, è arrivato il momento della sferzata decisiva e dare lustro a un settore che nel nostro paese non ancora apprezzato come dovrebbe.




Top 5: Novembre 2018

La fine di questo 2018 videoludico è ormai vicina e il mese di Novembre ci ha regalato alcuni dei titoli più importanti di tutta l’annata. Andiamo a vedere quali.

#5 Fallout 76

Il titolo Bethesda era uno dei più attesi dell’anno: dopo la pubblicazione di The Elder Scrolls Online gli sviluppatori americani si lanciano nel loro primo MMORPG, un prequel narrativo ambientato nel 2102, venticinque anni dopo la guerra nucleare che ha devastato il mondo. Noi impersoneremo un abitante del Vault 76 atto a riconolonizzare il territorio. Attualmente il titolo soffre di qualche problema con i server e probabilmente ingranerà dopo qualche patch correttiva e un po’ di mesi di rodaggio, quindi è da considerare come un investimento a lungo termine.

#4 Football Manager 2019

Nuova interazione per l’amata saga manageriale calcistica di Sports Interactive: quest’anno il team ha voluto cambiare faccia, con una nuova interfaccia grafica e una rinnovata attenzione sul lato tecnico-tattico. Mai come quest’anno sarà fondamentale trovare il giusto assetto e progettare bene la sessione di allenamenti, facendo attenzione a non strafare ed evitare di esser falcidiati dagli infortuni, esattamente come nella realtà. Probabilmente uno dei migliori capitoli della serie, ottimo anche per chi non ne ha mai giocato uno e vorrebbe iniziare ad emulare le gesta di Allegri, Guardiola o Mourinho.

#3 Battlefield V

Il nuovo capitolo del popolare sparatutto di casa DICE fa buon uso delle critiche arrivate nel periodo della beta, regalandoci uno dei migliori titoli della saga: abbandonato il periodo della Prima Guerra Mondiale di Battlefield 1 si ritorna sui campi da battaglia della Seconda Guerra Mondiale, prendendo i punti di forza del predecessore e ampliandoli in un gameplay frenetico e fluido. Battlefield V è anche uno dei primi titoli che sfrutta appieno le potenzialità della serie di schede grafiche RTX di Nvidia con la tecnologia ray tracing, capace di avvicinarci sempre di più al fotorealismo. Manca ancora l’attesa modalità battle royale in arrivo a breve, ma al momento il titolo pubblicato da Electronic Arts ha fatto centro.

#2 Darksiders III

Terzo attesissimo capitolo della saga di Darksiders, il primo dopo il fallimento di THQ e il passaggio a THQ Nordic: questa volta vestiremo i panni di Furia, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, atta a distruggere le impersonificazioni dei sette vizi capitali.
Pur mantenendo l’aspetto action-adventure con elementi RPG dei predecessori, Darksiders III aggiunge degli elementi hack and slash e soulslike al mix, rendendo il titolo sviluppato da Gunfire Games un gradito ritorno.

#1 Red Dead Redemption II

Il titolo di Rockstar Games era uno dei più attesi dell’anno e non ha deluso le aspettative: Red Dead Redemption II ci riporta negli impolverati sentieri del Far West, dove impersoneremo Arthur Morgan, leader di una banda di fuorilegge che dovremo gestire e dirigere come ogni buon capo che si rispetti. Ogni nostra mossa avrà un impatto sulle cittadine e sugli NPC che incontreremo lungo l’avventura, siano essi nella storia principale che durante le fasi di free roaming, e sotto questo punto di vista il lavoro di Rockstar è enorme: la già grande base del precedente capitolo viene ampliata a dismisura, restituendo al giocatore un titolo open world vivo e capace di evolversi come poche volte si è visto nella storia dei videogiochi, rendendo Red Dead Redemption II non solo uno dei migliori titoli del 2018, ma probabilmente uno dei migliori degli ultimi anni.




La crescita della game industry nell’est Europa

Quando si parla delle nazioni più proficue e importanti nell’industria dei videogiochi, pensiamo subito agli Stati Uniti, al Giappone, al Canada e all’Inghilterra, che nel corso degli anni hanno dettato legge e comandato il mercato del settore. Tra gli anni ’80 e ’90 il videogame è passato dall’essere un passatempo per pochi a un vero e proprio bene di consumo per chiunque e ciò portò e porta tutt’ora molti altri paesi a prendere parte a quella che adesso è una vera e propria “corsa all’oro” del terzo millennio. Tra i tanti che sono entrati nel mercato in tempi relativamente recenti, Italia compresa, una menzione speciale va all’Europa dell’Est, che si è aperta a questo tipo di intrattenimento e alla tecnologia in generale molto più tardi rispetto al resto del mondo industrializzato, a causa del regime comunista dell’Unione Sovietica che negava qualsiasi tipo di importazione. Adesso come allora, prodotti come computer e console sono pure espressioni del capitalismo e per la loro diffusione in quelle zone si dovette aspettare la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’URSS.
Nonostante questa partenza a rilento, ora l’est Europa ha una posizione di tutto rispetto nel mondo dell’industry, sia per produzione che per utenza.

Tra le nazioni più presenti nel mercato (oltre alla Russia) spiccano la Polonia e la Romania, che contribuiscono in modo significativo al fatturato annuale che si avvicina ai 4 miliardi di dollari. Quest’ultima, avendo un costo del lavoro molto basso, ha portato alcuni grandi colossi come Ubisoft, King, Bandai Namco e Electronic Arts ad aprirvi delle sedi che spesso e volentieri collaborano alla realizzazione dei franchise più importanti, ma spendendo molto meno rispetto agli uffici in madre patria; inoltre, sono presenti oltre 80 case indipendenti, molte delle quali riunite all’interno della RGDA (Romanian Game Developers Association). Grazie a questa forte presenza all’interno del paese, il ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione Petru Bogdan Cojocaru ha stanziato ben 94 milioni di euro di fondi da cui potranno attingere le aziende al 100% rumene che operano sul campo della tecnologia per aiutarne ed accelerarne la crescita. Questa manovra potrebbe rappresentare la nascita e l’affermazione a livello mondiale di una realtà videoludica made in Romania.

Mentre la patria della Transilvania è ancora in fase di evoluzione e senza una vera e propria casa che faccia da riferimento, in Polonia si respira un’aria diversa, che sa di tempi passati e futuri, strighi e mercenari, magia e tecnologia, e una grande insegna rossa troneggia: CD Projekt Red; divisione dedita allo viluppo di videogiochi di CD Projekt (che si occupa invece di localizzare e tradurre i giochi stranieri in lingua polacca) e diventata famosa grazie alla serie di The Witcher. Insomma, grazie a Geralt e più recentemente grazie all’hype generato da Cyberpunk 2077, la Polonia si è potuta fare un nome e una reputazione a livello mondiale e, i contributi di Techland, 11 Bit Studio e Flying Wild Dog non sono certo da sottovalutare. Inoltre all’interno del paese si svolgono annualmente diversi eventi dedicati agli e-sport di importanza internazionale, come l’Intel Extreme Masters.

I perché del successo polacco vanno ricercati all’interno del sistema di istruzione, che forma ragazzi volenterosi e preparati ed è tra i migliori del mondo e dietro al fenomeno The Witcher, che dal suo primo rilascio nel 2007 ha creato un’ondata di entusiasmo generale che, unita al caratteristico spirito indomabile della popolazione, ha spinto molti aspiranti sviluppatori a mettersi in gioco. La scena del gaming polacco, in tutte le sue forme, è più luminosa che mai.
Una domanda però sorge spontanea: perché in Italia tutto ciò non accade nonostante sia discretamente presente nel settore? Principalmente, il governo non crede e non ha interesse in questo media, quindi non mette a disposizione fondi per chiunque voglia avviare un progetto o una startup. Di conseguenza, lo sviluppatore italiano è di fronte a un bivio: rischiare e investire di propria tasca o andare all’estero dove le opportunità sono maggiori; inutile dire che non sono molti quelli che decidono di restare in patria, dimostrato dal fatto che le aziende nostrane sono poco più di una ventina. E a differenza dei paesi dell’est, il costo del lavoro qui è molto più alto e non incentiva i colossi del settore a inserirsi (infatti solo Ubisoft ha una sede italiana). La situazione va sicuramente migliorando di anno in anno grazie al sensibile aumento di indie made in Italy, ma senza una spinta da parte dello stato con finanziamenti, abbassamenti delle tasse e del costo di lavoro, semplificazioni burocratiche e l’estensione della Tax Credit anche ai videogiochi, il progresso italiano in questo campo resterà lento a differenza di altri paesi, che pur provenendo da situazioni economiche e sociali ben peggiori, sono riusciti a fare la differenza.




Ode a Sega Dreamcast

«It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90, quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…

Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal, Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel 2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi completa come raramente s’era vista prima di allora.
Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10.
Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet. Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star Online.

Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena (del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online.
Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo, interne e non, che decidevano di supportarne la causa.
Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio, Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico dei picchiaduro.
Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che, nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi.
Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico, disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore.
Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast.




FIFA 19: le impressioni dalla demo

Come ogni anno, l’arrivo del nuovo FIFA sugli scaffali segna l’inizio definitivo della nuova stagione calcistica, correlando gioie e delusioni del calcio reale a quello digitale. FIFA 19 è l’ennesima evoluzione del calcistico canadese cominciata con FIFA 17 e con l’avvento del Frostbite Engine, presentando diverse novità sul piano contenutistico e alcune di gameplay, che hanno un impatto visibile già dalle prime partite di questa demo. In attesa della recensione, dunque, diamo un primo sguardo a queste novità.

Verso il Triplete

L’arrivo in pompa magna della Champion’s League e competizioni tangenti non è certo passata inosservata, tanto che ha avvicinato alcuni utenti dell’altra sponda (PES) al nuovo titolo Electronic Arts. L’integrazione di questa aggiunta sembra totale, a cominciare dalla modalità Kick-Off completamente rivista: abbiamo infatti a disposizione non solo la classica amichevole, ma anche una serie di match da affrontare all’interno di tornei ufficiali e una serie di parametri in grado di modificare pesantemente gli incontri. Pur non presenti nella demo, sappiamo già che sarà possibile affrontare delle amichevoli molto particolari in cui spicca la modalità “Sopravvivenza“, nella quale un giocatore lascerà il campo una volta segnata una rete, fino alla vittoria di chi si ritroverà con meno calciatori sul rettangolo di gioco. Ma sarà possibile giocare amichevoli dove varranno ad esempio soltanto i tiri da fuori area, o quelli al volo e via dicendo, sino a una gara senza regole dunque, senza fuorigioco, falli e tutto l’impianto regolamentare del calcio moderno. Inoltre, potremmo affrontare le varie fasi della Champion’s in totale libertà e, cosa importante, richiesta dagli amatori del single player, tutte le nostre statistiche verranno raccolte in un infografica visibile costantemente nel menu.
Le novità fortunatamente non si fermano ai contenuti: una volta scesi in campo si nota subito l’impatto degli Scontri 50/50, una feature che permette una migliore gestione della fisica, prendendo in considerazione la reale stazza degli atleti. Già dalle prime battute, infatti, assisteremo a contrasti più realistici e battaglie più marcate per il possesso palla. Risaltano anche le differenze tra i vari calciatori in cui – in parole povere – un Verratti farà molta fatica a contrastare un Dembélé del Tottenham. Anche l’Active Touch System presenta delle novità sostanziali: i calciatori che ricevono palla modificano la postura in base al contesto in cui si trovano, se tra attacco o difesa, se pressati o liberi di muoversi. La posizione che assumeranno, dunque, modificherà il tipo di impatto che avrà il corpo sul pallone e viceversa, aggiungendo un tocco in più verso il realismo. Infine, il Timed Finishing, disattivabile dal menu di personalizzazione delle assistenze al gioco, funziona in maniera del tutto simile alla ricarica delle armi in Gears of War. Questa volta per colpire bene il pallone serviranno due tocchi del tasto adibito al tiro, uno per la potenza e uno per l’impatto dove, il tempismo, sarà fondamentale. Effettivamente serve un minimo di pratica per assimilare la nuova meccanica, soprattutto se abituati al vecchio sistema: non è detto infatti che colpendo il pallone con le stesse modalità con cui avveniva nei precedenti episodi l’esito sarà il medesimo.
Ma le novità non si fermano qui. Una piccola grande implementazione è data dalle Tattiche Dinamiche, che vanno ad aggiungersi al menu contestuale dell’atteggiamento della squadra in campo, da difesa a oltranza ad attacco totale. Prima di una partita abbiamo la possibilità di associare a ogni tipo di comportamento uno schema ben preciso, con modulo, posizione in campo dei giocatori e tattiche completamente personalizzate e variabili in tempo reale durante il corso della partita. Facendo un esempio potremmo associare alla difesa a oltranza per difendere un risultato importante un 5-4-1 oppure ad attacco totale un 4-2-4. Una volta cambiato atteggiamento col d-pad vedremo spostarsi dunque i calciatori in tempo reali, assumendo la nuova posizione. C’è un “però”: l’uso indiscriminato di tale pratica può aprire enormi spazi su campo e letali se sfruttati dagli avversari. È bene dunque cambiare tattica una volta tranquilli e con il possesso palla.

La chiamavano Trinità

All’interno della demo è presente anche un piccolo estratto del Viaggio: Campioni, ultimo episodio della serie dedicata ad Alex Hunter. Anche qui le novità sono molteplici, a cominciare dalla possibilità di scegliere già da subito la sorellastra Kim Hunter o l’amico/rivale Dennis Williams, ora nel Manchester United. Hunter invece, è un nuovo giocatore del Real Madrid e questo avrà delle forti ripercussioni sulla sua carriera come del resto sul suo carattere. Il successo, la fama e la gloria potrebbero destabilizzare il giovane calciatore inglese ma questo, lo vedremo in dettaglio sul titolo completo. In questa preview abbiamo avuto solo modo di giocare come Alex, in un match di Champion’s League contro lo United. Le meccaniche sembrano le medesime ma sappiamo già che il protagonista potrà scegliere come “mentori” tre campioni del Real come Modric, Marcelo Kroos, che avranno un impatto importante non solo sull’aspetto ludico, ma anche nella vita privata.
A livello tecnico invece non sono presenti grosse novità. Si può notare una migliore cura delle divise, nuova regia per alcune cutscene e nuova inquadratura alle spalle del portiere al rinvio da fermo, permettendo una migliore visione del campo, soprattutto se si vuol giocare palla corta. Le vere novità probabilmente le vedremo con l’implementazione del ray tracing, magari già dal prossimo anno.

In conclusione

Manca poco ormai all’arrivo di FIFA 19 che si presenta davvero ricco dal punto di vista contenutistico e con alcune implementazioni al gameplay che ne migliorano il feeling. Nonostante alcune piccole criticità sembrano permanere come fisica del pallone non proprio precisa e forse una eccessiva velocità di gioco, il titolo Electronic Arts si appresta a conquistare il mercato, nonostante il suo rivale sia uscito da circa un mese.




Two Point Hospital

Facciamo un salto indietro nel tempo: 1997, anno d’uscita di Theme Hospital di Bullfrog. Uno dei gestionali più amati di tutti i tempi: sia per il gioco in sé, vasto e profondo per l’epoca, sia per la sua incredibile ironia e leggerezza nel trattare un tema spinoso come quello delle malattie. In quegli anni era la prassi lottare con teste giganti ed imitatori di Elvis Presley, e il gioco fu una delle ultime hit dello studio inglese fondato da Peter Molyneux e Les Edgar, prima di essere accorpato agli studi inglesi di Electronic Arts.
Torniamo al presente: dopo ben ventuno anni esce Two Point Hospital, seguito spirituale di Theme Hospital creato da Two Point Studios, studio di sviluppo che vede nel team due figure fondamentali che hanno partecipato alla creazione del predecessore, i designer Mark Webley e Gary Carr.

Ma andiamo a vedere come si propone questo seguito spirituale…

I’m no Superman

Two Point Hospital ci presenta da subito un sistema di progressione simile a quello visto in giochi come Overcooked: con dei livelli (o meglio, strutture ospedaliere) dove si devono ottenere delle stelle. Per ottenerle, basta seguire delle simil-quest varie per livello, come l’ottenere un’alta reputazione o conseguire un certo numero di pazienti curati. Una struttura che ben si sposa con un titolo del genere, facendo contento sia chi voglia ottenere la singola stella atta a sbloccare le altre strutture nel minor tempo, che i completisti. Vi è anche un minimo di backtracking, visto che è possibile tornare nei precedenti livelli quando si vuole, direttamente dalla mappa di gioco, così da aggiungere stanze e oggetti sbloccati avanti nel tempo e magari ottenere quella tanto agognata terza stella.

Ma passiamo al gioco vero e proprio: il design è rotondo e gommoso, e il lavoro di Ben Huskins e Gary Carr sembra quasi un’evoluzione di Theme Hospital, e ben si sposa con l’atmosfera del titolo. Il gameplay è vario e, nei momenti più concitati, come le emergenze che consistono nell’arrivo di pazienti da curare il prima possibile, offre quel giusto grado di sfida tipica dei titoli del genere, e del predecessore. La costruzione e la pianificazione delle stanze che formeranno il nostro ospedale dei sogni è tanto semplice quanto completa, con un editor che prende a piene mani dal titolo originale e anche da giochi come The Sims di Maxis: in poco più di qualche secondo, avremo creato il nostro ospedale dei sogni, con stanze e oggetti che sbloccheremo man mano nel gioco. Siano esse ottenute tramite ricompensa per le stelle raggiunte, o sbloccate tramite i kudosh, punti accumulabili tramite varie quest lanciate dal nostro staff, una delle novità introdotte in Two Point Hospital.

I cultori dell’originale titolo Bullfrog sanno, però, che la feature più importante del gioco erano le malattie, ricettacolo di incredibile ironia e motivo di divertimento. Per fortuna, nonostante la lunga assenza, le patologie divertenti (per quanto possa risultare un ossimoro) non mancano. I testoni e gli imitatori di Elvis lasciano il posto a uomini-lampadina, pentole incastrate in testa, e soprattutto imitatori di Freddie Mercury e del Tony Manero de La Febbre del Sabato Sera. A tal proposito: un plauso alla localizzazione italiana per l’ottimo lavoro svolto, che ha visto trasformare l’originale “mock star” in “rapsodite”, rendendo più netta e divertente il collegamento riguardante lo storico frontman dei Queen. E non sarà nemmeno l’unica citazione pop nascosta nel gioco! Two Point Hospital offre di tutto, dai Ghostbusters passando a Grey’s Anatomy, il gioco è una continua celebrazione della pop culture dagli anni ‘80 fino ai giorni nostri.

Insomma, concludendo, questo Two Point Hospital è un centro sotto tutti i punti di vista: il titolo è principalmente mirato agli orfani di Theme Hospital che hanno dovuto aspettare ben ventuno anni per avere un altro capitolo della serie, seppur come sequel spirituale. Le sfide sono tante, e tutto ciò va a favore della longevità del gioco, davvero vasto e capace di far pronunciare al giocatore le fatidiche parole “altri cinque minuti e stacco”, come ogni buon gestionale che si rispetti. Ora, si spera solamente di non dover attendere altri vent’anni e passa per un sequel ufficiale… ma, nel frattempo, diamo il bentornato a uno dei capisaldi del genere gestionale!




Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




Ascesa e declino delle demo

Nella metà degli anni ‘90, diciamo più o meno con l’arrivo della prima PlayStation nei negozi, le demo erano praticamente ovunque: gran parte delle riviste videoludiche che si trovavano nelle edicole erano colme di versioni dimostrative dei titoli in uscita. Ma con l’avvento della rete a banda larga e degli store digitali, questo tipo di marketing è scomparso quasi del tutto. Cosa ha portato gli sviluppatori a cambiare metodo di promozione dei propri giochi?

Una delle principali motivazioni dell’abbandono delle demo è dovuto alla mancata imposizione da parte del mercato come modello di riferimento: semplicemente, esse non si sono rivelate efficaci come altre forme di pubblicità, come trailer e video gameplay. Questi ultimi permettono di mettere in risalto i lati migliori del titolo in uscita e nascondendo i difetti, generando così hype per il futuro acquirente.
Invece, le demo, devono riflettere lo stato attuale della lavorazione del gioco, con i suoi pro e contro: così facendo un giocatore dapprima interessato all’acquisto potrebbe ripensarci e decidere di risparmiare il proprio denaro, perché ciò che ha provato non ha rispettato i suoi standard. Questo non riguarda direttamente la scarsa qualità del prodotto o eventuali bug e glitch, ma può essere semplicemente essere una questione di gusti. Infatti, secondo Jesse Schell, game designer americano e professore di entertainment technology alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha condotto un’analisi dove è risultato che le demo dei giochi tendono a danneggiarne le vendite, piuttosto che migliorarle.

Le versioni dimostrative sono affette da un paradosso non da poco nel mondo del gaming: devono essere ben fatte, per incoraggiare l’acquisto da parte dei giocatori, ma non devono molto estese, perché un assaggio prolungato del titolo può accontentare i palati di tanti futuri acquirenti. Molte volte le demo offrono la parte iniziale del gioco completo: solitamente rappresentano la parte più semplice e poco interessante dell’intera opera. Molti giochi sbocciano dalla metà in poi, e può essere controproducente dare in prova qualcosa di non intrigante. Creare qualcosa ad hoc, come un livello bonus o una parte del gioco scritta appositamente per la demo richiede più lavoro, e quindi gli sviluppatori, col tempo, si sono concentrati di più su altre forme di pubblicità, ritenute più semplici e redditizie.
Un altro paradosso riguarda la pirateria: la “scusa” più usata da chi scarica illegamente un titolo è quella di volerlo provare sul proprio PC per vedere se funziona o se ne vale l’acquisto. In teoria, l’uscita di una demo dovrebbe scongiurare il rischio pirateria, ma non è stato il caso di Resident Evil VII: sia il gioco completo che la versione dimostrativa erano protette da Denuvo, il popolare DRM anti-pirateria. Ma la demo del titolo Capcom, uscita con due settimane di anticipo rispetto al titolo completo, ha dato tempo ai cracker di lavorare sul codice e aggirare la protezione, rendendo così disponibile l’ultimo capitolo della saga horror sui canali illegali.

Se analizziamo l’offerta attuale delle demo, prendendo per esempio lo store di Steam, si nota che la sezione omonima è abbastanza nascosta nella homepage, visto che si deve evidenziare prima il menù dei giochi e poi andare su demo: è un sistema quasi estinto e poco usato, che ha lasciato lo spazio ad altri metodi, come le open beta, i weekend gratuiti (vedi Overwatch di Blizzard) oppure, idea lanciata proprio dallo store di Valve, il rimborso. Quest’ultimo metodo pone dei limiti entro quale è possibile richiedere la restituzione del denaro speso, ovvero una finestra di tempo di due settimane dall’acquisto e non più di due ore di gioco. Pur sembrando poco conveniente, può risultare un buon metodo per non perdere i nostri sudati risparmi, soprattutto in casi dove la nostra macchina può faticare nelle prestazioni, magari anche a causa di una cattiva ottimizzazione, come accaduto per Batman: Arkham Knight.
Curioso il metodo usato, invece, su Origin, lo store di Electronic Arts: per 3,99€ mensili o 24,99€ annuali, si può diventare membri di Origin Access e approfittare del 10% di sconto negli acquisti dello store, e dieci ore di prova per i rispettivi giochi. Nonostante queste misure non vadano effettivamente a sostituire le demo, possono risultare un buon metodo per provare molti titoli.

Insomma, la situazione è molto diversa rispetto al passato: ai tempi le demo erano quasi una necessità, e acquistare una rivista o scaricare l’eseguibile da un sito web era la prassi, in un mondo dove i titoli completi erano quasi ad appannaggio dei negozi specializzati. Con il passaggio dal fisico al digitale, la necessità di provare una demo è venuta sempre di più a mancare, grazie anche a servizi come Humble Bundle o lo stesso Steam, che molte volte offrono giochi completi scaricabili gratuitamente, oppure “pacchetti” di più giochi ottenibili a un prezzo altamente competitivo. Così facendo si contribuisce alla crescita del nostro amato e odiato backlog, ma alla fine è il prezzo da pagare per l’evoluzione del medium videoludico. Potrebbe essere comodo un ritorno al passato, ma probabilmente, le demo sono scomparse perché non ne sentiamo più il bisogno come venti anni fa.




Dusty Rooms: la triste storia del 3DO

Verso la metà degli anni ’90 i nomi che componevano la scena videoludica erano ben di più di delle semplici Microsoft, Sony e Nintendo (se è per questo la prima non c’era proprio). Al di là delle leggendarie Sega e Atari, di tanto in tanto entrava qualche nome che provava a sfondare nel mercato videoludico ma non sempre lasciava un’impronta decisiva: gli arrivi degli hardware Casio, Philips o Apple (eh sì… un giorno ne parleremo) fecero storcere il naso a molti giocatori – tanto è vero che come arrivavano dal nulla, svanivano nel nulla ­– ma nel 1993 una console ebbe la possibilità d’inserirsi nel mercato, piantare radici e, chissà, a oggi poter essere ancora presente. Tutto cominciò quando Trip Hawkins, fondatore di Electronic Arts, si incontrò nel 1989 con Dave Needle e R.J Mical, designer dei computer Amiga e Atari Lynx, per creare una console in grado di imporsi nel mercato, dettare gli standard per le generazioni a venire e che il pubblico, sempre più interessato alla grafica poligonale, avrebbe apprezzato. L’esperienza del fondatore di EA, trascorsa a produrre giochi per console e PC dell’epoca, unita all’abilità di due designer che portarono alla nascita di due potentissime macchine da gioco, avrebbe dovuto essere una garanzia per una console spettacolare; fu così che da un tovagliolo di un ristorante nacque il progetto del 3DO, macchina che di lì a poco sarebbe diventata realtà.

(Trip Hawkins)

Un modello rivoluzionario?

3DO Company, fondata principalmente per sviluppare l’hardware, presentò la nuova console nel Computer Electronics Show del 1992 richiamando non poca attenzione da parte di fan, critici e persino stampa nazionale essendo stato discusso nella sezioni business del New York Times e Chicago Tribune. La console, il cui supporto ottico erano i compact disc, aveva un processore a 32-bit che girava a 12.5 MHz, in grado di garantire ben 20.000 poligoni dotati di texture, un’ottima risoluzione di 640×480, supportato anche dal segnale S-Video proprietario, e un chip sonoro in grado di campionare le tracce audio a 44.1 KHz; il controller, che ricalcava lo stile e il design di quello del Sega Mega Drive, includeva 5 tasti, un jack per gli auricolari e la seconda porta per i giochi multiplayer (in grado da poter collegare un numero indefinito di controller alla console… altro che conga!). Trip Hawkins era ambizioso e perciò aveva offerto ai developer un accordo imbattibile, ovvero il pagamento di soli tre dollari di royalty a 3DO Company per ogni gioco venduto, molto più competitivo rispetto alla concorrenza Nintendo (15$) e Sega (13$). Più di trecento developer firmarono per produrre su questa nuova potentissima macchina, anche se non tutti rispettarono il loro accordo. Sul fronte hardware invece la compagnia avrebbe ceduto le specifiche tecniche a terze parti affinché queste, con i loro mezzi, producessero la loro versione del 3DO. Pertanto, Trip Hawkins si rivolse alle maggiori compagnie giapponesi sia per produrre una console con componenti di qualità, che per sfruttare l’ottima reputazione di quest’ultime. I suoi obiettivi principali erano Sony e Panasonic ma riuscì solamente a firmare con la seconda (in quando la prima stava già lavorando al progetto PlayStation) anche se in compenso riuscì anche a coinvolgere Sanyo e Goldstar (che sarebbe divenuta più tardi LG). Nell’Ottobre 1993 il primo modello di 3DO, il Panasonic FZ-1 (ed è per questo che spesso l’intera console è spesso attribuita a questa compagnia), fu rilasciato al pubblico in bundle con Crash ‘n Burn, il primo gioco di Crystal Dynamics, e stando alle previsioni di Trip Hawkins avrebbe dovuto stravolgere il landscape videoludico grazie alla sua spaventosa potenza; tuttavia i problemi cominciarono dal day one.

Badaboom!

Il 3DO fu promosso in televisione e nelle riviste con pubblicità competitive e “toste”, similarmente alla competizione nel mercato e pertanto, puntavano allo stesso target demografico di Super Nintendo e Sega Mega Drive. Tuttavia, sebbene la libreria di giochi fosse abbastanza valida, il prezzo di 699,99 dollari era ben fuori dalla loro portata. Il motivo di questo sovrapprezzo era dovuto principalmente al coinvolgimento delle compagnie produttrici di hardware: Panasonic, Sanyo e Goldstar non avrebbero ricevuto nulla dalla vendita dei giochi e perciò dovettero gonfiare il prezzo affinché potessero ottenere dei profitti da questo progetto. Ci furono inoltre problemi di reperibilità hardware e software: Crash ‘n Burn finì per essere l’unico gioco disponibile al lancio della console per via del fatto che l’hardware finale è stato cambiato fino all’ultimo momento e perciò, i developer che avevano promesso delle uscite per lancio, non poterono testare i loro titoli rimandando così l’uscita a data da destinarsi. Per via dei cambi all’ultimo minuto, inoltre, si potevano spiegare anche le poche unità presenti nelle maggiori catene di negozi di elettronica; vennero distribuite circa due unità per negozio alienando così quei già pochi che potevano permettersela. A tutto questo si dovette aggiungere anche l’annuncio di Sony PlayStation, Sega Saturn, Nintendo 64 e Atari Jaguar, che sarebbe uscita un mese dopo il 3DO; anche se nessuna di queste console sarebbe stata reperibile in tempi brevi, i giocatori già in possesso delle console 16-bit erano più propensi ad aspettare e, semplicemente, lasciar perdere questa nuova costosa macchina che ben presto si sarebbe rivelata obsoleta.
Già nel 1994 il 3DO era in pericolo e perciò dovevano essere presi dei provvedimenti: ispirato dalle compagnie già esistenti, Trip Hawkins decise di contrattare con Panasonic per vendere le console in perdita recuperando così con la vendita dei giochi. Il prezzo passò da 699 a 499 dollari e più tardi, sempre nel 1994, Goldstar vendette la sua versione del 3DO per 399, che era per altro il prezzo di lancio del Sega Saturn. Nonostante questi saggi cambiamenti e una libreria di giochi rispettabilissima, verso la fine del 1994 3DO Company rimaneva a galla per miracolo e le loro azioni in borsa crollarono da 37 a 23 dollari a Dicembre. Il 1995 si aprì abbastanza bene per 3DO Company in quanto riuscirono a registrare delle buone entrate (anche se ancora non bastavano per coprire tutti i costi finora sostenuti) e videro il rilascio di alcuni dei suoi migliori giochi ma il periodo di rinascita cessò ben presto: Sega annunciò e rilasciò il Saturn nel Maggio del 1995 per 399 dollari e più tardi, a Settembre, Sony rilasciò la PlayStation all’imbattibile prezzo di 299. Questo fatale 1-2 segnò praticamente la fine del 3DO, sia in termini di competitività hardware che software in quanto molte delle loro migliori uscite finirono poco dopo su PlayStation e Saturn. Electronic Arts, che era il developer di bandiera del sistema, decise di abbandonare il progetto di Trip Hawkins definitivamente e così, deluso dalla decisione della sua stessa azienda, la abbandonò fondando 3DO Studio per poter produrre nuovi giochi di qualità per la sua console e per quella successiva. Nel 1996 infatti, venne annunciato un successore del 3DO chiamato M2: la console sarebbe stata prodotta esclusivamente da Matstushita e fu proprio con l’annuncio del nuovo hardware che la 3DO Company registrò il suo primo profitto di 1.2 milioni di dollari. Tuttavia la competizione era spietata e PlayStation dominò per tutto il 1996; a questo punto, nel 1997, non rimase altro che chiudere la divisione hardware e concentrarsi esclusivamente come software house per le altre console, fino alla bancarotta di 3DO Company nel 2003. Trip Hawkins, nonostante avesse perso la partita, fondò Digital Chocolate, compagnia tuttora attiva sotto il dominio della RockYou, che ha prodotto diversi giochi per mobile e Facebook; abbandonata la presidenza nel 2012 a oggi è professore di pratica nel corso di “technology managment” dell’università di Santa Barbara in California.

L’impatto del 3DO

Cosa rimane oggi del 3DO? Fare una top ten dei migliori giochi di questa console, come abbiamo fatto per il precedente Dusty Rooms, è un po’ inutile in quanto molti di essi sono apparsi su altre console e le vere esclusive, non sono proprio fantastiche. Il 3DO è stata la casa di bellissimi porting da PC, come Alone in the Dark, Myst e Lemmings, alcuni arcade, come Samurai Showdown e il porting definitivo di Super Street Fighter II Turbo, e altri titoli originali che sono apparsi poi sulle altre console dell’epoca e PC come Return Fire, The Need for Speed e Killing Time. Su 3DO è possibile giocare ai primissimi giochi di Crystal Dynamics come il già citato Crash ‘n Burn, Total Eclipse e il fantastico Gex. Tuttavia, e questo può anche essere citato come uno dei motivi del fallimento della console, 3DO ha ospitato una marea di giochi FMV (full motion video) che a oggi risultano bizzarri, brutti… E semplicemente fantastici! Come non si possono amare titoli come Night Trap, Mad Dog McCree e The Daedalus Encounter con le loro recitazioni di basso livello e il gameplay tutt’altro che user-friendly? E che dire dell’orrendo Plumbers don’t Wear Ties? Se vi addentrerete in questo genere vi garantiamo risate a mai finire!
A ogni modo: quanto vale l’acquisto di un 3DO di seconda mano? La nostra risposta è: dipende. Il prezzo, a oggi, è certamente invitante in quanto potrete aggiudicarvelo per una frazione di quel che costava all’epoca; tuttavia la libreria di titoli è veramente particolare e non sono giochi che potrebbero piacere a tutti, specialmente perché alcuni di essi sono reperibili in altre console. Inoltre, il 3DO è una console molto fragile dunque, se ne considererete l’acquisto su internet, fate in modo che il venditore vi mostri la console funzionante (sempre se il viaggio non la danneggi). Se siete interessati ad avere questo hardware originale e magari siete appassionati della scena videoludica di nicchia a cavallo fra il ’93 e il ’96 allora il 3DO è la console che fa per voi.
La tecnologia del 3DO M2, prima della sua cancellazione, era stata ceduta per lo sviluppo e perciò esistono alcuni giochi arcade Konami, usciti regolarmente nelle sale giochi, che girano su quell’hardware: fanno parte di questa rosa Polystars, Total Vice, Battle Tryst, Evil Night e Heat of Eleven 98. Inoltre, ma questa è una chicca per i soli “Indiana Jones” del retrogaming, sono stati prodotti anche dei prototipi dell’M2 ed è possibile vederli funzionare su YouTube; tuttavia, trovarli su eBay sarà pressappoco impossibile.