NOstalgia

Una delle notizie più importanti della settimana è sicuramente la line-up dei venti giochi annunciati per PlayStation Classic: una serie di titoli che, nella comunità videoludica, ha lasciato più dubbi che certezze, soprattutto in base all’elevato costo del prodotto (100€ tondi tondi). Ma andiamo ad analizzarli uno per uno:

  • Battle Arena Toshinden: è il primo picchiaduro 3D uscito per la console di casa Sony. All’epoca generò anche un piccolo interesse (addirittura la rivista Game Power gli diede un pazzesco 105/100!), ma diciamo la verità: era brutto allora, ed è incredibilmente brutto dopo più di vent’anni dalla sua uscita, soprattutto se paragonato a Tekken, che uscì poco dopo. Avrei preferito molto di più Soul Edge, la base dell’odierno Soul Calibur.
  • Cool Boarders 2: il migliore della serie, con molta probabilità… però, se proprio dovevamo buttarci sugli sport estremi, non era meglio un Tony Hawk’s Pro Skater, titolo molto più iconico?
  • Destruction Derby: qua non ho niente da dire. Anche se, preferisco il seguito che migliora le buone cose viste nel predecessore. Però una buona scelta, nel complesso.
  • Final Fantasy VII: capisco enormemente il valore storico di questo titolo per PlayStation. D’altronde, è stato il primo della serie “sbarcato” sulla console Sony dopo anni sulle console Nintendo… però, con un remake in arrivo (ok, non si sa quando, arriverà) avrei preferito una scelta più traversale come un Suikoden II o un Legend of Dragoon. Però, ripeto, capisco la sua presenza.
  • Grand Theft AutoRockstar lo rese abandonware su PC anni fa, insieme al secondo. Scelta illogica sotto ogni punto di vista, anche perché si parla di un titolo che nasce e diventa di culto su PC, per poi esplodere del tutto solamente col passaggio alla terza dimensione su PlayStation 2.
  • Intelligent Qube/Kurushi: qui voglio spezzare una lancia a favore di questo puzzle. Non è il migliore dell’intera libreria PlayStation (a quello ci arriveremo dopo), però apprezzo che abbiano messo un titolo contenuto nella storica Demo One. E poi, è pure un buon puzzle game, anche se non è invecchiato proprio benissimo.
  • Jumping Flash: stesso discorso fatto prima per I.Q., uno dei primissimi titoli PlayStation. Forse non invecchiato benissimo in alcune meccaniche, ma per il valore storico ci può stare.
  • Metal Gear Solid: niente da dire, imprescindibile. Senz’ombra di dubbio uno dei cinque titoli più importanti di tutta la sconfinata produzione PlayStation.
  • Mr. Driller: Bel puzzle, però qui avrei messo un Kula World che avrebbe accontentato molta più gente, essendo forse il puzzle più giocato dei tempi.
  • Oddworld: Abe’s Odyssee: altro titolo storico dell’epoca, e anch’esso contenuto nella Demo One. Peccato solo che Steam lo abbia offerto gratuitamente lo scorso Maggio, ed è almeno la seconda volta che succede.
  • Rayman: considerando la recente operazione remake per Crash Bandicoot, alla fine, proporre la “mascotte” Ubisoft è una saggia scelta. Anche perché, non vedo platform migliori del primo Rayman all’orizzonte, visto che le alternative sono tutte invecchiate malissimo (Pandemonium), sono titoli mediocri (Croc), oppure erano già orrendi ai tempi (Bubsy 3D).
  • Resident Evil: Director’s Cut: anche qui niente da dire. Titolo che ha segnato intere generazioni di giocatori. L’unica cosa che mi fa storcere il naso è che è tutt’ora disponibile sullo store PlayStation anche se solo per PlayStation 3, PS Vita e PSP. Stessa sorte condivisa anche dal sequel, altro titolo importantissimo nella libreria, che probabilmente avrebbe meritato uno spazio maggiore anche in questa lineup.
  • Revelations: Persona: capisco il clamore dato dal quinto capitolo, essendo stato uno dei migliori giochi del 2017, ma alzi la mano chi creda che il primo Persona sia un classico. Non era meglio un titolo veramente generazionale come Wipeout 2097 e che ai fatti rappresenta una delle assenze più gravi di questa line-up?
  • Ridge Racer Type 4: forse per correttezza storica avrei scelto il primo, ma RRT4 con molta probabilità è il migliore della serie. E in assenza di un pezzo da novanta come Gran Turismo, non presente per problemi con i diritti della colonna sonora, non si poteva scegliere altro.
  • Super Puzzle Fighter II Turbo: se proprio bisognava mettere un terzo puzzle (forse troppi?) non si poteva fare scelta migliore di questo spin-off di Street Fighter. Uno dei migliori titoli del genere per la console.
  • Syphon Filter: personalmente, lo ritengo la sorpresa inaspettata della line-up. Una buona mossa da parte di Sony che accontenta i tantissimi giocatori che chiedono ancora a gran voce un remake per PlayStation 4. Per testare le acque in prospettiva futura ci sta.
  • Tekken 3: IL picchiaduro per PlayStation, senza ombra di dubbio. Certo, stona un po’ vedere Tekken 3 insieme a Toshinden… a sfavore di quest’ultimo, ovviamente.
  • Tom Clancy’s Rainbow Six: ecco, questa è una scelta veramente incomprensibile. Davvero non c’erano titoli migliori a disposizione? Che poi, vorrei vedere chi riesce a giocare un FPS tattico con la sola croce direzionale, visto che PlayStation Classic non offre lo storico controller Dual Shock, scartato a favore del primissimo joypad. Schiaffo morale a tutti coloro che speravano in titoli storici come Wipeout, Tomb Raider o Castlevania: Symphony of the Night (sì, è uscito recentemente su Playstation 4 insieme a Rondo of Blood, ma è uno dei titoli più rappresentativi della console).
  • Wild Arms: stesso discorso per Syphon Filter, una gradita sorpresa per un gioco di ruolo che merita di essere riscoperto, visto che all’epoca arrivò in Europa in colpevolissimo ritardo rispetto all’uscita giapponese e americana.

Insomma, una lineup non proprio esaltante, soprattutto rapportata al prezzo elevato della console rispetto alle concorrenti del settore, come NES e SNES Mini di Nintendo o il C64 Mini. È altresì vero che è difficile scegliere venti classici di una libreria vastissima e piena di perle come quella della prima PlayStation, ma vedendo la lista citata poc’anzi, mi viene da pensare che Sony si sia limitata al compitino fatto giusto per entrare nell’ormai affollatissimo mercato delle retroconsole. In pratica, la possibilità di avere una lista fatta a nostro gusto e piacimento è in mano alla comunità hacker, esattamente com’è successo con le mini console di Nintendo. A questo punto la domanda è più che lecita: tralasciando il collezionismo, ha senso spendere 100€ per un oggetto che diventerà godibile solamente quando si apriranno le porte del modding? Se proprio si ha la necessità di rispolverare dei vecchi classici dell’era PlayStation, a proprio piacimento e senza spendere una cifra così alta, non ha più senso buttarsi su un Raspberry Pi, oppure una cara e vecchia PlayStation Portable, console che si trova a prezzi abbordabilissimi e che è considerata una perfetta macchina per l’emulazione? considerando la portabilità di quest’ultima, si ha pure una feature in più, rispetto a PlayStation Classic.
Indubbiamente la mini console di Sony sarà un successo di vendite e magari, in futuro, la casa giapponese ci riproverà con una ipotetica PlayStation 2 Classic. Dopotutto, Nintendo con il successo di NES e SNES Mini ha dimostrato che la nostalgia può trasformarsi in un’opportunità di mercato parecchio ghiotta. Ma, da videogiocatore trentenne che ha vissuto in pieno l’era della prima PlayStation, posso dire di esser rimasto parecchio basito (“F4”) davanti alla line-up della mini console e ho cominciato a pormi una domanda in particolare: qual è il target di PlayStation Classic? I trentenni, come me, che hanno vissuto quell’era? I ragazzini odierni che per motivi anagrafici non hanno giocato i classici di allora e che probabilmente, avranno riscoperto gran parte di essi tramite remake e remaster odierne, oppure tramite la vecchia e cara emulazione, cosa che di fatto offrono queste mini console?
Sono fermamente convinto che l’emulazione sia qualcosa di necessario per la preservazione videoludica, come dimostra il grande lavoro di Nicola Salmoria, creatore del MAME, progetto che continua ancora oggi grazie alla dedizione dell’omonimo team che ha permesso di salvare dall’oblio migliaia di giochi arcade che sarebbero stati persi nei meandri del tempo o come dimostra la grandissima scena abandonware su PC. Bella la nostalgia, ma sulle mini console metto l’enfasi sulle prime due lettere della parola:”no”.




Ode a Sega Dreamcast

«It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90, quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…

Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal, Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel 2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi completa come raramente s’era vista prima di allora.
Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10.
Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet. Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star Online.

Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena (del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online.
Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo, interne e non, che decidevano di supportarne la causa.
Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio, Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico dei picchiaduro.
Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che, nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi.
Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico, disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore.
Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast.




Divertimento e istruzione: la storia di The Oregon Trail

Nel 1915, poco dopo l’intuizione che sta alla base della teoria della relatività, Albert Einstein, scrisse una lettera al figlio undicenne Hans Albert: in un passaggio della lettera, il celebre fisico disse «il miglior modo per imparare è divertirsi: così si impara di più. Quando fai una cosa con così tanto divertimento che non ti accorgi del tempo che passa». Devono essere stati dello stesso avviso anche Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, tre laureandi della Carlton College, che, durante il praticantato in una scuola media, ebbero l’idea di trasportare le lezioni di storia sulla pista dell’Oregon prima come gioco da tavolo, e poi come gioco per i neonati computer. Fu la genesi di uno dei giochi più giocati nelle scuole americane, e di uno dei titoli più importanti dell’intera storia del videogioco: The Oregon Trail era appena nato.

L’anno è il 1971, e il computer non è di certo quello che conosciamo. Allora le macchine erano gigantesche, e l’unico modo per accedervi era quello di usare una telescrivente, apparecchiature usate principalmente nelle scuole, anche se in piccole quantità. I nostri tre protagonisti sono professori di sostegno, oltre che studenti universitari, mandati nelle scuole a farsi le ossa. È il “capo” di Don Rawitsch a chiedere al giovane virgulto di preparare gli studenti per la traversata delle carovane dalla costa est degli Stati Uniti alla costa ovest, allora selvaggia e piena di impervie. La celebre pista dell’Oregon è uno degli avvenimenti più importanti della giovane storia dello stato americano dell’epoca, e Rawitsch comincia a pensare a un metodo più immersivo per i giovani ragazzi: un gioco da tavolo con una grande mappa della costa pacifica statunitense. Furono i suoi due colleghi, Bill Heinemann e Paul Dillenberger, due studenti di programmazione, che dopo aver appreso le regole del gioco pensarono che si adattasse perfettamente al computer. C’era solo un problema: Don aveva bisogno del gioco fatto e finito entro una settimana. Bill e Paul dissero che si poteva fare, e presero controllo della sala informatica (o meglio, un bugigattolo con due sedie e una telescrivente) per creare la prima stesura di The Oregon Trail.
Più il tempo passa, e più i tre arrivano a intuizioni geniali per l’epoca: per esempio, la possibilità di subire più attacchi nella zona ovest del paese, un clima più freddo nelle montagne del Wyoming o dell’Oregon, più una serie di eventi randomici che avrebbero reso il viaggio più duro, ma anche più appassionante. E il tutto, sorretto dal sempiterno BASIC, che si presta perfettamente ad azioni, come lo sparare durante le battute di caccia. Il più veloce a scrivere correttamente “BANG” avrebbe avuto più carne, mentre troppa indecisione o uno spelling sbagliato sarebbe risultato in un colpo andato a vuoto.

Dopo una settimana, Bill e Paul decidono di provare il gioco nelle loro scuole: i ragazzini lo adorarono, con studenti di seconda e terza media che addirittura migliorarono nella comprensione del testo grazie al titolo. Ma, se l’impressione della scolaresca era positiva, vi erano delle perplessità da parte delle scuole, principalmente legate alla presenza dei nativi americani. I tre avevano sottovalutato il potenziale storico di The Oregon Trail, e gran parte di esso era basato sui film western, popolarissimi in quegli anni. Sarebbero sorte dei problemi nel caso di studenti di discendenza nativo-americana, e quindi i tre decisero di evitare simili problemi trasformando i pellerossa armati di tomahawk in neutrali banditi muniti di coltello.

Finalmente arrivò il giorno della prima in classe: Don decise di suddividere gli studenti in due gruppi, uno dedito allo studio “tradizionale”, con letture, raccolta di immagini e analisi della mappa riguardante il viaggio dei coloni verso la costa pacifica americana, mentre l’altro gruppo si dedicò al gioco, applicando una rotazione giornaliera, così che tutti potessero provare The Oregon Trail. I risultati arrivarono dopo pochi giorni: il miglior dattilografo si occupava di scrivere, e si crearono dei microgruppi. C’era chi controllava la mappa e il progresso del viaggio e chi teneva conto delle provviste della carovana. Questa suddivisione dei compiti non fu una decisione presa “dall’alto”, ma fu qualcosa di naturale presa dagli studenti, e la cosa sorprese Rawitsch. Soprattutto considerando quanto la storia sia una materia poco amata dagli studenti.

Dopo la fine del praticantato nelle scuole, i tre finirono gli studi, e Don venne assunto al MECC (Minnesota Educational Computing Consortium), un’organizzazione che si occupava della distribuzione dei computer nelle scuole dello stato. I file originali vennero persi, ma per fortuna vi era ancora il codice stampato su carta, e quindi Rawitsch cominciò a trascrivere le 800 linee di codice su un Apple II. Il gioco venne ufficialmente rilasciato per la piattaforma nel 1978, forte del successo interno nelle scuole dello Stato, e dopo di esso arrivarono dozzine di conversioni per tutti gli home computer disponibili ai tempi, dal Commodore 64 al PC, fino ad arrivare, oggi giorno, a versioni disponibili anche su mobile e portatili LCD, oltre a tributi come The Organ Trail, che riprende il tema originale del titolo dando al tutto una sferzata horror.

Dopo 65 milioni di copie vendute in 40 anni, il nono posto nella classifica del Time dei 100 giochi migliori di sempre, e l’introduzione nella Video Game Hall of Fame nel 2016, il lavoro di Don Rawitsch, Bill Heinemann e Paul Dillenberger viene citato come il punto cardine dei cosiddetti edutainment, i giochi educazionali. Settore che, oggi giorno, vede piattaforme come teachergaming.com offrire ai professori di tutto il mondo titoli dal forte stimolo educativo, come Cities: Skyline, Democracy 3 o Universe Sandbox. O come dimostrato qualche anno fa dall’università di Bergen, in Norvegia, che ha usato Civilization IV di Sid Meier per insegnare inglese, norvegese e scienze sociali. A dimostrazione che il videogioco non va sottovalutato: è principalmente un hobby, ma può essere anche un potente mezzo educativo a disposizione degli insegnanti, e The Oregon Trail ne è l’esempio massimo.




Questo cross-play non s’ha da fare

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», era la minaccia proferita dai Bravi manzoniani al Don Abbondio de I Promessi Sposi. Il mondo videoludico odierno non poteva farsi mancare il suo Don Rodrigo, che oggi veste i panni di una Sony che mette il veto su un altro matrimonio, quello che sarebbe celebrato dal cross-play tra PC e consoleLe ultime dichiarazioni del CEO della compagnia giapponese, Kenichiro Yoshida, le avete lette in molti, e vale ricordarle per rinfrescarsi la memoria:

«Il nostro pensiero sul cross-platform è sempre che Playstation 4 sia il miglior posto in cui giocare. Credo che Fortnite abbia scelto noi perché la nostra console offre la miglior esperienza possibile agli utenti. Abbiamo comunque altri giochi che sfruttano il cross-play con il PC e altri sistemi, e decidiamo in base a quale sistema offre la miglior esperienza per gli utenti: questo è il nostro modo di intendere il cross-platform.»

In sostanza, le parole di Yoshida suonano un po’ come “guardateci: siamo i migliori e non abbiamo bisogno di nessuno”. Dichiarazioni che vanno in netto contrasto, nei fatti, con tutto ciò che succede nel mondo videoludico odierno, e che sanno anche di leggera paraculata. Soprattutto considerando le lamentele di alcuni sviluppatori, come quelle di Todd Howard, direttore e produttore di alcune delle serie più famose di Bethesda, come The Elder Scrolls e Fallout: a proposito dell’imminente Fallout 76, Howard ha dichiarato:

«Fallout 76 non avrà il supporto del cross-play. Ci piacerebbe, ma semplicemente non possiamo. Sony non è così disponibile come le altre»

Dichiarazioni simili a quelle rilasciate da Andrew Wilson, CEO di Electronic Arts a proposito di Battlefield V:

«Stiamo osservando il comportamento di alcuni giochi di successo, riguardo al gioco cross-platform, per esempio, Fortnite: riteniamo che un’interfaccia unica che permette ai giocatori PC di incontrarsi con gli utenti mobile, e quest’ultimi di poter giocare con gli utenti console sia una parte importantissima del nostro sviluppo per il futuro.»

Sono dello stesso avviso anche Microsoft e Nintendo: ha sorpreso in positivo il video pubblicato qualche mese fa, nel quale si vede un utente Xbox One giocare a Minecraft con un utente Switch. A tal proposito riportiamo le parole di Reggie Fils-Aime, COO di Nintendo of America:

«Ci sono compagnie, come la mia, che incoraggiano e permettono il cross-play. Ci sono degli sviluppatori che vogliono e richiedono il cross-play. Poi ci sono le altre compagnie: e quello che fanno riguarda solamente i possessori di quelle piattaforme. Noi non siamo così, ma è una nostra decisione. Noi siamo a favore del cross-play, altri no.»

In sintesi, al momento la situazione è questa: c’è Sony, barricata tra le sue stesse mura e che rilascia dichiarazioni alquanto discutibili, e poi c’è un intero mondo videoludico che spinge verso un cross-play totale tra tutte le piattaforme.
Secondo un ex sviluppatore della casa giapponese, John Smedley, la ragione della testardaggine di Sony a riguardo del cross-play è tutta da legare al fattore economico. Quasi come se negli uffici di Minato temessero un calo di popolarità e di vendite. Eppure, sotto questo punto di vista, non corrono nessun rischio: Xbox One è lontana, mentre Switch, nonostante un ottimo risultato di vendite, raggiungerebbe la base di PlayStation 4 installate solamente nel 2020.

Personalmente, da utente pienamente a favore del cross-play, spero che Sony riveda il prima possibile le sue posizioni. Penso che si sia incaponita su delle posizioni anacronistiche, visto che tutto il mondo verte verso un futuro dove il cross-play e il cloud gaming saranno la normalità. Quanto sarebbe bello vivere il videogioco senza limitazioni di sorta? E senza mura a dividere le diverse utenze tra console e PC? La console war, con tutta la sua puerilità, verrebbe spazzata via e si aprirebbe, finalmente, un mondo dove tutti i sistemi siano interconnessi tra di loro.
Inoltre, a dirla tutta, se in termini numerici oggi Sony può aver ragione, e avvantaggiarsi di un profitto che a oggi si ridurrebbe (anche se in misura probabilmente marginale), c’è la solita miopia nel non vedere questa come un’opportunità: essere i più forti sul mercato significa anche non avvantaggiarsi totalmente della propria posizione dominante in vista di futuri vantaggi. A concedere il cross-play senza limiti, PlayStation oggi ne guadagnerebbe in immagine, ritornando a essere “For the players“, in linea col motto di PlayStation 4.

Mi piace pensare alle parole di Imagine di John Lennon: «Imagine all the people sharing all the world». D’altronde, il videogioco è questo: condividere una passione e dei bei momenti in compagnia. Quindi, cara Sony, spero che un giorno ti unirai a noi in questo splendido girotondo di gamer che desiderano giocare in ogni luogo, in ogni momento e con qualunque piattaforma possiedano.
Del resto, se non sarai tu, sarà il mercato a volerlo. Per cui, scendi già adesso a giocare con noi!




Cloud gaming = futuro?

Lo scorso giugno, Yves Guillemot, CEO di Ubisoft, ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere: secondo il fondatore dello studio francese, la prossima generazione di console sarà l’ultima per come la conosciamo, destinata a lasciare il posto al cloud gaming. E in effetti il futuro sembra volgere verso questo tipo di servizio, come lasciano intuire gli interessamenti da parte di Activision, Sony col suo PlayStation Now (e prima ancora, l’acquisto di Gaikai), più una miriade di servizi recenti come Nvidia Grid, Liquidsky, Vortex o Snoost. Ma la “bomba di mercato” maggiore proviene da Redmond, Washington; infatti, secondo le ultime voci, pare che Microsoft voglia creare due versioni della nuova Scarlet, nome in codice della prossima Xbox: una console “classica” e l’altra, più economica e completamente incentrata sul GooS (gaming as a service), ovvero, il cloud streaming.

Certo, le intenzioni sono interessanti, e anche sotto il profilo del progresso tecnologico sembra che il GooS rappresenti il futuro prossimo, con servizi più vicini a ciò che offre Netflix: Snoost, per esempio, prende pesantemente ispirazione dal servizio di streaming cinematografico e televisivo californiano, con piani di abbonamento che partono da 12,95€ al mese per un’esperienza a 480p, fino ad arrivare a pagare 38,85€ mensili per il gaming a 1080p. Ma il nodo gordiano della questione cloud gaming è rappresentato sempre dalle infrastrutture di rete, dove i lag spikes la fanno da padrone: prendendo per esempio il nostro paese, secondo il report dell’AGCOM scopriamo che solamente il 25% della popolazione ha accesso a una connessione internet che supera i 100Mbps, e un fortunato 2% che usufruisce di una rete FTTH (fiber to the home). Dato parecchio sconfortante, reso ancora più deprimente se controlliamo la classifica della velocità delle connessioni mondiali pubblicata da M-Lab, dove l’Italia si assesta al 43° posto, quart’ultima nazione europea.

Tornando all’attualità del cloud gaming, al momento abbiamo qualche timido servizio, come quelli citati all’inizio, e tante promesse: è il caso di Microsoft. La voce di una nuova Xbox dedicata solo ed esclusivamente allo streaming potrebbe essere la svolta decisiva per un nuovo modo di intendere i videogiochi. Non a caso, da qualche giorno molte sono le notizie che vedono l’azienda di Bill Gates intenta a tornare nel settore degli smartphone, nonostante il fallimento di Windows Phone e di Surface Phone (che, a inizio anno, rappresentavano solamente lo 0,15% della fetta di mercato!): alla fine, il motto che ha contraddistinto Xbox One è “play anywhere”, con una sorta di interconnessione tra la console e i PC con Windows 10: e se questa connessione si allargasse anche agli smartphone, così come fa Remotr? Rientrerebbe nelle classiche innovazioni a cui Microsoft aspira fin dagli inizi della sua storia.
Ma vi è anche un pericoloso precedente andato male, che riguarda una console dedicata esclusivamente allo streaming: è il caso di PlayStation TV, un piccolo media center creato da Sony per poter giocare sui televisori di casa con i titoli PlayStation Vita, coadiuvato anche dal supporto a PlayStation Now. Fu un fallimento commerciale: la piccola scatolina nera di Sony non aveva nessun appeal per i giocatori, con un costo elevatissimo per ciò che veniva offerto, e il progetto venne accantonato dopo soli due anni dall’uscita nei negozi.

Non basta il caso di PlayStation TV a rendere dubbia l’effettiva funzionalità del GooS; prendiamo sempre come esempio l’ipotetica “doppia” Xbox: come verrebbe impostato il marketing di Microsoft? Quale sarebbe la vera differenza delle due versioni, all’infuori del costo meno elevato per la versione dedicata allo streaming? E se quest’ultima avesse più problemi rispetto a una console classica, essendo legata a doppio filo dalle infrastrutture di rete del proprio territorio? Sarebbe devastante per una Microsoft non più disposta a inseguire le concorrenti nella prossima generazione di console. Certo, in caso contrario verrebbe fuori qualcosa di rivoluzionario, e rappresenterebbe davvero l’inizio di una nuova era nel gaming, ma al momento è tutto un grande “se”, visto che non si sa se effettivamente negli studi di Redmond si stia progettando una Xbox dedita esclusivamente alle funzionalità cloud.
Più concreta, invece, sembra la linea intrapresa da Activision; pochi giorni fa, il COO Coddy Johnson ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a proposito del cloud gaming:

«Pensiamo che sul lungo termine l’impatto del gaming basato sul cloud e sullo streaming sarà positivo sia per noi che per l’intera industria videoludica. Innanzitutto perché ha il potenziale di accrescere la base di videogiocatori, raggiungendo quelli che non possono permettersi una console o un PC all’ultimo grido. E, in secondo luogo, venendo in aiuto di chi gioca già, offrendo esperienze più accessibili. C’è ancora tanto lavoro da fare prima che la tecnologia possa essere disponibile per la maggior parte del pubblico, ma crediamo che prima o poi accadrà, probabilmente non a breve, ma quando verrà il momento anche Activision ci sarà.»

Insomma, i piccoli passi verso il futuro, che sia prossimo o più in là nel tempo, ci sono tutti: servizi in abbonamento come Vortex, Snoost o Gamefly sono già disponibili, mentre i giganti del settore come Sony, Microsoft e Activision guardano con interesse il gaming as a service. Il futuro del settore si giocherà su questo campo, e il calcio di inizio aspetta solamente di essere battuto.




Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




Ascesa e declino delle demo

Nella metà degli anni ‘90, diciamo più o meno con l’arrivo della prima PlayStation nei negozi, le demo erano praticamente ovunque: gran parte delle riviste videoludiche che si trovavano nelle edicole erano colme di versioni dimostrative dei titoli in uscita. Ma con l’avvento della rete a banda larga e degli store digitali, questo tipo di marketing è scomparso quasi del tutto. Cosa ha portato gli sviluppatori a cambiare metodo di promozione dei propri giochi?

Una delle principali motivazioni dell’abbandono delle demo è dovuto alla mancata imposizione da parte del mercato come modello di riferimento: semplicemente, esse non si sono rivelate efficaci come altre forme di pubblicità, come trailer e video gameplay. Questi ultimi permettono di mettere in risalto i lati migliori del titolo in uscita e nascondendo i difetti, generando così hype per il futuro acquirente.
Invece, le demo, devono riflettere lo stato attuale della lavorazione del gioco, con i suoi pro e contro: così facendo un giocatore dapprima interessato all’acquisto potrebbe ripensarci e decidere di risparmiare il proprio denaro, perché ciò che ha provato non ha rispettato i suoi standard. Questo non riguarda direttamente la scarsa qualità del prodotto o eventuali bug e glitch, ma può essere semplicemente essere una questione di gusti. Infatti, secondo Jesse Schell, game designer americano e professore di entertainment technology alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha condotto un’analisi dove è risultato che le demo dei giochi tendono a danneggiarne le vendite, piuttosto che migliorarle.

Le versioni dimostrative sono affette da un paradosso non da poco nel mondo del gaming: devono essere ben fatte, per incoraggiare l’acquisto da parte dei giocatori, ma non devono molto estese, perché un assaggio prolungato del titolo può accontentare i palati di tanti futuri acquirenti. Molte volte le demo offrono la parte iniziale del gioco completo: solitamente rappresentano la parte più semplice e poco interessante dell’intera opera. Molti giochi sbocciano dalla metà in poi, e può essere controproducente dare in prova qualcosa di non intrigante. Creare qualcosa ad hoc, come un livello bonus o una parte del gioco scritta appositamente per la demo richiede più lavoro, e quindi gli sviluppatori, col tempo, si sono concentrati di più su altre forme di pubblicità, ritenute più semplici e redditizie.
Un altro paradosso riguarda la pirateria: la “scusa” più usata da chi scarica illegamente un titolo è quella di volerlo provare sul proprio PC per vedere se funziona o se ne vale l’acquisto. In teoria, l’uscita di una demo dovrebbe scongiurare il rischio pirateria, ma non è stato il caso di Resident Evil VII: sia il gioco completo che la versione dimostrativa erano protette da Denuvo, il popolare DRM anti-pirateria. Ma la demo del titolo Capcom, uscita con due settimane di anticipo rispetto al titolo completo, ha dato tempo ai cracker di lavorare sul codice e aggirare la protezione, rendendo così disponibile l’ultimo capitolo della saga horror sui canali illegali.

Se analizziamo l’offerta attuale delle demo, prendendo per esempio lo store di Steam, si nota che la sezione omonima è abbastanza nascosta nella homepage, visto che si deve evidenziare prima il menù dei giochi e poi andare su demo: è un sistema quasi estinto e poco usato, che ha lasciato lo spazio ad altri metodi, come le open beta, i weekend gratuiti (vedi Overwatch di Blizzard) oppure, idea lanciata proprio dallo store di Valve, il rimborso. Quest’ultimo metodo pone dei limiti entro quale è possibile richiedere la restituzione del denaro speso, ovvero una finestra di tempo di due settimane dall’acquisto e non più di due ore di gioco. Pur sembrando poco conveniente, può risultare un buon metodo per non perdere i nostri sudati risparmi, soprattutto in casi dove la nostra macchina può faticare nelle prestazioni, magari anche a causa di una cattiva ottimizzazione, come accaduto per Batman: Arkham Knight.
Curioso il metodo usato, invece, su Origin, lo store di Electronic Arts: per 3,99€ mensili o 24,99€ annuali, si può diventare membri di Origin Access e approfittare del 10% di sconto negli acquisti dello store, e dieci ore di prova per i rispettivi giochi. Nonostante queste misure non vadano effettivamente a sostituire le demo, possono risultare un buon metodo per provare molti titoli.

Insomma, la situazione è molto diversa rispetto al passato: ai tempi le demo erano quasi una necessità, e acquistare una rivista o scaricare l’eseguibile da un sito web era la prassi, in un mondo dove i titoli completi erano quasi ad appannaggio dei negozi specializzati. Con il passaggio dal fisico al digitale, la necessità di provare una demo è venuta sempre di più a mancare, grazie anche a servizi come Humble Bundle o lo stesso Steam, che molte volte offrono giochi completi scaricabili gratuitamente, oppure “pacchetti” di più giochi ottenibili a un prezzo altamente competitivo. Così facendo si contribuisce alla crescita del nostro amato e odiato backlog, ma alla fine è il prezzo da pagare per l’evoluzione del medium videoludico. Potrebbe essere comodo un ritorno al passato, ma probabilmente, le demo sono scomparse perché non ne sentiamo più il bisogno come venti anni fa.




La storia di Championship e Football Manager

1° settembre 1992: data di uscita del primo Championship Manager, sviluppato interamente in casa dai fratelli Paul e Oliver “Ov” Collyer. Ma la storia, in realtà comincia nel 1985, come narrato da loro stessi:

“Eravamo appassionati di titoli calcistici come Mexico ‘86 e l’originale Football Manager sviluppato da Kevin Toms per ZX Spectrum. Giocavamo davvero qualsiasi gioco di calcio che ci capitasse in mano e, nell’arroganza tipica della gioventù, pensammo di poter fare meglio di tutti gli altri.”

Ci vollero tanti anni per trasformare l’ambizione in realtà, visto che Paul e Ov all’epoca erano studenti universitari: il titolo prese vita nel 1991 e l’anno successivo venne pubblicato dalla Domark, publisher poi passato a Eidos,  e ora facente parte di Square-Enix.
Il primo Championship Manager, uscito per Atari ST, Amiga e successivamente MS-DOS, era un titolo rozzo, programmato in BASIC, senza licenza e munito solamente di schermate testuali al contrario di giochi dell’epoca, come The Manager o il già citato Football Manager di Toms: il gioco ricevette pure alcuni rifiuti da publisher come Electronic Arts proprio per le tante mancanze e un gameplay lento e poco vicino all’azione. Ma tutto ciò non fece demordere i Collyer, e CM divenne un piccolo fenomeno di culto in Inghilterra, oltre a essere pubblicato anche in paesi come Francia (sotto il nome di Guy Roux Manager, derivato dal leggendario allenatore dell’Auxerre), Norvegia e Italia, anche se queste ultime due versioni differivano dal gioco principale per la presenza dei giocatori reali.

Proprio il nostro paese gioca un ruolo fondamentale per la crescita del fenomeno Championship Manager, o Scudetto, come è noto ai più da noi: ai tempi la Serie A era il campionato calcistico più famoso al mondo, e nel 1993, arrivò la volta di Championship Manager ‘93 e di Championship Manager Italia, i primi sotto l’effige Sports Interactive, co-fondata proprio dai fratelli Collyer: abbandonato il BASIC, si passò al linguaggio C, e il titolo ottenne un grande successo, grazie all’arrivo dei giocatori reali e, nel caso di CM Italia, la possibilità di giocare i campionati di Serie A e B.
CM ‘93 era solo la prima pietra per il successo della serie, che arrivò nel 1995, con Championship Manager 2 e le seguenti espansioni per le stagioni ‘96/’97 e ‘97/98. Oltre a varie migliorie tecniche, venne aggiunto anche il campionato scozzese, oltre alla telecronaca a cura di Clyde Tyldesley, all’epoca cronista della BBC, che risultò essere uno dei motivi particolari per il quale viene ricordato il titolo. Ma CM 2, principalmente la versione ‘96/’97, viene ricordata per l’introduzione della Sentenza Bosman, che permette il trasferimento a costo zero di un giocatore con il contratto scaduto, o di un pre-contratto gratuito, nel caso non restino più di sei mesi di contratto con la precedente squadra, com’è successo nel recente caso di De Vrij, passato dalla Lazio all’Inter.

Tra i punti fondamentali del successo di CM, secondo i Collyer, vi è la possibilità di creare un intero universo calcistico con ogni salvataggio, pur basandosi sulla realtà, e l’incredibile lavoro di scouting interno a cura di Sports Interactive. Quest’ultima detiene possibilmente la rete più numerosa al mondo, con centinaia di ragazzi facenti parte dei gruppi di ricerca che monitorano i giocatori di circa 4.000 squadre sparse in 51 nazioni, come accade nella nostrana RIO (Ricerca Italiana Official).
A tal proposito non sorprende sapere di apprezzamenti verso il lavoro di SI da parte di allenatori come Andre Villas-Boas od Ole Gunnar Solskjaer, oltre a racconti che creano del vero proprio folklore interno, come la storia del figlio di Alex McLeish che consiglia al padre un giovane Leo Messi o dell’Hoffenheim che acquista Firmino proprio grazie alle statistiche registrate dalla rete di scouting del gioco.

Dopo il successo di CM 2, arrivò il turno di uno dei titoli più amati dai fan, ovvero Championship Manager 3, in particolare la versione 01/02 che viene tutt’ora giocata e supportata da una community attivissima che non smette di aggiornare le rose di tutto il mondo: tutto questo grazie anche al fatto che Championship Manager 01/02 sia stato reso disponibile gratuitamente dal 2009 .
Ma i problemi arrivarono nel 2003, con il rilascio di Championship Manager 4: nonostante sia stato il titolo più venduto al lancio su PC, CM 4 era afflitto da bug e mal programmato a causa delle continue pressioni da parte di Eidos. Gli utenti si lamentarono dell’engine 2D, che sembrava programmato di fretta, oltre che della pesantezza delle richieste hardware rispetto ai titoli precedenti. Per non parlare del mercato irrealistico e di squadre dilettantistiche che costruivano stadi da 850.000 posti. Non bastò CM 03/04 ad aggiustare i numerosi problemi del titolo precedente e la fine del rapporto tra Sports Interactive e Eidos divenne inevitabile, con Jacobson e i Collyer che tenettero gli asset del gioco, e il publisher che tenne i diritti del nome Championship Manager.

La storia ci insegna che Sports Interactive ha avuto ragione: la serie di Championship Manager è di fatto morta nel 2011 dopo una serie di titoli inadeguati a cura di Beautiful Game Studios, mentre Football Manager vende milioni di copie anno dopo anno, e ha ormai scolpito il suo nome nell’immaginario dei giocatori amanti del genere manageriale, oltre che dei fan del calcio, e degli adetti ai lavori: libri, spettacoli di stand up comedy e addirittura un documentario uscito nel 2014 con persone che narrano del loro amore verso il titolo SI, come ex calciatori e star dello spettacolo. Alla fine è proprio come ha detto l’ex Take That Robbie Williams, recente protagonista della cerimonia d’apertura dei mondiali di Russia 2018: «è il miglior gioco che sia stato mai creato… è un gioco, vero?»