The Outer Worlds – Più Vero del Vero

Dopo tante ma veramente tante ore di gioco, allontanarsi dal Sistema Alcione in maniera semi-definitiva lascia un velo di nostalgia. The Outer Worlds è dunque un’esperienza riuscita sotto tanti punti vista, una scommessa quella di Obsidian non solo vinta, ma anche capace di dimostrare come lo studio è ancora in grado di dire la sua nel genere.

Come una Matrioska

Tra circa trecento anni, l’essere umano ha già colonizzato numerosi mondi, tra cui il sistema solare di Alcione, centro su cui ruoteranno le innumerevoli vicende del titolo. The Outer Worlds non perde certo tempo: sin da subito il tono della narrazione è scandito da un umorismo raro di questi tempi, a partire dal dottor Phineas, vero mattatore del titolo. Ma è tutta l’atmosfera a mostrare segni di ilarità, già dalle descrizioni delle “classi” capaci di strappar già qualche risata. La scelta se intraprendere una carriere da ascensorista, cassiere o giardiniere, oltre a garantire un bonus passivo è in grado di mostrare le reali potenzialità del gioco dal punto di vista narrativo. È vero, si ride e si scherza, ma quando c’è da fare sul serio è il black humor a prendere il sopravvento. Il Sistema di Alcione è governato da una serie di Corporazioni differenziate da una diversa visione del rapporto tra l’uomo e il lavoro. Ma è il Consiglio che detta legge, mettendo l’efficienza sul lavoro al primo posto delle priorità. Capiterà spesso di aver a che fare con il “personale” del Consiglio ed è qui che The Outer Words spalanca le porte del suo essere, amalgamando perfettamente narrazione e un umorismo sempre sul pezzo, in grado di accentuare la follia e disumanizzazione della maggior parte dei coloni di Alcione. Il lavoro è al primo posto, anche rispetto all’amor proprio; ne consegue un’alienazione totale di molti NPC, alcuni capaci di comunicare solo attraverso slogan pubblicitari. Ovviamente non tutti i cittadini vedono di buon occhio una simile situazione: il nostro risveglio dalla situazione di stasi criogenica a opera del dottor Phineas ci catapulta in una lotta di classe e corporazioni con, sullo sfondo, qualcosa di cui nessuno deve essere a conoscenza.
Il nostro viaggio comincia qui, accompagnati da ADA, l’intelligenza artificiale dell’Inaffidabile (la nostra nave) e un gruppo di comprimari che via via ci accompagneranno tra i pianeti del sistema stellare. La solida scrittura di Obsidian si nota anche grazie ai nostri compagni, tutti con un proprio background capace di ricordare a grandi linee la profondità di Mass Effect: da Parvati al Vicario Max, ogni personaggio possiede una propria etica e qualche scheletro nell’armadio che, qualora volessimo, potremo aiutare a tirar fuori risolvendo situazioni spinose. Ma non pensate per forza a storie struggenti e strappalacrime: la forza del titolo è quella di non prendersi mai sul serio se non serve e molto spesso, l’ilarità di certe situazioni vi strapperà di sicuro un sorriso o perché no, una sana risata.
La struttura in ogni caso ricalca quella di Fallout: New Vegas, con un mondo costituito dalle varie fazioni a cui potremmo aderire o meno in base agli incarichi svolti. Anche in questo caso il tutto funziona abbastanza bene, cercando di trovare sempre il bilanciamento perfetto tra simpatia e vantaggi usufruibili da tutte le corporazioni e non. Tutto è molto “grigio”: nessuno è depositario della verità, nessuno è considerabile realmente buono; tutto dipende dal vostro punto di vista e dalla vostra visione del mondo. The Outer Worlds è per l’appunto un test politico e sociale dove gli utenti si troveranno faccia faccia con scelte esistenti nel mondo reale, dirette grazie ai dialoghi ma, soprattutto, un po’ come il nuovo Prey, con scelte invisibili, dettate dalla vostra condotta etica in quel di Alcione. È bene dunque ricordare che nulla è lasciato al caso: tutto ha delle conseguenze, e non basta aspettare le fasi finali per accorgersene.

La forma segue la funzione

Inutile girarci intorno: il feeling più immediato con cui fare dei paragoni è indubbiamente la serie Fallout, di cui Obsidian sviluppò uno spin-off, denominato New Vegas. Questo gioco, datato 2010, pur rimanendo familiare dopo l’uscita del reboot Bethesda, presentava diverse migliorie, tra cui l’introduzione di una serie di fazioni pronte a darsi battaglia per il controllo della Diga di Hoover, l’unica rimasta in funzione dopo l’olocausto nucleare. Rispetto a Fallout 3, New Vegas mostrava un mondo estremamente vario, ricco e maturo, sia nella costruzione degli ambienti che nella caratterizzazione narrativa di mondo e personaggi.
Tutta quell’esperienza, con l’aggiunta del lavoro svolto con Pillars of Eternity, trova compimento in The Outer Worlds: ogni elemento strutturale di gameplay è ampiamente riconoscibile, in cui non si è cercato di innovare ma piuttosto di portare qualcosa che funzionasse a dovere, esaltato dal contesto narrativo. Se di questo abbiamo già discusso, è il modus operandi a là Fallout che colpisce. Perché diciamoci la verità: funziona molto meglio dell’originale.
Lo stampo principale è ovviamente quello di un RPG, in cui trovare, riciclare e potenziare le risorse a nostra disposizione non è che la punta dell’iceberg della produzione. Già dalla buona possibilità di personalizzazione del nostro alter ego, con l’attivazione di bonus passivi e attivi, a colpire è la consapevolezza e padronanza del genere da parte di Obsidian, in cui tutto sembra esser nel posto giusto, con una funzione specifica di ogni dettaglio, senza inutili frivolezze stilistiche. Chi ha giocato degli RPG si sentirà a casa e chi non ha mai affrontato il genere sarà comunque ben accolto. Dove Obsidian ha cercato di far qualcosa di diverso è nella gestione di bonus e malus passivi: nel corso delle battaglia, nel caso in cui tutto non sia esattamente filato liscio, si svilupperà una debolezza (Fobia), quasi fosse un trauma, verso una particolare tipologia di arma, danno o nemico. Questa è un’introduzione interessante in quanto porta una variazione nell’accumulo d’esperienza: non tutto ciò’ che affrontiamo porta necessariamente a un miglioramento…
Altro fulcro dell’opera non poteva che essere la fase shooting, che purtroppo non riesce mai restituire dei reali feedback “maschi”. È chiaro che non ci si aspetti un lavoro targato id Software da questo punto di vista, e in effetti siamo ben lontani da quel tipo di feeling, eppure, nel suo essere discreto si lascia ben giocare. Con qualche miglioramento investendo i nostri punti esperienza, lo shooting andrà via via divenendo più concreto ma senza mai appagare a pieno: le numerose bocche da fuoco, suddivise per tipologia, potenza e tipo di danno inflitto (oltre che contornate da una descrizione spesso esilarante) mostreranno pochissime differenze se non nel rateo di fuoco. In ogni caso, basta poco per trovare il set di quattro armi adatte a noi, senza contare quelle corpo a corpo, forse ancor più deludenti di quelle da fuoco. Nonostante risultino spesso efficaci, difficilmente restituiscono il giusto peso o il giusto impatto, dando la sensazione di colpire molto spesso l’aria. Evidentemente la posizione delle hitbox è leggermente a là René Ferretti, inficiando sulle sensazioni fornite dagli scontri. Forse è proprio la gestione della fisica a spegnere un po’ gli entusiasmi. Ma a venirci in aiuto – per così dire – vi è la cosiddetta Dilatazione Tattica del Tempo, un sorta di bullet time che trova – incredibilmente – anche contesto narrativo. Questo espediente aiuta molto gli scontri a fuoco, in maniera del tutto similare allo S.P.A.V. di Fallout anche se meno rifinito.
Qualora non vogliate andarvene in giro da soli per il Sistema di Alcione, in pieno stile Mass Effect, potrete essere scortati da due dei sei compagni che potranno accompagnarvi nel corso dell’avventura. C’è subito da dire che la loro I.A. non è per nulla male: qualora non dessimo ordini diretti sapranno attaccare o trovare riparo in maniera del tutto autonoma (il più delle volte) cercando di aggirare il nemico in caso di possibilità. Gli scontri dunque, soprattutto con grossi gruppi di nemici, diventano un “cerca e distruggi”, soprattutto una volta che i nostri compagni scateneranno tutto il loro potere attraverso un colpo speciale (unico per ognuno dei compagni) e con un equipaggiamento di un certo livello. Come buon RPG insegna, se dotati della giusta pazienza e attenzione, diventare delle macchine di morte inarrestabili può essere un obbiettivo facilmente perseguibile, contando anche di numerosi potenziamenti applicabili alle nostre armi.
Chiaramente non di solo fuoco si vive: tutte le caratteristiche presenti risultano utili, adattandosi a qualsiasi tipo di giocatore. Questo perché essenzialissime il lavoro di Obsidian è incentrato prima di tutto sulla libertà d’approccio, dallo stealth (anche se necessita di qualche rifinitura), alla retorica, probabilmente vero Deus ex Machina del titolo. Come detto, la narrazione e la scrittura svolgono un ruolo chiave e sviluppare caratteristiche in grado di valorizzare la nostra “parlantina” è un buon modo per risolvere questioni senza nemmeno sfoderare le nostre armi. In poche parole, è possibile terminare The Outer Worlds senza nemmeno sparare un colpo.

Quasi come da tradizione

Dove The Outer Worlds mostra un po’ il fianco è nel comparto tecnico, appena discreto considerato il contesto attuale. Nessun modello poligonale risulta veramente dettagliato e nemmeno texture e shader riescono a salvare la situazione, risultando spesso “sporche” e a bassa risoluzione. Tutta via, complice un buona direzione artistica, il colpo d’occhio generale risulta più che piacevole: ogni pianeta del sistema possiede una propria identità, contornato da flora e fauna unici anche se, da questo punto di vista si poteva fare sicuramente di più. Il design degli avamposti, creature, navi stellari, richiama la classica fantascienza degli anni cinquanta e sessanta fatta di ingenua semplicità ma in qualche modo plausibile pur essendo ambientata a qualche secolo di distanza. Purtroppo la versione PC è affetta da qualche problema di frame rate, pop-up delle texture ma nulla di paragonabile alla produzioni Bethesda (purtroppo punto di riferimento negativo del genere).
La soundtrack, composta da brani richiamanti l’epoca descritta poc’anzi, accompagna tutte le fasi proposte dal titolo, facendosi a tratti goliardica come tragicamente seria o disturbante quando è richiesto. Il doppiaggio, rigorosamente in inglese con sottotitoli, è uno dei punti di forza del titolo, riuscendo a restituire con forza personaggi sopra le righe ma mai fuori luogo, tutti perfettamente in parte. I toni delle affermazioni, il sarcasmo o una semplice battuta tagliente sono davvero ben resi, restituendo personaggi verosimili.

In conclusione

A conti fatti, The Outer Worlds è un’opera di tutto rispetto, capace di intrattenere come pochi. Obsidian ha vinto la sua scommessa, portando un titolo complesso in cui spiccano narrazione e contesto, contornati da un gameplay magari non innovativo ma ricco di sostanza. A patto di qualche piccolo inciampo dunque, l’ultima opera dello studio californiano è una delle migliori di questo 2019, ponendo un’ottima base su cui –probabilmente – verranno sviluppati dei sequel.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Top 5: i Migliori Giochi di Maggio 2019

Nonostante il periodo estivo sia alle porte, il bel tempo non si è ancora deciso ad arrivare in pianta stabile e cieli minacciosi hanno turbato le nostre giornate: così non è per quanto riguarda il mondo dei videogiochi che, tra sorprese e delusioni, non manca di entusiasmare. Andiamo quindi a vedere quali sono stati i migliori giochi di questo uggioso maggio.

#5 Shakedown Hawaii

Da Vblank Entertainment, autori del divertente Retro City Rampage, arriva Shakedown: Hawaii, titolo che, come il precedente, si rifà al primo capitolo di GTA. Qui non avremo più citazioni provenienti da Ritorno al Futuro, ma impersoneremo un anziano CEO di un’azienda sull’orlo del fallimento a causa della saturazione del mercato tecnologico: starà al figlio cercare di salvare la compagnia… usando soprattutto mezzi illeciti!
Il titolo convince per art-style, ispirato alla grafica 16 bit e per la modalità campagna, colma di umorismo becero e violenza a mai finire. Divertono anche le sfide e il free roaming, dove saremo liberi di seminare morte e distruzione a ogni angolo. Shakedown: Hawaii è un titolo da non sottovalutare e che potrebbe regalare ore di divertimento sfrenato e sboccato, come da attitudine.

#4 Dauntless

Un cataclisma ha distrutto il mondo, liberando dei mostri famelici chiamati Behemoth, capaci di decimare la popolazione: toccherà ai cacciatori porre fine a questa battaglia. Questo è l’incipit di Dauntless, action RPG free to play disponibile su PC, PS4 e Xbox One: il titolo si ispira a Monster Hunter, arrivando quasi a sfiorarne il plagio, ma rispetto al titolo Capcom, l’opera prima di Phoenix Labs si distingue per uno stile personale che ben si sposa al mondo di gioco. Affrontare i Behemoth è una sfida ardua e la collaborazione con i nostri compagni di caccia risulterà importante, se non fondamentale. Dauntless è un titolo da non sottovalutare vista la sua natura free to play, essendo ben bilanciato anche nelle microtransazioni; inoltre, essendo cross-platform (al momento solamente tra PC e Xbox One) può regalare ore di divertimento sia in singolo che in compagnia, soprattutto a chi cerca un’alternativa gratuita a Monster Hunter.

#3 Rage 2

In un mondo selvaggio dominato dall’Autorità, fazione senza freni inibitori capace di sterminare l’unico bagliore di resistenza rimasto, starà a noi riuscire a ricostruire tutto da zero, creando alleanze potenti atte a vendicare la nostra fazione. Su questa base poggia Rage 2, seguito dell’FPS di ID Software uscito ben otto anni fa, che questa volta si avvale della collaborazione di Avalanche Studio e di Bethesda.
Il titolo fa sfoggio di un’estetica a metà tra Mad Max e Dune, racchiudendo un lore interessante e ben illustrato nelle differenze tra le varie fazioni. Convince anche il gunplay dove, tutta l’esperienza della software house fondata da Carmack e Romero, viene fuori con un feeling davvero invidiabile. Purtroppo il titolo incespica in due fattori fondamentali come la struttura dell’open world, molto vasto ma anche parecchio vuoto, e la campagna principale della durata di sole otto ore, davvero breve per un titolo di questa caratura. Nonostante tutto, Rage 2 sfoggia un carisma e una struttura di tutto rispetto, sperando che i prossimi DLC in arrivo riescano a tirare fuori un potenziale non interamente espresso.

#2 Assetto Corsa: Competizione

Dopo aver sopreso e sbalordito gli appassionati delle simulazioni di guida, l’italiana Kunos Simulazioni torna alla ribalta con Assetto Corsa Competizione: messo da parte il format generalista del precedente capitolo, il team con sede a Formello, ha deciso di puntare tutto sul Blancpain GT 2019 e su una maggiore importanza alla simulazione dura e pura, grazie anche al supporto dell’Unreal Engine 4, capace di risaltare ancora di più il motore fisico usato in passato. Non vi sono solamente migliorie tecniche, ma anche nel gameplay, visto che è stato migliorato il supporto ai joypad, permettendo così di esser goduto anche da chi non è avvezzo alle simulazioni e chi non è in possesso di volante e pedaliera.
Kunos Simulazioni ha intrapreso la più difficile delle strade, essendo Assetto Corsa Competizione un titolo più specialistico e meno indicato verso il pubblico generalista, riuscendo comunque a offrire una simulazione automobilistica meritevole di esser nominata regina del genere.

#1 A Plague Tale: Innocence

Francia, 1348: la Guerra dei Cent’anni è alle prime fasi, mentre i ratti portatori della peste nera stanno decimando gran parte della popolazione europea. In tutto questo, Amicia e Hugo De Rune, giovani ereditieri di una ricca famiglia, vedranno le proprie vite assumere una svolta pericolosa, a causa dell’inquisizione cattolica alla ricerca del giovane ragazzo. Così inizia A Plague Tale: Innocence, action-adventure in terza persona che segnala anche l’entrata diretta nel mondo videoludico di Asobo Studio.
Il titolo si ispira fortemente a due capisaldi del genere come The Last of Us e soprattutto Brothers: A Tale of Two Sons. Controlleremo principalmente Amicia, che dedicherà la sua vita a proteggere il fratellino dai pericoli di una delle ere più cupe della storia umana. Il titolo brilla per una narrazione di qualità, che ben racconta lo sviluppo dei personaggi e la pericolosità dei cattivi, ma anche per un gameplay vario e completo, capace di passare da fasi puramente stealth, a sezioni di puzzle solving, quest’ultime uno dei punti di forza del titolo d’Oltralpe. Nonostante qualche lieve incertezza tecnica, A Plague Tale: Innocence convince per la varietà del gameplay e per l’atmosfera lugubre che ben restituisce i cupi tempi medioevali, risultando una sorpresa ben gradita nel panorama ludico attuale.




Cinque videogiochi dalla violenza inaudita

Da nazisti uccisi a colpi di gancio metallico a persone spappolate con una rosata di fucile a pompa, i videogame ci hanno abituato a ogni forma di efferatezza, attirandosi non di rado le polemiche dei più. A volte la violenza espressa può portare a problemi legali che causano la censura parziale o totale di un videogame in un paese. Premettendo che abbiamo espresso più volte la nostra posizione riguardo il binomio fra violenza e videogioco (espressivamente non lontano da quello che si ha in varie opere cinematografiche), raccogliamo qui alcuni memorabili titoli che si sono distinti per la loro spietatezza.

Maschere e sangue: Hotline Miami

Videogioco d’azione a scorrimento top-down (con visuale dall’alto) sviluppato dalla Dennaton Games e distribuito da Devolver Digital, in Hotline Miami, ambientato appunto nella Miami degli anni ‘80, vestiamo i panni di Jacket, inquietante sicario che dovrà completare le sue missioni uccidendo i propri bersagli con un vastissimo catalogo di armi. Basato su una grafica 8-bit e una straordinaria soundtrack elettronica, il videogame venne molto apprezzato dalla critica ricevendo alti punteggi sulle recensioni. Raccoglie attorno a sé uno stuolo di appassionati che lo considerano un titolo di culto e ha goduto anche di un sequel, da molti non considerato all’altezza.

A caccia di mostri con Doom!

Chi non ha mai visto almeno un frame di Doom non è degno di giocare agli FPS moderni. Divenuto uno dei pionieri della visuale in prima persona, il titolo di John Romero fu una rivoluzione per il medium videoludico e richiamò a sé un’intera generazione di videogiocatori, che tutt’oggi non lo dimenticano. In Doom avremo il compito di salvare la Terra da orde di mostri, demoni e non morti per commissione della UAC (Union Aerospace Corporation) a suon di fucili d’assalto, pistole e moltissime armi da fuoco. 3 anni fa id Software ha sviluppato un riuscitissimo reboot distribuito da Bethesda, e la serie continua a menar colpi, in attesa del prossimo Doom Eternal.

Al poligono con Sniper Élite

Ambientato nel pieno del secondo conflitto mondiale, in Sniper Élite il nostro obiettivo sarà quello di completare le missioni senza allarmare il nemico e uccidere i bersagli utilizzano un’ampia ruota di armi, tra cui il principale fucile da cecchino e qualche stick grenade che non guasta mai. La violenza che ci riserva il videogame è figa quanto disgustosa, a ogni sparo assestato in punti precisi di un nemico attiverà una sorta di cinematica a raggi X incentrata sul proiettile che va a conficcarsi nel corpo del malcapitato, con tanto di esplosione/frattura delle ossa colpite.

Ti arruoli nell’ISIS? No, preferisco Mass Mayhem

Poche persone hanno avuto la fortuna di giocare a uno dei videogame più discutibili di sempre, come Mass Mayhem, che ha generato un’intera serie. Facilmente reperibile su web (è del resto un gioco in Flash, recuperatelo finché ne avete la possibilità), in questo videogame impersoneremo un terrorista con un armamentario ben fornito, tra missili guidati, mine antiuomo, i soliti fucili a pompa (che non devono mai mancare per condire la violenza), come non può di certo mancare la “soluzione finale” per eccellenza di ogni terrorista: il giubbotto esplosivo. Pieno di obiettivi da completare, la morte del nostro personaggio non implicherà in alcun modo su di essi, infatti avremo a disposizione infinite vite per completarli tranquillamente. 

Lo splatter più totale con Mortal Kombat!

Picchiaduro storico, Mortal Kombat se ne sbatte altamente dei normali limiti etici sulla violenza, l’intera saga infatti è da sempre stata amata proprio per questo. Attraverso un menù di preselezione potremo scegliere un nostro personaggio tra le molteplici alternative – ognuno caratterizzato da mosse speciali da utilizzare in fase di lotta ma soprattutto da mosse finali, quelle Fatality che sconvolsero il genere sin dagli anni ’90 – e dare il via al combattimento a ritmo di cazzotti. Nell’end match, dare il via alla mossa finale permetterà di assistere a un orgasmo di pura violenza e cruentezza, con tanto di corpi tranciati per metà, teste svuotate dei loro organi interni e spine dorsali estratte in un sol colpo. Così violento da essere nel 1993 stato una delle cause della creazione dell’ESRB, l’equivalente americano del PEGI, e venire sempre censurato per chiunque non abbia raggiunto la maggiore età.

Insomma come abbiamo visto non sono titoli da far giocare ai propri fratelli o alle proprie sorelle minori, ma che continuano a essere uno dei generi più seguiti al mondo. Pensate siano diseducativi? Evitate allora i film di Tarantino, un certo film di un certo Stanley Kubrick (sì, proprio Arancia Meccanica) ma soprattutto: non leggete assolutamente la Bibbia e l’Antico Testamento!




Top 5: Marzo 2019

L‘inverno è giunto alla sua conclusione, lasciando il palcoscenico alla primavera e al rifiorire della natura. È anche il tempo di nuove uscite videoludiche, tra gemme inaspettate e titoli che non hanno deluso. Vediamo quali.

#5 Tropico 6

Sesta iterazione per il popolare gestionale di Kalypso Media a tema social-politico: vestiremo ancora una volta i panni di El Presidente in quello che, forse, è il compito più arduo di tutta la serie. Non gestiremo più una sola isola, bensì un arcipelago! È questa la novità più eclatante di questo Tropico 6, che aggiunge delle variazioni ben riuscite nel classico gameplay della saga. Avremo quindi più isolotti da gestire, come se fossero delle macro aree ognuna diverse dall’altra, senza dimenticare l’occhio alle varie fazioni politiche di Tropico, fattore fondamentale per una lunga presidenza, o nel peggiore dei casi, dittatura.
Dopo il mezzo passo falso del precedente capitolo, Tropico 6 torna in carreggiata, offrendoci uno dei migliori capitoli della serie da lungo tempo, capace di offrire ore e ore di puro divertimento caraibico.

#4 Baba is You

Baba is You, puzzle ideato dal finlandese Arvi “Hempuli” Teikari, ha un’idea semplice quanto complessa allo stesso tempo: per completare i livelli bisognerà “comporre” delle frasi di senso compiuto, usando degli aggettivi trovati in giro per i livelli. Per esempio, se un fiume di lava ci blocca il passaggio, basta mettere in sequenza le parole “lava is melt” per veder sparire l’ostacolo. È un titolo originale che, come l’idea del suo creatore, può sembrare semplice ma in realtà nasconde un cuore arduo e complesso, come ogni buon puzzle game che si rispetti. Uscito su PC e su Nintendo Switch, Baba is You è una gemma nascosta nel mare delle pubblicazioni indie, che consigliamo ai fan del genere e a chi vuole giocare un titolo che fa della semplicità e dell’originalità il suo punto di forza.

#3 Tom Clancy’s The Division 2

Abbandonata la notte perenne e innevata di New York per l’assolata e verde Washington D.C., The Division 2 ci riporta a lottare contro il virus scatenatisi nel primo episodio, portandoci nella capitale degli Stati Uniti contesa tra quattro diverse bande in guerra per la supremazia territoriale. Il titolo Ubisoft mantiene le promesse fatte durante lo sviluppo e dona ai giocatori un buon ibrido tra gioco di ruolo e shooter con coperture, migliorando i difetti del precedente capitolo. Unica pecca forse un endgame ancora non all’altezza dell’offerta, ma The Division 2 è comunque il miglior loot shooter del mercato, riuscendo dove altri titoli ancora non riescono a incidere.

#2 Devil May Cry 5

La rinascita di Capcom passa anche da qui: dopo Monster Hunter: World e Resident Evil 7, tocca a Dante e colleghi portare in alto il vessillo della software house giapponese. Devil May Cry 5 torna sui nostri schermi più bello che mai, grazie all’uso del RE Engine, e soprattutto più spettacolare che mai. Se Dante e Nero possono eseguire combo in stile picchiaduro, quest’ultimo usando anche la particolare protesi robotiche denominata Devil Breaker, particolare è il gameplay del nuovo V, un evocatore capace di chiamare in battaglia tre demoni da usare per combattere dalla distanza.
Il Re degli hack n’ slash è tornato e Devil May Cry 5 non delude le aspettative dei fan, donandoci un titolo sia bello da vedere che divertente pad alla mano.

#1 Sekiro: Shadows Die Twice

Un giovane shinobi del periodo Sengoku, alle prese con un arduo compito: vendicarsi della perdita del proprio braccio, sostituito da una particolare protesi, e salvare il proprio signore . È questo il prologo di Sekiro: Shadows Die Twice, ultima fatica di From Software e del suo mastermind Hidetaka Miyazaki. Nonostante la parentela con la serie dei Souls e del genere a essa legato, Sekiro si dimostra diverso rispetto ai titoli del recente passato, il gioco è più votato all’azione e al combattimento tra spadaccini, ed è possibile eseguire anche delle uccisioni stealth che richiamano un titolo sempre legato agli sviluppatori giapponesi: Tenchu.
Il level design è una delle peculiarità del titolo, con scenari mozzafiato come da tradizione, che ben si sposano con il setting del Giappone feudale. Sekiro centra il colpo alla perfezione e consacra il lavoro del suo creatore ai massimi livelli, donandoci non solo il miglior gioco del mese, ma anche uno dei migliori titoli del 2019.




Mothergunship

Grip Digital e Terrible Posture Games ci avevano già provato nel 2014: con Tower of Guns erano riusciti, seppur in parte, a creare un connubio tra bullet hell, roguelike e FPS, catapultando il giocatore in un mondo davvero singolare, con livelli creati casualmente e un comparto grafico abbastanza grezzo e cartoonesco.
Quest’anno però, Grip Digital e Terrible Posture Games ha deciso di rilasciare Mothergunship, un FPS con meccaniche da roguelike e bullet hell, proprio come il suo predecessore, ma a questo si affianca una maggior cura e un gameplay piuttosto divertente. Mothergunship è riuscito a conciliare tutti questi tre generi senza snaturare quello che è l’obiettivo principale del gioco: divertire.

Mothergunship non è basato sulla storia, avendo una trama abbastanza banale e fragile: la Terra è stata attaccata dagli alieni e noi dobbiamo salire sulla loro nave madre per sconfiggerli. Una storia semplice che serve a dare un contesto a quello che incontreremo durante tutti i livelli.
Come già detto i nemici saranno degli alieni, ma non aspettatevi i soliti omini verdi dalla testa ovale; gli antagonisti saranno delle vere e proprie macchine da guerra che dovremo distruggere per salvare il mondo e l’intero Universo.
La peculiarità di Mothergunship è sicuramente il gameplay, più nello specifico il crafting delle armi. In game non esistono classi o set di armi predefinite, ma saremo noi a creare il nostro arsenale. Un crafting fuori dal comune che permette la creazione e la combinazione di armi davvero uniche. Nei vari livelli si potranno ottenere, sconfiggendo i vari nemici, delle monete d’oro che serviranno per acquistare degli elementi per modificare e potenziare la nostra arma. Si potranno equipaggiare solamente due armi, una nella mano destra e una nella sinistra ma, grazie all’editor, si potranno accoppiare moltissimi elementi per forgiare l’arma definitiva.
Si avranno a disposizione dei connettori, che serviranno a collegare le varie bocche di fuoco, le canne, che potranno essere accoppiate tra loro grazie ai connettori e degli upgrade che aumenteranno la potenza di fuoco, diminuiranno il rinculo e altro.
Le armi che si potranno creare saranno infinite; l’unico limite sarà la nostra fantasia e ovviamente il costo delle singole parti.
Mothergunship oltre ad avere un gameplay molto frenetico, essendo un bullet hell, contiene anche la possibilità di potenziare la nostra armatura, fornendogli un salto aggiuntivo – sbloccandone circa cinque si potrà letteralmente fluttuare a mezz’aria –, una difesa maggiore, una resistenza al rinculo delle armi e molto altro, ma anche se non si utilizzeranno queste feature, non se ne sentirà la mancanza. Nella maggior parte delle volte si porrà l’attenzione alla pura potenza di fuoco delle varie armi.
Nota dolente per quanto riguarda i nemici, perché dopo aver giocato per qualche ora e aver creato delle armi potentissime, i nemici saranno facilmente abbattibili: molte volte è capitato di non esser nemmeno sfiorati dalle pallottole degli avversari. Il bilanciamento tra armi e nemici dunque, non è dei migliori; è sufficiente creare delle armi OP per poter proseguire senza problemi al livello successivo.

Mothergunship non possiede un mondo di gioco vasto, ma per proseguire si dovranno attraversare stanze piene di nemici – che equivalgono a un livello – e dopo averle superato tutte, si arriverà a un boss, una macchina gigante, più difficile da sconfiggere ed equipaggiata con armi molto più potenti.
Come in Tower of Gun, nell’ultimo gioco di Grip Digital i livelli saranno creati casualmente, anche se questo meccanismo costruisce livelli molto simili tra loro o con gli stessi nemici. Fortunatamente i casi sono limitati, ma può risultare comunque ripetitivo.
Inoltre, in Mothergunship si può giocare in coop online, ma manca quello in LAN, una feature che poteva allungare la longevità del titolo e divertire ancor di più i giocatori, fornendo la possibilità di creare un party LAN o semplicemente di giocare a schermo condiviso.
La grafica è senza dubbio migliorata rispetto a Tower of Gun, risultando molto più dettagliata e con una caratterizzazione delle armi che ricorda l’art style di Borderlands. Anche gli scenari sono ben definiti, con colori né troppo accesi né troppo spenti, quasi metallici, proprio per ricordarci che in fin dei conti, siamo all’interno di una nave spaziale.
Il comparto sonoro invece, non è nulla di particolare: la soundtrack e i suoni ambientali sono discretamente realizzati; il rumore degli spari, a lungo andare, risulta ripetitivo, visto che continueremo a premere il grilletto per quasi tutta la durata del livello, ma nel complesso fa il suo lavoro, quello di far sentire il giocatore all’interno di una navicella spaziale aliena, con suoni metallici e robotici.
Tecnicamente Mothergunship – noi abbiamo provato solo la versione PlayStation 4 Pro – ha dei problemi legati al frame rate. Gli FPS calano drasticamente quando a schermo sono presenti parecchi elementi, come i proiettili. L’unico modo per risolvere questo problema è semplicemente quello di sconfiggere i vari robot e liberare lo schermo.




Fear the Wolves: un battle royale, un perché

Le mode sono una brutta bestia: da quando il genere battle royale ha cominciato la scalata verso il successo, sembra essere l’unica caratteristica che possa spingere un progetto verso sogni di gloria. Inutile raccontare della diffusione di Fortnite o Playerunknown’s Battlegrounds, o di come persino Electronic Arts e Activision siano sottostate alle spietate leggi di mercato, inserendo questa modalità – forse in ritardo – negli imminenti Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII ma una cosa possiamo dirla: anche i titoli più acclamati non vantano elementi qualitativamente eccelsi; sì, qualche idea di fondo è interessante ma diciamoci la verità: tutto ruota intorno al marketing, spietato e anche “manipolatore”, capace di portare il pubblico da una sponda all’altra in men che non si dica. E gli altri? Si, ci sono altri battle royale e Fear the Wolves è uno di questi, ancora in early access ma che, senza dilungarci tanto, probabilmente è già morto.

C’è nessuno in casa?

Partendo dalla personalizzazione del proprio avatar, con la possibilità di acquistare pacchetti con moneta in game (almeno per ora), i problemi cominciano già dal matchmaking, capace già di segnalare la qualità dell’infrastruttura online ma soprattutto del traffico, ovvero il numero di giocatori presenti sul server desideroso di darsi battaglia. Quando venne annunciato l’early access, lo stato di salute di Fear the Wolves era già preoccupante visto che normalmente la community, solitamente senza freni inibitori, invade l’internet con commenti, immagini, hype e tanto altro ancora ma, per sfortuna di Vostok Games, tutto sembra essere caduto nell’anonimato, facendo sorgere un’annosa domanda se sia meglio in questi casi l’insulto o l’indifferenza.
Nonostante l’influenza di S.T.A.L.K.E.R. si faccia sentire, l’anonimato è il punto dolente del titolo: l’obbiettivo dei 100 giocatori è praticamente impossibile da raggiungere arrivando alla quindicina – se tutto va bene – dopo aver aspettato anche decine di minuti la creazione di una partita. È già chiaro che non si comincia con buoni presupposti.

E quindi?

E quindi si arriva alla partita, paracadutati su una mappa che propone una Chernobyl distrutta dalle radiazioni. Comincia dunque la corsa agli armamenti, per nulla faticosa, visto le tanti abitazioni presenti, insediamenti industriali e così via. La mappa dunque è molto vasta e al suo interno possiamo scovare un paio di differenze quantomeno interessanti: oltre allo scontro con altri giocatori potremmo aver a che fare anche con entità guidate da intelligenza artificiale, dei mostri generati dall’avvelenata terra ucraina. L’aggiunta di meccaniche PvE all’interno di un battle royale è effettivamente una difficoltà in più in quanto gestire le già risicate risorse a nostra disposizione risulterà più difficoltoso. Possiamo dunque utilizzare proiettili per difenderci ma creando l’eventualità di rimanere senza colpi durante lo scontro a fuoco con il nemico, oppure darsela a gambe e pregare di non essere seguiti. Ma tecnicamente ci sarebbe una terza via, solo immaginata visto il risicato numero di giocatori: nel caso in cui potessimo avvistare in tempo questi NPC, potremmo sfruttarli a nostro vantaggio, sfruttando la derivata disattenzione del malcapitato nei nostri confronti ed eliminarlo senza problemi. Oltre a questo, intervengono anche alcuni modificatori ambientali, oltre al ciclo giorno/notte: la componente survival, anche se non molto approfondita, ci costringe a star attenti anche alla temperatura e soprattutto alle radiazioni, che possono diventare letali qualora non riuscissimo ad allontanarci in tempo o curarci. Questi modificatori inoltre fungono anche da restrizione territoriale, sostituendo il cerchio di fuoco convergente verso gli ultimi superstiti.
Ma queste differenze sono ben poca cosa quando di giocatori non ce ne sono. Anche il feeling con le armi è pressoché simile alle altre produzioni, fornendo feedback risicati e per nulla soddisfacenti. Per lo meno una volta defunti potremmo divertirci ancora un po’: come per The Darwin Project, gli spettatori possono decidere alcuni cambiamenti da apportare alla mappa, come una violenta variazione meteo in grado di modificare leggermente il gameplay.
Escludendo dunque questi fattori, di Fear the Wolves rimane molto poco, davvero troppo simile alla concorrenza e, con uscita prevista per il 2019, servirà tanto lavoro per rendere questo titolo appetibile. Da non dimenticare anche la pericolosa concorrenza dei top di gamma come Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII, che con le loro modalità Firestorm e Blackout potrebbero stravolgere il mercato da qui in avanti.

In conclusione

È veramente difficile valutare Fear the Wolves, anche se in versione early access. Almeno finora, il titolo sembra affetto più da problemi che riguarderanno il marketing e chi dovrà lanciarlo sul mercato, non proponendo qualcosa di realmente nuovo. Le poche differenze presenti infatti, non giustificano la migrazione dal vostro battle royale preferito a questo e, se il buongiorno si vede dal mattino, il lavoro di Vostok Games potrebbe arenarsi ben prima di partire. Vedremo come si evolverà la situazione, sperando che questo team sappia convergere i propri sforzi verso un gioco quantomeno autorevole.




Battlefield V: le impressioni dalla open beta

Battlefield V non sembra essere partito col piede giusto. Dopo tanti anni in cui abbiamo visto avvicendarsi varie epoche storiche ed esperimenti discretamente interessanti, l’ultimo capitolo sembra avvolto da un alone di mistero. Nessuna notizia della battle royale, denominata Firestorm, pre-order ben al di sotto della media e infine un posticipo sulla data di uscita di un mese, forse per evitare la “concorrenza” spietata di Red Dead Redemption 2 o, più probabilmente, per rifinire alcuni elementi di varia natura, come ad esempio, l’ottimizzazione generale in vista dell’entrata in scena del Ray Tracing di Nvidia.
Questa open beta ci ha finalmente permesso di saggiare alcune novità del titolo che in qualche modo sanciscono un ritorno al passato.

V per Vanitoso

Il passaggio da Battlefield 3 a Battlefield V sembra essere avvenuto in maniera istantanea anche se, nel frattempo, abbiamo assistito a Battlefied 1 e a Hardline, ben diversi per caratteristiche e aspettative. La natura del titolo DICE dunque rimane invariata, con un feeling divenuto ormai un marchio di fabbrica e lontano dalla frenesia del suo rivale più diretto Call of Duty. Ma di novità ce ne sono, a cominciare dal ritorno della distruttibilità ambientale totale che cambia decisamente le carte in tavola una volta compreso che i proiettili posso attraversare alcuni ripari. Ma tutto questo si esprime maggiormente con i mezzi pesanti, in grado di distruggere interi appartamenti modificando di fatto il layout della mappa. A proposito, le location disponibili in questa beta sono due: Rotterdam, protagonista anche della presentazione di Nvidia, e Narvik, una mappa innevata ai confini del Circolo Polare Artico. L’approccio in queste due zone è completamente diverso e sono caratterizzate da un buon level design sviluppato anche in verticale, pieno di ripari, vie di fuga e scorciatoie.
Proprio una delle grandi novità di Battlefield V è la possibilità di costruire piccoli avamposti, torrette e persino artiglieria anti-aerea che ampia a dismisura le possibilità tattiche: presa posizione, sarà possibile costruire un proprio fortino in grado di difendere più agevolmente uno degli obbiettivi e, viceversa, dare vita a un vero e proprio assedio, a una guerra di trincea che tanto è mancata nel precedente capitolo. Inoltre, potremmo soccorrere chiunque indipendentemente dalla classe scelta: una volta colpiti “mortalmente” abbiamo a disposizione due scelte, ovvero se morire in maniera rapida, accelerando l’arrivo al menu di respawn, oppure lottare con tutte le forze chiedendo aiuto, attivando anche animazioni dedicate.
Come detto, il feeling è sempre lo stesso, con la Grand Operation a fare da traino, e forse unica modalità in grado di restituire l’epicità di una grande guerra. Le armi, limitate per numero in questa beta, ma comunque varie, non presentano particolari novità dal punto di vista delle meccaniche, cosa che fa storcere un po’ il naso considerando che siamo passati dalla modernità di Battlefield 4, alla Prima Guerra Mondiale e ora alla Seconda.

V per Vistoso

Anche se non abbiamo potuto approfondire, sappiamo che la personalizzazione avrà un ruolo chiave all’interno del progetto: sia il nostro alter ego che armi e mezzi a disposizione, avranno un ampio set di elementi in grado di trasformare visivamente qualunque cosa. Il tentativo è quello di rendere Battlefied V più “umano”, mettendo al centro il giocatore e il suo team. Di fatti, la cooperazione svolge un ruolo più importante rispetto ai capitoli precedenti e premiata non solo dai classici punti esperienza ma anche da equipaggiamento speciale, come armi o mezzi corazzati. Più umano vuol dire anche avere un sistema di progressione “su misura”, che abbiamo avuto modo di verificare sul campo: via dunque alla standardizzazione in favore di un approccio più personale e incline al nostro stile di gioco. Una volta raggiunti determinati obbiettivi, armi ed equipaggiamento sbloccati saranno in linea con le nostre abitudini, in un percorso delineato che invoglia il giocatore a seguire stili diversi.
A livello tecnico, il Frostbite Engine è sempre un bel vedere, nonostante l’assenza del Ray Tracing. Sia Rotterdam che Narvik, benché completamente diverse, sono ricche di dettagli, con elementi perfettamente modellati, come da tradizione. Da segnalare però alcuni problemi dovuti alla fisica, e bug e glitch di varia natura oltre a problemi di matchmaking, ma che probabilmente verranno risolti con il rilascio ufficiale.

In conclusione

Battlefield V sembra essere il Battlefield di sempre, qualitativamente molto valido e puntellato qua e là al fine di arricchire un sistema già ampiamente collaudato. È ancora molto presto per esprimere un giudizio, del resto non sappiamo quasi nulla del single player, della rimanente offerta di gioco e sopratutto della modalità Firestorm. Dunque non ci resta che attendere (un mese in più) per recensire adeguatamente l’ultima fatica di DICE.




Debris

Debris. Un’avventura visionaria negli abissi dell’ artico: in seguito alla caduta di un meteorite, una equipe di 3 sommozzatori, Chris, Sonya e Ryan (il nostro personaggio principale), viene ingaggiata dall’agenzia ALTA per girare una clip del detrito spaziale (da qui il nome del gioco); a causa di una fonte energetica ancora sconosciuta che scuoterà i ghiacciai, i poveri sventurati si ritroveranno ben presto separati e intrappolati in un inferno di roccia e ghiaccio… e non saranno soli.

Ecco, avete presente quei trailer che alzano l’asticella delle vostre aspettative alle stelle con video e immagini mozzafiato, che vi spingono a comprare il biglietto… e poi vi ritrovate seduti al cinema a vedere quello che di fatto è un b-movie?
Ecco, con Debris non ci andiamo lontano.

How to play

Debris, prodotto e sviluppato da Moonray Studios, è un gioco semplice e dai comandi molto intuitivi, tanto da permetterci di ottenere il pieno controllo del nostro personaggio in brevissimo tempo. Per la nostra sopravvivenza dovremo avvalerci di un timer energetico che, in buona sostanza, non dovremo mai far arrivare allo 0, poiché sarà quello che ci terrà in vita e ci darà la possibilità di utilizzare un fucile subacqueo a impulsi per illuminare zone troppo buie sparando dei “flare” o di eliminare diversi pericoli cambiando modalità di fuoco. Ad aiutarci nella nostra impresa ci sarà una seppia meccanica che fungerà da faro nel profondo buio abissale in cui ci ritroviamo e che, raccogliendo diverse risorse dalle rocce minerali sui fondali, le condividerà con noi tramite una sincronizzazione, permettendoci in questo modo di ricaricare in parte anche il nostro timer energetico. La seppia non vive di vita propria, ma viene pilotata in remoto dalla nostra compagna di sventure Sonya, che ci guiderà illuminandoci il cammino, a parte quando decide di andarsene per conto suo. Ovviamente lo scopo del gioco è quello di ritrovare i propri compagni e scoprire quali segreti si celino dietro questi misteriosi avvenimenti.

Bella l’idea della modalità co-op, che ci permetterà di godere dell’avventura in maniera più coinvolgente, purtroppo però questo può avvenire solamente tra amici – il che, è difficile – che dovranno quindi possedere il gioco su Steam, rendendo di fatto più oneroso e difficile il gioco in cooperativa.

A cosa è servito regolare le impostazioni grafiche?

Come vi dicevo, l’aspettativa altissima data dai trailer illude parecchio il giocatore, anche per le immagini che vedremo nella preview delle impostazioni grafiche, decisamente ingannevoli rispetto a quello che realmente vedremo in game.
Le ambientazioni, che dapprima saranno abbastanza suggestive da tenervi con il fiato sospeso ma che, purtroppo, dopo i primi minuti si riveleranno estremamente monotone – a parte qualche piccola novità decorativa di tanto in tanto – molto probabilmente hanno giocato un ruolo fondamentale sulla sensazione di ripetitività che Debris infonde nel giocatore già dopo pochi minuti di gameplay. Aggirarsi continuamente tra cunicoli stretti dalle pareti di ghiaccio per poi sfociare in enormi spazi bui forse non incentiverà future sessioni di gioco. I modelli poligonali dell’intero environment, senza escludere flora e fauna sottomarina, sono resi decisamente male, contornati come se non bastasse anche da texture molto approssimative e spesso confusionarie.

Colonna sonora: il goal della bandiera?

Se c’è una cosa che il team Moonray Studios ha fatto bene, è il comparto audioAzzeccatissimo e molto suggestivo, con suoni profondi e stimolanti che tengono alta la tensione durante il gioco. Suoni che si fondono perfettamente con il tipo di gameplay proposto, tra esplorazione e sopravvivenza.

Tirando le somme

Debris è in vendita sulla piattaforma Steam per 19,99 €. Un prezzo forse eccessivo per quello che il gioco in realtà offre. Non c’è abbastanza carne al fuoco e l’equilibrio globale del titolo è claudicante. Da un gioco ambientato in delle grotte sottomarine è vero che ci si può aspettare un susseguirsi di labirinti e cunicoli, ma è altrettanto vero, però, che quando ci si appoggia a trame intricate bisogna ricordarsi di catturare l’attenzione del giocatore anche con altri mezzi, e un miglior comparto grafico avrebbe sicuramente giovato a un gioco che poteva essere impiegato meglio.




Alla conquista del podio: la guerra dei Battle Royale

Cos’è una Battle Royale? È questa la prima domanda da porre. Il genere “Battle Royale” è stato sdoganato dall’omonimo film giapponese (tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Koushun Takami) uscito nel 2000,  realizzato da Kinji Fukasaku, ultima sua opera prima della morte, avvenuta nel 2003. Il film narrava la storia di una classe di adolescenti bloccati su un’isola remota e costretti a combattere fino alla morte, che avrebbe lasciato soltanto un sopravvissuto. Questo genere è stato adattato successivamente in produzioni cinematografiche di ampio rilievo come Hunger Games (a sua volte tratta dalla trilogia letteraria di Suzanne Collins)
Un simile concetto non ha tardato a essere inserito all’interno di una struttura videoludica che oggi è di grande successo, vedendo come attuali campioni del genere titoli come PlayerUnknown’s Battlegrounds e Fortnite, i quali al momento si battono a colpi d’aggiornamenti per la “corona” del re dei Battle Royale.
Al momento il genere è molto in voga tra i giocatori di tutto il mondo e, di conseguenza, tutte le software house che vogliono garantirsi un posto di rilievo tra i “big” del settore (e soprattutto sul mercato) stanno cercando di sfruttare il trend a proprio favore. Non pare lontana l’ipotesi di un “bagno di sangue” tra le varie aziende, visto che, al momento, ci sono circa una dozzina di concorrenti che inseguono il successo di Pugb e Fortnite, nella speranza di usurpare il trono o com,unque di ritagliarsi una fetta di rilievo sul mercato. Ogni volta che un genere vede un boom, non poche software house si gettano alla cieca in progetti di emulazione nella speranza di spuntarla, in una Battle Royale nella quale solamente una uscirà vincitrice. I titoli che al momento comandano il genere sono in realtà delle “copie”: beninteso, non parliamo di plagio, ma del fatto che il titolo che attualmente registra i numeri più alti, PUBG, è in realtà nato da una mod di Arma II, DayZ: Battle Royale, a sua volta variante della mod DayZ ispirata al film omonimo.
Fino a pochissimi anni fa era il genere MOBA a farla da padrone e, anche allora, tutto partì da una mod, più precisamente da alcune mappe: quella di Aeon of Strifetratta da Starcraft, fu la prima, anche se ancor più celebre fu quella sviluppata per Warcraft III, quella di Defense of the Ancients (DotA). Seguirono una miriade di esponenti del genere, da giochi in flash come Minions, sviluppato da The Casual Collective nel 2008, sino ad arrivare al notissimo League of Legends, a oggi probabilmente il MOBA più giocato al mondo, passando per il secondo capitolo di DotA.
Durante gli anni, quindi, l’universo videoludico ha visto l’evolversi di varie tendenze, dal boom degli MMO, come World of Warcraft, per poi passare agli FPS come Call of Duty, fino ai MOBA e ai titoli Battle Royale.

Esistono vari fattori che possono determinare il successo di un videogioco: primo tra tutti è il costo del titolo poiché, se un giocatore ha acquistato H1Z1, ovviamente sarà meno propenso a comprare PUBG, visto che dovrà spendere altri soldi per giocare a un titolo che potenzialmente presenta le medesime caratteristiche. Il secondo problema è il fattore “compagnia“, in virtù del quale un giocatore sarà più o meno propenso ad acquistare un titolo posseduto dagli amici, effettuando battaglie in co-op e non. Ultimo, ma non meno importante, è il fattore accessibilità: essere un free-to-play può avere dei vantaggi, da questo punto di vista, rispetto a un titolo a prezzo pieno, permettendo a più persone di provarlo ed eventualmente effettuare ulteriori acquisti in-game. Per esempio Fortnite ha chiaramente questo target, fornendo a tutti gli utenti la possibilità di giocare gratuitamente la modalità battle royale.
Durante queste variazioni di tendenza della domanda da parte degli utenti, le software house minori, osservando l’andamento sul mercato di titoli massivi come PUBG, ritengono di riuscire a replicare simili successi, addirittura migliorando il prodotto. Ma gli eventuali upgrade apportati difficilmente riescono a spostare una grande fetta d’utenza dal titolo preferito dai più a quello dei più piccoli: semplicemente perché, a parità di caratteristiche e struttura, il gioco non vale la candela.
Per poter creare qualcosa di nuovo e coinvolgente, in grado di smuovere il mercato, bisogna analizzare e capire cosa sia possibile aggiungere e migliorare, così da poter rendere il proprio lavoro unico e interessante agli occhi del pubblico, al fine di essere promotori di una nuova tendenza.




StarBlood Arena

StarBlood Arena

StarBlood Arena è uno shooter 3D in prima persona a bordo di una navetta spaziale, ambientato in dodici arene da combattimento al chiuso.
Il titolo si piazza in quel filone inaugurato da RIGS: Mechanized Combat League, offrendo ben poche innovazioni al genere. Gli sviluppatori della WhiteMoon Dreams, provano a cavalcare l’onda della realtà virtuale per proporre un titolo che, senza un visore addosso, tende a svuotarsi di significato.
Starblood Arena è un prodotto ricco di difetti e probabilmente senza alcuna pretesa, carente sotto diversi aspetti, e nel migliore dei casi ci regala brevi momenti di divertimento, alternati a lunghe pause di caricamento.

StarBlood Network Reality Show

Il gioco ci introduce a un improbabile futuro popolato da diverse razze extraterrestri e dove letali reality show televisivi vanno per la maggiore.
Una ben assortita coppia di simpatici presentatori alieni, chiacchierando spesso degli affari propri, ci introdurrà alla scoperta dello studio televisivo del “famosissimo canale” StarBlood Network, guidandoci così a conoscere i comandi di guida delle astronavi che andremo a pilotare, senza dimenticarsi di prenderci un po’ in giro.
Il controller preposto allo scopo è il classico joypad, che con l’analogico sinistro ci permetterà di ruotare e muoverci, mentre con i tasti L1 e R1 sarà possibile traslare sull’asse Z.
Già dal tutorial si avverte un senso di malessere, “motion sickness” a cui sarà difficile sottrarsi.
Il più grave difetto del gioco è rappresentato proprio dalla chinetosi, difetto che, malgrado gli sforzi fatti dal team della WhiteMoon Dreams, non sembra sia stato del tutto risolto ma, a voler esser buoni, soltanto lievemente mitigato.
È proprio il “motion sickness” insieme alle lunghe attese tra un match e l’altro a spezzare l’unico aspetto divertente del gioco, rappresentato dal ritmo frenetico degli scontri nelle arene.

Pregi vs Difetti

La storia lascia molto a desiderare, costituendo soltanto un mero pretesto per i combattimenti tra razze aliene su delle mini astronavi, non assolvendo neanche al compito di fungere da collante alle varie modalità di gioco.
Per un imprecisato motivo, ci troviamo a partecipare a un letale reality show televisivo, dove impersoneremo uno dei 9 piloti disponibili fra le diverse razze aliene e umane. Ogni pilota comanderà una specifica navetta, che avrà differenti caratteristiche di difesa, velocità, ecc. e differenti armi primarie e secondarie ( laser, missili, bombe, ecc. ).
Le ambientazioni dei vari livelli, sono le 12 arene messe a disposizione per i combattimenti tra cui Catacombe, Miniera, Fabbrica, Grotta e Silo.
Gli scenari (interamente al chiuso) risultano così decisamente claustrofobici (caverne, cunicoli, anfratti), fattore che tende a intensificare i fastidi legati al “motion sickness”.
Superando i primi segni di chinetosi, con un po’ di buona volontà, si riesce a giocare qualche partita degna, a tratti persino divertente. In breve, l’iniziale sensazione di caos, si trasforma in una battaglia adrenalinica per lo più istintiva, senza richiedere grandi sforzi strategici e organizzativi.
Purtroppo il ritmo frenetico di StarBlood Arena – che di per sé rappresenta la caratteristica più entusiasmante del gioco – viene spezzato da lunghe fasi di caricamento tra un match e l’altro.
È possibile giocare in single player, in multiplayer e in modalità co-op: le sfide sono i classici deathmatch tutti contro tutti o a squadre, una versione del “capture the flag” con una palla e una sfida dove bisogna difendere le proprie basi da ondate di nemici che arriveranno all’infinito, anche questa affrontabile in solitaria o a squadre.
Il primo impatto con il comparto grafico è di certo positivo, grazie alla cura dei personaggi e ai loro dettagli nell’interfaccia di selezione dei piloti, ma si fa poi deludente durante le sfide nelle arene, dove presenta una grafica grossolana e spesso scarna.
Le mappe, seppur lievemente claustrofobiche, sono studiate abbastanza bene, concedendo lo spazio necessario per qualche discreta evoluzione tridimensionale.
Superato l’iniziale smarrimento e senso di caos, il gameplay vero e proprio risulta abbastanza divertente, e una volta presa confidenza con la mappa si tende ad approfittare di ogni anfratto per colpire il nemico, rimanendo comunque protetti.
Il sistema di puntamento risulta comodo e preciso: guidati dal movimento del PSVR, sarà sufficiente guardare direttamente il nemico, facendo collimare il mirino con la sua navicella e potremo colpirlo senza troppa difficoltà.
Assolutamente degno di nota è il comparto audio, che vanta sia delle azzeccatissime musiche metal, ottime per scandire il ritmo incalzante dei combattimenti, sia dei dialoghi in italiano con un doppiaggio di buona qualità.
I disagi legati al “motion sickness” rendono il gioco tutt’altro che gradevolmente fruibile: anche dopo aver superato l’iniziale chinetosi e aver fatto un po’ l’abitudine al movimento a 360°, di tanto in tanto si incorrerà in spiacevoli momenti dove potrà ripresentarsi il malessere, costringendoci così ad abbandonare temporaneamente il campo di battaglia, rompendo ancora una volta il ritmo del gioco.

Try before you buy

StarBlood Arena è, in definitiva, un titolo del quale si può tranquillamente fare a meno senza timore di star perdendosi un’impareggiabile esperienza VR, portando a sconsigliarlo con decisione chiunque abbia riscontrato in passato qualche episodio di “motion sickness”.
Gli “stomaci d’acciaio” che vorranno mettere alla prova le proprie doti di immunità alla chinetosi, prima dell’acquisto, potranno provare la demo gratuita scaricabile dal Playstation Store, mentre per i possessori di Playstation Plus il titolo è disponibile nella line-up di febbraio, figurando per il secondo mese consecutivo (come già accaduto nei due mesi precedenti con Until Dawn: Rush of Blood del quale trovate qui la nostra recensione).