Death Note

Negli ultimi anni, Hollywood ha cominciato a prestare attenzione al mondo di manga e anime, “prodotti tipici” della creatività giapponese. Mancanze di idee, probabilmente, ma sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre avuto la curiosità di vedere dei live action, magari sui nostri eroi preferiti. Non è facile però, vuoi perché la narrazione si sviluppa su decine di volumi, vuoi per lo stile, forse troppo orientale e unico per essere concepito dagli studi di Los Angeles. Del resto ricordiamo tutti il primo – e fortunatamente unico – adattamento cinematografico di un certo Dragon Ball, denominato per l’occasione Evolution: tralasciando qualche nome preso dal manga originale, il film rovescia i canoni su cui si poggia la storia, snaturando (volontariamente?) i personaggi, costruendo una trama dalle fragilissime basi. Un po’ meglio è andata a Ghost in the Shell, pellicola con protagonista Scarlett Johansson, uscita proprio quest’anno: il film, pur subendo molte – ma molte – semplificazioni, è comunque riuscito a ritagliarsi una propria identità, dando senso alla parola adattamento. Nulla di trascendentale, per carità, ma sicuramente un passo avanti verso una costruzione più accurata rispetto l’opera originale.
Ora è il turno di Death Note: targato Netflix, questo film è un interessante esperimento di produrre qualcosa di diverso, magari un po’ di nicchia, ma sicuramente con un grande bacino di appassionati.
Per quei pochi che non lo sapessero, Death Note è un manga del 2003, scritto da Tsugumi Ōba e disegnato da  Takeshi Obata, che riscosse molto successo, non solo in Giappone ma nel mondo intero, divenendo in breve tempo un vero e proprio cult. Le vicende si svolgono attorno a Light Yagami il quale, venuto in possesso del Death Note – un quaderno speciale dove, se scritto il nome di una persona, questa stessa morirà entro breve tempo – decide di ergersi a paladino della giustizia. Andando avanti nella storia non tutto andrà per il verso giusto e, personalmente, vi consiglio di recuperare se non il manga, almeno l’anime.
Cos’è la giustizia? Cos’è la fede? E soprattutto, cosa vuol dire adattamento? Scopriamolo insieme in questa recensione.

Partiamo proprio dall’ultima domanda: che cos’è un adattamento? In generale è la capacità di sceneggiatori e registi di saper produrre contesti cinematografici, quanto meno simili a opere esistenti, come libri, opere teatrali, fumetti, videogiochi e in questo caso, manga; praticamente il 70% di tutto ciò che vediamo al cinema ultimamente. Ovviamente non tutto quello che è scritto su carta stampata è fruibile sul grande schermo: adattare alcune situazioni, alcuni contesti e personaggi, per fare in modo che tutto rientri nelle classiche due ore di pellicola è ormai una prassi, ma soprattutto una necessità. È normale che ci siano differenze e un esempio su tutti, visto che siamo in un portale di videogiochi, può essere considerato l’Animus di Assassin’s Creed: vedere Michael Fassbender per un paio d’ore steso su un lettino non avrebbe fatto lo stesso effetto, ovviamente. Ma l’adattamento, alle volte, diventa una scusa, un dito dietro al quale nascondersi quando i pareri della critica cominciano a non essere così favorevoli; e  questo pare proprio il caso di Death Note.
È inutile girarci in torno: il Death Note di Netflix è una delusione sotto tutti i punti di vista. Ma andiamo con ordine.
Il progetto è stato affidato ad Adam Wingard, regista emergente che ha cercato di fare il possibile per salvare quanto meno la faccia. Sì, perché la regia è tra gli elementi meno agghiaccianti presenti nel film, una regia da mestierante, con qualche piccolo guizzo di tanto in tanto. Il problema vero arriva da tutto il resto, dalla sceneggiatura alle prove attoriali, fino al casting. Adattamento significa, in questo caso, traslare le vicende dal Giappone agli Stati Uniti: niente quindi Light Yagami ma Light Turner, Misa che da Idol diviene una cheerleader di nome Mia e i soliti problemi da liceo che abbiamo imparato a conoscere in centinaia di serie americane. Fin qui nulla di strano. I veri problemi sorgono quando i personaggi principali diventano mere parodie vuote in un contesto che risulta sin da subito sbagliato. Nella sceneggiatura scritta a tre mani, Light Turner (Nat Wolff) si presenta come uno dei tanti ragazzi disagiati e isolati dal contesto socio-scolastico, ma dotato di grande intelligenza. Già si può evincere come ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò, segnalato anche da un netto distacco dall’atmosfera aulica del manga/anime e l’interpretazione che di certo, non aiuta. Nat Wolff è fin troppo sopra le righe, mai convincente e soprattutto privo di carisma. Non riusciamo a empatizzare con lui e capire il suo punto di vista contorto, probabilmente per un errato – ammesso che ci sia stato – studio del personaggio di Light Yagami. Senza soffermarci su Mia (Margaret Qualley), pressoché inutile e fastidiosa, sia come personaggio che come recitazione, da segnalare è la prova del vero antagonista di Light, o Kira se preferite: Elle. È vero; cambiare etnia a un personaggio che fa della sua caratterizzazione esteriore uno dei sui pregi è sicuramente una mossa al dir poco azzardata. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Keith Stanfield, nei panni di uno degli investigatori migliori al mondo, ne rappresenta discretamente i comportamenti, almeno fino a quando pensa di essere diventato qualcun altro e comportarsi nella maniera più sbagliata possibile. Questo forse è in sintesi una delle caratteristiche del film: ci prova, ma pur provandoci non riesce, mettendosi il bastone tra le ruote da solo.
Se le interpretazioni a dir poco scadenti non lasciano il segno e una scrittura confusionaria che cerca di prendere qualcosa dall’opera originale si perde nei meandri del nonsense, cosa resta? Probabilmente la voce di Ryuk (caratterizzazione pessima, sia esteriore che psicologica) prestata da Willem Defoe, è l’unica nota positiva del film. In lingua originale si può apprezzare lo sforzo di un attore che ci ha creduto, riuscendo, almeno in parte, a rendere meno ridicolo lo Shinigami.
Inutile dire che le tematiche sono state completamente travisate: quello che per Light Yagami è un compito offerto dal destino, per Light Turner e Mia diventa quasi un gioco di coppia, immerso in un teen drama di cui si poteva fare volentieri a meno.

Il Death Note di Netflix è un fallimento su tutta la linea: scelte di sceneggiatori, casting e  attori, non rendono giustizia a un’opera che ha segnato una generazione, aprendo dibattiti su cosa sia giusto e sbagliato o la funzione di Dio. In questo caso la parola adattamento viene utilizzato come scusa, divenendo un Dragon Ball Evolution 2 dimenticabile, con così tante pecche che si fa fatica a trovare qualcosa da salvare. Nulla dell’opera originale, se non qualche nome, è stato utilizzato e questo forse è il male minore: anche se immaginiamo un mondo dove Death Note non sia mai stato creato, questo film non si salverebbe nemmeno.
«Questo mondo fa schifo». E Light Turner, a suo modo, ce lo ha ricordato.




Tokyo 42 – Citazioni ne Abbiamo!?

Ogni tanto si assiste a un ritorno agli anni ottanta: che sia per la moda, sui libri, film o videogiochi poco importa; in qualche modo quegli anni ci hanno lasciato qualcosa e riviverne i momenti migliori mette una pezza alla nostalgia. Proprio in ambito videoludico abbiamo avuto molti esempi di revival che, prendendo spunto da film di genere come Dredd, Blade Runner o Robocop, hanno fatto saggiare le peculiarità di sceneggiatura e messa in scena tipica di quegli anni. Basti citare il DLC di Far Cry 3 denominato Blood Dragon, un’enciclopedia della fantascienza più trash anni ottanta, fino al titolo protagonista di quest’oggi, Tokyo 42. Anch’esso recupera tutte le caratteristiche dei lungometraggi di quegli anni, le situazioni, i dialoghi e il design, impacchettando un titolo divertente e di intrattenimento, pur non privo di qualche difetto.

Cyberpunk 2042

Impersoniamo qualcuno la cui vita cambia improvvisamente. Veniamo a scoprire dalla TV che siamo stati incastrati per un omicidio accaduto per le strade di Tokyo. L’unica cosa da fare è scappare e cercare risposte su chi è stato e perché. Inutile dire che le parole assumeranno forma di proiettile. Questo è insomma l’incipit di Tokyo 42, di certo non una trama cervellotica, ma comunque adatta al tipo di contesto. È un pretesto, qualcosa che ha la funzione di introdurci al mondo di gioco e di guidarci verso il finale. Anche i comprimari subiscono una caratterizzazione anni ottanta, con dialoghi sopra le righe e colpi di scena abbastanza forzati. Nel corso della storia interagiremo con diversi personaggi, tutti con uno stile di vita abbastanza discutibile, ma che saranno utili per scoprire la verità su quanto successo. La trama si sviluppa come se fosse il primo GTA (con il dovuto metro di paragone): nel peregrinare da un capo all’altro di Tokyo troveremo, in parallelo alle missioni principali, quest secondarie legate ai diversi personaggi, oltre a un sistema – che potremmo definire “di contratti a termine” – che ci permetterà di acquisire reputazione e denaro. Proprio la reputazione diventa il fulcro del gioco: maggiore sarà, più avremo a che fare con i pezzi grossi della mala e, di conseguenza, avremo modo di acquisire informazioni cruciali.
Insomma, Tokyo 42 non è altro che un’accozzaglia di cliché anni ottanta, piena di riferimenti a film, manga (uno su tutti Ghost in the Shell), e tanto altro di quanto sfornato in quegli anni. E proprio per questo ci piace.

Se non hai un gatto non sei nessuno

Tokyo 42 è innanzitutto uno sparatutto-sandbox. Le varie missioni che sceglieremo hanno una buona dose di varietà d’approccio: sfruttare la mappa sarà essenziale in ogni frangente, non solo se si vuole affrontare il tutto in stealth, ma anche se si vuole intraprendere la strada di uno Steven Seagal qualunque. Il nostro arsenale è molto vario, e va dalle classiche pistole ai fucili di precisione, sino al bazooka e a una katana che regala grosse soddisfazioni. Quando si comincerà a fare sul serio inizierà una vera e propria guerra: capiterà molto spesso di trovarsi da soli contro decine di nemici e centinaia di proiettili visibili a schermo; proprio quest’ultima caratteristica sarà essenziale dato che ci permetterà di schivare letteralmente i colpi nemici e di rispondere di conseguenza, magari sfruttando la scarsa IA degli avversari.
Particolare è anche il sistema di puntamento – un po’ macchinoso, a dir la verità –nel quale diventa essenziale mirare con attenzione ma, complici alcuni problemi di prospettiva, può risultare frustrante, soprattutto durante i momenti più concitati. Qualora le cose si mettessero davvero male, entrerà in scena anche un simpatico sistema di mimetizzazione olografica: consumando l’energia di una batteria non meglio specificata, potremmo cambiare aspetto e mischiarci così tra la folla. Anche questo sistema dovrà essere pianificato e bisognerà controllare se nelle vicinanze sia posizionato o meno un sistema di ricarica dell’energia. Una volta perse le tracce, i nemici riprenderanno il proprio pattugliamento. È un titolo che non risulta per nulla semplice, grazie anche al fatto che basta essere colpiti soltanto una volta per ritrovarci all’altro mondo. Oltre a questo avremo a che fare anche con le Nemesi, colleghi assassini che desiderano farci fuori; anche loro possono mimetizzarsi tra la folla per cui, potenzialmente, ogni cittadino di Tokyo può diventare una minaccia. Fortunatamente potrà venire in nostro soccorso – una volta sbloccato – un gattino modificato geneticamente che, con il suo potere di rilevazione, può aiutarci a trovare la Nemesi e quindi rispedirla al mittente.
Un elemento cardine del gameplay di Tokyo 42 è la prospettiva, nel bene e nel male. Tutta la mappa può essere infatti ruotata a intervalli di 90° permettendoci di vedere tutto ciò che rientra nel nostro interesse. Il rovescio della medaglia si ha però quando ci troviamo in spazi stretti, magari tra un palazzo e l’altro, dove diventa praticamente impossibile vedere la strada da percorrere o individuare eventuali ripari. Peggio ancora quando si è alla guida di un mezzo di per sé già difficile da governare che, con l’aggiunta di un cambio prospettico di questa portata, diventa una delle parti più frustranti del titolo.
Tokyo, comunque, si presenta molto colorata, con un design che si rifà in parte a opere come Ghost in the Shell: grattacieli colorati, enormi schermi continuamente animati e alcuni sistemi tecnologici ci proiettano direttamente nel futuro; è liberamente esplorabile a piedi ma è possibile utilizzare anche – una volta sbloccati – i vari punti d’interesse, un sistema di teletrasporto in tempo reale molto utile, data la dispersività e caoticità della mappa. Particolare è anche la scelta di annullare completamente i danni da caduta, anche da altezze proibitive.
Lungo la città sarà possibile fare acquisti in punti specifici, soprattutto di armi e munizioni, ma anche di alcuni oggetti di dubbia utilità, come ad esempio un casco di banane. La mappa presenta anche dei piccoli segreti da raggiungere, oggetti rari che, una volta recuperati, entreranno a far parte del nostro arsenale.
Durante il gioco si sente comunque la mancanza di una reale omogeneità tra le varie parti del titolo, si ha l’impressione che mondo di gioco e narrazione siano completamente slegate e anche alcune meccaniche risultano ancora grezze.
Anche l’audio generale e le musiche non fanno gridare al miracolo, ed è un vero peccato perché proprio sul piano sonoro potevano essere inserite delle chicche davvero niente male. Il titolo è completamente tradotto in italiano.

In conclusione

Tokyo 42 si presenta come un titolo dall’alto potenziale mal sfruttato: l’approccio alle missioni è sicuramente il punto forte del titolo ma il sistema di puntamento impreciso, la mappa molto carina ma caotica e, soprattutto, i già citati problemi di prospettiva, rendono questo indie game spesso frustrante. La sfida data dalle missioni può comunque intrattenere e un contesto che non si prende molto sul serio aiuta molto a non focalizzarsi su alcuni difetti narrativi e di design. Chi è amante della fantascienza anni 80-90 troverà comunque modo di apprezzare le scorribande per le vie di Tokyo.