Travis Strikes Again: No More Heroes

“Non ci sono più gli eroi di una volta”, cantavano gli Stranglers nell’ormai lontano 1977, quegli stessi eroi che hanno ispirato intere generazioni e alimentato fantasiose leggende tramandate di padre in figlio fino a diventare parte e sostanza di una storia alternativa forse più accessibile, ma non per questo priva di una profonda rete di significati e simboli che per certi versi risultano più tangibili di qualsiasi altra entità materiale.

Tutto questo preambolo per dirvi che Travis Touchdown non è più l’uomo di una volta, appesantito dalla violenza perennemente costante nella sua vita. D’altro canto è un assassino, e nessuno di noi è chiamato a scegliere ciò che siamo: lo siamo e basta. Ed è per questo che l’unica maniera per rifugiarsi lontano dalla realtà a volte è quella di fuggire dalla stessa, magari viaggiando verso il Texas a bordo di un camper in compagnia dei nostri videogiochi preferiti. Ma il passato è duro a morire ed è inevitabile portarsi dietro qualche strascico, specialmente se sei un killer professionista. Così la quiete appena conquistata viene turbata dalla visita inaspettata di Badman, anche lui alla ricerca disperata di un lieto fine per i suoi tormenti. Portatore di un odio smisurato nei confronti del nostro Travis, reo di aver ucciso senza pietà la figlia Badgirl incontrata durante la sua prima scalata nell’olimpo degli assassini, Badman si ritrova suo malgrado ingarbugliato in una brutta faccenda: la console a cui Travis si diletta a giocare ai videogame è la terribile Death Drive MK-II, una pericolosa arma di distruzione di massa in grado di trascinare i nostri eroi all’interno del software e rendere un incubo lisergico partorito dalla mente malsana di Suda 51 quello che fino a pochi attimi prima era un innocuo passatempo elettronico.

Queste sono a grandi linee le premesse dello spin off di No More Heroes, uscito in esclusiva su Nintendo Switch con un grande carico di aspettative da parte dei fan. Ma uno strano presentimento aleggiava nell’aria sin dai primi trailer mostrati al pubblico. Quello che abbiamo avuto modo di vedere non era esattamente quanto ci potessimo aspettare da un nuovo capitolo della avventure di Travis ma fu Gōichi Suda in persona a ribadire a più riprese che questo Travis Strikes Again non sarebbe stato un titolo canonico ma un passaggio obbligato verso il compimento di una possibile (?) trilogia. È andato tutto per il verso giusto?

NO MORE HEROES ANYMORE

Iniziamo subito con l’affermare un concetto: il modo migliore per capire l’idea dietro questo spin-off è conoscere l‘iter creativo alla base. Può sembrare una banalità, ma è sempre un bene ribadirlo in virtù del fatto che stiamo parlando di un gioco di Gōichi Suda, dove alle volte scelte stilistiche o di gameplay vanno al di là di esigenze puramente commerciali o di budget, e mai come in questo caso. Dopo l’esperienza passata in Electronic Arts in compagnia del maestro Shinji Mikami che ha visto trasformare il suo titolo più ambizioso – quel Shadow of the Damned nato da un dream team di nomi illustri – in un semplice action shooter in terza persona più volte rimaneggiato e castrato dai produttori, il buon Suda ha preso prepotentemente le distanze da un modo di concepire l’intrattenimento videoludico come forma di ricavo economico sicuro e calcolato che si tiene alla larga dal correre rischi attraverso meccaniche collaudate pronte per il mercato.
Parliamo di un game designer che ha imparato a proprie spese cosa voglia dire lavorare per un colosso come Electronic Arts, nel quale per forza di cose è necessario comprimere gran parte della propria libertà autoriale. Il bisogno di tornare sui propri passi è stato la causa diretta del suo ritiro dalle scene per otto lunghi anni, durante i quali ha potuto trovare una nuova fonte di ispirazione e in qualche maniera una rinnovata fiducia verso un settore ormai pigro e disincantato.
Il mercato dei giochi indipendenti occidentali, o che a dir si voglia indie, è stato per Suda il trampolino di lancio verso una rinascita artistica ed è proprio qui che si colloca lo sviluppo di Travis Strikes Again. Ripartire in piccolo con un budget contenuto, ma con una consapevolezza di se stessi più forte che in passato, con la voglia di sperimentare e andare al di là dei generi fino ad ora conosciuti, creando qualcosa di indefinibile ma allo stesso tempo alla portata di tutti, significa creare un gioco d’avanguardia e un dichiarato atto d’amore verso le produzioni indipendenti che ormai regnano negli store digitali. Ma le sole buone intenzioni non bastano a creare un buon videogame.

MOE~

Il gioco nella sua semplice struttura può essere divisa in due diverse fasi: la prima è quella dove si sostanzia il gameplay vero e proprio, ambientata totalmente dentro i software della demoniaca console da salotto del nostro Travis. Ci troviamo lì innanzi a un hack ‘n slash vecchia maniera, dove tempismo e riflessi risultano essere l’arma vincente per districarsi nelle caotiche situazione create dagli sviluppatori. Per combattere avremo dalla nostra la Beam Katana, entrata pienamente di diritto nell’immaginario della serie. Gli attacchi di Travis si traducono principalmente in leggero, utile per eliminare facilmente e velocemente grossi agglomerati di nemici, e pesante, che dovrà essere sapientemente dosato, ma in grado di causare ingenti danni ai nemici singoli. Per ogni attacco inferto, la barra energetica della vostra spada andrà esaurendosi fino alla completa inibizione dell’arma, motivo per il quale sarete costretti a prendere un attimo di respiro per ricaricare l’arma attraverso un movimento (abbastanza ammiccante) del vostro Joy-con (parlando della versione per Nintendo Switch). Per variare queste semplici meccaniche di base, il giocatore avrà a disposizione diversi attacchi speciali sbloccabili durante la run in anfratti nascosti dei livelli o subito dopo una boss fight. Aggiungono dinamismo e un pizzico di strategia ai combattimenti ma alcuni di questi sono totalmente trascurabili ai fini dell’avanzamento. I nemici principali sono costituiti dai Bug, creature antropomorfe che nel loro particolare design richiamano fortemente gli Haven Smile di Killer 7. Potrete recuperare le vostre forze da un venditore ambulante di ramen che vi presenterà un piatto diverso per ogni livello. Il gioco è tutto qui.
Per tutta la durata del titolo gli sviluppatori si propongono di conferire un minimo di varietà alle situazioni che mandano avanti il plot e, a essere sinceri, certe volte ci riescono brillantemente trovando delle soluzioni sorprendenti e simpatiche, tutto ciò però a discapito delle coerenza interna, rendendo di fatto il proseguimento un po’ troppo sfilacciato e poco uniforme, aspetto che caratterizza la maggior parte dei giochi di Grasshopper Manufacture, ma che può risultare indigesto per un pubblico più eterogeneo. In questo senso, i continui omaggi e rimandi ai titoli indie (ma non solo) più importanti del settore, oltre che alle numerose autocitazioni del designer (che arriva a inserire se stesso come uno dei villain) risultano in un primo momento apprezzabili e con un loro senso all’interno della trama, ma con l’avanzare delle ore di gioco verranno a noia molto facilmente. Ovviamente la possibilità di giocare insieme a un amico in locale alza l’asticella del divertimento, sempre che riusciate a trovare qualcuno capace di sopportare la tediosa ripetitività di fondo dell’avventura, ingigantita ulteriormente dalla struttura a corridoio dei livelli. Insomma, la maggior parte del tempo lo passerete avanzando attraverso percorsi fin troppo elementari e poco stimolanti.

La seconda fase probabilmente peserà come un macigno a tutti quei giocatori che non hanno una spiccata passione per gli infiniti blocchi di testo. In buona sostanza il buon Gōichi ha pensato bene di mandare avanti la trama del gioco tramite schermate di testo in 8 bit sulla falsa riga di un Metal Gear Solid qualsiasi. La scrittura dei dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi secondari è in pieno stile Suda51, piacevole e divertente, e il designer spesso gioca su questa particolare scelta stilistica; col passare delle schermate e delle parole si insinua un pensiero lancinante, ovvero che lo scherzo e l’autoironia possa trasformarsi in un mea culpa non troppo velato dettato da un budget risicato e da tempi di produzione stringenti, che di certo non è una buona giustificazione per coprire la svogliatezza con la quale sono stati realizzati certi aspetti del gioco, ma questo argomento lo approfondiremo più avanti.

Queste due fasi distinte del gioco sono intervallate da un HUB centrale rappresentato dal camper dove Travis trascorre le sue notti solitarie in compagnia di Hotline Miami (a quanto pare molto amato da Suda). Qui potrete scegliere il vostro vestiario preferito scegliendo tra numerose T-shirt a tema videogame, in continuo aggiornamento tramite update, potrete salvare i vostri progressi andando al bagno e dare una votazione tramite il web al ramen ingurgitato durante le vostre avventure all’interno della Death Drive MK-II.

What happened to the Hero?

Se già la ripetitività di fondo ha fatto storcere il naso, le cose non vanno meglio con il comparto grafico del titolo. Le potenzialità dello sbandierato Unreal Ungine 4 con il quale i ragazzi capitanati da Suda hanno imbastito le fondamenta del gioco (tanto da inserirlo come skin delle t-shirt selezionabili) non vengono minimamente sfruttate. A fronte di ristrettezze economiche produttive è più che lecito chiudere un occhio sulle diverse magagne tecniche riscontrate durante la partita, ma qui ci troviamo di fronte a una totale mancanza di idee e originalità, salvo alcuni particolari casi; fondali e pattern ripetuti in un eterno loop con una pochezza di poligoni imbarazzante. La cosa fa ancora più rabbia nel momento in cui a livello stilistico il gioco è al 100% made in Suda 51, con i suoi continui richiami a un certo tipo di estetica vintage di indubbio fascino. Se qualcosa in più si poteva fare, insomma, non è stata di certo fatta, probabilmente per la poca familiarità con il nuovo motore grafico della Unreal, non riuscendo ad ottimizzare al massimo il risultato dello sviluppo. A conti fatti questa è la prima produzione del team Grasshopper sull’ibrida Nintendo ed è come se l’intero titolo sia stato concepito come terreno di prova per futuri lavori.
Discorso diametralmente opposto per l’audio: il lavoro compiuto dal team è ottimo quanto per l’effettistica tanto che per la colonna sonora elettronica che riesce ad accompagnare perfettamente l’azione su schermo, alternando brillantemente loop in stile minimal a sinfonie strumentali riuscendo a dare carattere all’intera atmosfera di gioco.

In definitiva, il nuovo gioco di Gōichi Suda non spicca il volo come tutti speravamo. Non siamo di fronte a un disastro completo, questo è certo, nella sua immediatezza il titolo riesce comunque a divertire se preso a piccole dosi e possibilmente in compagnia di un secondo giocatore, ma un maggiore impegno ne avrebbe sicuramente giovato in termini di fruibilità e soprattutto di resa commerciale, dato che allo stato attuale esistono diverse alternative miglioriTravis Strikes Again a meno della metà del prezzo. Quindi c’è da riflettere a chi questo titolo è veramente indirizzato; alla piccola nicchia dei fan che lo acquisteranno quando il prezzo sarà diminuito o al grande pubblico generalista? Una spesa di 40 euro completa di Season Pass (2 DLC a oggi disponibili) per un gioco che non ha la minima voglia di farsi capire e di farsi piacere alle grandi masse è decisamente una presa di posizione azzardata e controversa. Ma d’altronde stiamo parlando di un gioco di Suda51 e in realtà c’è molto poco da capire, o si ama o si odia. Se appartenete alla prima categoria alzate il voto finale di mezzo punto.




Mega Man 11

È possibile tracciare in Mega Man 9 l’inizio dei videogiochi retro-ispirati: sebbene alcuni di questi giochi esistevano già prima su internet sotto forma di hack o giochi flash su siti come Newgrounds, Mega Man 9 aprì le porte alla retro-rivoluzione di cui oggi siamo protagonisti poiché per la prima volta un grosso developer come Capcom dava credito e peso a non solo tutti quei fan che volevano un nuovo classico titolo del blue bomber, che in quel periodo era protagonista solamente di miriadi di sub-saghe e spin-off vari, ma anche l’importanza e la bellezza dei platform più tradizionali, la cui emozione veniva trasmessa anche con una grafica datata come quella del NES. Da lì sembrava che per Mega Man si prospettasse un futuro molto florido, visto il tempestivo decimo capitolo per l’anno successivo, ma nel 2010 accadde qualcosa di terribile: Keiji Inafune, direttore creativo della saga di Mega Man, abbandonò Capcom e col suo forfait la saga subì un brutto stop. Ben tre progetti, Mega Man Universe (un gioco che avrebbe potuto anticipare il sistema di creazione di livelli in Super Mario Maker), Mega Man Legends 3 e Maverick Hunter, vennero cancellati e a quel punto il fandom del robottino blu cadde nell’abisso, quasi certo di non rivederlo più.
A sparigliare le carte ci pensò Keiji Inafune, con il lancio nel 2013 su Kickstarter il del progetto Mighty No. 9, annunciato come il sequel spirituale di Mega Man; nonostante la risposta più che positiva da parte dei fan che finanziarono il progetto nel giro di un paio di minuti, per via della mancata comunicazione e un marketing discutibile (nonché alcuni brutti bug presenti nella release finale) il gioco che doveva riportare ai fan di Mega Man una sfida che fosse pane per i loro denti si rivelò un amaro fallimento e non a tutti piacque quello a cui giocarono. Nel frattempo Capcom, visto il successo del Kickstarter del loro ex impiegato, decise di rilasciare Mega Man Legacy Collection, contenente i primi sei titoli classici, insieme a un sacco di extra, ideali per far conoscere ai giocatori più giovani di cosa è fatta la saga del robottino blu. Due anni dopo, nel 2017 arrivò Mega Man Legacy Collection 2 contenente i restanti quattro titoli della serie classica ma nella sezione extra di Mega Man 8 i fan fanno una misteriosa scoperta: negli artwork trovano un misterioso disegno che non appartiene al suddetto gioco, né a nessun altro Mega Man presente nella collezione, e perciò cominciarono le speculazioni. La risposta arrivò un pomeriggio (in Europa) del Dicembre 2017 quando in una live di Capcom su Twitch, per festeggiare il 30esimo anniversario di Mega Man, venne annunciato a sorpresa Mega Man 11, un gioco atteso per 8 anni e che finalmente, dopo richieste su richieste da parte dei fan, arrivò alla luce (e apparve anche un Mega Man sfoggiare le stesse caratteristiche dell’artwork misterioso, ovvero il power-up di Block Man).
Il passo dalla rivelazione del trailer al rilascio ufficiale non fu breve ma, durante questo lasso di tempo, Capcom si assicurò di aggiornare regolarmente i fan e dunque ottimizzare il gioco il più possibile, consegnando così un opera di classe, senza sbavature e che, soprattutto, apriva la strada al futuro della saga che, oggi più che mai, sembra luminoso e pieno di sorprese. Andiamo subito a vedere la versione per PC di questo gioco, uscito ovviamente per PlayStation 4, Xbox One e Switch.

Due colleghi

La lore della saga risiede nei lavori di Thomas Light e Albert W. Wily, due scienziati appassionati di robotica che crearono una serie di robot, fra cui i sei robot di Mega Man (il primo titolo per NES), creati per assolvere lavori comuni, i due fratelli Rock (il nome giapponese del blue bomber) e Roll, creati come assistenti di laboratorio, e Protoman (ma qui è una storia non rilevante). A un certo punto il Dr. Wily, accecato dalla più brillante abilità del suo amico Thomas Light, corrompe i sei robot da lavoro portandoli ad attaccare gli umani e li convince a dominare il mondo sotto il suo nome. Il Dr. Light convince così Mega Man, il robot originariamente concepito per funzioni diverse, a convertirsi in un robot da combattimento e così nasce il blue bomber che oggi conosciamo e amiamo. Il Dr. Wily più in là, nonostante la prima sconfitta, proverà più e più volte con altri robot a dominare il mondo senza mai ottenere nessun risultato (per ben 10 volte, pensate!).
L’opening di questo nuovo Mega Man 11 ci mostra un flashback di Dr. Light e Dr. Wily, giovani, di fronte a una commissione universitaria; si discute sul double gear system, un meccanismo creato da Wily in stato di prototipo che se installato nei robot da lavoro gli permetterà di lavorare il triplo, aumentando la loro forza fisica e rendendoli più veloci. La commissione boccia l’invenzione del Dr. Wily per mancanza di etica in quanto, se il meccanismo finisse nelle mani sbagliate, potrebbe generare un robot inarrestabile in caso di rivolta; scaraventando il meccanismo per terra, lo sconfitto dottore se ne va ma Dr. Light, che comunque credeva nel suo amico, lo raccoglie pensando che un giorno gli possa tornare utile. Nel tempo presente, nel classico anno 20XX, il Dr. Wily, svegliatosi da un sogno che rimembrava i medesimi eventi, si ricorda del double gear system e così ne implementa uno nuovo ma gli mancano i robot; durante il giorno della manutenzione di alcuni robot master del Dr. Light, ovvero di Block Man, Acid Man, Blast Man, Torch Man, Bounce Man, Impact Man, Fuse Man e Tundra Man, il Dr. Wily irrompe nel laboratorio con il suo iconico Ufo e lì ruba sotto gli occhi di Mega Man, Roll, l’assistente Auto e il buon dottore spiegando nel contempo che utilizzerà la sua invenzione che gli fu scartata dalla commissione. Il Dr. Light informa Mega Man che, così com’è, non potrà fronteggiare i robot master senza il double gear system ma, fortunatamente per lui, il Dr. Light conservò la versione di Wily sin da dai tempi dell’università; una volta installata questa nuova miglioria Mega Man è pronto per buttarsi in una nuova avventura.

Due ingranaggi

Questo nuovo Mega Man 11 si concentra dunque sul sistema double gear, una nuova meccanica che dona a questa saga, onestamente un po’ stagna, una sfumatura diversa dal solito e molto originale: col tasto “RT” (“R“, e “R1” nei joypad, rispettivamente, di PlayStation 4 e Nintendo Switch) si attiverà un ingranaggio che renderà più veloce il blue bomber, rallentando dunque l’azione circostante, l’ideale per assestare colpi di precisione o, se siamo muniti di un pollice veloce, concentrare più colpi in poco tempo; con “LT“, invece, attiveremo un altro ingranaggio che, semplicemente, aumenterà la potenza di Mega Man e, se caricheremo un colpo tenendo premuto il tasto per sparare, lanciare ben due colpi di mega buster potenziato, l’ideale per i nemici particolarmente forti e per quei giocatori che conoscono il tempismo perfetto per caricare l’arma e scaricarla al momento giusto. Quando attiveremo una di queste funzioni si riempirà una barra che, se arriverà alla saturazione, impedirà le funzioni double gear fino a quando questa energia non torna a zero, e ci vorranno circa 15 secondi affinché si possa ripristinare; è perciò tanto importante usare queste nuove funzioni quanto saperle economizzarle il più possibile per poi evitare di non ritrovarsele pronte nel futuro immediato. I veterani dei giochi à la Mega Man potranno trovare nel double gear delle similitudini col sistema di corrente elettrica già visto in Azure Striker Gunvolt, senza però la possibilità di ricaricare immediatamente la barra premendo due volte giù, e anche della velocizzazione del tempo in Sine Mora, particolarissimo shooter della Digital Reality e Grasshopper Manufacture. Infine, questo nuovo sistema ha un ultima e potente funzione ma questa si attiverà esclusivamente quando avremo poca energia: premendo entrambi i tasti insieme, “RT” e “LT“, verranno attivate entrambe le funzioni, dunque rendendo Mega Man super potente e super veloce, ma si disattiveranno solamente alla saturazione della barra alla fine della quale ci ritroveremo con un personaggio altamente depotenziato che non potrà sparare più di un proiettile alla volta e non potrà caricare il suo mega buster e perciò sarà molto difficile sopravvivere in queste condizione (ma se ci riusciremo potremo utilizzare questa particolare funzione una seconda volta). Capite le meccaniche del double gear, grazie a un breve tutorial e molto versatile, ci potremo buttare all’avventura vera e propria, ritrovandoci sin da subito nell’iconica schermata di selezione boss tipica della saga.
Al solito, come in ogni capitolo, scegliere il primo stage da affrontare è un po’ difficile sia perché non conosciamo i pattern di attacco del suo boss e sia, se è per questo, perché non conosciamo il suo livello. Una volta trovato “l’anello debole della catena”, ovvero il boss più debole degli 8, otterremo la sua arma speciale che, a differenza del mega buster, consumerà una barra speciale al termine della quale non funzionerà più; il buon giocatore di Mega Man, una volta ottenuta la prima arma speciale, andrà a caccia del boss la cui debolezza è proprio l’abilità appena ottenuta dal precedente e, uno dopo l’altro, debolezza dopo debolezza, sconfiggeremo tutti gli otto robot master fino ad arrivare, come di consuetudine, alla fortezza del Dr. Wily dove ci saranno gli stage finali, di cui uno dei quali sarà un boss rush (in cui dovremmo affrontare tutti gli otto robot master con le solite due vite standard).
La struttura di questo Mega Man 11 è la più classica che ci si poteva aspettare e il blue bomber, a differenza del nono e decimo capitolo, torna a pieni poteri in quanto negli ultimi due giochi era stato privato del colpo caricato; uno dei primi elementi per cui questo nuovo gioco si proietta in avanti e non indietro. Il level design offre esattamente la sfida per la quale la saga è famosa e i nuovi stage riflettono molto bene la personalità del boss che andremo ad affrontare: il livello di Impact Man, che è una sorta di robot che sostituisce le macchine pesanti dei cantieri, è una sorta di area di lavoro/galleria in costruzione, quello di Torch Man è un campeggio in una foresta tendente spesso a prendere fuoco, quello di Block Man ricorda, a larghe linee, le piramidi egiziane e maya, etc. I programmatori hanno veramente voluto trarre il massimo della sfida offrendo dei livelli notevolmente lunghi e irti di nemici, anche se c’è poca varietà all’interno di essi, ma ci hanno dato il minimo per ciò che riguarda i checkpoint, giusto due intermedi e uno finale che, come tipico della saga, è posto nella stanza che precede quella del boss; Mega Man 11 non è di certo un gioco facile, e certamente questo è uno di quei elementi che ne accentuano la piccante difficoltà, ma non sarebbe stato un male se avessero aggiunto giusto almeno un altro checkpoint a metà dei due. Nella schermata di selezione livello è possibile accedere, premendo “LT“, al negozio in-game dove i nostri alleati, il Dr. Light, Roll e Auto, ci riforniranno di oggetti istantanei, come vite, E-tank, i richiami Beat per non perdere una vita quando cadiamo in un fosso e le super armature, e altri permanenti, come chip speciali, anti-indietreggiamento o che aumentano la possibilità di trovare più viti in un livello (che sono la valuta del gioco). Nessun oggetto nel negozio è superfluo o inutile e danno un potenziamento equilibrato che non permette dunque di rendere il gioco nettamente più facile; tuttavia non tutti gli oggetti saranno disponibili sin dall’inizio e dunque si andranno a sbloccare man mano, però non è chiaro qual è il criterio o l’algoritmo (diciamo) per rendere un oggetto disponibile all’acquisto nel negozio. Anche una volta terminata la nostra avventura alcuni oggetti erano ancora bloccati all’interno del negozio e noi non abbiamo ancora capito il perché. Una volta finita l’avventura, però, è possibile ancora spremere ancora delle sane ore di gioco tramite le sfide extra, come sconfiggere i boss nel minor tempo possibile, le corse negli stage facendo scoppiare, sempre più velocemente possibile, dei palloncini blu e evitando quelli rossi, oppure con la bellissima prova del Dr. Light, ovvero 30 stanze in cui adempiere a un obiettivo come distruggere un determinato numero di nemici o semplicemente arrivare al successivo warp per entrare nella successiva.

Questo titolo fa per me?

Al di là di tutto, Mega Man 11, sia in termini di gameplay che in termini di storyline, è un titolo abbastanza semplice: la sfida proposta è, sì, buona, e sicuramente perfetta per i nuovi arrivati, ma particolarmente facile per i veterani che troveranno il tutto un po’ basilare e per loro, se vogliono trovare pane per i loro denti, non rimarrà altro che riavviare una run a difficoltà supereroe che propone dei nemici che si abbattono con più colpi, dei pattern d’attacco da parte dei boss più complessi e difficili da evitare e nessun modo di ricaricare i punti vita e le armi speciali al di fuori delle taniche speciali. La storia proposta non è affatto complessa e pertanto include giusto i personaggi essenziali della saga, dunque niente Bass, Protoman (anche se nulla toglie che li potremo vedere in futuro come DLC, la stessa cosa che è successa a Mega Man 9 e 10) o sgherro parallelo di Dr. Wily; per quanto riduttivo possa sembrare, in fondo questo titolo vuole anche attrarre nuovi fan e, anche se come per The Legend of Zelda questo non è mai stato il caso di questa saga, in questo modo i fan possono tranquillamente giocare a questo nuovo capitolo senza necessariamente aver giocato ai titoli precedenti. Possiamo dunque dire di Mega Man 11 che è un gioco classico che più classico non si può, ma in senso più che positivo in quanto offre sia una vera e propria evoluzione della saga, e dunque porsi come nuovo caposaldo per i capitoli a venire, che un ottimo biglietto da visita a coloro che non hanno mai giocato a un’avventura del blue bomber; vedete quel Mega Man 11 come un Mega Man 1.1, un nuovo luminoso inizio dalla quale poter partire e portare la saga verso nuovi orizzonti.

Il nuovo contesto di Mega Man

Il richiamo nostalgico è indubbiamente presente in questo titolo ma, fortunatamente, non è il fulcro della costruzione del gioco e pertanto, a differenza del suo ritorno nel 2009, Mega Man 11 offre una bellissima nuova grafica 2.5D; il Blue Bomber, i nemici, le piattaforme e i background sono interamente resi in 3D ma il tutto è inserito in un contesto 2D perfettamente funzionale, funzionante e che offre l’azione tipica di cui la saga è famosa, senza alcuni bug o errori di programmazione di alcun tipo. Lo stile dei personaggi e dei nemici è esattamente quello proposto nella serie classica (che differenzia, dunque, da sub-saghe come Mega Man X o Battle Network), dunque con colori molto accesi, nemici robot stravaganti e una “leggerezza” generale. Sfortunatamente per noi, abbiamo ricevuto una chiave per PC scoprendo in corso d’opera che Mega Man 11 richiede, come spesso accade per molti videogiochi per PC provenienti dal sol levante, degli ottimi requisiti minimi. Nonostante siamo riusciti a soddisfarli, il gioco girava molto lentamente e le opzioni per ridurre la qualità della grafica e ottimizzazione del gameplay nel menù opzioni sono veramente pochissime: risoluzione, modalità (di visualizzazione), anti-aliasing e v-sync. Inutile a dirlo, non bastano per ottimizzare il gioco in un pc poco potente e, nonostante lo abbiamo giocato con un i5 e una scheda Radeon AMD, siamo stati costretti a togliere l’anti-aliasing e il v-sync, ridurre la risoluzione a dei meri 800×600 e visualizzare il tutto in modalità windowed per recuperare più dettagli possibili e un framerate più vicino possibile ai 60FPS, il che è tutto abbastanza assurdo visto che stiamo parlando di un gioco la cui grafica girerebbe perfettamente persino in una console di precedente generazione, Wii U o PS Vita; nonostante tutte queste nostre limitazioni, il gioco non andava alla velocità massima (anche se era molto vicino) e ciò lo si poteva evincere nella schermata della selezione dello stage, durante l’animazione della selezione in cui la musica andava avanti rispetto alle animazioni del boss, dunque anticipando effetti sonori inclusi nella traccia audio e entrare in un imbarazzante silenzio prima del tempo; abbiamo avuto modo di mettere a paragone questa schermata con quella del Nintendo Switch, grazie alla demo gratuita sull’E-shop, confermando tutte le nostre preoccupazioni. Se vi considerate dei pc gamer, e pertanto avete un’ottima postazione, allora Mega Man 11 girerà senza problemi ma se non avete un computer potente e, possibilmente, vi ritrovate una delle tre console principali a casa allora vi converrà considerare questo acquisto al di fuori di Steam.
La musica, composta da Marika Suzuki, ricalca lo stile compositivo tipico della serie classica, una sorta di musica elettronica, vicina al J-pop, ma con sfumature anche dance e a tratti anche rock. Al di là dell’alta qualità delle composizione, anche qui non c’è alcun passo indietro e si è optato dunque per uno stile moderno e fresco, con sintetizzatori e drum machine d’avanguardia, senza alcun richiamo nostalgico chiptune con chip sonori del Nintendo Entertainment System o altre retro-console (l’unica cosa presa direttamente dai vecchi giochi è il rumore della navicella del Dr. Wily); da sottolineare, appunto, è l’assenza di temi classici, ancora una volta sottolineando l’importanza di portare questa serie verso nuovi orizzonti e lasciare che il passato diventi semplicemente parte di una nuova forma espressiva. L’unico difetto di queste nuove composizioni è che sono giusto un po’ blande e i temi portanti delle melodie sono un po’ deboli; diciamo che non c’è quel motivetto che ti resta in testa una volta che smetti di giocare. Le voci inglesi e giapponesi, selezionabili nel menù opzioni (ma solo alla schermata del titolo), sono ben curate anche se l’unico lato negativo è il pacing dei dialoghi doppiati; sebbene le scenette rappresentino un ottimo intermezzo, sviluppate correttamente e sempre sottotitolate in italiano (come tutto il gioco del resto), i dialoghi si fermano ogni due righe, fortunatamente completando un periodo, e nonostante la buona qualità dei dialoghi sembrano comunque un po’ finti. Per il resto la voce in-game di Mega Man, quando annuncia l’attivazione di uno dei due meccanismi del double gear o quando cade in un fosso, è niente male anche se verso la fine del gioco ne avrete le orecchie piene; variare la lingua di tanto in tanto può alleviare questi fastidi.

Il pezzo mancante

Prima di chiudere questa discussione vorremo solo parlare di un ultimissimo punto: non abbiamo fatto altro che elogiare questo nuovo capitolo della saga e Mighty No. 9, a paragone, non regge il confronto in quanto a classe e qualità del prodotto consegnato. L’unica cosa che manca realmente a questo capitolo è appunto la mano di Keiji Inafune, il suo level design e le sfide proposte che solo lui sapeva consegnare, cosa che invece è riuscita alla sua creazione inpendente, secondo noi. Per quanto è stata introdotta una nuova bella meccanica bisogna dire che è anche abbastanza scontata, un gol a colpo sicuro, e dunque manca quel po’ di azzardo tipico di Inafune. La storia in fondo, e anche il finale, si concentra sulla separazione fra il Dr. Light e il Dr. Wily, magari simboleggiando proprio la dipartita di Inafune e dunque, forse, questo titolo potrebbe rappresentare un invito da parte di Capcom a tornare a bordo e dare a Mega Man infinite possibilità nel futuro prossimo, sottolineando il fatto che la compagnia e il suo ex dipendente e persino i due universi fittizi hanno entrambi lo stesso obiettivo. Chissà quali saranno i risvolti futuri fra Keiji Inafune e Capcom ma intanto non possiamo fare altro che goderci questo nuovo Mega Man 11 e sperare che il prossimo anno vedremo un Mega Man 12 o, visto il recente rilascio di Mega Man X Legacy Collection 1 & 2, magari un nuovo Mega Man X9… stiamo delirando, è vero, ma siamo semplicemente troppo contenti della riuscita di questo titolo!
Vi raccomandiamo particolarmente questo nuovo titolo Capcom in quanto propone un gameplay vecchio stile con elementi e grafica moderni, una sfida nuova per i più giovani e un capitolo essenziale per i veterani. Solamente, considerate bene i requisiti del vostro PC prima di spendere questi 29,99€ su Steam per Mega Man 11, altrimenti se avete Nintendo Switch, PlayStation 4 o Xbox One acquistatelo lì. Senza dubbio, uno dei giochi più belli di questo 2018!




Hi,my name is… Gōichi Suda

In quali termini e in quale misura un creativo può essere definito “autore”? Accade quando crea qualcosa di innovativo e originale? O quando plasma un proprio personale linguaggio all’interno del medium di riferimento? Se dovessimo dare una risposta affermativa a queste domande, allora Gōichi Suda (in arte Suda51) rientrerebbe di diritto nella categoria.
Classe 1968, Suda51 è riconosciuto all’unanimità come uno dei più eccentrici game designer della storia videoludica.

Il suo percorso lavorativo inizia nella Human Entertainment come scenario writer per la serie wrestling Super Fire Pro Wrestling su Super Nintendo. Ben presto si rende conto che lavorare per conto di terzi e avere poco margine creativo all’interno della produzione non è il massimo delle sue aspirazioni. Con un gesto provocatorio conclude la sua esperienza alla Human scrivendo il controverso finale del quarto capitolo della saga sportiva, creando un cortocircuito narrativo senza precedenti per quei tempi. Trasferisce la sua passione altrove entrando a far parte della Grasshopper Manufacture, divenendone presto CEO e produttore esecutivo. Qui Goichi è libero di esprimersi al meglio ed è qui che crea il suo primo personalissimo lavoro: The Silver Case (1999). Si tratta di una visual novel dalla forti tinte thriller, nella quale saremo chiamati a investigare su una serie di macabri omicidi procedendo parallelamente attraverso due punti di vista diversi. Uscito nel solo mercato orientale sulla prima PlayStation, il gioco è il chiaro esempio della visione proto-punk del game designer. Declinando un’estetica forte e stridente a un gameplay molto semplice nelle meccaniche, quasi minimale nella sua voglia incontrollata di porre il giocatore nella condizione di spettatore passivo dei fatti narrati, concedendo una limitata interazione attraverso puzzle ambientali. Nel 2017, un po’ a sorpresa, produce un sequel-remake per console di attuale generazione: The 25th Ward: The Silver Case, mantenendo intatta quell’aurea inquietante tipica del primo capitolo.

Chiusa la parentesi Silver Case, Suda ha ancora voglia di sperimentare con il genere delle avventure grafiche in terza persona. Inizia a lavorare così a un progetto insolito: un misto tra Alice nel Paese delle meraviglie e un incubo lisergico à la David Lynch; quello che ne viene fuori è lo strambo Flower, sun and rain (2001).

Uscito ai tempi di PlayStation 2 solo sul mercato giapponese, il gioco vede protagonista l’enigmatico Sumio Mondo, un tuttofare abile nel risolvere qualsiasi tipo di problema attraverso l’uso di una valigetta capace di connettersi (letteralmente) a tutto ciò che circonda il protagonista. Dietro storie di fantasmi, persone scomparse, attacchi terroristici, spiagge dorate e piscine luccicanti si nasconde un gameplay vecchio stampo, focalizzato nella risoluzione di puzzle matematici disseminati nell’area d’azione. Il giocatore questa volta ha una maggiore possibilità di interazione, dialogando con le strane personalità che popolano il suggestivo hotel da cui prende nome il gioco. Il designer calca la mano sulle assurde situazioni in cui si viene a trovare Mondo e gli strampalati dialoghi con i personaggi secondari, dai quali estrarre indizi per la soluzione dell’enigma. Suda riesce a creare un’atmosfera rilassata e solare ma allo stesso tempo ambigua, con dettagli e tinte alle volte disturbanti. Il tutto accompagnato dalle splendide composizioni di Masafumi Takada. Sette anni dopo l’uscita su PS2 la casa di produzione decide di lanciare un remake per la portatile Nintendo DS, aggiornando il sistema di controllo al touch screen e con un adattamento sul fronte tecnico, dando questa volta la possibilità anche ai giocatori europei e americani di mettere mani al gioco.

Passano quattro anni prima che Suda51 ritorni dietro la cabina di regia. In questo tempo trascorso la GH dietro la sua direzione produce numerosi giochi dall’esito commerciale altalenante: si passa dal prodotto discreto che riesce a trovare un posto nel mercato, al fallimento su tutta la linea (chi ha avuto modo di giocare a Michigan: Report from Hell ne sa qualcosa). Poco budget e tempi di sviluppo molto stretti per un piccolo team che spesso viene affiancato da sviluppatori esterni quando si tratta di giochi su commissione. È nel 2005 che Goichi torna sulle scene con il suo titolo più conosciuto e controverso.

Sono i tempi in cui Nintendo rincorreva le terze parti per tappare i buchi del parco titoli del suo Game Cube, siglando un accordo con Capcom per una serie di 5 esclusive (quasi tutte temporanee) che avrebbero fatto la gioia dei consumatori. Tra i titoli si nascondeva un allora misterioso Killer 7, gioco di cui si sapeva molto poco e quel tanto che si conosceva non faceva altro che confondere ulteriormente le acque. Uno sparatutto su binari in terza persona con grafica cel-shading, iper violento e oscuro. Dietro il progetto si nascondeva Goichi in qualità di director sotto la supervisione attenta della Capcom, lasciando però ogni libertà creativa.
Probabilmente l’opera più matura e personale di Suda, nonché il gioco che ha sdoganato il suo nome in tutto il mondo, rendendolo una figura atipica nel settore.

Il gameplay di Killer 7 fonda le sue basi sulla possibilità di controllare sette diversi personaggi (i sette Killer Smith), ognuno con il suo corredo di skill e abilità esclusive. Si corre in corridoi stretti e claustrofobici, seguendo percorsi prestabiliti che a loro volta si diramano in bivi e strade secondarie. Il giocatore mantiene la concentrazione sull’eventuale presenza degli Heaven Smile, disturbanti creature antropomorfe che avanzeranno verso il giocatore fin quando verranno abbattute sparando in precisi target point utili per guadagnare blood da spendere nel potenziamento delle caratteristiche dei personaggi giocabili. In tutto questo non mancano i classici puzzle ambientali da risolvere tramite il ritrovamento di oggetti lungo il percorso. Con Killer 7 la follia visionaria di Suda raggiunge traguardi altissimi creando un corollario di personaggi secondari inquietanti e moralmente ambigui. La trama che sorregge il tutto è volutamente criptica e soggetta a diverse interpretazioni, toccando temi importanti come lo smercio di armi chimiche, i giochi di potere politico e le violenze psico-fisiche insite nella società dei tempi moderni. Pone continue riflessioni sulla natura sadica dell’animo umano e sul rapporto che questo ha con le entità superiori; domande che sapientemente vengono lasciate in sospeso.
Non un gioco perfetto, nei suoi limiti tecnici e strutturali funziona solo discretamente, ma rappresenta di certo una mosca bianca nel panorama videoludico, riuscendo a mantenere il suo fascino morboso ancora oggi: è notizia recente che la Grasshopper rilascerà il gioco sulla piattaforma Steam nell’arco del 2018, tredici anni dopo la prima release.

Dopo l’exploit Killer 7, Suda si concede qualche anno di stop tornando a produrre con la sua piccola casa di sviluppo. Tra i tanti titoli a marchio Grasshopper è sicuramente Contact (2006) a farsi notare maggiormente. Sviluppato per la portatile a due schermi di Nintendo, Contact è un bizzarro GDR con fasi gestionali; vede come protagonista uno sventurato ragazzino sperduto sopra un’isola deserta accompagnato da un singolare scienziato rinchiuso nella sua astronave. Un piccolo gioiello di stile che vede il nostro Goichi come collaboratore esterno nella creazione del concept e nell’elaborazione del gameplay.

Nel 2007, il genio inquieto di Suda51 ritorna prepotentemente con l’uscita di No More Heroes per la nuova console Nintendo Wii. L’idea del designer era di riuscire a sfruttare a dovere i sensori di movimento della nuova macchina Nintendo, senza rinunciare alle sue classiche trovate fuori dagli schemi ed alla sua ossessiva ricerca per l’estetica a 8 bit. Quello che ne viene fuori è un godibilissimo action in terza persona interrotto qua e là da alcuni minigiochi facilmente dimenticabili e da una pessima fase open world. Con No More Heroes (come l’omonimo album degli The Stranglers) Suda consegna alla storia del videogioco uno personaggi più carismatici e meglio riusciti della sua carriera. La figura di Travis Touchdown colpisce per la svogliata personalità, il linguaggio sboccato e la sua ossessione costante per il gentil sesso. Travis dovrà scalare la classifica mondiale dei più grandi cacciatori di taglie nel tentativo di portarsi a letto l’organizzatrice dell’evento. Tutto questo si traduce in una struttura di gioco molto classica: livello da esplorare, mob da uccidere e il boss di fine zona da deflagrare senza pietà. Il gameplay regge bene per metà del percorso se non fosse per la noiosa fase di accumulo di denaro, passaggio obbligatorio per proseguire nella scalata della classifica. A metà dell’avventura, la pesantezza e la ripetività delle azioni iniziano a farsi sentire non poco. Per quanto riguarda lo stile grafico, Suda si diverte a infarcire il gioco di citazioni Pop e conferisce all’intera produzione un sapore vintage godibilissimo ( i retrogamer ne andranno pazzi). Fu un discreto successo commerciale, tanto da convincere la produzione a lavorare ad un seguito (No More Heroes 2: Desperate Struggle, non diretto da lui personalmente) e un remake per console in alta definizione. Considerato da gran parte della critica come il manifesto stilistico del designer nipponico, NMH è sicuramente un buon inizio per conoscere la visione distorta di questo autore, oltre ad essere il suo brand più famoso.

Arriviamo così al 2011, l’anno in cui Suda ci ha fatto sognare ad occhi aperti disattendendo, però, le speranze di molti giocatori. Electronic Arts annuncia di aver in cantiere un horror affidato a un dream team che, per i nomi coinvolti, avrebbe dovuto scatenare un terremoto nel mercato PS3 e Xbox360. All’interno del gruppo figuravano personalità come Shinji Mikami e Akira Yamaoka, rispettivamente il director di Resident Evil e il compositore della saga di Silent Hill. Quello che ne viene fuori è Shadow of the Damned, sparatutto horror in terza persona sulla falsa riga del ben più grande Resident Evil 4. Protagonista della vicenda è Garcia Hotspur, un efferato cacciatore di demoni che si ritrova, suo malgrado, a dover rincorrere il Signore delle Mosche colpevole di aver rapito la sua psicotica ragazza. Il giocatore dovrà scendere negli abissi dell’inferno per salvare la sua amata e tornare ad una vita normale. Il gameplay fa il suo compito in maniera discreta, prendendo quanto di buono fatto con RE4, svecchiandone le meccaniche e aggiungendo qualche simpatica novità. Quello che colpisce di più è tutto il contesto scenico e attoriale del gioco, partorito direttamente dalla mente malsana di un Suda in apparente stato di grazia (?). L’inferno ricreato è disturbante, acidissimo e con una punta di ironica crudeltà. I colori saturi si sposano perfettamente con l’evolversi degli eventi raccontati; tutto è studiato in modo tale da colpire il giocatore e coglierlo di sorpresa, proponendo situazioni al limite dell’assurdo e personaggi improbabili che si fanno amare sin da subito per la loro simpatica follia. Il tocco da maestro, però, è da cercare nell’accompagnamento sonoro e nell’effettistica affidata alle sapienti mani di Yamaoka (che, orfano di una Konami sempre più ottusa, decide di volare dalle parti della Grasshopper, diventando un membro fisso dello staff). Certamente non si tratta del capolavoro che tutti aspettavano, a ragion veduta, ma secondo il parere di chi scrive è uno dei prodotti più originali e divertenti della scorsa generazione. E scusate s’è poco.

Esattamente un anno dopo Suda si rimette al lavoro grazie a una partnership con la Warner Bros. Interactive Entertainment. Questa volta collabora alla scrittura con il cineasta americano James Gunn (si proprio quello de I Guardiani della Galassia) da sempre grande fan degli horror di serie b. Lollipop Chainsaw (2012) è un classico gioco d’azione in terza persona, simile nelle meccaniche a NMH ma molto meno funzionale nel risultato. La protagonista, Juliet, è una cheerleader che ha perso il fidanzato a causa di un’apocalisse zombie; tutto quello che rimane di lui è la testa parlante in grado di dispensare ancora consigli su come affrontare la tragedia. Juliet utilizza una gigantesca motosega come unico strumento contro i non-morti, combinata alle sue doti da combattente. Come da tradizione, il gioco è disseminato di collezionabili utili per sviluppare le abilità motorie della protagonista e rendere le combo varie e complesse. Purtroppo tutto questo si riduce ad un convulso button mashing che molto presto si traduce in monotonia e noia. Un vero peccato perché l’ironia di Gunn funziona e le citazioni al cinema italiano di genere faranno la felicità di molti appassionati, ma dietro una simpatica presentazione si nascondono delle falle di gameplay che ingoiano l’intero gioco in una voragine di mediocrità. Anche tecnicamente è un bel passo indietro rispetto al lavoro precedente dei Grasshopper, complice anche un budget molto meno generoso rispetto al recente passato. Probabilmente il punto più basso toccato da Suda51 sino a ora, ma paradossalmente il suo successo commerciale più forte.

Da Lollipop Chainsaw Suda ha preferito rimanere in disparte partecipando come consulente esterno a quasi tutte le produzioni della software house (Sine Mora, Killer is Dead, Let it Die) tornando a far parlare di sé solo nel 2018 annunciando in pompa magna uno spin off della serie NMH: Travis is strikes back, in uscita nel corso dell’anno in esclusiva per Nintendo Switch.

Goichi Suda è stato e continua a essere una personalità unica e singolarmente vicina ad un modo di concepire il “videogioco” non solo come mero intrattenimento ma anche come espressione di una visione totale, che guarda con molta attenzione al passato (nella estetica) rielaborandolo in maniera del tutto personale. Suda51 non passerà alla storia come un portatore di idee rivoluzionare, come possono esserlo alcuni suoi colleghi, ma mi piace considerarlo alla stregua di quello che rappresentò Lucio Fulci nel cinema italiano: un terrorista del genere, o ancora meglio l’anarco punk più trasgressivo del panorama videoludico. Tra alti e bassi la sua dialettica meta-stilistica continua nel suo percorso di ribellione a delle leggi di mercato che ormai soffocano e costringono il settore ad auto riciclarsi per paura di uscire da quella comfort zone dal guadagno facile ed assicurato. Suda non va incontro al gusto dei giocatori ma sono loro a dover scardinare ogni pregiudizio e categoria mentale per lasciarsi violentare dolcemente da questo pazzo ometto giapponese; tra un giubbotto di pelle ormai demodè ed una canzone degli The Smiths ad accompagnarci nei nostri pomeriggi da videogiocatori.




Suda51 vorrebbe creare un seguito di Killer is Dead

Durante un’intervista per Gamereactor al Tokio Game Show, a Suda51 è stato chiesto se fosse interessato a creare dei seguiti di alcune delle sue opere, come Lollipop Chainsaw, Killer is Dead, Killer 7 .
L’autore giapponese ha risposto che per molti dei suoi titoli sarebbe relativamente difficile realizzare dei seguiti, perché Grasshopper (azienda fondata da Suda51) non detiene i diritti di alcuni di essi, quindi non spetta a loro prendere decisioni a riguardo.
Ma certamente ci sono dei titoli per i quali esiste una possibilità, ad esempio, Killer is Dead.
Suda ha detto di aver pensato per parecchio tempo a un possibile seguito, anche se ancora non c’è nulla di concreto, e spera di poter parlarne più approfonditamente in futuro.
Ma prima deve terminare i lavori su Travis Strikes Again: No More Heroes che uscirà l’anno prossimo su Nintendo Switch.