Il Re Leone – Ovvero come ho imparato a preoccuparmi e a odiare la bomba

La nostra è un’epoca strana, stretta in un limbo che vede agli opposti un futuro radioso/deprimente e un passato che non smette mai di essere migliore di quanto effettivamente sia stato. E con il cinema (o cinematografò se preferite) la storia non cambia: Star Wars, Ghostbusters, Il Pianeta delle Scimmie, Star Trek, Total Recall, Alien e chi più ne ha più ne metta, hanno visto negli ultimi anni nuove trasposizioni più o meno riuscite e tra queste, non poteva mancare mamma Disney. Negli ultimi anni la moda della riproposizione dei “classici” in salsa live action è letteralmente esplosa – la bomba, nel titolo – con risultati a volte sorprendenti: Cenerentola di Kenneth Branagh riesce effettivamente ad avere una sua identità, approfondendo una struttura narrativa che per forza di cose mancava nell’originale, impreziosito da scelte stilistiche che ne hanno risaltato il tutto. A modo loro, anche Il Libro della Giungla, La Bella e La Bestia, Dumbo e così via sono film che godono di propria linfa vitale, dando un contenuto in più non solo a chi è amante dei cartoni animati ma anche a chi di Disney interessa il giusto. Tutto questo con alti e bassi, sia ben chiaro, ma l’intento – anzi l’impegno – di andare al di là di quanto visto finora è sotto gli occhi di tutti.
E poi arriva Il Re Leone.

Un capolavoro senza tempo (appunto)

Per quelle due, tre persone che non hanno mai sentito parlare del Re Leone, oltre ad aspettarvi un destino simile a Cersei Lannister a suon di “Vergogna!”, tocca recuperarlo. È uno dei pochi casi in cui non c’è opinione che tenga, in quanto, il film animato del 1994 risulta essere ancora oggi uno dei migliori lungometraggi di genere della storia del cinema. E il perché è presto detto: il primo classico Disney a vantare una storia originale, attinge sì dai classici stilemi narrativi di genere, costruendo una trama a tratti “shakespeariana” e capace di maneggiare con cura gli elementi più importanti che hanno caratterizzato la narrazione sin dalla notte dei tempi. Amore, odio, vendetta, redenzione, rinascita, consapevolezza sono tutte racchiuse nel personaggio di Simba che durante il suo percorso, ritrova se stesso accettando il proprio destino. Nonostante il contesto e il target di riferimento, Il Re Leone è qualcosa che viene apprezzato soprattutto “da grandi”: il viaggio di Simba è soprattutto interiore e facilmente empatizzato dalla maggior parte degli spettatori. La fuga con successiva “zona di comfort” sono elementi che vanno al di là del semplice Hakuna Matata di Timon e Pumba, una filosofia (concentrarsi sul presente evitando che passato e futuro influiscano negativamente) che è solo l’anticamera di quanto vediamo a schermo. Simba fa suo l’Hakuna Matata, ma va oltre. Il passato per quanto doloroso va accettato e anche l’influenza negativa che può aver sul presente può essere usato come leva per realizzare esperienze migliori, non solo per sé ma per tutto il regno. Evitando di dilungarci ulteriormente, l’originale Re Leone è qualcosa di estremamente attuale e lo sarà probabilmente sino alla nostra estinzione. Questo perché essenzialmente Il Re Leone, parla di noi, di ciò che siamo e di quello che potremmo essere se solo ci conoscessimo un po’ meglio.
Tutto molto bello, tutti molto felici, sino a quando anche qui la mano a forma di dollaro non ha deciso di afferrare per la coda il povero Mufasa.
I bambini – oltre a essere gli esseri più malvagi dell’Universo – sono anche attenti al mondo che li circonda e ovviamente, il digitale ha preso il sopravvento; come naturale che sia, l’attrattiva dei bambini è virata su qualcosa di molto simile a un videogioco. Nulla di male, per carità; abbiamo avuto titoli degni nota come Coco (disponibile finalmente su Netflix), Up, Inside Out ma anche quel Spiderman – Un Nuovo Universo che riesce anche a elevare il genere. Se gli ultimi live action possono aver effettivamente un senso, vantando tra le fila anche un cast umano, ne Il Re Leone tutto questo prende una piega inaspettata e a tratti deludente.

Uno Specchio Oscuro

Partiamo da una premessa: l’emotività scaturita da un’opera e l’opera in sé sono cose completamente diverse. Del resto c’è chi si eccita sessualmente con Indipendence Day pur sapendo che la qualità del film lascia parecchio a desiderare. Ma andiamo avanti.
Il nuovo Re Leone è una riproposizione diretta da Jon Favreau, regista del remake de Il Libro della Giungla oltre che essere uno dei pilastri del Marvel Cinematic Universe. E il film, per forza di cose, funziona: quello che ci si trova davanti è un semplice “copia 1:1” del film originale ma interamente in computer grafica. Il lavoro svolto con la CGi è qualcosa di sbalorditivo, davvero vicino al fotorealismo con ogni piccolo particolare costruito con dovizia, facendo uso di tutte le ultime tecnologie in questo campo. Quello che colpisce sono i paesaggi degni dei migliori documentari su National Geographic, che riescono a risaltare un contesto che in fin dei conti, vede degli animali parlare. Animali semplicemente riprodotti alla perfezione… troppo. La questione “National Geographic” salta fuori quasi immediatamente: nonostante la riproposizione di alcune scene iconiche (indubbiamente suggestive), nessun passo in più sembra essere fatto dal punto di vista puramente stilistico, partendo da una fotografia (digitale) che non riesce in alcun modo a bucare lo schermo. Con la frase “ho visto documentari più belli” si riassume un po’ il tutto, con Caleb Deschanel che in nessun modo sfrutta la vastità di materiali tra luci e colori dell’Africa selvaggia capace di incorniciare una storia che in questo caso ne avrebbe assolutamente bisogno. Tutto risulta fin troppo asettico e questa asetticità la si ritrova purtroppo sui protagonisti. La ricerca della iper-realicità, benché stuzzicante, risulta essere l’autogol più grande della pellicola. Gli animali, hanno la particolarità di aver una piccolissima scelta di espressioni facciali e tranne qualche raro caso, non sono degli ottimi attori. Certo, ci sono attori che non si discostano tanto dal regno animale da questo punto di vista, ma questo abbiamo e questo ci teniamo. Sappiamo tutti quali sono le scene iconiche o qual è la scena iconica: Mufasa e la sua consapevolezza di non saper volare – lo so, è cattiva. Oltre alla mancanza di reale caratterizzazione estetica salvo qualche eccezione, la limitata espressività mozza le gambe a una storia che fa delle emozioni il suo marchio di fabbrica: nessuna espressione terrorizzata sul volto di Mufasa, nessuna trauma sul volto di Simba, nessun ghigno di Scar e soprattutto nessun volto infoiato su Nala. Se quest’ultima non inficia particolarmente sulla narrazione, tutto il resto è un puro colpo al cuore con mani a carciofo. Cosa ne viene fuori quindi? Un film essenzialmente inutile: durante la visione del film non vi è alcun motivo che giustifica questo nuovo adattamento se non il rivivere vecchie emozioni scaturite dall’originale. Ma a questo punto, perché non rivedere quello?
Anche a livello sonoro e scenografico qualcosa non quadra, con riarrangiamento delle celebri musiche di Hans Zimmer, ma che tra alti (sempre con riserva) e bassi non riescono a essere incisive. Prendiamo ad esempio “Sarò Re” di Scar: se nel classico, oltre a essere un elogio al totalitarismo, è intriso di quella teatralità che ha aiutato Scar a diventare un personaggio iconico, tra sbuffi di vapore verdastro, ombre malefiche e anche un bel plotone di iene che LVI avrebbe sicuramente apprezzato, in questa nuova versione, è semplicemente un leone decrepito che saltella tra una roccia e l’altra. Questa scena  rispecchia tutto il film. Tutto è molto edulcorato e in qualche modo sin troppo “distante” per essere empatizzante come il cartone animato.
Inoltre, il cambiamento di struttura narrativa che consente un “live action”, non è stato minimamente sfruttato: l’occasione di vedere approfondita la psicologia di Scar e il rapporto dello stesso con Mufasa, gli anni vissuti da Simba in compagnia di Timon e Pumba e molto altro che avrebbe meritato una maggiore attenzione, semplicemente non esiste, come due scudetti della Juventus. Questa forse è la più grande occasione mancata, ed è strano pensarci considerando che Cenerentola, La Bella e La Bestia, Maleficent e Aladdin hanno avuto un trattamento diverso.
Sul nuovo doppiaggio, elogiando Luca Ward come Mufasa, si prosegue tra alti e bassi in cui spiccano ovviamente Marco Mengoni (Simba adulto) ed Elisa (Nala Adulta) che con le loro voci accompagnano egregiamente le canzoni iconiche del brand, facendo da tramite tra presente e passato… sino a quando le parole non ritmate entrano in scena. Non essendo un musical, si nota una certa discrepanza tra il loro doppiaggio e quello del resto del cast, nulla comunque che infici violentemente la visione.

In Conclusione

La domanda da cui bisogna partire è “ne avevamo bisogno?”. Visto il risultato la risposta sembra scontata, eppure, è molto probabile che le nuove generazioni lo adoreranno. Sarà adorato anche da coloro che vivono la loro vita un quarto di emozione alla volta, cresciuti a pane e Disney e intrisi ancora di quella magia che è facile perdere semplicemente guardandosi attorno. Viviamo in un mondo in cui il dollaro regna sovrano e questo lungometraggio possiede un “non so ché” di pericoloso: cosa vuole il pubblico? È veramente in grado di scegliere cosa guardare e di far selezione? Tutte domande senza senso per i più, ma è la consapevolezza del pubblico a decide di quale qualità vogliamo usufruire.
Il nuovo Re Leone dunque, non riesce a elevare il prodotto originale, non riesce ad approfondire personaggi e tematiche e non riesce a regalare suggestioni visive degne di nota. Sta lì, come qualcosa avvenuto dopo una sbronza ma ancora presente nei nostri ricordi, un errore, qualcosa da dimenticare ma che ormai fa parte di noi. Ci sarà un sequel? Molto probabile, ammesso e concesso che importi a qualcuno ma quei pochi, saranno comunque entusiasti come bimbi nel rivedere le avventure di Simba – Il Leone Bianco.

– Cavolo, ce l’avevo fatta a non citarlo. Proprio all’ultimo. –




Blade Runner 2049

Era il 1982 quando il capolavoro di Ridley Scott uscì nelle sale cinematografiche di tutto il mondo; Blade Runner non solo fu un pioniere dell’effettistica sempre più presente nei film di Hollywood ma ebbe un impatto culturale senza precedenti. Blade Runner divenne un punto di riferimento per la cultura cyberpunk, stile i cui tratti caratterizzanti sono la fantascienza, il post-modernismo nonché la psichedelia e il romanticismo; mondi utopici in cui gli uomini, anche se serviti in tutto e per tutto dalla tecnologia, perdono il contatto con sé stessi e l’individuo diventa piccolo, insignificante, isolato in una società il cui rapporto fra essere umano e tecnologia si intreccia così tanto da non esserci più un confine fra questi ultimi. L’uomo diventa macchina e la macchina diventa umana. Blade Runner divenne presto un film di culto, uno dei film più protetti di Hollywood e che ben presto acquisì un aurea di intoccabilità e perfezione che oggi gli permettono lo status di leggenda. La pellicola, come è normale che succeda, ha influenzato diverse opere cinematografiche successive come Terminator del 1984, Brazil del 1985, il Quinto Elemento del 1997, e in oriente la sua ispirazione è chiara in manga e anime come Akira del 1988 e la serie di Ghost in the Shell che ha visto quest’anno una nuova reiterazione cinematografica. Gli elementi del film sono anche ben visibili in diversi videogiochi come Flashback: the quest for identity del 1993, Beneath a Steel Sky del 1994 e l’acclamato Snatcher del 1989, gioco creato dal celebre Hideo Kojima e la cui similitudine con la pellicola è palese. L’idea di un sequel fu considerata dal regista Ridley Scott per molti anni finché in anni recenti questo progetto si andò a concretizzare pian piano: l’acquisizione dei diritti da parte della Alcon Entertainment nel 2011, il coinvolgimento del regista e di Harrison Ford nel 2012, fino alla conferma del sequel avvenuta nel 2015 con il titolo Blade Runner 2049 e con Denis Villeneuve come regista. L’annuncio di questo film divise i fan più devoti del regista e della pellicola: ci furono (e ci sono ancora) quelli che videro in Blade Runner 2049 la solita mossa commerciale hollywoodiana, l’ennesimo revival nostalgico per attirare nuovi fan o il reboot mascherato da sequel innecessario, e quelli che non vedevano l’ora di riimmergersi in quella Los Angeles futuristica e rivedere il caro vecchio agente Deckard alle prese con un nuovo caso da risolvere. I nuovi trailer, usciti per il lancio nelle sale cinematografiche, hanno forse allontanato ancora di più gli scettici con ancora un briciolo di speranza per il film, mostrando diverse scene d’azione e montate come un qualsiasi film hollywoodiano. Ma Blade Runner 2049 è davvero un film come gli altri?

Piccola nota: gli eventi del film sono preceduti da tre corti, commissionati da Villeneuve stesso, che raccontano di alcuni eventi avvenuti fra Blade Runner e Blade Runner 2049. La visione di questi non è fondamentale per la comprensione del film, tuttavia sono un bellissimo extra da godere prima o dopo la visione del nuovo film al cinema, specialmente il corto animato 2022: Black Out diretto da Shinichiro Watanabe, creatore della serie anime Cowboy Bebop. Il film si apre con una nota che ci spiega che, dopo gli eventi di Blade Runner, la Tyrell Corporation, che produceva i replicanti Nexus-6, è fallita ma che questa è stata assorbita dalla Wallace Corporation che promise alla gente dei replicanti più obbedienti e sicuri. La storia poi si sposta al 2049, anno in cui il nostro protagonista K, un replicante di ultima serie interpretato da Ryan Gosling, è alle prese con un “ritiro” di un vecchio replicante, tale Sapper Morton interpretato dall’ex pluri-campione WWE Dave Bautista. Da questo evento partirà successivamente l’indagine di K dopo che egli, nel luogo della missione, avrà fatto una scoperta molto particolare. Da qui parte il vero film il cui pacing è degno dell’originale; Blade Runner 2049 è un film che si sviluppa lentamente esattamente come un film noir, senza annoiare o confondere le idee dello spettatore. Come il suo predecessore –  ma questo lo si poteva benissimo immaginare – non è un film semplice da seguire, la pellicola chiede allo spettatore un po’ più del minimo dello sforzo mentale, giusto quel po’ per renderci parte dell’indagine del protagonista rendendo noi stessi spettatori protagonisti della pellicola. Da protagonisti ci sentiremo veramente immersi in quelle atmosfere mastodontiche del film, volando sulla nostra Spinner fra i palazzi giganteschi della Los Angeles del 2049 e camminando fra le affollatissime strade piene di gente di ogni tipo e stuzzicherie che producono fortissimi odori. Da questi scenari dispersivi si passa anche alla sede  della Wallace che, al contrario degli stereotipati laboratori futuristici, vengono rappresentati ambienti minimali dalla scenografia povera. Qui gli ambienti hanno un che di templare un po’ come a sottolineare il fatto che dai laboratori Wallace nasca la vita e dunque si ha proprio l’impressione di trovarsi in un luogo sacro dove hanno luogo i miracoli della scienza; set dunque ideali per gli ambiziosi personaggi Luv e il proprietario Niander Wallace, rispettivamente interpretati dagli eccezionali Sylvia Hoeks e Jared Leto. Questa maestosità nelle scenografie è accompagnata dall’altrettanto maestosa colonna sonora composta da Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch; i temi classici di Vangelis fanno ritorno in questo nuovo film ma, ovviamente, la pellicola include nuovi bellissimi brani composti appositamente per essa. Come si sa le musiche di Hans Zimmer sono sempre molto epiche e solenni come lo si può evincere dalle colonne sonore delle serie di film Pirati dei Caraibi, la trilogia di Batman di Christopher Nolan e il recente Dunkirk; tuttavia, nonostante il compositore del film emuli perfettamente lo stile tipico della soundtrack del primo capitolo, l’assenza del tocco dolce di Vangelis si sente e la classica pomposità tipica di Zimmer potrebbe risultare a tratti un po’ fastidiosa in un film del genere. C’è un’alchimia evidente fra film e colonna sonora, però probabilmente non c’è quel tocco misterioso e introspettivo della musica del primo capitolo e che dunque portava un film come Blade Runner fuori dagli schemi. Purtroppo film moderni necessitano di colonne sonore moderne e, comunque sia, Hans Zimmer consegna una colonna sonora ben fatta e ben ispirata anche se manca di leggerezza. Parlando dunque di modernità è giusto volgere uno sguardo al cast del film e all’obbiettivo che questo film si pone: Blade Runner 2049, un po’ come è avvenuto in Star Wars Ep 7: tTe Force Awakens, è un film che, sì, porta ad oggi un’eredità passata, un revival di un qualcosa di tanti anni fa, ma lo fa utilizzando principalmente attori recenti. Siete in grado di contare quante volte abbiamo citato il nome di Harrison Ford in questo articolo? Giusto una volta! I più nostalgici che hanno in mente di guardare un film in cui l’agente Rick Deckard è al centro delle vicende del film rimarranno abbastanza delusi, ma in senso buono: se la storia dovesse continuare questo film è un vero e proprio passaggio di testimone, dal cast storico al cast nuovo pronto ad emozionare in una maniera nuova ma sempre fedele ai temi originali del film. Il cast è stato veramente azzeccato, gli attori lavorano insieme perfettamente e con Blade Runner 2049 hanno sicuramente confermato ancora una volta le loro grandi capacità recitative e che sono in grado di portare la serie verso nuovi orizzonti per il futuro. Harrison Ford, e con lui del cast originale giusto Edward James Olmos e Sean Young, non è veramente al centro di questo film ma questo è decisamente un bene; Ford dimostra (ed ha già dimostrato in Star Wars Ep. 7) che è in grado di mettersi da parte, lasciare spazio ad attori più giovani e talentuosi ma soprattutto catalizzare la storia ed essere di supporto al protagonista che si dimostra decisamente all’altezza del ruolo, così come tutto il cast. Portare avanti il nome di Blade Runner comporta una grossa responsabilità ma il cast è stato decisamente all’altezza delle aspettative.

Blade Runner 2049 ha decisamente sofferto di dubbie scelte di marketing: in fase di promozione si è deciso di mostrare un lato del film poco interessante, un lato pieno di azione intento solo a stupire. Come già detto, Blade Runner 2049 – come del resto il primo Blade Runner – è un film lento e le scene d’azione che imbottiscono i trailer sono veramente poche, o meglio, poche in relazione alla durata del film (ben 2 ore e 43 minuti). Purtroppo in un epoca in cui i revival funzionano bene o falliscono miseramente Blade Runner 2049 si è decisamente posto male allontanando principalmente chi aveva adorato il film originale; questo nuovo film è veramente degno del precedente ma purtroppo, per avvicinare nuovo pubblico, hanno montato dei trailer pomposi che non hanno ben poco a che vedere con la pellicola. Questo è un film in grado di convincere specialmente i più scettici, un film che ha dimostrato di proiettarsi verso il futuro senza dimenticarsi della formula originale; Blade Runner 2049 è un film che spezza la monotonia e che in uno scenario in cui i revival sono all’ordine del giorno, si distingue con classe e si pone ad una spanna sopra gli altri. Per una migliore visione del film inoltre consigliamo di vederlo in 2D poiché Blade Runner 2049 è un film molto visuale, molto iconico, e probabilmente lo sforzo mentale richiesto per la fruizione del film permette un’immersione ancora più reale e viva, l’effetto stupore possibilmente è meno immediato ma più soddisfacente; gli occhiali 3D sicuramente faranno la loro bella figura ma un’immediata immersione con gli occhiali 3D è forse sconsigliabile per un film lento e che necessita molta attenzione. Blade Runner 2049 è certamente uno dei titoli più caldi del mese di Ottobre e che merita assolutamente di essere visto.