Teslagrad

Impugnate i joycon con dei guanti di gomma in modo da non prendere la scossa, arriva Teslagrad. Puzzle platformer veramente singolare, caratterizzato da un art style ben curato e molto delicato, è uscito originariamente per Steam nel 2013 e dopo essere apparso su Playstation 3, Playstation 4, Playstation Vita, Wii U, Xbox One, il titolo di Rain Games è approda anche su Nintendo Switch, una delle console che più sta valorizzando certi titoli indie e che sta dando grandi soddisfazioni agli indie developer e ai fan.

C’era una volta

Anche se quel “grad” nel titolo e gli omoni dalle uniformi rosse e i berretti in stile sovietico potrebbero farci pensare che il titolo possa essere ambientato in Russia durante la rivoluzione del 1917, Teslagrad ci propone un mondo fantastico con elementi, sì, propri dell’Europa, ma re-immaginati in una visione più libera e con sfumature steampunk. Vestiremo i panni di un ragazzino orfano che, in una notte buia e tempestosa, viene affidato ancora in fasce a una famiglia; il tempo passa, il ragazzo cresce, ma un giorno, in tutta sorpresa, la sua casa viene assediata dalle guardie reali. Sarà l’inizio di una fuga che ci porterà a una torre, un luogo misterioso nel quale si sveleranno di volta in volta tutti i retroscena di questo strano mondo in cui un potente re governa con pugno di ferro il suo regno.
Entrati nella torre, troveremo il primo oggetto che ci permetterà di risolvere i primi enigmi; capiremo presto che la meccanica principale di Teslagrad è basata su puzzle basati su polarità positivo/negativo, energie che potremo sfruttare per muovere blocchi caricandoli di una o dell’altra polarità e che ci permetteranno di compiere salti sfruttando l’attrazione o la repulsione e, col tempo, anche di controllare quasi totalmente le energie fino a dominare ciò che ci circonda; un concetto semplice ma molto interessante. Se si è un po’ pratici dei principi del magnetismo, si capiranno con molta facilità le meccaniche di questo titolo. Le nostre abilità ci porteranno sempre più in alto nella torre, collezionando man mano dei potenziamenti e scoprendo poco per volta i risvolti della lore di questo mondo, sia con i rotoli che andremo trovando progressivamente, sia con i siparietti con le marionette (delle vere e proprie “sale teatrino” in cui assisteremo a un piccolo spettacolo) e sia con i murales, i poster e le vetrate che svelano parti della trama; si può benissimo confermare che in Teslagrad nulla è espresso con le parole, lo storytelling è affidato interamente al comparto visivo che allieterà in tutto e per tutto i nostri occhi; lo stile grafico ricorda in qualche modo lo stile delle illustrazioni fiabesche europee, con colori cupi ma con qualche tonalità accesa che fa “vibrare” il disegno, e persino stampe di propaganda, ma tutto viene consegnato con una delicatezza tale da smorzare i temi malinconici della trama con dolcezza senza smontarne la serietà e restituendo, fiabescamente, una sorta di morale.

Due anime ma un identità povera

Il gioco si pone come un metroidvania ma, in realtà, al di là della mappa e del backtracking occasionale, ha ben poco in comune con i titoli più famosi del genere: la componente puzzle sovrasta quella action platformer: pochi, quasi nulli, i nemici durate le fasi d’esplorazione così come pochi sono i boss e sempre annientabili con una sorta di puzzle. Elemento inusuale per un metroidvania è il meccanismo “trial and error“, nonché l’assenza di barra della salute; questo sistema in Teslagrad è un po’ un’arma a doppio taglio in quanto permette, sì, un approccio progressivo al gameplay, totalmente personale e senza l’ausilio degli odiosi tutorial ma, in sede di boss fight, sarà solo motivo di fastidio, e ricominciare da capo una battaglia che richiede abilità anziché ingegno risulta veramente seccante, anche perché le sfide di fine livello sono parecchio lunghe.
La meccanica puzzle funziona, risulta vincente considerando il semplice e originale concetto di partenza, ma purtroppo serba in seno delle caratteristiche poco convincenti. Cominciamo dai controlli, un po’ “scivolosi”, “floaty” se vogliamo usare un termine anglofono forse più appropriato: il personaggio si aggrappa spesso ai bordi anche quando non serve, e controllarlo in fase di salto, specialmente quando una delle polarità è impiegata, è impresa tutt’altro che facile; per lo più, quando dobbiamo usare uno dei tasti d’azione, non sempre questi sembrano attivarsi alla nostra pressione. A volte certe azioni non vengono triggerate bene senza apparente motivo, tutto questo rovina l’esperienza di gioco frustrando il giocatore non perché il puzzle sia troppo difficile ma perché qualcosa non ha funzionato per via dei controlli. Il sistema di polarità, inoltre, per quanto possa sembrarci chiaro e semplice, non sempre funziona a dovere: spesso  la repulsione o l’attrazione dovute a una polarità convergente o opposta non hanno sempre la stessa “intensità”, dunque l’effetto che si crea non è sempre ciò che ci si aspetta e questo costringe talvolta a ripetere i puzzle (e, ahimè, le boss fight) più e più volte, a volte anche alla cieca perchè le nostre intuizioni a riguardo si esauriscono presto. Il gameplay si fa spesso frustrante, bisogna mettere insieme la pazienza necessaria per ricominciare e questo lede la rigiocabilità del titolo, che non gode, fra l’altro, di gran longevità: il vero finale di Teslagrad è fra l’altro accessibile collezionando tutti i rotoli presenti nella torre, e l’idea di tornare indietro alla ricerca degli oggetti mancanti non risulta piacevole per le considerazioni appena fatte. Inoltre, in osservanza al titolo del gioco (chiaro tributo al fisico Nikola Tesla), l’elemento fondante i puzzle, e dunque anche dell’azione platform, sono solo i giochi di polarità. Abbiamo già ribadito quanto la meccanica sia originale ma, tuttavia, duole notare come questo unico elemento di puzzle solving comporti una certa ripetitività; i giocatori che dunque sono alla ricerca di un gameplay vario e di più azione non troveranno certo pane per i loro denti. Abbiamo inoltre incontrato dei problemi spiacevoli per un gioco dei nostri tempi: è capitato più di una volta che in una delle stanze che l’intero sistema di visualizzazione venisse meno, che lo schermo del televisore si oscurasse completamente mentre di sottofondo restava il rumore dei passi e di altri movimenti; è il bug è risolvibile solamente tornando nel menù di Switch, che verrà visualizzato senza problemi, chiudendo e riavviando il software. Fortunatamente il gioco salva automaticamente a ogni stanza e perciò, anche se è un problema non da poco, almeno i progressi saranno al sicuro.
La colonna sonora è ben composta, le musiche non si impongono mai sulle scene e abbracciano totalmente lo stile grafico del gioco, anche se, tuttavia, nessuna delle melodie composte per il gioco spicca per bellezza, consegnando dunque una colonna sonora certamente bella ma in fondo piatta e canonica.

Un’esperienza non perfetta ma godibile

Teslagrad è certamente un bel gioco, con visual spettacolari e una meccanica di gioco semplice ma intrigante anche se purtroppo parecchi aspetti del gioco rovinano l’esperienza generale. L’idea di base è molto buona ma è lesa da peccati d’esecuzione; come dicevamo, troviamo qui un buon mashup di elementi da metroidvania e da puzzle game. Purtroppo entrambe le componenti non sono realmente definite: è come se il gioco restasse sospeso nel mezzo, non riuscendo a decidersi se essere un metroidvania o un puzzle game, se essere un esperienza lunga e macchinosa o una breve ma intensa,  e non sfornando un ibrido solido. Un vero peccato visto che la grafica del gioco, le cui animazioni sono state realizzate a mano, conferisce al titolo un’anima forte e decisa. Non è affatto un gioco da buttare in quanto i giocatori alla ricerca di un’esperienza diversa troveranno in Teslagrad un’avventura affascinante, dalle meccaniche semplici ma originali; il prezzo nello store non è tale da rappresentare un investimento oneroso e dunque chi è intenzionato a provare questo titolo potrà farlo senza spendere una cifra rilevante. Tuttavia Teslagrad non è un esperienza per tutti e probabilmente, per apprezzarlo veramente, bisognerà accettare la ripetitività dei puzzle nonché i controlli scivolosi e mal programmati. Nulla vi vieta di provarlo, e tirando le somme, ci sentiamo di consigliarne la prova.




Josh Sawyer: perché Obsidian creerà una propria IP

Lo studio Obsidian, dopo 14 anni di attività si ritrova in una posizione del tutto nuova: per la prima volta infatti, creerà un sequel per un IP proprietaria, dopo aver espresso il suo talento nello sviluppo di videogiochi commissionati da terzi.
Ma ormai siamo vicini all’uscita del secondo capitolo della saga proprietaria di Obsidian, Pillars of Eternity 2, con uscita pianificata per il mese di Aprile, dopo aver raccolto 4.4 milioni di dollari sul portale di crowdfunding Fig.

Obsidian è uno studio ben conosciuto tra i fan degli RPG: fondato nel 2003, iniziò a lavorare su Star Wars: Knights of the Old Republic che riscosse un certo gradimento tra critica e pubblico; tra i loro lavori di successo, titoli come Fallout: New Vegas e South Park: Il Bastone della Verità.
Josh Sawyer, creative director del gioco, ha rilasciato alcune dichiarazioni in merito all’uscita imminente del titolo a Gameindustry:

«La pressione è più o meno la stessa di sempre dato che conosco le aspettative delle persone a cui piacciono i giochi basati su Infinity Engine; ma anche lavorando sull’IP di qualcun’altro hai delle aspettative ben precise. Lavorando su Star Wars, per esempio, saranno sempre presenti fan che esprimeranno un’opinione su questo o quell’altro. É più snervante lavorare su Pillars of Eternity perché la responsabilità è tutta nostra, ma nonostante ciò, non sentiamo la pressione perché siamo sicuri di poter fare un buon lavoro su questa, come su qualsiasi altra IP. Quindi da questa prospettiva mi sento totalmente a mio agio nel lavorarci; so solo che non voglio deludere la compagnia e non voglio sprecare la chance per fare qualcosa di buono per i fan.»

Continua poi in merito alle intenzioni dell’azienda per il proseguo della saga:

«Poiché questo titolo è una proprietà intellettuale di Obsidian vogliamo continuare a svilupparlo, sia con questo capitolo che con un potenziale spin-off; vogliamo che rimanga aggiornato e popolare e che continui a crescere col tempo. Perché per uno sviluppatore Indie possedere una IP è una benedizione e se questa è popolare, allora è una doppia benedizione; non possiamo sprecarla.»

Sawyer dimostra quindi di essere consapevole di quanto sia importante questa serie per i ricavi dello studio e per l’ampia libertà nella creazione del titolo che ha a disposizione. Infatti, durante l’intervista allude anche alla frustrazione che si prova nel dover lavorare con i proprietari delle varie IP, forse un po’ troppo “protettivi”.

«Per grandi IP come Star Wars ci sono molte persone alla Lucasfilm, ma ora alla Disney, che sono responsabili per mantenere il DNA della saga e può essere frustrante entrarvi in confitto. Loro vogliono qualcosa che vada bene, ma è un processo molto più difficile perché ciò che pensi sia figo, eccitante e interessante deve andare bene anche a loro per poterlo applicare.»

Ritorna poi sul titolo che sta sviluppando:

« È un gioco che ha cambiato franchise nel corso degli anni e la percezione di cosa va e di cosa non va è cambiata durante questo periodo. È veramente un problema perché quando l’IP di un proprietario può andare in contrasto con la tua idea, devi ricostruire tutto. Ma quando l’IP è tua, tu sei quello che decide quale direzione essa prenderà, e riesci a capire meglio su cosa si sviluppa l’IP; questo aiuta a farla evolvere nella maniera più naturale possibile.»

Ciò che può creare un problema allo studio in questo caso è il fatto che l’intero progetto sia in crowdfunding e quindi esiste una fan base che si aspetta un certo tipo di prodotto, questione ovviamente presa in considerazione da Obsidian:

«Abbiamo provato ad ascoltare tutti ma ovviamente non possiamo prendere alla lettera tutto ciò che ci viene detto; dobbiamo basarci sulla nostra esperienza e leggere tra le righe. Un’altra cosa che stiamo facendo è affidarci sia al feedback del singolo utente che di quello complessivo della telemetria (Beta Tester).»

Poi sui feedback e sui dati aggiunge:

«I dati ricevuti dai Beta Tester non sono sempre una soluzione, sono solo un altro strumento che ci aiuta a capire che strada intraprendere. Se senti molte persone esprimere un parere ma possiedi dati contraddittori, devi iniziare a chiederti perché ci sono dati che non dicono tutto»

Con Deadfire, Obsidian è a rischio, perché per la prima volta si mette in gioco da studio proprietario:

«Ho lavorato a vari titoli che, per un motivo o per un altro, sono stati spinti a uscire prematuramente e ne sono consapevole. Con il primo capitolo di Pillars of Eternity doveva essere tutto pronto entro l’inverno ma non lo era; lo era a livello tecnico, c’era tutto quello che doveva esserci ma non si giocava bene ed era pieno di bug.»

E conclude:

«Questa è la nostra IP, qualcosa che facciamo per i fan. Non vogliamo perdere tempo, non vogliamo girare attorno a cose stupide, ma capiamo di aver avuto una chance per dare un’ottima impressione di noi con questo franchise, quindi ci prendiamo più tempo. Il gioco sarà migliore e avrà comunque problemi al lancio, ma questa è la strada migliore da intraprendere. Non avreste voluto vederlo prima del lancio»



Shu

Shu è un titolo sviluppato da Coatsink uscito nel 2016 su PS4 e PC e adesso giunto anche su Nintendo Switch. Il protagonista, da cui il gioco prende il nome, è costretto a intraprendere un lungo viaggio a causa di una tempesta che ha distrutto il suo villaggio e che lo costringerà a superare svariati ostacoli che sono diretta conseguenza degli enormi danni causati dalla tempesta, da precipizi a pareti ricoperte da spuntoni e oggetti letali che cadono dall’alto.

Shu potrà saltare e planare grazie alle sue ali, e durante il suo viaggio, incontrerà vari personaggi, ben caratterizzati, che lo accompagneranno nella sua fuga dall’imminente disastro e che lo aiuteranno con abilità come la possibilità di camminare sull’acqua, di effettuare uno doppio salto a mezz’aria, di abbattere ostacoli altrimenti insormontabili, arrampicarsi su muri e addirittura di fermare il tempo per qualche secondo. Durante i livelli capiterà di dover usare due o più personaggi alla volta, dovendone alternare le abilità per risolvere i vari puzzle tramite semplici combinazioni di tasti.

Nel gioco sono presenti 15 livelli suddivisi in 5 mondi. Esplorare i livelli costituisce un vero piacere, non solo sul piano visivo, ma anche su quello uditivo, grazie a una colonna sonora del gioco appropriata e ben curata. L’utilizzo del 2.5D nel gioco caratterizza gli scenari al meglio rendendoli unici nel loro genere. I controlli sono sempre semplici e immediati, capire come utilizzare le abilità dei vari personaggi sarà estremamente semplice.

Il protagonista dispone di 5 vite, ricaricabili avvicinandosi i diversi checkpoint presenti nei livelli. Nonostante la relativa frequenza di punti di salvataggio, il gioco non risulta affatto semplice perchè gli inseguimenti da parte dei nemici, presenti quasi in ogni livello, rendono il gameplay abbastanza arduo. La presenza di farfalle da raccogliere e di altri collezionabili nascosti favoriscono la rigiocabilità dei vari livelli. I collezionabili, proprio come le prove a tempo sbloccabili dopo aver completato per la prima volta un livello, non hanno una vera e propria utilità, non servono ad accedere ad aree o livelli segreti, faranno solamente differenza nel punteggio alla fine di un livello. Inoltre non è possibile confrontare con altri giocatori il tempo impiegato nelle varie prove.

Shu risulta nel complesso un buon platform, dotato di un buon level design e di sfide atte a tenere lontana la noia, che ha fra i pochi difetti semmai quello di non godere di gran longevità in relazione a quanto offre e al suo potenziale, puntando forse anche sui collezionabili per intrattenere più a lungo il giocatore. Come molti titoli indie, Shu dà il proprio meglio su Nintendo Switch rispetto alle altre console, sia grazie a un sistema dei comandi molto funzionale, sia grazie al valore aggiunto della portabilità che ha permesso alla console Nintendo di valorizzare tanti titoli del panorama indie.

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La situazione degli Indie secondo Phil Elliot

Poter creare un videogioco non è mai stato così facile come in questo periodo, grazie alla massiccia presenza di strumenti ed engine creati ad hoc, la vasta scelta di piattaforme di gioco e, in certi casi, anche agevolazioni da parte dei governi. Ma come si ripercuote tutto questo in termini di stabilità?

Negli ultimi anni chiunque avrà notato che la presenza degli indie è sempre più massiccia, sopratutto su Steam. Secondo Steam Spy infatti, nel 2014 furono rilasciati “soltanto” 1.784 titoli sull’omonima piattaforma, contro i 7.658 dell’anno appena passato. Questi numeri, hanno certamente un grosso impatto sul mercato: sempre nel 2014, un titolo raggiungeva in media le 154.000 copie vendute, con un prezzo medio di  11,24$, per poi passare, nel 2017, a 46.000 unità con un prezzo di 9,45$.

Per quanto non sembri, questo è un campanello d’allarme per chiunque voglia creare e vendere un proprio prodotto su Steam. Quando ci si trova davanti a queste situazioni, non basta dire che se un gioco è oggettivamente bello diventerà per forza famoso. Non solo ci sono davvero troppi videogiochi tra cui scegliere, ma non sono adeguatamente pubblicizzati e distribuiti. Questo problema è ulteriormente aggravato dalle procedure di pubblicazione online, specialmente tramite vlogger e streamer, che però sono più interessati a titoli che generino visualizzazioni, che siano giochi controversi come House Party Hatred o i soliti tripla A come Call of Duty.
Durante il Gamesforum di Londra della scorsa settimana, Phil Elliot, director of indie publishing alla Square Enix West, ha detto la sua a GamesIndustry.biz.

«C’è una gran differenza tra adesso e dieci anni fa, ed è per questo che è molto importante per l’industria prendere nota ed evitare di non dedicare le dovute attenzioni solo perché la sua parte di mercato è a posto. Dieci anni fa era possibile creare degli indie perché esistevano strumenti economici e accessibili, si potevano vendere grazie a piattaforme come Steam, ma erano anche evidenziati dai giornalisti che volevano trovare nuovi giochi, poiché molti venivano cancellati. Dunque c’era un’insufficienza di giochi, rispetto anche a un paio di anni fa. In più c’erano giocatori che volevano nuove esperienze, quindi erano ricettivi e pronti a sentire qualcosa riguardo nuovi titoli che stavano per uscire.
Ora la differenza è che i giornalisti ne sono sommersi, quindi c’è quasi una paralisi quando bisogna andare a cercare nuove esperienze. Anche i giocatori Si trovano a che fare con  tanti giochi tra cui scegliere. Ora il problema che si presenta è molto diverso rispetto com’era prima e abbiamo bisogno di una sorta di azione a livello settoriale e di un dibattito accurato. Tutte le parti interessate hanno bisogno di unirsi: piattaforme, produttori di hardware, publisher, sviluppatori, rivenditori, è una sfida per tutti»
«Questi numeri sono abbastanza spaventosi, specialmente se li si paragona a quelli di quattro o cinque anni fa. Sento molto dire dalla gente che Steam dovrebbe curarsi di più. In tantissimi rimasero sorpresi quando andarono via da Greenlight, un sistema imperfetto e chiunque lo ammetterebbe, solo per una tassa anticipata.»

Elliot ha comunque difeso Steam, dimostrando che Valve ha creato un’opportunità per gli indie durante il periodo della crisi economica del 2008, quando molte medie imprese stavano andando in fallimento.

«Senza Steam, senza Unity, senza tutto il resto, non avremmo potuto vedere la crescita del settore indie; grazie a essi è stato possibile rilasciare giochi quando non era facile inserirsi in nessun’altra piattaforma. Ora è facile per noi vedere indie su Switch, Xbox o Playstation, ma è successo solo grazie a ciò che fece Steam.»

È importante ricordare che mentre la vetrina di Steam è letteralmente sommersa da prodotti che potrebbero minare la salute di questo settore, Valve non effettua controlli; questo è un sintomo che evidenzia problemi ben più profondi, e ci sono molti altri fattori in gioco.

«Ora siamo vittime della nostra stessa popolarità. Le persone vogliono vivere il sogno, amano così tanto i videogiochi da volerne fare più di un hobby e, come in ogni corsa all’oro, lo vedono come possibile.»

Il mondo dei videogiochi sta arrivando a un punto di non ritorno: da un lato c’è un mercato indie sovrapopolato dove diventa sempre più difficile trovare i giochi migliori, ma dall’altro, l’inevitabile crescita esponenziale dei costi di sviluppo, ha fatto rimanere nel mercato dei giochi tripla A quasi unicamente franchise sicuri e affidabili, e che rimarranno così per molto tempo.

«Come possiamo trovare dei modi per sostenere un vero e nuovo talento genuino e coltivarlo? Perché alla fine l’industria è il nostro giardino sul retro. Dobbiamo pensare  da dove verranno quella creatività, quelle nuove idee e nuovi talenti. Se facciamo affidamento su ciò che abbiamo e su franchise e sequel, la gente perderà interesse e sarebbe davvero triste.»

Sia i consumatori che gli esperti chiedono un corretto miglioramento delle vetrine come quella di Steam ma, come Elliot suggerisce, non è così semplice.

«Guardate cosa ha recentemente  fatto Youtube cambiando i limiti per i creatori di contenuti più piccoli prima che questi potessero arrivare a monetizzare. Alcuni dicono che avrebbero dovuto farlo prima, altri potrebbero dire che sia una cosa positiva. Qualsiasi cosa accada, ci sono tantissime persone demoralizzate perché anche se non si aspettavano di guadagnare milioni, c’era sempre un obbiettivo da raggiungere, che però adesso è stato spostato.»

Sfortunatamente non ci sono soluzioni semplici. La popolarità degli indie sarà sempre dettata da un sorteggio tra i vari creativi in erba e lo sviluppo dei videogiochi diventerà più accessibile quando gli strumenti saranno migliori. Inoltre, come possono i media giustificare il tempo e le spese impiegati per trovare quella “perla” indie di turno se queste diventano sempre più difficili da trovare? Attualmente, la scena dei giochi indipendenti è instabile, mentre Valve è perfettamente a conoscenza dei problemi di Steam Direct. Che sia troppo difficile gestire migliaia di titoli ogni anno?

«Ovviamente non parlerò a nome di  Steam, ma ora si trova in una posizione nella quale viene maledetto se fa qualcosa ma anche se non fa nulla. Non invidio il suo compito e sono sicuro che le persone che hanno più a cuore questo problema sono proprio quelle di Steam.»

Troppa scelta, ma di qualità spesso mediocre; ma anche una relativamente bassa gamma di “titoloni” grazie ai quali si può in un qualche modo andare sul sicuro. Come continuerà a cambiare il rapporto tra questi due colossi? E sarà davvero possibile agevolare in termini di popolarità tutti quei giochi e sviluppatori indipendenti che davvero la meritano?




The Town of Light

Da LKA, studio tutto italiano, arriva The Town Of Light, walking simulator rilasciato originariamente su PC e recentemente approdato su Playstation 4 e Xbox One. Italiano lo studio,  italiana la storia: Town of Light è infatti ambientato nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, luogo realmente esistito e situato nell’omonimo comune pisano, ed è basato su fatti realmente accaduti al suo interno. Il titolo è stato curato nei minimi dettagli: la struttura (a oggi abbandonata a se stessa) è stata ricreata con cura maniacale e gli oggetti che compongono la scenografia – gli attrezzi medici, le bottiglie di soluzioni mediche, il design delle stanze e dei corridoi, delle porte, delle sedie e dell’architettura generale – possono definirsi storicamente precisissimi. Alcuni medici psichiatrici e lo stesso comune di Volterra hanno contribuito alla creazione del gioco per curarlo in ogni minimo dettaglio, e le lodi da parte di critici e del Comune stesso dopo la sua uscita non sono certamente venute meno; è un titolo che tratta di argomenti molto forti, quali le barbariche cure tipiche dei primi ospedali psichiatrici, il coinvolgimento in tutto questo delle personalità religiose con i loro pesanti giudizi, l’abbandono delle pazienti a loro stesse, la mancanza di personale, o la presenza di personale non adatto in strutture pre-legge Basaglia, il distacco dalla società e la famiglia, l’alienazione da tutto e da tutti. The Town of Light è un titolo per i più curiosi, seppur con una certa sensibilità (e stomaco forte); un’avventura – se così la si può chiamare – che ci ricorderà quanto l’indifferenza sia letale e come la sufficienza nell’identificare certe problematiche, ai tempi, abbia rovinato centinaia e centinaia di vite.

Chi è Renée?

Per apprezzare la storia e il contesto del gioco è opportuno avere una buona infarinatura della storia politica e sociale dell’Italia a cavallo fra gli anni ’30 e gli anni ’40: il regime fascista, la presenza oppressiva della comunità cristiana, la seconda guerra mondiale, la posizione sociale della donna, le continue lotte per le sue opinioni e la sua libertà, il pesante giudizio degli abitanti delle piccole realtà cittadine italiane: The Town of Light profuma come uno stanzino a casa di vostra nonna al cui interno sono presenti fotografie, oggetti e ricordi dell’epoca. Sfortunatamente tutto questo rappresenta solo una corteccia del gioco; il racconto vede al centro la triste storia di una ragazza problematica che, per via di alcuni suoi comportamenti ritenuti troppo “ribelli” per l’epoca, viene strappata a una società nella quale viveva con disagio a causa della sua “luce” per essere riformata nell’ospedale psichiatrico di Volterra. La vita all’interno  del manicomio non è per nulla bella, fra cure sperimentali, gente catatonica e si rivela un vero inferno, e la nostra Renée, dubbiosa per la sua sanità mentale, vive una realtà che non vuole vivere, ma che in fondo pensa di meritare. La nostra storia è ambientata nel 2016, anno in cui la protagonista decide di tornare nella casa di cura, ormai abbandonata, per trovare qualcosa che aveva dimenticato. The Town of Light sembra voler porsi come un walk simulator a tema horror ma in realtà l’elemento orrorifico è trasmesso solo dai toni decadenti e oscuri della location: non è presente alcun effetto jumpscare né alcun “mostro dei ricordi” dal quale fuggire. Non vi è alcun vero elemento ludico, il gameplay non prevede alcun puzzle solving: è più appropriato parlare di The Town of Light come di una vera e propria esperienza che mira a recuperare i momenti all’interno della casa di cura, eventi che risveglieranno ogni volta qualcosa che ci guiderà da un indizio a un altro, fino a tessere l’intera trama. Questa esperienza pone l’accento sulla ricerca dell’identità, perduta una volta strappata dalla società per via di comportamenti inusuali che, in case di cura come questa, venivano facilmente identificati come malattie da curare; si cessava di esistere, e il pensiero “diverso” doveva essere sostituito con quello “giusto” a forza di pratiche terribili e sedativi potentissimi.

Il comparto grafico del gioco è veramente soddisfacente: il motore grafico Unity compie bene il lavoro di restituire texture di qualità, effetti ombra ben definiti e anche le cutscene che ricreano l’ospedale ai tempi dell’attività. La generale tonalità cupa, per quanto attinente con l’atmosfera decadente del titolo, suona a volte scontata e a volte po’ fuori luogo in un titolo del genere: l’intento del gioco è probabilmente quello di far riflettere il giocatore, far provare quel dolore che hanno provato le pazienti, metterlo a disagio, e in questo intento The Town of Light riesce benissimo. Il problema è che il mezzo non sempre risulta appropriato: nei momenti in cui si è più immersi nella memoria del personaggio si fa ricorso a un’effettistica di genere abbastanza telefonata, che farebbe anche pensare a un jumpscare che non arriverà mai (per fortuna); vengono proposte delle illustrazioni bellissime dal tema forte e convincente, ma con un art-style moderno un po’ fuori dal canone grafico 3D del gioco, per non parlare dei disegni presenti nel diario di Renée, per nulla coerenti con la sua calligrafia e la sua personalità, un po’ a riproporre il solito trito assioma “problematico = artista” (insomma, spiegatemi cosa ci fa un oni, proprio della cultura giapponese, in un diario di una ragazza italiana degli anni ’30).

Il titolo, dicevamo, presenta pochi elementi di puro gameplay, limitandosi l’interazione del giocatore a ricreare qualche evento segnante o a rispondere a qualche domanda: ne emerge la natura cinematografica di The Town of Light, e il suo intento di raccontare una storia è chiaro ed efficiente, ma andando avanti non risulta chiaro su cosa ci si stia concentrando: sulla storia di Renée? Sulla storia di qualche altro personaggio del gioco? Sulla documentazione delle pratiche degli ospedali psichiatrici tramite cutscene o illustrazioni? Sulla denuncia alla società e al mondo cristiano che demonizzavano certi comportamenti poco consoni al “vivere civile” dell’epoca? Il connubio fra storytelling e gameplay non è perfetto e a volte questo sembra confondere le idee appositamente, quasi fosse una scelta a effetto. L’aspetto cinematografico prevale su quello videoludico, dicevamo: non che il gioco in sé non sia valido, è comunque stimolante andare personalmente alla scoperta degli indizi della memoria di Renée e, se si fosse optato per un film, la meticolosità con la quale l’ospedale psichiatrico è stato ricostruito sarebbe venuta a mancare, ma The Town of Light è un titolo intento a raccontare più che a divertire, a lasciare qualcosa nell’utente anziché risultare una semplice esperienza passeggera.

La colonna sonora comprende principalmente pezzi composti con un bel pianoforte calmo ma anche malinconico, e altri pezzi più ambient, con comparto effettistico degno di Aphex Twin, e che ricordano in un certo senso Limbo. In un gioco del genere una colonna sonora di questo tipo, ben composta e ben temperata per gli ambienti che man mano andremo a visitare, è la benvenuta ma sfortunatamente qui i difetti sopracitati smorzano l’efficacia della soundtrack, ed è un vero peccato. C’è da aggiungere, infine, che il doppiaggio del personaggio principale risulta un po’ sforzato, quasi finto, aggiungendo un altro elemento fuori posto del gioco. La storia in sé dura poco, è possibile finire il gioco in poche ore; tuttavia il sistema di domande che manda avanti certe parti nel gioco può sbloccare dei capitoli alternativi, la trama varierà anche se di poco ma sfortunatamente The Town of Light è un titolo abbastanza angosciante e sbloccare ciò che resta nel gioco dopo una prima sessione, anche riprendendo da un determinato capitolo selezionabile, può risultare pesante e tedioso, poiché il gioco necessita lentezza per fruire al meglio della splendida trama. In pratica la longevità, e dunque rigiocare il gioco o sbloccare i capitoli e gli achievement mancanti, può variare in relazione allo stomaco del giocatore. Il gioco non necessita di grandi requisiti minimi sul piano tecnico, anche se tuttavia computer con minora capacità di calcolo dovranno godere di un’esperienza di gioco un po’ mozzata anche alla qualità più bassa, e dunque incontreranno texture di qualità inferiore e framerate sempre basso e che non arriverà mai ai 60 FPS di cui il gioco è capace.

Che cosa ci resta?

The Town of Light è un titolo forse uscito al momento sbagliato, troppo presto oppure troppo tardi, un titolo che forse sarebbe dovuto rimanere in sviluppo per qualche tempo in più per consegnare ai giocatori un’esperienza un po’ più completa e decisa. Non fraintendeteci:The Town of Light è un titolo che si pone in maniera diversa dagli altri, il cui intento – quello di far riflettere e mettere insieme i pezzi di una storia – è ben presente e funziona, ma rimane sempre qualcosa fuori posto: un gameplay scarno misto a uno storytelling bello ma spesso pretenzioso fanno di questo titolo un’esperienza per pochi, il che non è un bene perché The Town of Light è un gioco che ha molto da dire e renderlo un walking simulator come molti è un danno per la sua godibilità. È sicuramente difficile creare un gioco nel vero senso della parola con gli elementi di trama presi in considerazione dallo studio fiorentino, anche perché tocca temi sensibili di storie realmente accadute, però una componente di puzzle solving più marcata sarebbe stata ben gradita e forse una prospettiva diversa e più chiara della storia forse sarebbe stata più affascinante; il carattere introspettivo di The Town of Light è interessante ma confusionario e la minima distrazione vi farà perdere il filo del discorso.
The Town of Light è, come già ribadito, uno di quei titoli che è più un’esperienza che un gioco e questo è sicuramente il suo punto forte: l’immersione nel personaggio e nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra è certamente ciò che distingue questo titolo e le sue tematiche particolari lo connotano in uno scenario ormai saturo. Nonostante qualche imperfezione, se siete dei giocatori dallo stomaco forte, questo è un titolo che merita attenzione e che va goduto così com’è. The Town of Light sorprenderà certamente i giocatori più curiosi, lo studio LKA ha consegnato un buon prodotto, valido e con tanto potenziale tematico ma per il prossimo si spera possa puntare maggiormente sulla creatività del gameplay, dare al tutto un aspetto più convincente e che si fonda bene con lo storytelling.




Nidhogg 2

Devo ammetterlo, non sono un grande fan dei titoli indie, né tanto meno dei giochi privi di un filo narrativo. Nidhogg 2, IP di proprietà della casa di sviluppo Messhof Game, prende a piene mani entrambi gli elementi e ne fa il proprio stendardo. Un titolo che nasce, sin dal concept, molto originale ma privo di un teorico significato: seppur migliorato rispetto al primo capitolo uscito nel 2014, graficamente è stato arricchito dagli sprite ma adesso risulta anche molto più confusionario.
Unica stella che fievole si illumina nel cielo di Nidhogg 2 mi è parsa essere la sua giocabilità che, seppur ridotta all’osso, è abbastanza alta, oltre che intuitiva.
A ogni modo, risulta davvero molto difficile contestualizzarlo nel panorama videoludico odierno.

Nidhogg 2 avrebbe potuto trovare il suo posto 15 anni fa come cabinato, quando ancora la sala giochi non era un mero ritrovo per giocatori di slot machine. Giocarlo in 1vs1, in piedi in sala giochi, a spintonarsi durante una partita sullo stesso schermo, questo potrebbe essere divertente, ma in casa? Seduti di fronte al vostro monitor? State certi che l’unica emozione che proverete sarà quella di aver recuperato spazio sul vostro hard disk una volta disinstallato il gioco.

Una volta personalizzato il nostro personaggio, con i pochi elementi selezionabili, lo scopo del gioco, unico e solo, sarà quello di riuscire a raggiungere l’estremità opposta del piano di gioco per aggiudicarsi la vittoria ed essere poi divorati dal Nidhogg (un enorme serpentone volante facente parte delle credenze mitologiche scandinave) che vi porterà via masticandovi al termine di ogni livello. Gli stage non seguono una logica, ognuno prevede l’utilizzo esclusivo di una sola arma oppure, in alcuni casi, saranno presenti più armi da poter prendere anche dai vostri nemici una volta eliminati. Ogni partita inizia precisamente nella metà del livello con un “face to face” col vostro nemico che, allo stesso nostro modo, avrà un solo obiettivo: terminare il livello raggiungendo l’estremità a lui opposta, ogni volta che un concorrente viene eliminato farà un spawn  (comparirà nuovamente) dopo qualche secondo. Ci sono diversi livelli disponibili, ognuno con le sue ambientazioni e armi caratteristiche. La modalità single player non ha nulla da invidiare alla modalità in multiplayer, risultano entrambe prive di incisività.

I giochi indipendenti fanno ormai parte di un larga fetta di mercato, si stanno facendo strada sgomitando con le grandi case di sviluppo, portando spesso a casa grandi successi, come nel caso di giochi del calibro di Limbo o Inside di Playdead, o lo stesso Steamworld Dig 2 e tanti altri titoli di successo. Mi chiedo se abbia ancora senso sviluppare oggi un gioco come Nidhogg 2, che difficilmente troverà posto nelle librerie dei videogiocatori, né tantomeno il loro favore.




Nuovi titoli in cantiere per il team di Bayonetta

Platinum Games, nel prossimo futuro, prevede di pubblicare 2 nuovi titoli che, sebbene abbiano un budget non troppo ridotto, non risulteranno comunque dispendiosi quanto gli altri tripla A dello studio, come Bayonetta o il più recente Nier:Automata.

Durante un’intervista ai microfoni di GameInformer, Atsushi Inaba, capo dello sviluppo di Platinum Games, condivide il proprio desiderio di voler raggiungere un buon equilibrio tra un titolo indie e un tripla A.

«Non possiamo sviluppare un titolo da più di 10M di dollari, per il semplice motivo che non disponiamo di quella cifra come sviluppatore indipendente. Ma ad ogni modo non vogliamo neanche seguire la strada degli indie con soltanto 10 persone nello staff per produrre il gioco, probabilmente staremo nel mezzo, con un organico di circa 20 persone per lo sviluppo.»

Inaba ha inoltre parlato della propria politica di mantenere le porte aperte alle nuove idee dello staff. Infatti ci sono circa 70 nuovi concept proposti dallo stesso team, che sono stati scremati per capire su quali poter lavorare con il budget disponibile.

Forse la nuova politica di Platinum Games potrebbe dare un forte scossone all’industry, donando nuova vita e un nuovo spazio ai giochi mid-range, che potrebbero essere apprezzati anche da quei giocatori che normalmente non apprezzerebbero un titolo di uno studio indipendente. E chissà che magari non potrebbero anche ridurre le lamentele dei grossi publisher sul profitto non esattamente commisurato al costo di produzione di certi titoli AAA.




Seinfeld Adventure game: un nuovo punta e clicca in pieno stile anni 90′

Negli ultimi anni la pixel art sembra aver ripreso piede nel mondo dei videogames, sopratutto se si parla di Indie: colorata, semplice ma allo stesso tempo di grande impatto grafico. Questo nuovo titolo, Seinfeld Adventure game, attualmente in sviluppo dall’australiano Jacob Janerka, vuole riportare in auge lo stile delle avventure grafiche LucasArts e la sitcom americana Seinfeld, che porta proprio il suo nome. L’obbiettivo principale è quello di riprodurre il più fedelmente possibile, attraverso i pixel appunto, le ambientazioni e i personaggi, per far provare a chi gioca le stesse sensazioni che quella serie tv dava, durante la sua messa in onda nel periodo 1989-1998.

Lo stesso sviluppatore ha annunciato su Twitter di essere alla ricerca delle giuste idee per rilasciare una prima demo, mostrando anche una brevissima clip.

Un nuovo punta e clicca è sicuramente una ventata d’aria fresca che si scosta totalmente dalla maggior parte dei titoli odierni, ma allo stesso tempo un’occasione per i vecchi fan di questo genere di ritornare con la mente ai tempi di Monkey Island, Full Throttle e Day of the Tentacle.




Kholat

Dopo gli avvenimenti del 1959 sul passo di Djatlov, molti autori hanno preso spunto dall’accaduto per scrivere opere e sceneggiature, come il film Devil’s Pass, diretto da Danny Harlin o Il mistero del passo Djatlov, romanzo scritto da Anna Matveeva, e nel 2015 uscì anche un videogioco, ispirato proprio alle misteriose morti avvenute la notte del 2 febbraio 1959.

Una doverosa premessa

Durante il rigido inverno dell’anno 1959, un gruppo di 10 ragazzi organizzò un escursione attraverso gli Urali settentrionali. I ragazzi arrivarono a Ivdel’, cittadina della Russia Siberiana, in treno, e pochi giorni dopo partirono per l’escursione.
Tutti i ragazzi avevano molta esperienza alle spalle, avevano effettuato scalate, escursioni in montagna, ma la notte del 2 febbraio qualcosa sembrò non andare per il verso giusto.
Al rientro, il gruppo doveva informare la propria associazione sportiva del buon esito dell’escursione e rassicurare le famiglie, ma questo non accadde; giorni dopo i parenti delle vittime, non avendo più notizie dei propri cari, chiamarono i soccorsi, che iniziarono subito le ricerche.
Dopo settimane di ricerche, il 26 febbraio furono ritrovati i primi 5 corpi, distanti quasi 500 metri dall’ultima tenda, la quale, come sostengono le indagini, aveva subito uno squarcio dall’interno, indicando che gli sciatori erano scappati dalla tenda in preda al panico, come se qualcuno o qualcosa avesse bloccato l’entrata. Dopo quasi due mesi dal ritrovamento dei primi cadaveri, i soccorritori riesumarono altri 4 corpi sepolti sotto quasi due metri di neve: l’unico a salvarsi fu il decimo escursionista, il quale poco prima dell’inizio della spedizione ebbe un malore improvviso che gli impedì di partire.
A rendere molto più inquietante la storia, fu lo stato dei corpi degli escursionisti, ritrovati in condizioni alquanto strane e misteriose: uno dei cadaveri aveva subito una grave frattura cranica, due corpi avevano la gabbia toracica gravemente fratturata, uno anche privo di lingua, di occhi e di parte della mascella, gli altri avevano subito delle gravi lesioni agli organi interni, ma i loro corpi non avevano segni di violenze e questi danni furono paragonati agli stessi causati da un incidente d’auto.
Secondo delle analisi forensi, i vestiti delle vittime risultavano contaminati da un alto livello di  radioattività.
Una scena abbastanza inusuale e inquietante per un semplice incidente di montagna.
Su questo incidente, non ancora risolto, furono elaborate teorie di tutti i generi; molti sostenevano che le cause della morte dei ragazzi fossero d’origine paranormale, anche perché alcuni studiosi del luogo, proprio la notte del 2 febbraio, avrebbero visto delle sfere arancioni in cielo, che in seguito si rivelarono dei lanci di missili balistici R-7; altri sostenevano che il tasso di radioattività fosse riconducibile a esperimenti del governo, altri ancora credevano che gli indigeni Mansi avessero attaccato il gruppo per aver invaso il loro territorio. E sono queste le teorie che ci accompagneranno in Kholatsurvival horror sviluppato da IMGN.PRO, che prende ispirazione dai fatti precedentemente raccontati.

Narrazioni in soggettiva

Il protagonista è un uomo, non sappiamo se un semplice ricercatore o un investigatore, e non sappiamo nemmeno cosa lo abbia spinto sul luogo dell’incidente.
La scelta da parte degli sviluppatori di creare un protagonista anonimo non sembra essere delle migliori, anche perché la storia viene narrata attraverso dei ritrovamenti di pagine di giornale, registri  o diari che raccontano grossolanamente la storia, accompagnati dalla profonda voce del narratore fuori campo (Sean Bean) che ci guiderà per tutta la nostra avventura, rendendo ancora più impersonale la storia.
All’inizio del gioco, come racconta la storia ci ritroveremo a Vizaj, l’ultimo posto in cui i ragazzi si erano fermati prima di intraprendere il loro lungo viaggio, ed è da lì che inizieremo la nostra escursione per il Passo di Djatlov.
Per arrivare al primo rifugio bisognerà superare un sentiero innevato che condurrà direttamente alla tenda da cui partirà la tetra avventura narrata in Kholat.
La tenda servirà sia per salvare la partita, sia per utilizzare i viaggi veloci da un accampamento all’altro per raggiungere facilmente una tenda già visitata fra le nove presenti sulla mappa.

Perdere la bussola

Il gameplay è abbastanza scarno, quasi inesistente: il gioco ci darà l’opportunità di recuperare solo delle pagine del diario di viaggio del gruppo, pagine di registri e articoli di giornale, nient’altro.
Avremo a disposizione solamente una torcia, che utilizzeremo in poche occasioni, una bussola e una mappa. Per rendere più verosimile il gioco e avvicinarlo ancora di più alla realtà, nella mappa non è stata inserita un’icona giocatore, ma dovremo essere bravi a orientarci tra la neve, per riuscire a trovare la giusta direzione. La bussola è uno strumento che potrebbe sembrare utile per potersi orientare, ma molte volte complica solo le cose, facendo prendere vie sbagliate o facendo ritornare il giocatore al punto di partenza. Anche l’orientamento risulta molto difficile, visto che l’ambiente non ha particolari punti di riferimento a cui affidarsi.

Il nemico silenzioso

I ragazzi di IMGN.PRO hanno però pensato di agevolare il giocatore posizionando delle coordinate su alcuni massi, che indicano la posizione in cui si trova il protagonista. Questo metodo aiuta un po’ il giocatore a capire quale strada stia percorrendo e a evitare che si smarrisca, come succede la maggior parte delle volte.
Durante il nostro vagare tra i percorsi desolati e pieni di pericoli potremmo incontrare degli spiriti arancioni, i nostri nemici, che ci rincorreranno per qualche metro per poi desistere dall’inseguirci. Se dovessero catturarci non avremo via di scampo, non potremo colpirli con un arma o scacciarli via, potremo solo correre e sperare di non cadere in qualche dirupo o moriremo e ripartiremo dall’ultimo salvataggio o dall’ultima pagina trovata. Altro lato negativo è la mancanza di una soundtrack specifica o effetti audio ogni volta che si incappa in loro, l’incontro sarà talmente rapido che molte volte non si è in grado di capire da dove siano sbucati e come ci abbiano ucciso. Sarebbe stato molto gradito un qualche effetto sonoro che possa avvertirci della presenza di questi esseri o un audio ambiente atto a suggestionare e a creare quella tensione che caratterizza qualsiasi horror.

Suoni e visioni dalla Montagna dei Morti

I comparti sonoro, grafico e artistico sono molto buoni: il sonoro offre una serie di effetti che, se giocato con delle cuffie (vi suggerisco delle cuffie con surround 7.1), il gioco gode di un’atmosfera perfetta, piena di mistero e al contempo tetra e malinconica. È consigliato l’uso delle cuffie per potersi immergere quasi del tutto nell’avventura, e anche per rintracciare e raccogliere facilmente le pagine che troveremo durante il nostro vagabondare nelle fredde montagne russe.
Il comparto artistico, invece, impressiona parecchio: per essere un gruppo di sviluppatori indipendenti, IMGN.PRO è riuscito a creare un paesaggio molto caratteristico, con il colore bianco che domina sulle scene e una serie di colori freddi utilizzati per il paesaggio, accompagnati da sfumature di rosso per rappresentare le torce, fuoco e soprattutto le sagome arancioni che incontreremo durante il nostro viaggio.

Indagine sugli Urali

Kholat non è un semplice gioco, ma una ricostruzione atta a far rivivere l’incidente e a far sentire l’angoscia e il terrore che provarono gli escursionisti, la paura dello sconosciuto, la paura del non rientrare a casa, il terrore che ha spinto i ragazzi a scappare dalla tenda squarciandola dall’interno.
Kholat non è sicuramente un capolavoro, ma riesce a incuriosire, con una storia che forse non gode della migliore narrazione ma che crea quella tensione degna di un buon horror: all’inizio potrebbe sembrare frustrante non poter sapere dove si sta andando, se si sta prendendo la strada giusta e non sapere cosa ci attende alla fine del percorso, ma, con l’avanzare del gioco, la storia intriga parecchio e ciò invoglia non solo ad andare avanti, ma anche a documentarsi sull’accaduto, sia online che con i documenti che troveremo sparsi per la montagna.
Kholat si dimostra un’opera di respiro ampio, che va oltre gli standard di un gruppo indipendente: l’uso del motore grafico ha contribuito parecchio, anche se il titolo pecca non poco nella narrazione e presenta qualche piccolo difetto tecnico, tra bug o alcune imperfezioni che potrebbero essere risolte con qualche patch.
Rimane comunque un prodotto da giocare per ricostruire uno dei più suggestivi e criptici avvenimenti degli Urali, sul quale tutt’oggi si continua a faticare a stabilire una verità definitiva.

Processore: Intel Core i5-6500
Scheda video: Nvidia GeForce Gtx 1060 6GB Gigabyte G1-Gaming
Scheda Madre: MSI Z170A Gaming M3
RAM: Corsair Vengeance LPX 8GB 2400MHz DDR4
Sistema Operativo: Windows 10




Sonorità videoludiche – La Chiptune

La rivoluzione parte dal basso: in molti casi questa frase rappresenta solamente un modo di dire, ma nel 1985 non devono averla pensata così sviluppatori del calibro di Rob Hubbard e Martin Galway o programmatori in erba come il tedesco Chris Hülsbeck. All’epoca questi tre uomini erano persone qualunque, ora invece sono compositori universalmente celebrati come i padrini della musica chiptune.

Ma cos’è la chiptune? Banalmente si potrebbe dire che è «un genere di musica creato usando i chip sonori di computer e console degli anni ‘80/primi anni ‘90», ma in realtà è qualcosa di più: la chiptune è sì un genere musicale che affonda le sue radici nel retrocomputing, ma è anche un movimento artistico che prende a pieni mani dalla filosofia fai-da-te tipica del punk.

Difatti, nella storia del genere, non è una novità leggere di gente che ha creato o che crea tutt’ora dei software musicali da zero: è l’esempio del succitato Chris Hülsbeck, che nel 1986 pubblicò su una rivista tedesca Soundmonitor, programma che aveva creato nel tempo libero. Oppure di Karsten Obarski, che nel 1987 creò il software Ultimate Soundtracker per Commodore Amiga, dando il via all’introduzione delle cacktro (ovvero le intro di giochi e programmi crackati) e successivamente alla cosiddetta demoscene, un vero e proprio genere artistico in tutto e per tutto che usava l’Amiga per creare opere degne del MOMA di New York.

Nonostante veri compositori del calibro di Koji KondoNobuo Uematsu Yuzo Koshiro, autori rispettivamente delle musiche di Super MarioFinal Fantasy e Streets of Rage, che vennero assunti da case come Nintendo e Sega per creare opere leggendarie, oggi portate sui palchi da tutto il mondo con progetti rock-opera come Video Game Music dell’americano Tommy Tallarico o da esibizioni orchestrali, la chiptune continua a restare un fenomeno soprattutto underground, anche se negli ultimi anni è stata spesso omaggiata da artisti del mainstream musicale come il canadese Deadmau5 (che proviene della demoscene!), 50 Cent o Kesha. La diffusione di internet è stata fondamentale per il genere, dando il via alla creazione di siti e forum come 8bitcollective o micromusic.net e case discografiche che danno spazio agli artisti della scena, come la Bleepstreet Records, o che si occupano di celebrare le grandi colonne sonore videoludiche del passato: è il caso della Data Discs Records di Londra, che si occupa della stampa in vinile di musiche tratte da Streets of Rage, Shenmue, Super Hang-On, Outrun e molti altri.

Ai giorni nostri, la creazione e l’esplosione degli indie game ha suggellato un matrimonio pressoché perfetto con la musica chiptune: non è più una novità trovare una colonna sonora realizzata con un Game Boy in giochi come VVVVVV e Super Hexagon di Terry Cavanagh, con due meravigliose OST realizzate rispettivamente dallo svedese Magnus “SoulEye” Pålsson e dalla nordirlandese Chipzel, oppure su hit come Shovel Knight, dove domina la splendida colonna sonora realizzata dall’americano Jake Kaufman, già autore delle musiche della serie Shantae e di un’altra hit indie come Crypt of the Necrodancer. Per non parlare dell’ottimo lavoro di band come Amanaguchi, autori delle musiche del celebratissimo beat ‘em up a scorrimento orizzontale basato sulla serie a fumetti di Scott Pilgrim.

E l’Italia? Nel nostro paese la scena è molto giovane, ma ben attiva, in primis nell’area milanese dove troviamo due nomi grossi come Arottenbit e Kenobit, autori di infuocate esibizioni live a base di Game Boy e creatori di eventi come le serate di Milano Chiptune Underground, serate dall’attitudine punk che piano piano vanno diffondendosi in tutto il resto dello stivale. Ma occhio ad altri artisti come 0r4, Pablito El Drito o Luke McQueen, quest’ultimo mago della sintesi FM del Mega Drive, e autore delle musiche di Xydonia, shoot ‘em up a scorrimento orizzontale 100% made in Italy realizzato da Breaking Bytes.

La chiptune avrà magari poca storia dalla sua, essendo un genere musicale molto giovane: d’altronde, sono passati più di trent’anni dagli sperimenti sonori su Commodore 64 dei vari Galway, Hubbard e dei fratelli Follin, ma le attende un futuro radioso grazie alla scena indie, alle netlabel presenti su internet e ai servizi di streaming musicale come Bandcamp e in generale a chi va a concerti dei musicisti della scena, che sia un locale underground oppure una fiera del fumetto come Lucca Comics (nell’edizione di quest’anno si è proprio esibito Kenobit nello stage di Red Bull!). Per quanto sia un genere musicale che affonda le radici nella nostalgia dei bei tempi andati a base di pane e NES, la chiptune è molto di più: è ricerca, è sperimentazione, è voglia di spaccare il mondo.