Tropico 6

La brezza marina, il tepore del sole, quel dolce sentore di dittatura sudamericana: questo è molto altro è Tropico, famosa serie di gestionali/city builder di Kalypso Games che da ben diciotto anni allieta le giornate di ogni sano dittatore dello stato libero di Bananas che alberga dentro ognuno di noi. La sesta fatica della saga, Tropico 6, vede un cambio della guardia, con Haemimont Games che lascia spazio ai tedeschi di Limbic Entertainment, autori degli ultimi episodi di un’altra serie storica, Heroes of Might & Magic.
Ma bando alle ciance: prendiamo subito il nostro biglietto della nave e imbarchiamoci verso Tropico!

Sandinista!

Tropico 6 si propone a noi forte di un’idea innovativa per la serie: si pone infatti fine all’unico isolotto e ci si lasciano alle spalle i problemi di spazio derivanti da una simile scelta e si dà il via alla multigestione di un arcipelago con flora e fauna diversi tra di essi, forse la più grande novità del titolo. Già dal tutorial il nostro fido consigliere Penultimo ci spiegherà l’importanza delle varie isolette e della loro diversificazione: potremo avere un’isola apposta da dedicare all’industria, come per esempio, un isolotto vulcanico ricco di minerali, oppure un vero e proprio paradiso tropicale, meta perfetta per il turista straniero e spendaccione, oltre, ovviamente, alla nostra isola principale, che funge da nucleo per i tropicani.
Il gioco ci offre tre modalità diverse e uguali allo stesso tempo: se il multiplayer si descrive da solo, mi soffermo brevemente sulle varie missioni, che tentano di offrire un piccolo spunto narrativo riguardo la storia di El Presidente, ma che, alla fine, rappresentano un mero diversivo rispetto alla modalità sandbox, da sempre vero centro nevralgico della serie.

Sul piano grafico, il potere dell’Unreal Engine 4 si mostra in tutta la sua bellezza, gli scorci di Tropico 6 sono i più belli che i nostri occhi da dittato…ehm, presidente abbiano visto. Peccato che la cura nei paesaggi del nostro arcipelago non venga riposta anche negli abitanti degli isolotti, davvero scialbi e privi di qualsiasi personalità se non quelle che leggiamo nelle loro schede.
Sul lato del gameplay non si registrano molte novità, Limbic è voluta andare sul sicuro, creando un greatest hits delle feature viste nei precedenti capitoli della saga: è tornata la meccanica dei discorsi al popolo, direttamente da Tropico 3, così come i raid dei pirati presi da Tropico 2, e vengono confermate le quest da completare, meccanica introdotta dal precedente capitolo e su cui si basa la gran parte delle nostre partite durante il lungo mandato che ci accompagna dall’era coloniale fino ai giorni nostri, passando per la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Dovremo stare attenti a ogni fazione presente sull’isola e non, come il portavoce della corona inglese durante gli inizi del nostro regime, passando per comunisti, religiosi, capitalisti, ambientalisti e chi più ne ha più ne metta. Sarà importante creare una buona economia basata sull’esportazione di beni più o meno raffinati, ottenuta sfruttando le rotte commerciali. Il tutto cercando di restare al potere con mezzi più o meno leciti, con un’enfasi su quest’ultimi, da bravi dittatori quali siamo.
A chiudere il tutto, fa capolino la sempre ottima colonna sonora, come da tradizione della serie: un tripudio di son cubano, salsa e bachata che ben si sposa con l’atmosfera isolana.

El pueblo unido jamás será vencido

Per quanto Tropico 6 cerchi di “dividere e conquistare” puntando al futuro, ma con un piede ben saldo al passato, c’è da dire che è abbastanza deludente la parte legislativa: davvero semplicistica, con pochi editti e una costituzione che ci offre poche possibilità di variare il nostro gameplay, un po’ deficitaria se si pensa alla mole di leggi ed editti che potevamo attivare in passato. Soddisfacente invece è la parte puramente dedicata al city building, essendo questo capitolo di Tropico quello con più edifici della serie. Chiaramente non si potrà ottenere la complessità di un City: Skylines, ma resta comunque un’esperienza funzionale al titolo.

A conti fatti, il ritorno di El Presidente convince, ma con delle riserve: ottima l’idea degli arcipelaghi, così la conferma di alcune delle feature del predecessore e il ritorno dei discorsi. Peccato solamente per la semplificazione della parte legislativa, dicevamo, e del micromanagement in generale, segno di un abbassamento della difficoltà che può far storcere il naso ai fan di lunga data e agli appassionati del genere.
Ad ogni modo, Tropico 6 resta un titolo che spicca grazie al suo carisma e all’atmosfera, davvero unica nel panorama videoludico.

 




Governala perché è tropicana, ye

Sole, mare, le orribili hit musicali della stagione sparate a volumi siderali dagli stabilimenti balneari… questa è l’estate. Lo avete capito, non sono esattamente un suo fan, anzi. I mesi tra giugno e agosto portano troppo caldo per permetterci di dedicare anima e corpo al nostro hobby preferito, eppure, per quanto possa sembrare strano, l’estate ha portato con sé alcune delle mie sessioni videoludiche preferite: impossibile non pensare ai tornei casalinghi con amici fatti su Virtua Striker 2 su Sega Dreamcast, in barba ai gettoni da acquistare nelle sale giochi locali. O quando, anno domini 2004, mi innamorai del puroresu (il wrestling giapponese) dopo ore di match e tornei simulati su Giant Gram 2000, sempre uscito su Dreamcast. Ma questa è una storia diversa. Qui vi racconto come e perché sono diventato un fan dei videogame gestionali, genere che tutt’oggi prediligo. Questa è la storia di Tropico: Paradise Island, primo in ordine d’uscita della saga di PopTop Software prima e Kalypso Media poi, che vedrà il sesto capitolo in uscita quest’anno.

Ma facciamo un passo indietro: non era la prima volta che cadevo nel tunnel dei gestionali. Avevo già alle spalle ore e ore passate sulle demo di Railroad Tycoon 2 (il primo titolo PopTop!) e su Rollercoaster Tycoon: mi piaceva l’idea di poter costruire dei tratti ferroviari o parchi di divertimento, era il giusto relax al termine di un pomeriggio di mare. Nel 2002 arrivò un’altra demo, quella che mi cambiò la vita, sempre a cura di quella PopTop che mi aveva stregato con Railroad Tycoon 2: il primo Tropico era tra le mie mani, e in esse risiedeva adesso il destino di centinaia di abitanti di una piccola isoletta del pacifico.
Tropico: Paradise Island è un gioco incredibile, a 16 anni dalla sua uscita lo considero  ancora il migliore della saga… Tropico 6 permettendo. Le possibilità di gameplay sono letteralmente infinite: possiamo scegliere se essere un buon Presidente, cercando di ascoltare i bisogni del nostro popolo, oppure fregarcene altamente e instaurare un bel regime dittatoriale, con tanto di elezioni truccate (!!!), noncuranti del pericolo di subire una rivolta da un momento all’altro. Io, essendo buono d’animo, tendevo sempre alla prima opzione, cercavo in tutti i modi di aiutare i miei tropicani: un buon tetto sopra la testa, un lavoro ben pagato e la giusta attenzione da dedicare a ogni gruppo politico dell’isola. Sì, perché in Tropico era praticamente quotidiano lo scontro con i comunisti che chiedevano case migliori e lavori ben retribuiti, con gli ambientalisti che protestavano contro la deforestazione, con i capitalisti che d’altro canto volevano si puntasse tutto su turismo e industrializzazione, con i militari che si lamentavano in caso di armate esigue, e con i religiosi che reclamavano più chiese e leggi meno “peccaminose”. Già, le leggi. In Tropico ci sono anche quelle. E anch’esse rappresentano un casino diplomatico. Perché, mettiamo caso, se l’alleanza e una base militare nell’isola da parte degli Stati Uniti accontenta i capitalisti, vedrà scontenti i comunisti,con risultati opposti nel caso decidessimo di diventare amici dell’Unione Sovietica. Il gioco è ambientato nel pieno della Guerra Fredda, e il parallelismo con la Cuba castrista è ovviamente esplicito, e Fidel Castro è a pieno diritto uno degli “avatar” selezionabili nel gioco completo, insieme ad altri personaggi come Evita Peron o Lou Bega (sì, proprio l’autore di Mambo N°5), tutti con bonus e malus storicamente precisi.

Ciò che porto nel cuore di Tropico non è soltanto l’immenso e strutturato gameplay, ma soprattutto la colonna sonora a cura di Daniel Indart: premetto di non essere un grande fan della musica latino americana, anzi, proprio la detesto. Ma la soundtrack di Tropico è perfetta sotto ogni punto di vista, un tripudio di son cubano sullo stile del leggendario Compay Segundo e del Buena Vista Social Club. D’altronde, l’omonimo documentario di Wim Wenders era uscito solamente tre anni prima del gioco, e la sua influenza a livello popolare si faceva ancora sentire. Che ci crediate o no, non riuscivo a staccarmi dal PC anche per questa ragione: non solo era intrigante vedere lo sviluppo del proprio isolotto pacifico anno dopo anno, ma tutto era coadiuvato da una colonna sonora che, ancora oggi, reputo tra le migliori nella storia dei videogiochi.

Credo di aver passato mesi e mesi dietro alla demo di Tropico: Paradise Island, e non nascondo che ancora oggi mi viene voglia di tornarci, nonostante i capitoli recenti siano più al passo con i tempi. Sarà per una sfida più appassionante, sarà per la musica, o sarà semplicemente uno spleen adolescenziale. O forse perché vi dedicai così tanto tempo da arrivare a sentire in testa le frasi del mio consigliere anche quando uscivo la sera. Probabilmente è per quest’ultimo motivo:
«Presidente, la sua gente sta morendo di fame, ci serve subito del cibo!»