The Mooseman
Molto spesso ci si pone la domanda “il videogioco è arte?” e nel corso degli ultimi anni più volte abbiamo visto delle vere e proprie opere in movimento: mi viene da pensare a Braid di Jonathan Blow, oppure a Limbo dei Playdead. È anche il caso di questo The Mooseman, opera prima del team russo Morteshka, e fortemente basato sulla mitologia komi-permiacca dell’omonimo e antico popolo dei monti Urali.
Spirit of the forest
In principio il mondo nacque da un uovo deposto dal dio Yen, che venne suddiviso in tre parti: il Sottoterra, oceanico e popolato dai morti, la Terra di Mezzo (da non confondere con l’omonima e fittizia terra immaginata da J.R.R. Tolkien ne Il Signore degli Anelli), popolata dagli esseri umani, e il Mondo Superiore, luogo degli dei. Noi impersoneremo l’Uomo Alce, un essere metà uomo e metà dio, capace di vedere cose nascoste all’occhio umano. Su questo fattore caratteristico si basa The Mooseman, un’avventura bidimensionale con alcuni elementi puzzle. Quasi un walking simulator, potrebbero dire alcuni, cosa che il titolo degli sviluppatori russi a tratti è, visto che i comandi del giocatore si riducono a pochissimi tasti: la barra spaziatrice per alternare le nostre visioni tra mondo “reale” e magico, le frecce di sinistra e di destra per muoverci, F1 per vedere quali artefatti abbiamo raccolto, oltre alla loro descrizione, e infine F2 per interagire con gli idoli, dei piccoli menhir dotati di occhi che ci narreranno tutta la storia della mitologia Komi.
Il gioco alla fine è questo: un piccolo viaggio della durata di poco meno un’ora, ma con un percorso davvero intenso. Il punto di forza di questo titolo non è tanto nel suo essere un “gioco” con tutte le caratteristiche ludiche implicanti sfida e abilità, vista anche la semplicità degli enigmi, quanto una sorta di installazione artistica interattiva. È difficile non restare ammaliati e impressionati dall’art style, una via di mezzo tra la pittura rupestre dei popoli preistorici e la tecnica del disegno a carboncino. Uno stile artistico che lascia senza fiato e che sopperisce alla mera potenza tecnica con un intelligente uso della palette grafica, oltre che dei tratti usati per gli sfondi e ciò che avviene in primo piano. Parte importante dello stile del titolo russo è il sonoro: il gioco è stato tradotto e narrato nella lingua komi-permiacca e la musica si basa proprio sul retaggio folkloristico del popolo: un miscuglio di ambient e strumenti folk con inserti di cantato joik, molto vicino al lavoro di gruppi della scena odierna musicale come i norvegesi Wardruna o al finlandese Jonne Järvelä, leader dei Korpiklaani. Per quanto riguarda, invece, la parte meramente ludica, il tutto è lasciato a degli enigmi ambientali abbastanza semplici e che al massimo richiederanno pochi tentativi per essere risolti, e alla collezione degli artefatti, quest’ultimi abbastanza nascosti nel mondo di gioco e che, volendo, possono spingerci a rigiocare l’avventura più di una volta nel tentativo di trovarli tutti. Ma in realtà The Mooseman funziona più come viaggio unico. Un viaggio sì breve, ma in realtà carico del potere della mitologia di un popolo che rischia di scomparire, un po’ come i nativi americani. Il titolo dei Morteshka forse stonerebbe nella semplice reclusione negli store videoludici, quando, invece, troverebbe la sua forma più adatta nei musei, essendo un viaggio artistico davvero emozionante. Il videogioco è quindi una forma d’arte? Dopo aver giocato The Mooseman direi ancora una volta proprio di sì.
The Thin Silence
La depressione è una condizione con la quale è difficile coesistere, rende la vita un inferno e può allontanare dalle persone che si amano e che vorrebbero vederci felici. The Thin Silence è un gioco che vuole ricordare al giocatore che non siamo soli, anche quando potrebbe sembrarci così, che è possibile uscirne imparando a convivere con parti di sé senza condannarsi. Questo piccolo gioiellino dello studio australiano Two PM si pone come una sorta di aiuto per superare questa condizione più che come un divertissment; è anche diverso da titoli come The Town of Light che semplicemente introducono un tema da guardare con gli occhi di uno spettatore, nonostante la riuscita immersione. The Thin Silence ci spinge a guardarci dentro, ci insegna che non è mai tutto perduto e che si può sempre rimediare a una condizione di forte infelicità. Per la serietà dei temi proposti il gioco, sin dal title screen, ci invita a conoscere bene il nostro stato d’animo prima di avviare una run e avverte che, se si soffre di una condizione di depressione, è bene comunque vedere delle persone competenti; il titolo non è un miracoloso rimedio per la depressione, ma giusto un piccolo aiuto per superare mali più grandi, e per ricordare come questi temi non vadano sottovalutati.
Dire basta è possibile
La nostra storia comincia dai momenti più bui di Ezra Westmark, una persona che un tempo ricopriva una carica governativa e che si è in seguito isolato dal mondo. Grazie a un fascio di luce che entra nella caverna dove si trova, qualcosa si riaccende in lui, inducendolo a intraprendere un viaggio alla volta dell’accettazione dei tragici eventi accaduti a causa di alcune sue scelte. Non vedremo mai la storia da una prospettiva diretta, la trama si srotolerà a poco a poco tramite le pagine del libro del dottor Shavi Mantha che parleranno del degrado della società di cui Ezra ricopriva un ruolo importante, ma anche con articoli di giornali, foto e email che ci daranno un accenno della sua vita prima della chiusura eremitica. Un tale Keota ha portato grossi disordini nel mondo del nostro protagonista, il quale si sente responsabile della situazione che si è venuta a creare per via del suo ruolo nel Governo; per colpa di questo falso idolo, il mondo che Ezra sperava di migliorare è adesso avvolto nel caos e nella violenza. Chiaro è ovviamente l’intento degli sviluppatori nel portare alla luce una forte critica alla società odierna, capitanata da Governi onnipresenti intenti a dividere anziché unire e a spingere le persone a guardare al proprio orto favorendo la violenza che in certi Stati dilaga per le strade per colpa di psicopatici estremisti.
In un mondo del genere, dobbiamo semplicemente rimboccarci le maniche e provare a fare il nostro meglio, sembra dirci il titolo; Ezra potrebbe anche essere solo e triste ma ha comunque una grande mente che lo porterà verso la strada giusta. Il gameplay che ci viene proposto è un’avventura grafica con una buona componente di puzzle solving, per certi versi molto simile a Limbo. Per interagire con il mondo circostante abbiamo a disposizione alcuni oggetti che troveremo in giro ma il raccoglierli non è tutto: una delle meccaniche principali di The Thin Silence è quella del crafting che consiste semplicemente nel combinare un oggetto con un altro (fino a un massimo di tre). L’intento di questa meccanica è chiaramente quello di far funzionare il cervello, cavarcela senza l’ausilio di nessuno e dunque provare e riprovare diverse combinazioni fino a quando da soli non riusciremo a forgiare l’oggetto che meglio potrà interagire con l’ambiente; La componente puzzle solving è ben pensata ma mai criptica e perciò offre un buon livello di sfida, che forse può meglio aiutare chi soffre appunto di una condizione di depressione esistente. Se ci troviamo in una situazione dalla quale non possiamo più uscire, come ad esempio un passaggio bloccato da un nostro errore, siamo fortunatamente muniti di un tasto reset e dunque ricominciare dall’ultimo checkpoint. Tuttavia il tutto è aggravato dai lentissimi, e in un certo senso patetici, movimenti di Ezra; il nostro personaggio si muoverà molto lentamente, il suo salto è davvero ridicolo e pertanto il dirigersi verso un luogo già raggiunto (come per esempio dopo l’aver resettato in un determinato punto di una schermata) risulterà tedioso e snervante. Ad ogni modo, per quanto strano possa sembrare, questa è una scelta davvero interessante in quanto il titolo vuole calare il giocatore in tutto e per tutto nella condizione del malato di depressione e pertanto tutto ciò che faremo sarà, in un certo senso, tirato e trascinato. Il mondo circostante, oltre a offrirci sezioni in cui dovremo interagire con i nostri oggetti, presenta altri elementi per il puzzle solving come l’attivazione di svariati meccanismi, l’apertura di porte tramite carte d’identità elettroniche e l’indovinare password nei terminali tramite una manciata di lettere e qualche indizio.
Un gioco per riflettere
The Thin Silence è un gioco in cui la componente artistica è degna di nota, con una pixel-art che ci mostra degli scenari veramente curati, dai bui sotterranei a dai bellissimi paesaggi naturalistici purtroppo rovinati dalla guerra. Il gioco ci vuole restituire un forte senso di isolamento ma anche di meditazione e ci riesce non solo con le sue immense ambientazioni ma anche tramite il character design proposto, ben diverso dall’art-style scelto per gli scenari; Ezra e gli NPC che vediamo, che si rifanno probabilmente a un periodo a cavallo fra Atari 2600 e i primi computer degli anni ’80, presentano pochissimi dettagli e le loro facce sono praticamente un quadratino bianco. La mancanza di dettagli facciali può anche, in un certo senso, accentuare quel senso di perdizione quando ci si trova in una condizione simile a quella del protagonista e perciò tutto ciò che ci circonda non prende più una forma e tutto ci sembra uguale e piatto; tuttavia la stessa grafica usata per i personaggi non aiuta comunque a seguire la già complessa trama, e perciò non solo è già difficile capire il filo logico della storia ma a volte anche distinguere i character.
L’incredibile colonna sonora è affidata alla band Light Frequency e il risultato è davvero strabiliante. Lo stile proposto si rifà a un’ambient molto tetra ma comunque con un certo bagliore luminoso, un po’ come una candela accesa nel buio; gli appassionati di questo genere troveranno in The Thin Silence una colonna sonora che richiama molto l’Aphex Twin del periodo ambient, fra spettacolari paesaggi sonori con pad cupi, con aggiunte di sezioni di pianoforte e viola. Una colonna sonora veramente spettacolare.
Un grande messaggio
The Thin Silence non è il classico videogioco d’entertainment: nonostante sia un felice incrocio fra un’avventura grafica e un puzzle platform à la Limbo, non è certamente uno dei migliori prodotti del genere. Gli elementi che compongono il puzzle solving, ovvero il crafting e le interazioni con gli elementi che compongono la scena, sono buoni ma tutto sommato blandi e, in realtà, abbastanza semplici per gli utenti un po’ più scafati e non abbastanza intriganti per chi cerchi una buona sfida. Ovviamente è stata messa molta più anima nella trama e nel rendere gli stati d’animo che meglio descrivono questa terribile condizione e il gameplay, seppur valido, ne risente in parte.
Noi, peraltro, siamo incappati in un brutto bug che ha corrotto il nostro file di salvataggio e ci ha costretto all’avvio di una nuova partita. Dopo aver lasciato il gioco nel piano più interrato della base militare sotterranea e esserci tornati il giorno dopo, il nostro personaggio non si è più riposizionato nel punto di salvataggio ma si collocava in alto “continuando a cadere nel vuoto del bordo dello schermo” (credeteci, è molto difficile da spiegare); così, nel tentativo di rompere questo circolo vizioso (in quanto si era creato un fastidioso loop in cui il character cadeva nel vuoto e si resettava presentando la stessa situazione), abbiamo praticamente rotto la sequenza degli eventi e siamo capitati in un punto in cui non avevano né gli oggetti necessari per proseguire né quelli per tornare indietro. Un vero e proprio disastro, nulla che però non si possa correggere però da una buona patch.
Se prendiamo questo titolo come un’esperienza il cui fine è trasmettere un messaggio possiamo dire che The Thin Silence centra in pieno il propri obiettivo di, come diceva lo scrittore cinese Lu Xun, «mostrare la malattia per poi curarla». Il gioco parla chiaro in tal senso, e i temi proposti, anche se chiaramente non risultano per tutti, sono trattati con la giusta serietà, sensibilità e anche valore artistico; vale a dire inoltre che parte dell’accessibile prezzo di 9,99€ su Steam va alla fondazione CheckPoint, un’associazione volta ad alleviare, e possibilmente curare, le malattie mentali tramite il gaming (dunque con giochi di questo tipo). Motivo in più per giocare a questo titolo ma, vista l’occasione, anche per ricordare l’importanza delle cure e del sostegno dei professionisti qualificati in simili casi: The Thin Silence, per quanto bello e alleviante possa essere, non risolverà mai totalmente i vostri problemi, come ogni videogame, ma è bello che oggi l’arte videoludica entri sempre di più in certi temi, rifuggendo alla sola funzione di intrattenimento, e facendosi sempre più portatrice di messaggi forti e gettando un fascio di luce sulle realtà più scomode.
Moonlighter
Da giocatori, o più precisamente da avventurieri, siamo stati in una marea di negozi, fra venditori più o meno tirchi per comprare o vendere oggetti. Ma vi siete mai chiesti cosa si prova a stare al posto del venditore? Come fa questi ad avere tanti begli oggettini da vendere? Per la prima volta potremo scoprirlo in Moonlighter, il piccolo miracolo indie della Digital Sun Games pubblicato da 11 Bit che incorpora parti action à la The Legend of Zelda, e dungeon per raccogliere tesori, e parti da business simulator in cui dovremmo vendere, in base alla domanda e al valore, tutto ciò che abbiamo saccheggiato (o parte di esso) e gestire il nostro negozio e il piccolo villaggio dove risiede il nostro Will. Il titolo è disponibile per Playstation 4, Xbox One e PC, e quest’ultima è la versione che prenderemo in considerazione.
Sogno di un commesso viaggiatore
Una notte, vicino al villaggio di Rynoka, appaiono dal nulla delle porte che conducono a dei dungeon, delle cripte in continuo mutamento piene di tesori preziosi; si formano così due squadre di esploratori contrastanti, i mercanti e gli eroi. Di questi non molti fanno ritorno e, con l’aumentare delle vittime, gli abitanti del villaggio decidono di chiuderne tutte le entrate. Senza tesori da vendere, Will, proprietario del negozio Moonlighter, vive giorni molto bui, ma un giorno, armato del suo coraggio e la sua voglia di seguire le orme del suo avventuroso padre Pete, decide di andare di entrare in un dungeon per cambiare la sorte della sua attività ed essere sia un eroe che mercante. Il gioco si alterna in sezioni diurne, nelle quali potremo aprire il negozio al pubblico e guadagnare più soldi possibili, e notturne, che sfrutteremo principalmente per andare a saccheggiare i dungeon. La loro forma richiama immediatamente quella del primo The Legend of Zelda (stanze rettangolari con quattro porte) ma la particolarità di queste cripte, così come accennato nella storia, è che a ogni nostro ingresso troveremo una struttura diversa; i dungeon si comporranno su tre livelli e, più scenderemo nel profondo, più rari saranno i tesori che troveremo (ma anche più resistenti e forti i nemici). Non troveremo mai porte da aprire con delle chiavi: è possibile infatti fiondarci direttamente all’ingresso delle sezioni successive, ma il tempo che dedicheremo all’esplorazione verrà ripagato col ritrovamento di ceste che conterranno dei tesori molto preziosi oppure oggetti che potremo usare per costruire armi, armature, migliorie per quest’ultime o creare delle pozioni. Il nostro inventario è composto da 20 blocchi (disposti a 5×4) ma il disporre i tesori all’interno di esso non è molto facile in quanto tutti gli oggetti che raccoglieremo dalle casse (che saranno sempre quelli che valgono di più o i più utili nel crafting) avranno delle maledizioni o degli incantesimi particolari: alcuni dovranno essere messi obbligatoriamente sul fondo o sulla cima della nostra borsa, altri distruggeranno un oggetto vicino quando usciremo dal dungeon oppure non appena gli troveremo una collocazione nella borsa, altri si romperanno se prenderemo troppi colpi e altri ancora rimarranno oscurati fino alla nostra uscita; a ogni modo, sempre dalle casse, avremo modo di raccogliere dei tesori intrisi da incantesimi che possono distruggere le maledizioni sopracitate (e dunque poter raggruppare un determinato numero dello stesso tesoro in un solo blocco), mandare i nostri ritrovamenti più preziosi direttamente al Moonlighter liberando la nostra borsa oppure addirittura trasformare un tesoro vicino in uno più prezioso. Se proprio non abbiamo più spazio per portare altri tesori possiamo “sacrificare” i tesori allo specchio magico che trasformerà istantaneamente i tesori in denaro; una meccanica semplice e intelligente purtroppo rovinata dall’assenza di un tasto “seleziona tutto”, che si traduce nel dover portare ogni singolo oggetto (o gruppo di oggetti) dallo slot dell’inventario, o cassa, allo slot dello specchio che si trova in basso a sinistra… per ogni singolo tesoro! La gestione dell’inventario, insieme all’azione vera e propria, è decisamente l’elemento più importante e bisogna sin da subito capire il meccanismo delle maledizioni e incantesimi per poter fare uscire dai dungeon più tesori possibili al fine di migliorare il nostro equipaggiamento sin da subito senza perdere troppo tempo; a tal proposito, non ci sono molti tutorial e, per quanto l’inglese utilizzato nel gioco non sia eccessivamente astruso, bisognerà comprendere il prima possibile questi meccanismi per non finire nel logorio di un grinding che potrebbe rivelarsi lungo, talvolta erculeo, in quanto i prezzi del fabbro che crea le armi e la strega che prepara le pozioni sono veramente tarati per un margine d’errore vicino allo zero!
Per questa ragione – dover guadagnare denaro di continuo per ottenere le migliorie necessarie – ci toccherà andare in uno stesso dungeon più volte, con il risultato di un gameplay ripetitivo, ma ciononostante piacevole, in un certo senso molto simile alla meccanica dei 3 giorni proposta in The Legend of Zelda: Majora’s Mask; capiterà spesso che, per esempio, arrivati alla terza sezione non saremo abbastanza forti o non avremo un armatura decente e perciò potremo uscire in qualunque momento offrendo dei soldi al talismano o al catalizzatore (catalyst) che, a differenza del primo, potrà farci tornare nella stessa stanza del dungeon dalla quale siamo usciti (e dunque senza doverlo ripercorrere dalla prima sezione). Gli altri due modi per uscire dai i livelli sono i più classici, ovvero uccidere il boss di fine livello, che ci farà avere accesso ai tesori più preziosi della cripta, oppure l’essere sconfitto in qualunque parte del dungeon, che comporterà la perdita di tutti gli oggetti nella borsa a eccezione dei primi cinque blocchi in alto che rappresentano le nostre tasche (è meglio dunque mettere in queste posizioni gli oggetti più importanti). Per non morire dovremo capire sin da subito che tipo di approccio vogliamo utilizzare: Will potrà portare due delle cinque armi proposte nel gioco, ovvero spada e scudo, lancia, spadone, artigli e arco e frecce, e a ciò consegue che il giocatore potrà scegliere tra stili di gioco diversi. Abbiamo un temperamento audace? Preferiamo sferrare pochi attacchi ma potenti? Contempliamo per lo più attacchi ravvicinati? L’arma di base sarà la spada e lo scudo ma ben presto, come scenderemo nel Golem Dungeon, avremo modo di prendere i primi materiali per poter costruire le restanti armi e capire velocemente quale stile di combattimento ci si addice di più, anche perché Moonlighter non è affatto un gioco facile; fino a quando, procedendo nel gioco e finendo nei dungeon successivi, non avremo un’armatura completa (e possibilmente omogenea visto che possiamo comporre delle armature di stoffa, acciaio o ferro) i nemici ci faranno sempre il cappotto e perciò avere una buona armatura fin da subito è fondamentale. Controllare Will è molto semplice: si muove e attacca esattamente come farebbe Link in titoli come A Link To The Past anche se l’esperienza è rovinata da una sorta di legnosità generale (persino all’interno dei menù); i comandi rispondono bene, ma alternare attacco e difesa risulta un po’ astruso, specialmente se si usano armi diverse dalla spada e lo scudo, che si richiama col tasto B se si usa un controller per Xbox. Con le altre armi, al posto di difenderci con lo scudo, è possibile sferrare degli attacchi speciali (caricati) e dunque mettere al tappeto i nemici in tempi più brevi; l’unica vera maniera per difenderci con le armi diverse dalla spada è il tasto RB che, in perfetto stile Link, farà allontanare Will con una capriola (che funzionerà ugualmente andando contro il nemico o tentando di superare un attacco a proiettile). Nonostante qualche piccola sbavatura, il gameplay puro risulta tuttavia molto piacevole, è molto soddisfacente uccidere i nemici per raccogliere i loro tesori e una volta abituati alla legnosità dei comandi si imparerà a sfruttare al meglio le capacità di Will; tuttavia, il gameplay all’interno dei dungeon non è che il 50% del gioco.
Che vada a lavorare!
Come abbiamo accennato prima, Will è il proprietario del negozio Moonlighter, che di giorno ci toccherà gestire accogliendo i clienti interessati alla nostra mercanzia. Ogni tesoro ha, diciamo, un valore oggettivo ma dovremo venderlo tenendo conto della domanda generale. Quando venderemo un oggetto per la prima volta, e dunque non ne conosciamo il giusto prezzo di vendita, dovremo fare attenzione alla reazione del cliente e, a seconda di questa, potremo ogni volta parametrarci. Ci sono 4 reazioni principali e saranno mostrate sul balloon al di sopra di ogni cliente intento a comprare un oggetto:
- la prima ci mostra una faccina molto felice con degli occhi “a monetina”; questa reazione ci indica che il cliente ha trovato un oggetto a un prezzo stracciato e dunque, anche se faremo la sua felicità, la prossima volta che rivenderemo lo stesso oggetto ci converrà gonfiare un po’ il prezzo.
- La seconda è una faccina normalmente felice; beccare questa reazione significa fondamentalmente aver trovato il prezzo perfetto e ci converrà mantenerlo a discapito della domanda.
- La terza faccia è una faccina triste; solitamente il cliente eviterà di comprare l’oggetto ma è anche possibile che lo prenda ugualmente e lo pagherà per il prezzo stabilito. Tuttavia, se lo farà, farà abbassare la domanda generale e perciò quando vedremo un cliente reagire in questo modo e lascerà l’oggetto sullo scaffale ci converrà cambiare tempestivamente il prezzo prima che si verifichi lo stesso caso con uno che lo comprerà (ovviamente è possibile cambiare il prezzo durante le fasi di vendita).
- L’ultima faccina è quella oltraggiata; se un cliente reagirà così di fronte a un oggetto significa che il prezzo supera di gran lunga il suo valore effettivo e perciò nessuno comprerà mai l’oggetto.
Tutti i dati che raccoglieremo sui tesori in fase di vendita, ovvero i prezzi correlati alle emozioni che vengono scaturite e il livelli della domanda, saranno segnati sul nostro quaderno del mercante e ciò ci sarà di grande aiuto sia in negozio che nei dungeon qualora ci troveremo nella situazione di dover scartare un oggetto in favore di un altro. A ogni modo, gestire un negozio (così come nella realtà) non consiste solamente nel piazzare degli oggetti sugli scaffali e nell’aspettare che i clienti vengano a comprarli; dobbiamo rendere l’ambiente piacevole e, come si solitamente si dice, avere gli occhi anche dietro la testa. È possibile anche intuire quale tipo di oggetto vogliono i clienti quando entrano (sempre da un balloon che appare sopra la loro testa), così come possiamo capire se qualcuno è intenzionato a rubare; noi non possiamo cacciare i ladri quando entrano ma dobbiamo stare attenti a non perderli di vista in mezzo alla folla e quando allungano le mani e tentano di scappare con la refurtiva dobbiamo fermarli tempestivamente con una capriola. Ai clienti, inoltre, non piace fare shopping in un ambiente scialbo e perciò dobbiamo fare in modo che si trovino a loro agio… così da far in modo che sborsino di più! Avremo modo di abbellire il negozio con oggetti da appoggiare al bancone o sui muri e ognuno di essi avrà un effetto particolare: alcuni faranno sì che i clienti lasciano una percentuale di mancia, altri fanno fanno scorrere il tempo più lentamente, altri diminuiscono i furti o fanno sì che in una giornata entrino più clienti del normale. Tuttavia nulla di tutto ciò è possibile fino a quando non apporteremo la prima modifica al negozio. All’inizio il nostro negozio sarà minuscolo e ci sarà spazio per giusto quattro oggetti per la vendita ma possiamo allargarlo utilizzando la bacheca al centro del villaggio dalla quale è possibile finanziare il proprio negozio per delle migliorie: queste includono l’allargamento del locale, l’aggiunta dei cesti per gli oggetti in offerta, casse più larghe per accumulare gli oggetti invenduti o quelli che ci servono per la creazione delle armi e pozioni, migliori letti, che ci faranno dormire meglio recuperando così della vita oltre il massimo, e migliori registratori di cassa per far sì che i clienti lascino una grossa percentuale di mancia (magari fosse così semplice nella vita vera). Un buon imprenditore però non è tale fino a quando non investe i propri soldi in altre attività; in Moonlighter avremo anche la possibilità di finanziare altre attività e queste ci daranno l’opportunità sia le fasi di vendita che la nostra esperienza nei dungeon. Dalla bacheca potremo finanziare un fabbro, che ovviamente ci costruirà le armi e le armature, un negozio di pozioni, un negozio simil Moonlighter che venderà gli stessi oggetti che troviamo nei dungeon (molto comodo se, per esempio, abbiamo bisogno di un certo materiale per costruire un arma e ci noia andare in un dungeon per un solo oggetto), un negozio per gli oggetti che servono ad abbellire il nostro locale e un banchiere che investirà un po’ del nostro capitale in altre attività e ce lo restituirà dopo sette giorni con gli interessi. L’esperienza commerciale di questo gioco è veramente curata e trasmessa con passione ma, un po’ come accade per le armi e le pozioni, il tutto è sempre collegato ai meccanismi dei tesori dei dungeon perché i prezzi, anche per i finanziamenti, sono tarati per un margine di errore pari a zero.
Venti di cambiamento
In termini di grafica Moonlighter ci delizia con una pixel art veramente deliziosa che si esprime nelle fasi di gameplay e nelle brevi cutscene che mostrano delle immagini statiche (sempre molto belle). La grafica, in maniera generale, si rifà per lo più a The Legend of Zelda: the Minish Cap e ai giochi Pokémon della generazione del Gameboy Advance e perciò, nonostante la palette da 16/32-bit, personaggi e ambienti risultano molto curati, e dettagliati quanto basta. Non ci sono bug grafici di rilievo, e quelli presenti sono addirittura utili per avere un vantaggio con i nemici; in poche parole, è possibile (specialmente con lo spadone) colpire i nemici dalla parte opposta di un muro e rimanere protetti da (alcuni) attacchi nemici. Il titolo non si pone certamente come un gioco altamente realistico e dunque piccolezze come queste possono essere perdonate senza grossi compromessi e, in questi casi, persino sfruttate. La colonna sonora presentata è veramente deliziosa e tranquillamente accostabile a una di quelle di The Legend of Zelda; nulla al livello di Koji Kondo, ça va sans dire, ma i pezzi sono davvero ben composti, ben caratterizzati e anche ben registrati. Ci sono in totale quattro livelli, il dungeon di pietra, della foresta, del deserto e quello tecnologico, e pertanto i pezzi proposti sono molto vari e riescono a dare la giusta personalità, e persino serietà, ai determinati ambienti; ci sono bei pezzi orchestrali, riprodotti molto fedelmente, sfumature etniche, elettroniche nel dungeon tecnologico… insomma, si riesce a adattare perfettamente a ogni situazione regalando al giocatore un ottima cornice per un’avventura veramente particolare. Ogni dungeon ha sempre il suo tema e man mano si cambia di sezione varierà anche il tema, senza perdere le melodie portanti o il mood generale del pezzo; davvero molto ambizioso per un gioco indie. Unico problema, forse, è che si sarebbe potuto fare di più sul piano delle voci; non si chiedeva certamente un gioco interamente doppiato ma sentire anche un lamento da parte del personaggio principale sarebbe stata una buona implementazione. Abbiamo pertanto un personaggio con, sì, una personalità ben definita ma senza alcuna vera profondità; Will non si dimena quando dà un colpo di spada, non si lamenta quando viene colpito e non urla quando cade. Un po’ deludente come fattore.
Diamo a Will ciò che è di Will
Moonlighter è un gioco veramente curato in ogni dettaglio, è pieno zeppo di obiettivi, personalizzazioni, crafting e tanto altro. Può certamente interessare ai fan di The Legend of Zelda, gli amanti dei dungeon crawler e persino dei gestionali. Il solo problema di questo titolo, che sorprendentemente è al contempo anche il suo punto forte, è l’esubero di contenuti, non tanto perché risulti difficile stare dietro ai tanti obiettivi che il gioco ci pone, ma tanto perché è un po’ come giocare a Jenga! È davvero snervante andare in un dungeon con l’obiettivo di cercare un determinato oggetto che ci servirà per creare o migliorare un arma per poi uscire, ad esempio, con una quantità insufficiente oppure terminare una sessione di vendita e non avere ancora abbastanza soldi per poter finanziare un’attività o comprare qualcosa dal fabbro o dalla strega pur avendo i materiali. Insomma, se si fa qualcosa di sbagliato crolla tutto il resto! È importantissimo inoltre comprendere il funzionamento del sistema di maledizioni e di incantesimi dei tesori per fare più soldi possibili e purtroppo è molto difficile comprenderlo senza un tutorial o una vera guida.
Bisogna appunto essere molto pazienti con questo titolo, sperimentare, stare attenti alle icone e, in fase di vendita, alle reazioni, alle intenzioni dei clienti, e altro. Ci sono molte cose su cui dovremo istruirci, ma in Moonlighter saremo soli contro un sistema un po’ difficile da capire. Ma nella vita non abbiamo un tutorial, e anche per gestire un’attività bisognerà far ricorso a intelligenza e intuito.
È un titolo che o si ama o si odia, Moonlighter. Noi abbiamo più motivo d’amarlo, per la sua marcata personalità, per l’originalità e per meccaniche di gioco che sembrano non aver nulla in comune fra loro ma che in realtà si amalgamano molto bene. È uno Zelda-like molto più efficace e armonico di altri recentemente usciti come World to the West, che semplicemente soffrono di un’identità non troppo marcata. Speriamo solo che Moonlighter possa annoverarsi presto fra i grandi indie come Undertale, Axiom Verge o Limbo. Davvero sorprendente!
Bulb Boy
Avete presente quei giochi da giocare quando siete soli a casa? Possibilmente di notte, con le luci spente e nel pieno silenzio? Bene, Bulb Boy, della compagnia polacca Bulbware, è esattamente quel tipo di gioco, un titolo in grado di spaventarti con animazioni, un crescendo sul piano dell’intensità ed elementi ambientali così bizzarri tanto da farti rimanere basito, inorridito ma al contempo affascinato! In compagnia del solo testone luminoso di Bulb Boy ci siamo addentrati in questa particolarissima avventura grafica per Nintendo Switch: cosa c’è dietro a questo oscuro titolo dalle fattezze ludico-cartoonesche ma allo stesso tempo orripilante, oscuro e incredibilmente bello? Scopriamolo insieme, e dato che ci spaventa farlo da soli… teniamoci per mano!
Presenze inquietanti
Una sera Bulb Boy, tolta la dentiera al Nonno, accudito il cane volante (che c’è? Non ne avete mai visto uno?) e spento il televisore va a dormire; poco dopo essersi messo a letto, la sua casetta viene inglobata da una forza malefica, riempiendo la casa di mostri di ogni tipo; anche se parecchio impaurito, Bulb Boy si arma di coraggio e decide di andare alla ricerca del suo caro cagnolino e del generoso nonno all’interno della sua abitazione invasa dagli orribili mostri. Il gioco si pone come un punta e clicca, nel quale è possibile procedere una volta risolto un puzzle all’interno di una stanza nella quale ci si muove tridimensionalmente; le atmosfere generali ricordano anche titoli come Limbo, ma anche alcuni contesti che vedono certe situazioni da risolvere “in fretta” e con un po’ di abilità, oltre che il solo ingegno. La particolarità di Bulb Boy è che, a seconda dell’enigma da risolvere, può smontare la sua luminosa testa per farla semplicemente rotolare o attaccarla in altri corpi come pesci o ragni (non a caso si chiama “Bulb” boy: la sua testa è una sorta di lampadina da montare e smontare dappertutto); grazie a questo aspetto, il gioco offre la giusta (insolita) varietà, con enigmi da risolvere che risultano sempre molto vari e un gameplay che si rinnova, di conseguenza, molto spesso. A ogni modo, ci capiterà spesso, nelle sezioni flashback (che si avvieranno solitamente fra una stanza e l’altra), di controllare il cane e il lentissimo nonno ma queste sezioni durano molto meno rispetto alle parti ambientate nel presente: onestamente nulla di che ma riescono a dare al gioco qualche sfumatura di profondità in più. Il puzzle solving del titolo varia da semplici interazioni con oggetti a schermate ravvicinate in cui è possibile azionare determinati meccanismi con maggior precisione e dettaglio; in entrambe le situazioni avremo comunque modo di utilizzare degli oggetti che troveremo per casa e completare al meglio i puzzle che ci vengono posti. A tal proposito, che il compimento del puzzle risieda nell’attivare determinati elementi in un ordine preciso o in fretta, le soluzioni sono tanto orride quanto facili; per quanto bizzarro possa essere il risultato delle nostre azioni, la soluzione è spesso troppo ovvia e il fattore sfida generale del titolo è veramente basso e lascerà solamente una sensazione d’orrore e non tanto la soddisfazione di avere risolto un puzzle tosto (come in un punta e clicca della Lucasarts o in Chuchel).
Bulb Boy, tutto sommato, è programmato bene, anche se per un attimo abbiamo creduto di aver corrotto il nostro file di gioco: c’è stato un momento in cui, nella stanza col mostro a forma di pollo arrosto (che c’è? Esistono, e sono pericolosissimi!) il protagonista non interagiva con gli elementi ambientali necessari per procedere nella stanza e perciò cadevamo sempre fra le grinfie del pennuto trapassato. Per risolvere il problema, abbiamo dovuto cancellare il salvataggio (che non cancella l’intero file ma ci riporta all’inizio di una stanza, cancellando dunque i soli progressi che attivano i checkpoint intermedi) ma il problema continuava a sussistere; a questo punto abbiamo semplicemente resettato l’applicazione e, finalmente, Bulb Boy è tornato ad interagire con gli elementi che componevano il puzzle di quella stanza e siamo così riusciti a procedere nella nostra avventura. Si tratta fortunatamente di un piccolo bug, risolvibile con molta facilità, nulla che guasti la nostra esperienza ma comunque abbastanza sgradevole; speriamo che arrivi prima o poi una patch per risolvere questa minuscola imperfezione.
Hai paura del buio?
Bulb Boy si presenta come una sorta di incubo cupo, verdastro e bizzarro ma con una nota cartoonesca che concede alla grafica un tratto distintivo molto forte e al gameplay una sorta di humor bizzarro (seppur molto spaventoso). Come il nome del protagonista ci suggerisce, la testa del nostro protagonista brilla di luce propria e ci permette di illuminare le buie stanze della sua casa; gli effetti di luce − accentuatissimi visto che si gioca quasi al buio − sono veramente sublimi e, in qualunque posizione ci troviamo o in relazione a come ci muoviamo, le ombre si sposteranno in base a come sono disposti gli oggetti nella stanza restituendo in tutto e per tutto la profondità dell’ambiente. Inoltre, è possibile scegliere la luminosità della testa del protagonista e perciò, a seconda di come la regolate, sarà possibile visualizzare più parti della stanza stando fermi; anche questa è un’aggiunta veramente interessante che potrà mettere alla prova il vostro coraggio (e la vostra vista).
Il character design, si mantiene sempre sul bizzarro, i mostri, che riescono a trasmetterci una sorta di paura, hanno sempre quella nota di “non pauroso” che, grazie alle atmosfere e i toni generali del gioco, riescono a inquietarci al punto giusto, un po’ come succede per la paura per i clown… no, tranquilli, qui non ce ne sono (ci mancavano solo i clown per farlo diventare L’uomo senza sonno)! Le animazioni, nonché le interazioni con gli oggetti dell’ambiente, sono sempre molto bizzarre: Bulb Boy non attiverà mai un interruttore con un dito o farà quello che pensiamo possa fare e perciò il gioco ci sorprenderà di continuo quanto ci inquieterà. Per questi motivi il fattore paura funziona e anche in maniera originale: fortunatamente non ci vengono proposti i soliti jumpscare ma il gioco ci inquieta con un suo senso persecuzione dalla quale nasconderci. Non ci troviamo mai senza un’idea su come risolvere un puzzle o sconfiggere un mostro all’interno di una stanza ma siamo sempre sotto costante paura e ansia, un’inquietudine da “paura del buio” che, bisogna ammettere, funziona molto bene. Inoltre, quando il nostro Bulb Boy viene ucciso, le animazioni sono orrende e spesso e volentieri il nostro volto si deformerà con una forte nota di inquietudine; provare per credere!
La colonna sonora di questo titolo si mantiene su un ambient molto dark e tetro, ideale per un gioco del genere; non ci saranno grossi temi memorabili ma giusto delle tetre melodie e accordi che accompagneranno il nostro protagonista attraverso le buie stanze della sua casa e i suoi brevi ricordi. Una particolare menzione va fatta ai terrificanti effetti sonori; i personaggi (quasi) umani non spiccicheranno una parola riconoscibile in nessuna lingua e i versi dei mostri sono veramente spaventosi, ben eseguiti e mai scontati. Un vero peccato, tuttavia, che pochi elementi del comparto sonoro sono davvero memorabili.
Sarà abbastanza luminoso?
Bulb Boy è un titolo più che ok: la sua bella giocabilità, che sorprende ad ogni interazione, e il suo particolarissimo art-style sono sicuramente buone ragioni per comprare, per i soli 7,99€ del prezzo di lancio, questo bel titolo sull’e-Shop di Nintendo Switch. Tuttavia, nonostante tutti questi bei fattori, l’esperienza è semplicemente troppo facile e troppo corta e perciò risulta difficile consigliare questo titolo sia ai neofiti del genere che ai veterani. Il gioco ha certamente i suoi punti di forza ma la sua giocabilità, seppur molto pulita, non offre né nulla di nuovo né nulla di interessante e il suo art-style, che è sicuramente bellissimo, potrebbe risultare trito e ritrito se messo a paragone con altri titoli dalle stesse tonalità come Little Nightmares e Limbo. Bulb Boy è sicuramente un titolo molto interessante e di certo non merita di passare in secondo piano, è solo che, in un certo senso, risulta difficile trovare un target per questo titolo. Consigliamo questo titolo agli amanti delle avventure grafiche? Agli appassionati dei videogiochi e film horror? I casual gamer? Gli hardcore gamer? Gli indie gamer? Per dirvi la verità non lo sappiamo, ma di una cosa siamo certi: il prezzo non è per nulla proibitivo, perciò mettetelo nella vostra wishlist e, qualora vi trovate qualche spicciolo in più o sarà in offerta, prendete in considerazione l’acquisto di questo titolo.
Limbo
Il Limbo: un luogo senza pena e senza beatitudine divina, nella concezione dantesca; un vero e proprio Inferno per il protagonista dell’omonimo gioco.
Limbo è un puzzle-platform in 2D firmato Playdead, uscito per la prima volta nel 2010 per Xbox 360, per poi arrivare su PS3, PS4, Xbox One, PC, iOS e da un paio d’anni anche su smartphone e tablet Android. Tirare in ballo Dante non risulta una forzatura, molte sono le similitudini tra le ambientazioni della Divina Commedia e Limbo. A partire dal primo mezzo utilizzato dal nostro protagonista, un’imbarcazione che ricorda quella di Caronte, il traghettatore di anime che conduce Dante e Virgilio nel Limbo, fino alla presenza di soli bambini, probabilmente morti prima di ricevere il battesimo; lo stesso titolo, Limbo, fa riferimento al primo cerchio dell’Inferno e quindi richiama alla memoria direttamente l’opera dantesca. L’approccio al mondo di Limbo è alquanto diretto, e a tratti spiazzante: non ci sono introduzioni che spieghino perché il protagonista si trovi in quell’inquietante mondo in bianco e nero, nel quale si sveglia confuso, disorientato, spaventato, senza alcun preambolo. L’unica cosa che possiamo fare è accompagnarlo in questo viaggio, sperando che quest’incubo finisca presto. Il gioco non presenta alcuna narrazione esplicita, l’unico accenno alla trama lo troviamo nella descrizione del gioco presente in alcuni store: «Incerto del fato della sorella, un ragazzo entra nel LIMBO.» E in effetti nel corso del gioco si incontrerà presto una figura femminile, di cui andremo alla ricerca sino alla fine, muovendoci in un ambiente buio e ostile.
Ogni area è disseminata di trappole e ostacoli, dalle semplici buche iniziali da saltare sino a seghe circolari e complessi macchinari con i quali bisognerà giocare con la gravità per poter andare avanti, passando per alcuni personaggi come bambini armati di frecce e sassi e un minaccioso ragno gigante. Se da un lato il titolo gode di puzzle ben congegnati e di un level design studiato ad arte, quel che fa la differenza in termini di gameplay sta probabilmente in un attento studio della fisica, che induce il giocatore a essere quanto più preciso nell’affrontare determinate fasi di gioco, grazie anche all’engine Box2D, che risulta estremamente efficace allo scopo, e a un’architettura dei rompicapo che non risulta mai frustrante nonostante si basi su un meccanismo “die and try”: alla prima run sarà inevitabile infatti fallire un bel po’ di volte, ma si avrà la soddisfazione di superare anche le zone più difficili una volta fatte proprie le dinamiche e le tempistiche del relativo rompicapo. Limbo non presenta dei livelli o delle pause tra un’ambientazione e l’altra, ma è completamente lineare e il cambio di ambientazione non risulta mai forzato.
Dopo la pubblicazione di Limbo, sono nate diverse teorie sulla trama: c’è chi pensa che il protagonista sia morto e che abbia qualche “conto in sospeso”, rappresentato dalla figura della sorella, chi che entrambi i fratelli siano morti e che lui stia semplicemente cercando di ricongiungersi alla sorella, chi addirittura ipotizza che il mondo di Limbo sia stato creato dalla mente di un bambino che ha subito abusi o traumi. Gli sviluppatori non hanno rilasciato alcuna interpretazione ufficiale, e questi misteri rendono ancora più interessante un gioco che risulta in ogni suo aspetto suggestivo.
Ad amplificare la componente arcana del titolo c’è anche un comparto grafico che porta in scena un mondo di ombre interamente in bianco e nero con sfumature di grigio nel quale tutto appare rarefatto e indecifrabile: neanche il nostro protagonista ha un volto, risultando una mera sagoma vagante in un universo ostile. Nonostante l’uso dei colori risulti dunque estremamente essenziale, non si ha mai un senso di monotonia o di ripetitività, giovandosi di un art style accattivante e con ambienti eterogenei, da fitte foreste nere a fabbriche tetra passando per luminose insegne di Hotel.
Il comparto sonoro fa certamente il paio con quanto detto sinora: non troviamo alcuna pomposa o elaborata soundtrack, l’audio è essenziale ma efficace, basato su ronzii, scricchiolii, rumori ambientali e altri particolari che possono essere goduti al meglio giocando con dei buoni headset alle orecchie. Il principale difetto di Limbo risiede forse in una non sempre lineare armonia nella successione dei puzzle, che si fanno improvvisamente più complessi rispetto ai precedenti in certi punti (specie nella parte centrale); alcuni hanno visto anche dei difetti nella scarsa longevità e nella mancanza di una vera e propria trama, che sono però in realtà due tratti coerenti con le intenzioni dello sviluppatore: se da un lato, infatti, 4 o 5 ore di gioco risultano congrue in un titolo indipendente e zeppo di puzzle sfidanti, dall’altro la scelta di lasciare implicita una storia consente maggior spazio all’interpretazione dei giocatori e accresce il livello di suggestività dell’opera.
Con un’ambientazione accattivante e un sonoro minimale ma ricercato che si amalgamano benissimo in un’atmosfera inquietante e sinistra, Limbo è un titolo che unisce divertimento, ritmo e un buon livello di sfida, risultando uno dei migliori puzzle game degli ultimi anni, superato – fra i pochi – dal suo successore spirituale, l’acclamato Inside che, nella sua bellezza, serba un profondo debito nei confronti del titolo precedente.