Moonlighter

Da giocatori, o più precisamente da avventurieri, siamo stati in una marea di negozi, fra venditori più o meno tirchi per comprare o vendere oggetti. Ma vi siete mai chiesti cosa si prova a stare al posto del venditore? Come fa questi ad avere tanti begli oggettini da vendere? Per la prima volta potremo scoprirlo in Moonlighter, il piccolo miracolo indie della Digital Sun Games pubblicato da 11 Bit che incorpora parti action à la The Legend of Zelda, e dungeon per raccogliere tesori, e parti da business simulator in cui dovremmo vendere, in base alla domanda e al valore, tutto ciò che abbiamo saccheggiato (o parte di esso) e gestire il nostro negozio e il piccolo villaggio dove risiede il nostro Will. Il titolo è disponibile per Playstation 4, Xbox One e PC, e quest’ultima è la versione che prenderemo in considerazione.

Sogno di un commesso viaggiatore

Una notte, vicino al villaggio di Rynoka, appaiono dal nulla delle porte che conducono a dei dungeon, delle cripte in continuo mutamento piene di tesori preziosi; si formano così due squadre di esploratori contrastanti, i mercanti e gli eroi. Di questi non molti fanno ritorno e, con l’aumentare delle vittime, gli abitanti del villaggio decidono di chiuderne tutte le entrate. Senza tesori da vendere, Will, proprietario del negozio Moonlighter, vive giorni molto bui, ma un giorno, armato del suo coraggio e la sua voglia di seguire le orme del suo avventuroso padre Pete, decide di andare di entrare in un dungeon per cambiare la sorte della sua attività ed essere sia un eroe che mercante. Il gioco si alterna in sezioni diurne, nelle quali potremo aprire il negozio al pubblico e guadagnare più soldi possibili, e notturne, che sfrutteremo principalmente per andare a saccheggiare i dungeon. La loro forma richiama immediatamente quella del primo The Legend of Zelda (stanze rettangolari con quattro porte) ma la particolarità di queste cripte, così come accennato nella storia, è che a ogni nostro ingresso troveremo una struttura diversa; i dungeon si comporranno su tre livelli e, più scenderemo nel profondo, più rari saranno i tesori che troveremo (ma anche più resistenti e forti i nemici). Non troveremo mai porte da aprire con delle chiavi: è possibile infatti fiondarci direttamente all’ingresso delle sezioni successive, ma il tempo che dedicheremo all’esplorazione verrà ripagato col ritrovamento di ceste che conterranno dei tesori molto preziosi oppure oggetti che potremo usare per costruire armi, armature, migliorie per quest’ultime o creare delle pozioni. Il nostro inventario è composto da 20 blocchi (disposti a 5×4) ma il disporre i tesori all’interno di esso non è molto facile in quanto tutti gli oggetti che raccoglieremo dalle casse (che saranno sempre quelli che valgono di più o i più utili nel crafting) avranno delle maledizioni o degli incantesimi particolari: alcuni dovranno essere messi obbligatoriamente sul fondo o sulla cima della nostra borsa, altri distruggeranno un oggetto vicino quando usciremo dal dungeon oppure non appena gli troveremo una collocazione nella borsa, altri si romperanno se prenderemo troppi colpi e altri ancora rimarranno oscurati fino alla nostra uscita; a ogni modo, sempre dalle casse, avremo modo di raccogliere dei tesori intrisi da incantesimi che possono distruggere le maledizioni sopracitate (e dunque poter raggruppare un determinato numero dello stesso tesoro in un solo blocco), mandare i nostri ritrovamenti più preziosi direttamente al Moonlighter liberando la nostra borsa oppure addirittura trasformare un tesoro vicino in uno più prezioso. Se proprio non abbiamo più spazio per portare altri tesori possiamo “sacrificare” i tesori allo specchio magico che trasformerà istantaneamente i tesori in denaro; una meccanica semplice e intelligente purtroppo rovinata dall’assenza di un tasto “seleziona tutto”, che si traduce nel dover portare ogni singolo oggetto (o gruppo di oggetti) dallo slot dell’inventario, o cassa, allo slot dello specchio che si trova in basso a sinistra… per ogni singolo tesoro! La gestione dell’inventario, insieme all’azione vera e propria, è decisamente l’elemento più importante e bisogna sin da subito capire il meccanismo delle maledizioni e incantesimi per poter fare uscire dai dungeon più tesori possibili al fine di migliorare il nostro equipaggiamento sin da subito senza perdere troppo tempo; a tal proposito, non ci sono molti tutorial e, per quanto l’inglese utilizzato nel gioco non sia eccessivamente astruso, bisognerà comprendere il prima possibile questi meccanismi per non finire nel logorio di un grinding che potrebbe rivelarsi lungo, talvolta erculeo, in quanto i prezzi del fabbro che crea le armi e la strega che prepara le pozioni sono veramente tarati per un margine d’errore vicino allo zero!
Per questa ragione – dover guadagnare denaro di continuo per ottenere le migliorie necessarie – ci toccherà andare in uno stesso dungeon più volte, con il risultato di un gameplay ripetitivo, ma ciononostante piacevole, in un certo senso molto simile alla meccanica dei 3 giorni proposta in The Legend of Zelda: Majora’s Mask; capiterà spesso che, per esempio, arrivati alla terza sezione non saremo abbastanza forti o non avremo un armatura decente e perciò potremo uscire in qualunque momento offrendo dei soldi al talismano o al catalizzatore (catalyst) che, a differenza del primo, potrà farci tornare nella stessa stanza del dungeon dalla quale siamo usciti (e dunque senza doverlo ripercorrere dalla prima sezione). Gli altri due modi per uscire dai i livelli sono i più classici, ovvero uccidere il boss di fine livello, che ci farà avere accesso ai tesori più preziosi della cripta, oppure l’essere sconfitto in qualunque parte del dungeon, che comporterà la perdita di tutti gli oggetti nella borsa a eccezione dei primi cinque blocchi in alto che rappresentano le nostre tasche (è meglio dunque mettere in queste posizioni gli oggetti più importanti). Per non morire dovremo capire sin da subito che tipo di approccio vogliamo utilizzare: Will potrà portare due delle cinque armi proposte nel gioco, ovvero spada e scudo, lancia, spadone, artigli e arco e frecce, e a ciò consegue che il giocatore potrà scegliere tra stili di gioco diversi. Abbiamo un temperamento audace? Preferiamo sferrare pochi attacchi ma potenti? Contempliamo per lo più attacchi ravvicinati? L’arma di base sarà la spada e lo scudo ma ben presto, come scenderemo nel Golem Dungeon, avremo modo di prendere i primi materiali per poter costruire le restanti armi e capire velocemente quale stile di combattimento ci si addice di più, anche perché Moonlighter non è affatto un gioco facile; fino a quando, procedendo nel gioco e finendo nei dungeon successivi, non avremo un’armatura completa (e possibilmente omogenea visto che possiamo comporre delle armature di stoffa, acciaio o ferro) i nemici ci faranno sempre il cappotto e perciò avere una buona armatura fin da subito è fondamentale. Controllare Will è molto semplice: si muove e attacca esattamente come farebbe Link in titoli come A Link To The Past anche se l’esperienza è rovinata da una sorta di legnosità generale (persino all’interno dei menù); i comandi rispondono bene, ma alternare attacco e difesa risulta un po’ astruso, specialmente se si usano armi diverse dalla spada e lo scudo, che si richiama col tasto B se si usa un controller per Xbox. Con le altre armi, al posto di difenderci con lo scudo, è possibile sferrare degli attacchi speciali (caricati) e dunque mettere al tappeto i nemici in tempi più brevi; l’unica vera maniera per difenderci con le armi diverse dalla spada è il tasto RB che, in perfetto stile Link, farà allontanare Will con una capriola (che funzionerà ugualmente andando contro il nemico o tentando di superare un attacco a proiettile). Nonostante qualche piccola sbavatura, il gameplay puro risulta tuttavia molto piacevole, è molto soddisfacente uccidere i nemici per raccogliere i loro tesori e una volta abituati alla legnosità dei comandi si imparerà a sfruttare al meglio le capacità di Will; tuttavia, il gameplay all’interno dei dungeon non è che il 50% del gioco.

Che vada a lavorare!

Come abbiamo accennato prima, Will è il proprietario del negozio Moonlighter, che di giorno ci toccherà gestire accogliendo i clienti interessati alla nostra mercanzia. Ogni tesoro ha, diciamo, un valore oggettivo ma dovremo venderlo tenendo conto della domanda generale. Quando venderemo un oggetto per la prima volta, e dunque non ne conosciamo il giusto prezzo di vendita, dovremo fare attenzione alla reazione del cliente e, a seconda di questa, potremo ogni volta parametrarci. Ci sono 4 reazioni principali e saranno mostrate sul balloon al di sopra di ogni cliente intento a comprare un oggetto:

  • la prima ci mostra una faccina molto felice con degli occhi “a monetina”; questa reazione ci indica che il cliente ha trovato un oggetto a un prezzo stracciato e dunque, anche se faremo la sua felicità, la prossima volta che rivenderemo lo stesso oggetto ci converrà gonfiare un po’ il prezzo.
  • La seconda è una faccina normalmente felice; beccare questa reazione significa fondamentalmente aver trovato il prezzo perfetto e ci converrà mantenerlo a discapito della domanda.
  • La terza faccia è una faccina triste; solitamente il cliente eviterà di comprare l’oggetto ma è anche possibile che lo prenda ugualmente e lo pagherà per il prezzo stabilito. Tuttavia, se lo farà, farà abbassare la domanda generale e perciò quando vedremo un cliente reagire in questo modo e lascerà l’oggetto sullo scaffale ci converrà cambiare tempestivamente il prezzo prima che si verifichi lo stesso caso con uno che lo comprerà (ovviamente è possibile cambiare il prezzo durante le fasi di vendita).
  • L’ultima faccina è quella oltraggiata; se un cliente reagirà così di fronte a un oggetto significa che il prezzo supera di gran lunga il suo valore effettivo e perciò nessuno comprerà mai l’oggetto.

Tutti i dati che raccoglieremo sui tesori in fase di vendita, ovvero i prezzi correlati alle emozioni che vengono scaturite e il livelli della domanda, saranno segnati sul nostro quaderno del mercante e ciò ci sarà di grande aiuto sia in negozio che nei dungeon qualora ci troveremo nella situazione di dover scartare un oggetto in favore di un altro. A ogni modo, gestire un negozio (così come nella realtà) non consiste solamente nel piazzare degli oggetti sugli scaffali e nell’aspettare che i clienti vengano a comprarli; dobbiamo rendere l’ambiente piacevole e, come si solitamente si dice, avere gli occhi anche dietro la testa. È possibile anche intuire quale tipo di oggetto vogliono i clienti quando entrano (sempre da un balloon che appare sopra la loro testa), così come possiamo capire se qualcuno è intenzionato a rubare; noi non possiamo cacciare i ladri quando entrano ma dobbiamo stare attenti a non perderli di vista in mezzo alla folla e quando allungano le mani e tentano di scappare con la refurtiva dobbiamo fermarli tempestivamente con una capriola. Ai clienti, inoltre, non piace fare shopping in un ambiente scialbo e perciò dobbiamo fare in modo che si trovino a loro agio… così da far in modo che sborsino di più! Avremo modo di abbellire il negozio con oggetti da appoggiare al bancone o sui muri e ognuno di essi avrà un effetto particolare: alcuni faranno sì che i clienti lasciano una percentuale di mancia, altri fanno fanno scorrere il tempo più lentamente, altri diminuiscono i furti o fanno sì che in una giornata entrino più clienti del normale. Tuttavia nulla di tutto ciò è possibile fino a quando non apporteremo la prima modifica al negozio. All’inizio il nostro negozio sarà minuscolo e ci sarà spazio per giusto quattro oggetti per la vendita ma possiamo allargarlo utilizzando la bacheca al centro del villaggio dalla quale è possibile finanziare il proprio negozio per delle migliorie: queste includono l’allargamento del locale, l’aggiunta dei cesti per gli oggetti in offerta, casse più larghe per accumulare gli oggetti invenduti o quelli che ci servono per la creazione delle armi e pozioni, migliori letti, che ci faranno dormire meglio recuperando così della vita oltre il massimo, e migliori registratori di cassa per far sì che i clienti lascino una grossa percentuale di mancia (magari fosse così semplice nella vita vera). Un buon imprenditore però non è tale fino a quando non investe i propri soldi in altre attività; in Moonlighter avremo anche la possibilità di finanziare altre attività e queste ci daranno l’opportunità sia le fasi di vendita che la nostra esperienza nei dungeon. Dalla bacheca potremo finanziare un fabbro, che ovviamente ci costruirà le armi e le armature, un negozio di pozioni, un negozio simil Moonlighter che venderà gli stessi oggetti che troviamo nei dungeon (molto comodo se, per esempio, abbiamo bisogno di un certo materiale per costruire un arma e ci noia andare in un dungeon per un solo oggetto), un negozio per gli oggetti che servono ad abbellire il nostro locale e un banchiere che investirà un po’ del nostro capitale in altre attività e ce lo restituirà dopo sette giorni con gli interessi. L’esperienza commerciale di questo gioco è veramente curata e trasmessa con passione ma, un po’ come accade per le armi e le pozioni, il tutto è sempre collegato ai meccanismi dei tesori dei dungeon perché i prezzi, anche per i finanziamenti, sono tarati per un margine di errore pari a zero.

Venti di cambiamento

In termini di grafica Moonlighter ci delizia con una pixel art veramente deliziosa che si esprime nelle fasi di gameplay e  nelle brevi cutscene che mostrano delle immagini statiche (sempre molto belle). La grafica, in maniera generale, si rifà per lo più a The Legend of Zelda: the Minish Cap e ai giochi Pokémon della generazione del Gameboy Advance e perciò, nonostante la palette da 16/32-bit, personaggi e ambienti risultano molto curati, e dettagliati quanto basta. Non ci sono bug grafici di rilievo, e quelli presenti sono addirittura utili per avere un vantaggio con i nemici; in poche parole, è possibile (specialmente con lo spadone) colpire i nemici dalla parte opposta di un muro e rimanere protetti da (alcuni) attacchi nemici. Il titolo non si pone certamente come un gioco altamente realistico e dunque piccolezze come queste possono essere perdonate senza grossi compromessi e, in questi casi, persino sfruttate. La colonna sonora presentata è veramente deliziosa e tranquillamente accostabile a una di quelle di The Legend of Zelda; nulla al livello di Koji Kondo, ça va sans dire, ma i pezzi sono davvero ben composti, ben caratterizzati e anche ben registrati. Ci sono in totale quattro livelli, il dungeon di pietra, della foresta, del deserto e quello tecnologico, e pertanto i pezzi proposti sono molto vari e riescono a dare la giusta personalità, e persino serietà, ai determinati ambienti; ci sono bei pezzi orchestrali, riprodotti molto fedelmente, sfumature etniche, elettroniche nel dungeon tecnologico… insomma, si riesce a adattare perfettamente a ogni situazione regalando al giocatore un ottima cornice per un’avventura veramente particolare. Ogni dungeon ha sempre il suo tema e man mano si cambia di sezione varierà anche il tema, senza perdere le melodie portanti o il mood generale del pezzo; davvero molto ambizioso per un gioco indie. Unico problema, forse, è che si sarebbe potuto fare di più sul piano delle voci; non si chiedeva certamente un gioco interamente doppiato ma sentire anche un lamento da parte del personaggio principale sarebbe stata una buona implementazione. Abbiamo pertanto un personaggio con, sì, una personalità ben definita ma senza alcuna vera profondità; Will non si dimena quando dà un colpo di spada, non si lamenta quando viene colpito e non urla quando cade. Un po’ deludente come fattore.

Diamo a Will ciò che è di Will

Moonlighter è un gioco veramente curato in ogni dettaglio, è pieno zeppo di obiettivi, personalizzazioni, crafting e tanto altro. Può certamente interessare ai fan di The Legend of Zelda, gli amanti dei dungeon crawler e persino dei gestionali. Il solo problema di questo titolo, che sorprendentemente è al contempo anche il suo punto forte, è l’esubero di contenuti, non tanto perché risulti difficile stare dietro ai tanti obiettivi che il gioco ci pone, ma tanto perché è un po’ come giocare a Jenga! È davvero snervante andare in un dungeon con l’obiettivo di cercare un determinato oggetto che ci servirà per creare o migliorare un arma per poi uscire, ad esempio, con una quantità insufficiente oppure terminare una sessione di vendita e non avere ancora abbastanza soldi per poter finanziare un’attività o comprare qualcosa dal fabbro o dalla strega pur avendo i materiali. Insomma, se si fa qualcosa di sbagliato crolla tutto il resto! È importantissimo inoltre comprendere il funzionamento del sistema di maledizioni e di incantesimi dei tesori per fare più soldi possibili e purtroppo è molto difficile comprenderlo senza un tutorial o una vera guida.
Bisogna appunto essere molto pazienti con questo titolo, sperimentare, stare attenti alle icone e, in fase di vendita, alle reazioni, alle intenzioni dei clienti, e altro. Ci sono molte cose su cui dovremo istruirci, ma in Moonlighter saremo soli contro un sistema un po’ difficile da capire. Ma nella vita non abbiamo un tutorial, e anche per gestire un’attività bisognerà far ricorso a intelligenza e intuito.
È un titolo che o si ama o si odia, Moonlighter. Noi abbiamo più motivo d’amarlo, per la sua marcata personalità, per l’originalità e per meccaniche di gioco che sembrano non aver nulla in comune fra loro ma che in realtà si amalgamano molto bene. È uno Zelda-like molto più efficace e armonico di altri recentemente usciti come World to the West, che semplicemente soffrono di un’identità non troppo marcata. Speriamo solo che Moonlighter possa annoverarsi presto fra i grandi indie come Undertale, Axiom Verge o Limbo. Davvero sorprendente!




Achievement: motivano o frustrano?

Nel mondo dei videogiochi esistono due tipi di player: quelli che vogliono completare solamente la storia di un gioco e i cosiddetti “achievement hunter“, coloro che cercano in tutti i modi di completare al 100% un titolo al fine di sbloccarne tutti gli obbiettivi.
Ma da quando esistono gli achievement?
Per rispondere a questa domanda bisogna fare un tuffo nel passato e ritornare al lontano 1982, quando Activision decise di premiare i migliori punteggi con delle toppe, spedite a costo zero ai vincitori. Una bella iniziativa per l’epoca che ha portato molti giocatori a sfidare le proprie abilità per riuscire a battere il record. Purtroppo questa decisione ebbe vita breve, cessando di esistere, all’interno delle nuove uscite Activision, dopo un solo anno, nel 1983.
Nel nuovo millennio, con le nuove tecnologie, Microsoft  ha iniziato a implementare gli obiettivi nella sua console, iniziando l’era degli Achievement. Passeranno solamente un paio di anni prima che anche Valve faccia la stessa cosa, e l’anno successivo toccherà anche a Sony.
Al giorno d’oggi quasi tutti i giochi hanno degli obiettivi da completare per sbloccare una ricompensa, che potrebbe essere un trofeo, nel caso di Sony, o un punteggio, nel caso di Microsoft, persino i giochi mobile hanno degli achievement da sbloccare.

Ma tutto questo motiva i giocatori? Certo che sì: ricevere un premio per aver completato il gioco è sempre gratificante e, per la maggior parte dei giocatori, è come una sfida da dover superare per mostrare le proprie capacità, per sfoggiare quel trofeo tanto desiderato da tutti.
A oggi esistono moltissimi obiettivi, da quelli più semplici e facilmente ottenibili a quelli più complessi che richiederanno molto più tempo e concentrazione. Si va da quegli achievement basilari, che per essere sbloccarli basta solamente completare la storia, seguire un tutorial, fino ad arrivare a quegli obiettivi che hanno bisogno di una specifica difficoltà, di ottenere determinati oggetti o, ancora, di completare delle specifiche quest.
Gli obiettivi che riguardano la storia sono i più semplici da ottenere, ma gli altri saranno una vera sfida per chiunque voglia completarli. Molti achievement richiedono delle determinate abilità, che ogni giocatore dovrà sviluppare, come una sconfiggere un nemico con una combo d’attacco, l’uccisione di un boss con una determinata arma e, come in Kingdom Hearts I, completare il gioco senza cambiare equipaggiamento o completarlo in meno di 15 ore. Tutti obiettivi molto difficili, ma non impossibili. Purtroppo non esistono sono solamente questi tipi di trofei, in alcuni giochi: infatti, gli obiettivi disponibili fanno riferimento a scelte da compiere, capaci di intaccarne la narrazione – come se in Life is Strange ti imponessero di fare una determinata scelta, anche se questa avrà delle conseguenze all’interno del mondo di gioco –. Degli obiettivi, dunque, che mettono in difficoltà il giocatore, non facendogli godere appieno la propria avventura.
Ogni trofeo, obiettivo, achievement, qualsiasi sia il suo nome, offre un appagamento personale, il superamento di un livello, la sconfitta di un boss segreto o qualsiasi altra cosa motiva il giocatore, lo sprona a scoprire e giocare al 100% il titolo. Inoltre, per invogliare i giocatori Sony, ha da poco inaugurato un sistema tutto nuovo per l’ottenimento dei trofei, i quali forniranno una somma di denaro in base al punteggio ottenuto.
Ma purtroppo esiste anche un lato negativo degli achievement: molte software house implementato degli obiettivi solamente per rendere il gioco più lungo, magari riguardanti solamente alcune missioni secondarie o l’ottenimento di oggetti collezionabili.
Se Sony riuscisse a implementare questo nuovo sistema in tutto il mondo, riuscirebbe ad attirare più “achievement hunter” e allo stesso tempo molti titoli verrebbero giocati per mesi, anche dopo il loro completamento. Sicuramente una strada percorribile anche dalla concorrenza.




Il dietro le quinte della produzione Nintendo

Ogni anno, le società statunitensi quotate in borsa presentano dei rapporti alla Securities and Exchange Commission (CSR) riportanti nel dettaglio le origini dei minerali utilizzati nei loro prodotti e i relativi paesi di estrazione. Sebbene non sia obbligato a presentare il proprio rapporto negli Stati Uniti, Nintendo lo ha comunque consegnato e sfortunatamente, non è migliorato molto dall’anno scorso.
Infatti i minerali utilizzati dalla casa giapponese per i loro prodotti, sono estratti in concentrazioni elevate in alcune regioni in stato di conflitto dell’Africa. I minerali estratti più comuni sono oro, stagno, tungsteno e tantalio. Queste materie prime vengono estratte da gruppi di schiavi, che poi vendono per finanziare conflitti armati continuando ad alimentare questo circolo vizioso che ha come perno le continue violazioni dei diritti umani.

Questi minerali sono necessari per produrre molti prodotti che usiamo quotidianamente, tra cui varie tecnologie e console di gioco. Dato che i clienti non hanno modo di sapere se il loro Amiibo viene prodotto attraverso il lavoro degli schiavi, spetta alle aziende essere trasparenti riguardo alle loro linee di rifornimento. Ciò significa anche esercitare pressioni sui propri fornitori, che a loro volta devono svolgere la dovuta diligenza assicurando che le fonderie o i raffinatori (SOR) che ricevono minerali siano esenti da conflitti. Spesso, questo viene fatto tramite un sondaggio annuale inviato dalla società ai fornitori, i quali quindi segnalano se i raffinatori sono stati certificati senza conflitti dall’Iniziativa dei Minerali Responsabili (RMI) o da un gruppo simile. Tuttavia, alcune aziende registrano tassi di rendimento dei sondaggi scadenti che, purtroppo, non riescono a reprimere ogni anno. Anche altre società hanno avuto questo genere dilemma etico, come Apple, Sony e Microsoft, ma i risultati dei rapporti CSR andavano dal record stellare di sourcing etico appartenente ad Apple ai bassifondi etici di Sony e alle sue decisioni vaghe e inefficaci nell’affrontare il problema. Nonostante Nintendo in quel momento avesse già re-inviato il proprio rapporto CSR, con una contabilità più dettagliata dei sondaggi sui minerali estratti, la documentazione non fornì i dettagli dei minerali fino alla fine di luglio.



Nintendo, nel 2014, iniziò col piede sbagliato: stando a quanto riportato, si poteva solo certificare che il 47% dei suoi SOR non stavano commettendo violazioni dei diritti umani. Il numero è migliorato nettamente nel rapporto 2015, con il 72% dei fornitori di Nintendo certificati esenti da conflitti. Nel 2016 rallentò con una crescita misera fino al 74%. Nintendo sembra comunque essersi presa l’impegno di ottenere un tasso di rendimento del 100% dai suoi fornitori, un ottimo segno di speranza per l’etica della società.
Sfortunatamente, anche il miglioramento del rapporto del 2017 è stato lieve in cui Nintendo si è limitata a vedere il 76% dei suoi SOR senza conflitti. Dei 339 SOR, 320 erano nell’elenco standard e 256 di questi erano certificati o in procinto di esserlo. Sebbene ci sia un miglioramento, Nintendo punta ai numeri di Microsoft in termini di percentuale di certificazione, che si aggirano intorno all’80-89%. Purtroppo i livelli di certificazione di Sony sono ancora sconosciuti.
Nonostante le promesse della grande N, questa crescita non sembra ancora esserci. Come parte dei report archiviati negli Stati Uniti, le aziende sono tenute a identificare le origini delle materie prime per ottenere la certificazione SOR e in seguito definire le misure di azione per risolvere eventuali problemi. Nintendo, in mancanza di tali requisiti, ha fornito solo la seguente riga per indicare quale potrebbe essere il piano per affrontare il potenziale lavoro degli schiavi nella sua linea di produzione:

«Abbiamo valutato i risultati e condotto interviste dirette con i fornitori e raffinatori ad alto rischio per capire accuratamente la situazione e mirare a risolvere il problema.»



Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




Ninja Theory e il “pericolo” Microsoft

Come abbiamo appreso durante l’ultima conferenza E3 di casa Microsoft, l’azienda americana ha voluto ampliare la propria potenza di fuoco, acquisendo e mettendo sotto la propria egida diverse software house che non avevano ancora grossi finanziatori alle spalle. Inutile dire che il più rilevante, il nome più chiacchierato, sia Ninja Theory, che recentemente è riuscita a raccogliere enormi apprezzamenti grazie al suo ultimo capolavoro Hellblade: Senua’s Sacrifice, un gioco sconvolgente, vincitore di diversi premi e straordinariamente sviluppato da poco più di 20 persone. Ninja Theory è dell’idea che giochi come questo sarebbero classificabili come “indie AAA” – o tripla A in gergo – Hellblade: SS è la prova che non è sempre necessaria una grossa casa alle spalle e che questa sia la direzione giusta per essere competitivi.

Non è difficile capire perché Ninja Theory sia stata abbracciata da Microsoft: per far fronte alla enorme quantità di titoli first party della controparte Sony, il colosso americano doveva necessariamente allargare i propri orizzonti, e quale miglior modo se non quello di acquistare una delle software house più promettenti del momento? Il developer inglese è stato scelto in base a diversi parametri, quali l’ottimo settore narrativo, lo sviluppatissimo sistema mocap (motion capture) e un lavoro globale di grande qualità, fra un ottimo team interno e collaboratori come Andy Serkis e Alex Garland che hanno impreziosito il piano narrativo dei lavori di Ninja Theory, titoli che hanno lasciato il segno nella old generation come Heavenly Sword, Enslave: Odyssey to the West, DmC: Devil May Cry.

Anche dopo l’acquisizione, la software house ha manifestato l’intenzione di difendere strenuamente il proprio team, e in un’intervista rilasciata a Kotaku, il creative director Tameem Antoniades non risparmia una dichiarazione d’intenti sul futuro:

«Vogliamo essere liberi dalla trappola dei tripla A, vogliamo sviluppare titoli che siano incentrati sull’esperienza di gioco e non sulla monetizzazione. Vogliamo correre dei grandi “rischi creativi” per sviluppare giochi che possano definire un nuovo genere. Il nostro intento è quello di fare dei nostri giochi a modo nostro, non vogliamo che qualcuno ci dica cosa o come dobbiamo fare. Soprattutto  vogliamo continuare a fare quello che vogliamo, è un modo di proteggere il nostro team, la nostra cultura e la nostra identità perché, finora, tutto ciò ha costituito l’essenza di Ninja Theory. In parole povere, stiamo chiedendo la completa indipendenza creativa.»

A questo punto il direttore commerciale, Dominic Matthews, aggiunge:

«La risposta di Microsoft è stata, a tal proposito, che possiamo fare quello che vogliamo, ma che se lo desideriamo potremo appoggiarci al loro reparto commerciale o avere un team di supporto, o ancora utilizzare il reparto di R&D Technology e avere un completo supporto per fare più di quello che vogliamo e come noi lo vogliamo.»

Proprio per questo motivo, in ragione della promessa di Microsoft di garantir loro la libertà creativa combinata a una maggiore stabilità economica, il team di Antoniades è stato ben felice di entrare a far parte del gigante di Redmond.
A questo punto la domanda è se Microsoft, investendo denaro sulla software house britannica, lascerà davvero a Ninja Theory tutta la libertà promessa, o se le esigenze di mercato costringeranno a paletti e limitazioni.

A diverse promettenti software house non è andata benissimo una volta entrate nell’organico di Microsoft. Neanche a dirlo, Rare era una pietra preziosa tra le case di sviluppo britanniche, ma dopo l’acquisizione da parte della casa di Redmond non sono andate per il meglio, fino a essere relegata per anni nello sviluppo di avatar e di giochi per Kinect, tornando solo di recente con Sea of Thieves. Di certo in molti ricorderanno un’altra perla britannica, quella Lionhead Studios che diede alla luce a uno dei migliori RPG di sempre, Fable. Quando nel 2006 lo studio venne acquisito da Microsoft, per i successivi 10 anni fu impegnato nello sviluppo dei sequel di Fable, fino a che non gli venne imposto di lavorare anche a un ulteriore gioco per Kinect, Fable Legends. A quanto pare Microsoft pretese che lo studio lavorasse al progetto nonostante questi obiettassero di non avere alcuna esperienza su questo tipo di sviluppo, seguendo la tendenza del fornire necessariamente i “giochi come servizio”. Ne scaturì che, dopo anni di sviluppo, ovviamente problematici, nel 2016 Microsoft decise di chiudere lo studio e annullare di conseguenza anche il progetto Fable Legends.

Questo trend è stato la principale causa della chiusura di Lionhead, una delle software house più promettenti della storia videoludica. Alla luce dei fatti odierni e di come Kinect si sia man mano defilato dalla scena, possiamo dire che sia stata una delle sviste più grandi di sempre. È giusto notificare che le nuove console della casa, Xbox One S e Xbox One X, hanno “sacrificato” la porta per la periferica Kinect, per una questione stilistica di spazi ridotti, costringendo i già pochi possessori dell’accessorio, a dover spendere altro denaro per l’acquisto di un adattatore esterno. Al momento i giochi new-generation compatibili con la periferica si contano sulle dita di una mano.

Probabilmente è proprio alla luce di questi avvenimenti che i fan di Ninja Theory si sono tanto preoccupati per la loro scelta. Ovviamente speriamo davvero che Microsoft manterrà le sue promesse e che valorizzi i creatori di Hellblade, ma c’è da chiedersi per quanto tempo. Cosa succederebbe se il prossimo titolo della casa non riuscisse a vendere quanto sperato? Microsoft lascerebbe comunque lo spazio creativo promesso, oppure intercederebbe prendendo le redini dello sviluppo futuro?

Ninja Theory adesso ha accesso a una fonte ingentissima di investimenti ma , come scrive Orson Welles, «l’assenza di limitazioni è nemica dell’arte». E a ben vedere, parole simili le usò anche Antoniades per Hellblade:

«Io credo sia stata la forte mancanza di fondi e forza lavoro a rendere questo gioco innovativo, questo, ha reso anche il team innovativo.»

C’è da sperare che l’abbondanza non sia quindi controproducente per i ragazzi di Ninja Theory e che possa essere solo un apporto positivo per i loro progetti futuri, augurando loro di sfatare anche quella che in parte sembra essere una maledizione di Microsoft di cui sono state vittima promettenti software house.




Milanoir

Si dice che in un film noir che si rispetti non ci sono “buoni” e “cattivi” ma solamente “cattivi” e “peggiori”, personaggi che potremmo amare in un momento ma che in seguito potremmo persino arrivare a odiare. Le atmosfere dei crime drama e polizieschi noir italiani degli anni ’70, l’epoca d’oro di certi film, riprendono vita in questo nuovo top-down shooter 2D sviluppato da Italo Games; stiamo appunto parlando di Milanoir, un gioco tostissimo, dal carattere originale e dalle tematiche molto forti (tanto che in Europa ha ricevuto il PEGI 18). Tramite gli occhi del nostro protagonista, vedremo il lato oscuro della brillante Milano, nei quartieri in cui il crimine dilaga e il braccio della legge fatica ad arrivare. Il gioco è disponibile su PlayStation 4, Xbox One e da poco anche su Nintendo Switch ma noi prenderemo in esame la versione per PC.

La guerra di Piero

Sin dai primi momenti il gioco ci porta in quella che è la Milano degli anni ’70: una città brulicante di vita ma che cela un animo oscuro nelle sue vie peggiori, strade in cui le piccole gang si contendono il territorio a colpi di pistola e dove pullulano Vespe Piaggio, ubriaconi e prostitute straniere. Il nostro Piero Sacchi, milanese di nascita, sa bene come vanno le cose nei quartieri bassi ma almeno è sicuro di frequentare le persone giuste, ovvero la banda del boss Nicola Lanzetta di cui è il killer numero uno e anche il braccio destro. La cosa lo riempie d’orgoglio e non c’è occasione in cui non sbatta in faccia la situazione al Torinese, il suo rivale giurato; tuttavia, una sera, le cose si mettono male per il nostro protagonista e ben presto si troverà in un guaio che lo macchierà a vita, generando in lui un forte desiderio di vendetta. Sin dai primi momenti verremo catapultati in una Milano malfamata e piena di problemi, per causarne ancora di più in nome del clan dei Lanzetta; col progredire della storia ci troveremo dunque a far fuori altri boss di quartiere, bracci destri e killer spietati ma avremo anche modo di conoscere altri misteriosi personaggi che daranno sempre più profondità alla più che profonda storia che ci viene proposta. I controlli sono più da FPS che da twin-stick shooter, al contrario di quanto ci si aspetterebbe da un gioco che propone una prospettiva bird eye; l’opzione che più si addice a questo tipo di gioco è quella di usare mouse e tastiera per muoverci in ogni direzione (limitate sempre alle otto direzioni concesse dai quattro tasti) e mirare con molta facilità mettendo il puntatore al di sopra del nemico. Col joypad ci si può muovere con più precisione ma mirare non è proprio semplicissimo. Come abbiamo detto prima, ci aspettavamo dei controlli più in linea con i twin-stick shooter ma invece abbiamo un sistema che semplicemente sostituisce il puntamento del mouse con la levetta destra del controller e ci duole dire che non è il massimo. Il mirino non torna in una posizione di default, né funziona come abbiamo visto in giochi come Tower 57 o nella versione per console di Hotline Miami; tuttavia, un sistema di controllo analogo a quest’ultimo lo troviamo durante le sezioni sui veicoli, e ci chiediamo come mai non sia stato implementato nel resto del gioco. Il controllo col joypad non è comunque totalmente debilitante in quanto è presente anche un sistema di mira automatica quando un bersaglio sarà sulla linea di tiro di Piero (e anche visibile); inutile dire che entrambi i metodi sono buoni ma, viste le scelte dei programmatori, è meglio utilizzare mouse e tastiera.
Il gameplay che ci viene proposto è tipicamente da top-down shooter, giusto con una punta di stealth e concentrato per lo più sullo storytelling e non totalmente sull’azione (o tanto meno sul realismo di quest’ultimo); dovremo superare intere orde di sgherri muniti di pistole, fucili, coltelli e quant’altro alternando in maniera più equilibrata possibile copertura e azione. Coprirsi dietro casse, muretti e quant’altro è importantissimo al fine di rimanere vivi poiché a ogni schermata potrebbe presentarsi un vero inferno e noi, con la nostra sola pistola (che nonostante le munizioni infinite dovremo sempre ricaricare manualmente), potremo non farcela. Di fronte a questi scenari possiamo appoggiarci alle armi secondarie ma, dal momento che non appaiono frequentemente, i nostri più grandi alleati saranno i cartelli stradali… Avete capito bene! È possibile che certi obiettivi non siano raggiungibili tramite un colpo diretto e andare in avanscoperta per stanarli potrebbe risultare molto rischioso; perciò, se nelle vicinanze c’è un cartello stradale, è possibile sparargli per far sì che il nostro proiettile colpisca automaticamente un obiettivo con un rimbalzo. È una meccanica che si ripete molto spesso nei livelli, è ben implementata e risulta persino varia: quelli rotondi permettono di centrare un obiettivo, quelli rettangolari due e il segnale dello stop arriva fino a sei bersagli. Lo stesso non si potrebbe dire per ciò che riguarda le armi secondarie vere e proprie, ovvero il revolver, le molotov e le granate: nulla a che vedere con la loro utilità in battaglia dal momento che funzionano a dovere e sono divertenti da usare (soprattutto il primo che permette di far fuori più nemici con un solo proiettile) ma sono generalmente pochi e poco frequenti. E parlando di povertà nel comparto delle armi secondarie ci tocca anche parlare della povertà del gameplay in generale; non fraintendeteci, ci siamo divertiti moltissimo con Milanoir, ma semplicemente è un gioco tendenzialmente statico e le sue sezioni si ripetono troppo spesso. Non che i livelli si somiglino, ma alla lunga si percepisce una forma di monotonia che potrebbe farci completare parte dei livelli un po’ controvoglia, specialmente le sezioni un po’ troppo difficili (come la boss battle contro l’Africana nel Pirellone); in ogni caso, la modalità principale è giocabile per due giocatori e può restituire un po’ di divertimento in più e magari alleggerire alcune parti snervanti. Sempre in due (o da soli) è possibile fare del nostro meglio nella modalità arena: ci ritroveremo catapultati in alcune schermate in cui i nemici arriveranno a orde e a noi toccherà farne fuori il più possibile tentando di sopravvivere più a lungo. Questa modalità è ovviamente collegata con una dashboard online che raccoglie tutti i punteggi migliori e, con un po’ di fortuna, potreste risultare fra questi (noi, al momento, siamo quindicesimi a San Vittore… Mica siamo molli noi)! Comunque, anche se il gameplay non entusiasma particolarmente, ciò che in Milanoir spicca particolarmente è senza dubbio la sua storia; il titolo ha un carattere cinematografico ben distinto ma soprattutto ben implementato, e la sua grafica pixellosa o l’assenza di doppiaggio non saranno ostacoli per godere dello splendido storytelling proposto. Anche se la sua azione è buona ma statica, la sua trama sembra sia stata scritta originariamente per essere un noir italiano degli anni ’70 e ogni scena, che sia un intermezzo o un gelido omicidio, riesce a tenerci incollati allo schermo, ci entusiasma, forse a volte ci sdegna, tanto da voler conoscere a tutti i costi il risvolto della storia; vorremo sapere fin dove Piero sia disposto a spingersi per la sua reputazione (o forse per la sua sopravvivenza), chi sono i fautori dei nostri guai o semplicemente conoscere il luogo della prossima sparatoria (visto che è sempre un piacere giocare con un titolo di cui conosciamo i luoghi). Probabilmente, l’unica cosa in più che si sarebbe potuta fare a livello di storytelling sarebbe stato immettere delle scelte di dialogo e bivi decisionali per ottenere dei finali e livelli alternativi, ma in fondo è stato meglio lasciare una trama lineare; anche se certe volte quasi ci disgusterà utilizzare Piero, questo serve a mantenere intatta la sua “brutta” personalità, a restituire a noi giocatori l’esatta visione dei programmatori dietro a questo spettacolare gioco ma soprattutto a restituire quella magia dei vecchi polizieschi. Insomma, per intenderci, gli amanti di Breaking Bad hanno amato e odiato al contempo Walter White, e questo è quel che probabilmente volevano generare gli sviluppatori nei confronti di Piero.

Gli italiani lo fanno meglio

Il gioco, realizzato col motore grafico Unity, propone una pixel-art veramente deliziosa, molto colorata ma che restituisce ugualmente quel senso di buio e sporcizia di determinate zone di Milano all’epoca del banditismo. Lo stile dei personaggi ha un che di Leisure Suit Larry, magari un tributo per rendere al meglio “quella” scena di nudo all’inizio del gioco; in relazione alla scelta stilistica, i personaggi sono ben disegnati e hanno tante caratteristiche curiose (che potranno essere notate ancora meglio osservando bene gli artwork quando prendono la parola i character). Coloro che annoverano Milano Calibro 9 fra i propri film preferiti, ispirazione fondamentale per la produzione di questo titolo, non potranno fare a meno di notare il giubbotto rosso di Piero, chiaro rimando alla figura misteriosa che seguiva il protagonista Ugo Piazza, o l’innegabile somiglianza fra Tony, il compagno di crimini del nostro protagonista, e Rocco Musco; inutile sottolineare le analogie fra le figure del boss Lanzetta e Ciro con i loro corrispettivi Vito Corleone e Alberto, interpretati da rispettivamente da Marlon Brando e Mark Margolis ne Il Padrino e Scarface. Bisogna dire che Emmanuele Tornusciolo, mente dietro la storia e dietro al game design generale, ha davvero degli ottimi gusti in termini di cinema, così come, sicuramente, il resto del team composto da Gabriele Arnaboldi (codici e direzione tecnica) e Giuseppe Longo (pixel-art e animazione). Gli scenari, in termini di bellezza, spiccano un po’ di più rispetto alle caratterizzazioni dei personaggi; nulla che risulti poco armonico, ma sicuramente gli ambienti risultano più curati, molto chiari e meno limitati in quanto a colori e a dettagli. È senza dubbio un piacere seminare il panico fra molte località famose di Milano come il Viale Monza, il Pirellone, il carcere di San Vittore, le Colonne, il Parco Lambro, il Giambellino e persino i Navigli; ovviamente le strade non sono geograficamente precise, ma tutti i tratti distintivi sono stati correttamente accentuati per restituire in tutto e per tutto le atmosfere tipiche di questi luoghi. Non sarà mai un problema, inoltre, ripararci laddove pensiamo il fuoco nemico non possa arrivare; gli elementi ambientali, come le casse, i bidoni dell’immondizia, i muretti e tutto ciò che pensiamo possa offrirci riparo, funzioneranno a dovere e questo permette un gameplay molto dinamico e intuitivo. Abbiamo trovato solamente due problematiche relative alla codifica di alcuni ambienti: nella zona del mercato ci è capitato di camminare letteralmente su un muro e raggiungere punti della schermata che dovevano rimanere inaccessibili (insomma, indossiamo un giubbotto rosso ma siamo solamente Piero, mica Peter Parker!) mentre al Duomo, durante la battaglia finale, siamo riusciti a far fuoco attraverso un muro rimanendo protetti, regalandoci praticamente un incredibile vantaggio contro il boss finale e i suoi sgherri (e ovviamente non vi diremo qual è!). Speriamo che Italo Games possa riparare presto queste piccole imperfezioni con una semplice patch.
Ad accompagnare queste belle visual c’è ovviamente una solida colonna sonora; anche qui, così come per la storia e per la grafica generale, si tenta di a larghe linee di mantenere lo stile di quelle dei film noir italiani, con un pianoforte dal sound misterioso e sfumature di flauto che rimandano, chiaramente, agli Osanna (gruppo di Progressive Rock napoletano che eseguì la colonna sonora, composta da Luis Enriquez Bacalov, del leggendario film). Bisogna ammettere che molti brani sono ben composti e riescono nell’intento iniziale, quello di farci tornare in quegli anni ’70 di fuoco, ma in alcuni brani ci sembra ci siano alcuni elementi un po’ troppo moderni (o non appartenenti a quell’epoca) che risultano un po’ fuori contesto. Magari sono false sensazioni ma, probabilmente dopo aver giocato a un’altra rievocazione di pezzi d’Italia di un altro tempo come in Wheels of Aurelia, ci aspettavamo un’operazione molto simile.

Un capolavoro mancato

Nel panorama dei videogiochi indipendenti italiani Milanoir ha un carattere fortissimo, un gioco che riesce a mostrare quel marcio che affligge nostra amata penisola senza però utilizzare stereotipi o forzature che troviamo spesso in alcuni film o, ancora più spesso, nelle fiction italiane. Lo storytelling di questo titolo è senza dubbio il punto forte, l’elemento al quale sicuramente è stato dedicato più tempo. Sfortunatamente, anche se la sua azione è molto intensa e gli ambienti molto differenziati, il suo gameplay risulta statico, dicevamo, sostanziandosi in sequenze in cui si cammina, si spara e si va in copertura: oltre c’è ben poco, sul piano  della giocabilità. La meccanica dello stealth e le sezioni in movimento sono graziosamente rese ma purtroppo non riescono a dare ulteriore profondità a un gameplay che non stupisce e non rende giustizia a un’ottima trama. È vero che più avanti la nostra pistola verrà sostituita da un uzi ma ci sarebbe piaciuto poter utilizzare molte più armi, magari scegliendole da un menù, e trovare un gameplay più vario, aver magari la possibilità di interagire con NPC nel tentativo di raccogliere informazioni e oggetti, scassinare porte, poterci trovare di fronte a degli incroci e scegliere un passaggio invece di un altro; il potenziale c’era e il titolo propone meccaniche un po’ troppo semplici che, per quanto statiche, divertono comunque molto. Sarebbe però servito veramente poco per rendere il gameplay di Milanoir un po’ più vario e completare l’opera e rendere il titolo un piccolo capolavoro.
Il prezzo, sia su Steam che nel Nintendo E-Shop, non è per niente proibitivo è con poco potrete portarvi a casa un gioco che merita davvero.
Milanoir è in ogni caso un ottimo punto di partenza per Italo Games, che ci porterà certamente a tenere d’occhio i loro futuri lavori che, sfruttando il potenziale visto in questo primo titolo, potranno risultare certamente interessanti, anche al di fuori del panorama videoludico italiano.




Videogames e disabilità: i passi avanti di Microsoft

Di recente, Microsoft è divenuta punto di riferimento contro la disabilità. Infatti, il colosso californiano, ha recentemente mostrato al pubblico l’ Xbox Adaptive Controller, accessorio che permette agli utenti disabili di poter giocare grazie alla possibilità di modificare i vari input a seconda delle loro necessità. Tara Voelker, gestore del progetto, ha rivelato la sua intenzione di creare dei “corsi” per gli sviluppatori, così da poter dare loro dei consigli al fine di rendere anche i giochi stessi più accessibili. La stessa, ha inoltre ribadito:

«I giochi non sono solo intrattenimento, fanno parte della nostra cultura, sono un modo di socializzare e persino un mezzo di fuga: i giochi possono essere terapeutici e possono aiutare nella gestione del dolore.»

Il dispositivo creato da Microsoft, durante l’E3, ha riscosso tantissimi feeback positivi e ha, inoltre, vinto tantissimi premi.

Secondo la Voelker, l’aggiunta da parte della società di avatar che possono usufruire di una sedia a rotelle o un arto artificiale è importante tanto quanto il loro controller. Infatti, secondo quest’ultima, la possibilità di poter inserire questi “accessori” al proprio avatar può dare una possibilità d’espressione in più, cioè, è un modo di mostrare la propria identità.
Durante un’intervista, Phil Spencer, direttore della società nel settore gaming, ha mostrato la sua disponibilità nel condividere gli insegnamenti derivanti dall’Adaptive Controller con chiunque voglia imparare e perfezionare quello che ha creato la sua compagnia. Voelker, ha inoltre affermato che le piacerebbe vedere un feedback da parte degli sviluppatori stessi con l’aggiunta dei controlli rimappabili. Secondo Tara Voelker, gli sviluppatori possono fare la loro parte anche senza la necessità di un hardware specializzato, integrando più personaggi affetti da disabilità così da agevolare l’ingresso nel mondo del gaming.




Altri 10 giochi interessanti dell’E3 2018

Vi avevo descritto ed enunciato, in un precedente articolo, quelli che erano i 10 giochi più interessanti dell’E3. Le pretese di esaustività in certi articoli stanno a zero, perciò mi ero riservato di selezionarne altrettanti.
La fiera di Los Angeles è ormai terminata da tre settimane, ed è un buon momento per chiedersi quali, dei titoli restanti, siano rimasti impressi, e su quali la curiosità permanga ancora.

Two Point Hospital

Annunciato mesi fa e ripresentato al PC Gaming Show, non smette di destare interesse di trailer in trailer: il successore di Theme Hospital (sviluppato da Two Point Studio e pubblicato da SEGA) si presenta ricchissimo, alternando una grande cura dell’impianto gestionale  “classico” della struttura ospedaliera con una serie di situazioni surreali destinate a renderlo soltanto più vario, come hanno mostrato la community manager Lauran Carter e il brand manager Craig Laycock nell’ultimo, spassoso trailer rilasciato proprio ieri.

Ooblets

Sviluppato da Glumberland, Ooblets è un life simulator sulla falsariga di Harvest Moon e Animal Crossing con un tocco di Pokémon, che gode di un art-style giocoso e un immaginario di grande varietà. Vi stupisce che abbia voluto pubblicarlo Tim Schafer con la sua Double Fine?

The Quiet Man

Il titolo richiama alla mente un vecchio film di John Ford, ma il setting narrativo sembra allontanare ogni accostamento. Del gioco si sa pochissimo, tranne quel che ha detto Square Enix, che, dopo averlo presentato nel corso di una conferenza a dire il vero un po’ sottotono, di The Quiet Man dice: «porta i giocatori al di là del suono con un’esperienza cinematografica narrativa e coinvolgente che può essere completata in una sola partita. Il gioco unisce alla perfezione delle scene reali in altissima qualità, delle immagini realistiche in computer grafica e azione al cardiopalma.»
E questo, unito a un trailer assai interessante, ci pare abbastanza per tenerci gli occhi puntati.

Jump Force

I crossover costituiscono sempre un enorme rischio, sempre in bilico tra il grande ed esaltante mash-up e un confusionario potpourri. Ma pare difficile si possa mancare il colpo quando metti insieme in un roboante fighting game alcuni dei più personaggi principali dei migliori manga e anime del momento. Il trailer lanciato nel corso della conferenza Microsoft mostra character da IP come Dragon Ball Z, One Piece, Naruto e dal più recente Bleach, con combattimenti che comprendono anche sessioni 3v3.
Scaldate i palmi delle mani, ci sarà da divertirsi.

Noita

La pixel-art è uno dei trend del momento, in campo videoludico, quasi una moda. Noita sembra accodarsi all’effetto nostalgia con un roguelike dungeon-crawler che richiama visivamente svariati titoli retrò. Ma se vi dicessi che ogni pixel su schermo è in realtà “simulato”? Il gioco fa infatti leva su principi della fisica e della chimica per permettere al nostro protagonista di variare ogni singolo quadratino. Esplosioni, rocce impazzite, fiamme, liquidi, sangue… ogni cosa potrà servire all’interazione con il mondo di gioco. E i risultati sembrano pazzeschi già dal trailer.

Hitman 2

È arrivato così, alla fine del PC Gaming Show, zitto zitto: dopo una prima stagione di buon successo, l’Agente 47 ritorna sviluppato dalla solita IO Interactive ma questa volta pubblicato da Warner Bros. Interactive Entertainment, includendo modalità d’assassinio in cooperativa e almeno 6 location diverse sin dalla release.
Imperdibile.

The Sinking City

I videogame tratti dall’opera letteraria di H.P. Lovecraft non hanno alle spalle una storia fortunata, pochi quelli davvero riusciti sul piano autoriale, e difficilmente hanno avuto un buon successo commerciale. Con questa avventura in terza persona, gli ucraini di Frogwares vogliono fare meglio dei predecessori, offrendo un titolo open world molto esplorativo e ampiamente focalizzato sull’investigazione.

We Happy Few

Sviluppato da Compulsion Games e pubblicato da Gearbox Publishing, questo controverso titolo è ambientato alla metà degli anni ’60, in un’ucronia che vede un diverso esito della seconda guerra mondiale. Nell finzionale icttà di Wellington Wells (anch’essa distopica, ça va sans dire), buona aprte degli abitanti è dipndente da una droga allucinogena che li obnubila, rendendoli facilmente manipolabili. Il gico comibina caratteersithce RPG, survival e alcuni elementi roguelike in un prospettiva in prima persona e con forte attenzione alla narrativa. Elementi che ce lo fanno sembrare molto, ma molto appetibile.

Babylon’s Fall

E arriviamo al classico last, but not least”: Babylon’s Fall sembra collegarsi ad Attack on Titan, come suggerisce il riferimento all’impero Helos. Nel trailer abbiamo una cronologia degli eventi che porta fino allo scontro armato fra due giganti. Insomma, le informazioni non sono tante: ma a pubblicarlo è Square Enix e, soprattutto, a svilupparlo è PlatinumGames. Vorremmo negare fiducia Kamiya e al team che ha creato Nier: Automata e la saga di Bayonetta?




Microsoft mette da parte i piani VR per Xbox One

Il chief marketing officer per il gaming di MicrosoftMike Nichols, ha rivelato ai colleghi di Gamesindustry.biz che l’azienda statunitense non intende, almeno per il momento, sviluppare un visore VR per Xbox One. Ciò significa che se Halo fosse sviluppato per questa tecnologia, i giocatori Xbox verrebbero tagliati fuori, a vantaggio di quelli PC che potranno utilizzare visori Oculus HTC. Tuttavia la Mixed Reality,  in grado di unire reale a virtuale, come dimostrato da HoloLens, verrà comunque sviluppata, e secondo i fan sarebbe già in arrivo. Riguardo il settore VR, per Sony, le vendite di PlayStation VR sono state inferiori alle previsioni di mercato, e potrebbe essere per questo motivo che Microsoft non vuole andare in avanscoperta, lasciando fare il lavoro pesante a Oculus e HTC.




E3 2018: tirando le somme

L’E3 è terminato da appena qualche giorno e, come ogni anno, eccoci qui a tirare le somme. Nei suoi due distinti macromomenti — uno all’interno dei padiglioni, dove era possibile toccare con mano le novità di developer grandi e piccoli e platform holder, l’altro che ha anticipato il momento della bolgia fieristica e che è sempre un nodo cruciale sul piano mediatico e di marketing, quello delle conferenze — l’Expo di Los Angeles riveste sempre un’importanza non da poco in termini di vetrina. Proprio il secondo momento risulta importante ormai da decenni per i partecipanti, dovendo calibrare attentamente i contenuti e studiando i messaggi da veicolare, con risultati di anno in anno altalenanti per ogni operatore.

Quest’anno si è mostrato al solito interessante sotto vari aspetti ed è utile tirare un po’ le fila di quanto visto.

Ad aprire le danze è stata la conferenza di Electronic Arts, che si è svolta in maniera tutto sommato prevedibile: è stata occasione di presentare la nuova edizione delle consolidate IP sportive (Madden NFLNHLNBA Live e l’immancabile Fifa, quest’anno impreziosito dalla Champions League), e per  rilanciare gli shooter, dal nuovo Battlefield, ambientato stavolta nella seconda guerra mondiale, a un Battlefront II arricchito con nuovi contenuti. Se tutto questo risultava un po’ telefonato, rimanevano due fronti su cui giocare la partita: l’attesissimo Anthem e “i conigli nel cilindro”, quelle IP non annunciate sulle quali ogni volta i fan si aspettano di essere, se non accontentati, quantomeno un po’ stupiti. Sul piano BioWare, nulla di cui lamentarsi: sul palco arrivano il general manager Casey Hudson, l’executive producer Mark Darrah e la lead writer Cathleen Rootsaert, tre importanti attori nello sviluppo del titolo, che hanno raccontato vari aspetti del development, approfondendo un’idea di setting narrativo che nelle sue fondamenta era già stata condivisa con il pubblico, nonché le feature e alcune modalità di gioco. Sulla nuova IP sembrano credere molto da tempo sia il developer sia il publisher e, pur nutrendo alcune perplessità riguardo alcune modalità di gioco che potrebbero risultare già viste, e temendo abbastanza gli effetti negativi in fase di scrittura derivanti dalla fuoriuscita dal progetto di Drew Karpyshyn (già lead writer dei primi due Mass Effect), la gestione tecnica e narrativa di un prodotto strutturato come Anthem dà non pochi motivi per continuare a seguire il progetto. Forse proprio a causa della grande attenzione a quella che è al momento l’IP di punta non si è rimasti del tutto soddisfatti in termini di nuove IP: se l’annuncio di Unravel 2, forte di un’interessante modalità co-op, è salutato con entusiasmo, e se Cornelia Geppert, CEO e game designer di Jo-Mei Games, presenta con emozione un Sea of Solitude dal setting narrativo interessante, sul quale terremo gli occhi fissi, il resto appare un po’ povero. Un Command & Conquer per mobile (denominato Rivals) che ammicca forse troppo alle modalità di Clash of Clans, e la cui dimostrazione risulta priva di dinamismo, e un Star Wars Jedi: Fallen Order che sembra presenziare lì più per ragioni di brand che di sostanza. Nient’altro di rilevante da registrare in una conferenza in cui il CEO di EA, Andrew Wilson, risulta asettico e pubblicitario, freddo e puntuale, e nulla può la discreta conduzione di un’Andrea Rene che, pur non essendo evidentemente avvezza un pubblico di simile portata, se la cava comunque bene.

Si passa così alla seconda conferenza in ordine cronologico, una delle più attese, quella di Microsoft. Da tempo ci si chiede cosa bolle nella pentola di Redmond, considerando che i numeri nel mercato console vedono necessario il ripensamento della propria strategia commerciale. In questi ultimi anni, le conferenze del colosso di Xbox non sono state ritenute soddisfacenti, e un rilancio è quantomai urgente. Il 2018 segna probabilmente un cambio di passo, o quantomeno questo è il segnale che possiamo certamente registrare da una conferenza che oscilla tra la concretezza di certe IP e di alcune azzeccate mosse di mercato, e la fumosità di dichiarazione che hanno il brioso e artefatto sapore del disclaimer pubblicitario: bellissimo sentir parlare di un team dedicato all’AI e al lavoro sulla nuova Xbox, ma meglio non farsi abbagliare da ciò di cui non possiamo avere riscontri certi. Ottimo segnale invece è quello dell’acquisizione di 5 nuovi studi che entrano a far parte dei Microsoft Studios, soprattutto Ninja Theory, promettente developer che ha mostrato la propria qualità in passato nei lavori su Devil May Cry e che si è in qualche modo consacrato con l’ “indie AAA” Hellblade: Senua’s Sacrifice  e che adesso, con maggior risorse economiche, potrà rivelare il suo vero potenziale (nel bene e nel male). Bene anche la presenza di alcuni ospiti del calibro di Chris Avellone, che da narrative director spiega lo sviluppo di Dying Light 2, il quale risulta molto interessante in termini di trama. Tirando le somme, quella Microsoft è globalmente la conferenza che impressiona di più, sia per gli ottimi segnali lanciati al mercato, sia per la massiccia presenza di titoli, fra esclusive e world premiere di multipiattaforma di vario genere.

Pur senza faville, la conferenza Bethesda qualche ora dopo regala comunque solidità, fra contenuti aggiuntivi (su tutti i DLC di Prey Wolfenstein II), nuovi titoli (ci si riferisce a Starfield, il nuovo space RPG su cui la casa e in lavorazione) e nuovi capitoli di IP già presenti in catalogo: Doom Eternal The Elder Scrolls VI sono due uscite molto ben accolte, ma gli occhi sono ovviamente tutti puntati su Fallout 76, annunciato già nei giorni precedenti e che sta destando la maggiore curiosità di pubblico. Conferenza che quadra ma non stupisce.

Al contrario della conferenza Devolver Digital, che ci abitua ormai annualmente a veri e propri pezzi d’avanspettacolo condotti con gran ritmo e senso dello show dall’attrice Mahria Zook, qui nei panni di Nina Struthers. Fra parodie delle retroconsole e momenti di pura satira nei confronti delle lootbox, lo studio texano trova spazio per tre nuovi annunci nei 20 minuti scarsi di conferenza: l’open world SCUM, la remaster di Metal Wolf Chaos XD e lo spettacolare shooter My Friend Pedro, che a parere di chi scrive è uno dei più interessanti prodotti di questo E3.

Una conferenza forse meno stupefacente dello scorso anno, ma sempre dalla grande carica esplosiva (pur senza teste che saltano in aria come era stato nel 2017), agli antipodi della noia che ci serve su un piatto Square Enix: la casa giapponese riserva i suoi pezzi migliori (da Shadow of the Tomb Raider a Kingdom Hearts III passando per Just Cause 4 Nier: Automata) alle altre conferenze, limitandosi a ripetere gli stessi trailer o ad arricchirli. Le piccole aggiunte a Final Fantasy XIV non bastano, così come il telefonatissimo undicesimo capitolo di Dragon Quest. I migliori annunci risiedono certamente nell’interessantissimo The Quiet Man e in un Babylon’s Fall di cui non vediamo l’ora di sapere di più, ma la mancanza di interventi (tra developer, creativi e board dell’azienda) si fa sentire, e di concreto rimane ben poco.

Concretezza che invece dimostra di possedere a grandi lettere Ubisoft, che sceglie una formula standard mantenuta per tutto l’incontro, fatta di un trailer iniziale seguito da un intervento di uno o due attori coinvolti nello sviluppo del titolo che spesso hanno modo di essere supportati da sequenze di gameplay: gli interventi di Justin Farren per Skull & Bones, di Elijah Wood e Benoit Richter per Transference, di Jonathan Dumont per Assassin’s Creed Odyssey permettono uno sguardo più concreto e profondo sui titoli in lavorazione, il loro metterci la faccia è per certi versi rassicurant,  ma soprattutto è un segno di grande serietà, che dà solidità anche a Beyond Good & Evil 2, il quale, grazie alle spiegazioni dei due Brunier, si fa più tangibile nonostante la mancanza di gameplay.
C’è spazio anche per il DLC di Mario+Rabbids: Kingdom Battle, un Donkey Kong Adventure che viene letteralmente suonato di Grant Kirkhope e dai Critical Hits che lo accompagnano, dopo un’introduzione di Xavier Manzanares. Pur non presente sul palco (ma presenti Soliani e Kirkhope per parlare delle musiche del gioco durante l’E3), il team di Milano si conferma elemento importante dell’universo Ubisoft, e c’è motivo di credere che questo sia solo l’inizio dell’ascesa di un team che ha meritato i riconoscimenti e le lodi caduti a pioggia nell’ultimo anno, riuscendo ad appagare anche la pretenziosissima Nintendo. Probabilmente è anche merito loro se, alla conferenza, Ubisoft ha potuto presentare Fox tra i personaggi della propria nuova IP, Starlink.
Una conferenza che non ha troppi picchi verso l’alto, ma che di certo quadra in tutte le sue parti, e dove ogni team ci ha messo la faccia e ha condiviso il lavoro col pubblico.

Condivisione del lavoro che è invece forse quel che è mancato in una delle conferenze più attese: Sony si affida infatti a lunghi trailer per dar spazio principalmente a 4 esclusive: The Last of Us 2Ghost of TsushimaDeath Stranding e Marvel’s Spider-Man. Titoli pregevolissimi — il primo presentato così bene da indurre il dubbio nel pubblico fosse ampiamente scriptato, anche se a un’attenta analisi è possibile confutare questa tesi: in gran parte il video non lo è, in realtà — ma ancora una volta lontani dall’essere accompagnati da una release date. Nessun membro del team di sviluppo a raccontarli, talvolta musicisti a introdurli. Curiosità a parte per nuovi titoli come Control o per il remake di Resident Evil 2 (uno dei pochi ad essere accompagnato da una data d’uscita), Sony sembra voler dare al pubblico uno sguardo più approfondito delle sue esclusive di punta, offrendo scampoli di gameplay (meno che nel titolo di Kojima, nel quale si intravedono alcune fasi stealth, una di arrampicata e si intuisce la presenza di una componente shooter) ma non andando oltre, accontentandosi del minimo sindacale per non sfigurare.

Una parsimonia, quella di Sony, che contrasta con i 25 trailer del PC Gaming Show, che, ad onta della sufficienza con il quale è guardato ogni anno, offre vari momenti interessanti: la conduttrice, la streamer Frankie Ward, riesce a mantenere un certo ritmo nelle due ore scarse che compongono lo show, ed è piacevole notare quanta varietà offra l’ambiente PC. Da avventure story-driven come il lovecraftiano The Sinking City, ma anche Neo Cab e Night Call, si passa a titoli dallo stile artistico affascinante come Sable o gestionali molto attesi come Two Point Hospital. Ma il PC Gaming Show non è soltanto riservato alle produzioni indipendenti: c’è spazio anche per Hunt: Showdown, FPS horror su cui è al lavoro Crytek, il super chiacchierato Star Citizen (giunto adesso l’alpha 3.2), Overkill’s The Walking Dead, Hitman 2 (anche questo incomprensibilmente non inserito nella conferenza Square Enix) e vari titoli SEGA, dalle remastered di Shenmue, a tre novità: Valkyria Chronicles 4, e, per la prima volta su PC, Yakuza Kiwami e Yakuza Zero, a conferma che l’amata serie nipponica ha ormai trovato una solida fanbase in Occidente. Rimane curiosità, infine, riguardo Ooblets, nuovo lavoro della Double Fine di Tim Schafer, ed è solo un altro tassello che si aggiunge a una conferenza poco altisonante nelle forme ma molto interessante nei contenuti.

Si passa così all’ultima conferenza, quella della “vecchia signora” del mondo videoludico: Nintendo quest’anno sceglie di esserci, a differenza del 2017, annunciando la propria conferenza, che chiuderà il ciclo di quest’anno. Se la prima parte ha un buon ritmo alternando gli annunci di titoli terze parti (Daemon X Machina Overcooked 2 fra gli altri) e prime parti (Super Mario Party e Fire Emblem: Three Houses su tutti), la seconda si arena sul nuovo Super Smash Bros. Ultimate, al quale viene dedicato un lungo deep dive nel quale si sviscerano scenari, personaggi e singole feature, risultando un po’ fuori contesto rispetto alle altre conferenze basate soprattutto sulla varietà di contenuti: l’approfondimento di un singolo titolo non è probabilmente il momento migliore per accattivare un pubblico con aspettative di reveal e sorprese last minute.

Poche sorprese eclatanti, ma a guardar bene i titoli interessanti non mancano: EA non stupisce, ma Sea of Solitude solletica la curiosità, Microsoft lancia alcune l’amo di alcune esclusive classiche, ma come detto non è quello il fulcro della conferenza. Probabilmente i titoli più interessanti sono stati presentati durante il PC Gaming Show, considerando che Sony persevera nella propria politica di dar un assaggio dei propri first party senza accompagnarli a date di rilascio mentre Square Enix non offre alcuna novità di riguardo e Nintendo preferisce l’approfondimento. Anche Devolver Digital riesce a incuriosire, in relazione al breve tempo del proprio show, e questo ci conferma forse quanto il mondo indie sia ancora una fucina di creatività nel mondo videoludico. Questo senza sminuire le grandi case: Bethesda annuncia comunque dei buoni contenuti speciali, ma soprattutto un altro Doom, dopo un primo reboot di buona qualità, e una nuova IP, mentre Ubisoft, pur avendo già annunciato gran parte dei titoli mostrati, li approfondisce intelligentemente, trovando il tempo per annunciare anche un’altra collaborazione con Nintendo.
Quali strategie daranno buoni frutti sarà il tempo a dirlo. Nel frattempo potremmo anche provare a fare una classifica in relazione a quanto mostrato, mettendo alla base non valutazioni in merito alla bontà dei prodotti (senza una prova dei quali ogni giudizio va sospeso) quanto in relazione al valore aggiunto delle conferenze e quindi riguardo la forza e l’efficacia del messaggio lanciato, non considerando il “fumo” derivante dall’applicazione di pure strategie di marketing ma soprattutto la concretezza di certe dimostrazioni, la volontà di dare un messaggio chiaro ai giocatori e l’effettiva prospettiva di star lavorando per loro, senza voler abbagliare nessuno.

A valutare le sensazioni lasciate da ogni show, ma soprattutto quanto concretamente posso aver tratto dai contenuti mostrati in termini di strategie di mercato e lavoro dietro le quinte, ordinerei le conferenze come segue:

  1. Microsoft: tanti trailer, fra esclusive e multipiattaforma, per mostrare che a Redmond non interessano soltanto i titoli first party, ma non sottovalutandoli, come dimostrano le acquisizioni di ottimi studios. Buoni anche gli intenti sull’AI, anche se poca concretezza da quel punto di vista. A ogni modo, Microsoft è più viva che mai, e pare pronta già alla guerra della prossima generazione.
  2. Ubisoft: tanti trailer, tanto contenuto e tante testimonianze per una conferenza solidissima, dove anche i titoli senza release date prendono forma concreta, grazie a team member che ci mettono la faccia e danno uno spaccato del lavoro dietro a ogni IP.
  3. PC Gaming Show: L’avreste mai detto, di trovarlo sul podio? Ebbene sì: le più interessanti novità escono fuori proprio da questa conferenza, che non dà spazio solo a indie interessantissimi (segnatevi quelli nominati sopra) ma mette in luce anche IP come Hunt: Showdown (titolo importantissimo per Crytek, dopo prestazioni di mercato non esaltanti negli ultimi anni) ma soprattutto Hitman 2. Vi pare poco?
  4. Devolver Digital: A loro ormai quasi piace vincere facile: con uno show sopra le righe, parodistico, un po’ paraculo (fanno satira su un settore di cui non sono totalmente avulsi alle logiche) puntano dritti all’engagement e propongono pochi titoli ma di evidente interesse. Un garanzia.
  5. Bethesda: lo dicevamo prima, la solidità premia: anche qui poche IP ma tutte ben calibrate, dal nuovo RPG Starfield a nuovi capitoli di Doom The Elder Scrolls, oltre al già annunciato Fallout. Certo, si poteva fare di più, ma da un lato va bene così.
  6. Sony: Manca molto la concretezza, vi è un’evidente volontà di “far melina”, puntando su hype forti, ad alto potenziale di hype, delle quali però si vede ancora poco. Perché di Spider-Man un gameplay allo scorso E3 lo avevamo già, e questo nuovo trailer non aggiunge proprio tantissimo. Ciononostante, apprezzatissimi i trailer, il lavoro è di ottima fattura, siamo contenti anche dell’ennesima riproposizione restaurata di un classico, Resident Evil 2, ma qui un po’ di concretezza è mancata.
  7. Electronic Arts: Di certo non è andata male. Occhi puntati su Anthem, con il team che non lesina spiegazioni su lore e meccaniche, ma poco altro. Solite IP annuali, un Command & Conquer che a oggi pare ricalcare un po’ troppo alcuni classici free-to-play mobile di successo e due nuovi titoli che forse non bastano a distinguersi dagli altri.
  8. Nintendo: Si parte benissimo, si finisce morti di noia: va bene l’importanza di Super Smash Bros. Ultimate, ma lo spiegone di una cinquantina di character, e feature, e luoghi e dettagli vari poteva trovare miglior collocazione. Nel corso di una conferenza all’E3 diventa un tecnicismo inadatto e che uccide il ritmo di chi vuole invece un’overview, più consona al contesto.
  9. Square Enix: Conferenza spoglia, i trailer migliori sono già affidati ad altre conferenze, a volte sembra di assistere a dei piatti highlights, ci si dimentica presto dell’approfondimento iniziale su Shadow of the Tomb Raider e si finisce col chiedersi, a posteriori, perché riservare Hitman 2 alla conferenza meno seguita dell’E3. Inspiegabile.