Four Last Things

Prima di procedere alla lettura, si consiglia la colonna sonora che segue, partendo dal minuto 4:29:

Il videogame, orgoglioso simbolo di modernità, l’epoca del 4K, il raytracing di NVidia, la tendenza al fotorealismo, l’evoluzione dell’intelligenza artificiale. In Detroit: Become Human David Cage ci racconta di un 2038 in cui gli androidi acquisiscono coscienza comparabile a quella umana, Ken Levine con Bioshock ci porta in quell’Atlantide evoluta che è Rapture, dalle immagini di Cyberpunk 2077 si intravede una fine del secolo per niente rassicurante, ma avanzata sul piano tecnico: se il futuro è un paradiso di avanzamento scientifico, i videogiochi sono oggi il medium deputato a diffonderne verbo, e i developer e i game designer ne sono i cantori.
Quanto sembrerebbe anacronistico se qualcuno prendesse il Rinascimento e lo sbattesse dentro un videogame? Non intendo una riproduzione di quell’epoca, non parlo di ridisegnare per mano di mirabili e raffinati artist scenari e situazioni dell’era post-medievale, magari in versione parodistica, o al contrario cercando il realismo, o ancor di più proponendone una rappresentazione artistica personale. No, dico proprio: cosa succederebbe se un game designer pensasse di prendere dei capolavori dell’arte rinascimentale, di usarne i personaggi, gli elementi, i background, di animarli sulla scena mettendo in sottofondo le musiche del tempo, spaziando dall’opera lirica alle composizioni classiche e di farne un videogame? Pensereste che è un pazzo? Un genio? Un visionario? Un truffatore? Un profittatore, che si avvantaggia furbamente del fatto che opere vecchie di 400-500 anni non siano protette da copyright per utilizzarle a proprio piacimento?
Forse quest’ultima considerazione potrebbe essere in parte vera, ma da sola non renderebbe giustizia al lavoro dietro Four Last Things, singolare punta e clicca creato dallo scozzese Joe Richardson prendendo a piene mani il cuore del Rinascimento e intessendolo sapientemente nella tela di un software.

Di poema dignissima e d’istoria

Il concetto di “peccato” è per secoli gravato pesantissimo sugli esseri umani d’Occidente. Il Rinascimento è stato un momento chiave quando fra protestantesimo, rivoluzione copernicana, luteranesimo e rivelazioni galileane il granitico dogmatismo della fede ha cominciato a scricchiolare sotto i primi colpi dell’analisi scientifica.
La Chiesa era ancora un’istituzione forte, ma il potere spirituale cominciava a frammentarsi: in una visione parodistica, anche la giurisdizione delle anime cambia di parrocchia in parrocchia, e questo è il giusto movente per dare inizio alla bislacca storia di Four Last Things, nella quale ci ritroveremo a dover guidare il nostro personaggio attraverso i sette peccati capitali al solo scopo di ottenere la successiva redenzione. Un cortocircuito paradossale, eh? In realtà la bizzarra narrazione di Richardson ha una sua coerenza: dopo un incipit onirico nel Giardino dell’Eden, vestendo i panni di un Adamo diviso tra il giudizio severo di Dio e la tentazione di Eva, il protagonista si sveglia trafelato e in preda al panico. Roso dai sensi di colpa per i peccati commessi, corre fino alla chiesa più vicina per essere assolto ma la confessione non può essere accettata: gli atti peccaminosi sono stati commessi a Norimberga, Lubecca e Oslo, luoghi fuori dalla giurisdizione di quell’episcopato. Gli alti prelati alla porta indicano però una scappatoia: commettere nuovamente ogni peccato capitale in quel territorio permetterà al nostro di confessarsi e di poter essere perdonato retroattivamente anche per le colpe precedenti. Inizia così, con tanto di “Happy sinning”, il nostro viaggio attraverso il peccato in un’avventura unica nel suo genere: la scrittura è semplice ma ritmata, l’autore gioca in parte con un linguaggio aulico d’altri tempi ma mantiene globalmente uno stile prono, accessibile a chiunque abbia una discreta conoscenza della lingua inglese, unica opzione possibile dato che il titolo non gode di altre localizzazioni. La scrittura non sottovaluta i riferimenti all’epoca e ai suoi costumi, storpiandoli in chiave parodistica e deformandoli sotto la lente del grottesco: la scuola umoristica LucasArts emerge netta, soprattutto nei tempi scanditi in dialoghi e battute, ma anche l’influenza dei lavori dei Monty Python permea un lavoro che, pur non spiccando per originalità autoriale e brillantezza nella scrittura, riesce pienamente nell’intento mimetico, non risolvendosi in pedissequa ripetizione dei modelli di riferimento e mutuandone intelligentemente gli stilemi. È facile pensare alla Nazareth di Life of Brian mentre si cammina per una cittadina rinascimentale deformata, caotica e soprattutto popolata da personaggi bizzarri, che danno vita a dialoghi assurdi e divertenti.

Spargendo gran bellezza ardente foco

«Colui che ’l tutto fe’, fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le suo cose eccelse,
com’ha fatto or colla sua divin’arte.»
(Michelangelo, Rime)

Del resto, già dal punto di vista non solo umoristico, ma soprattutto visivo, è impossibile non pensare subito al gruppo comico inglese: chi abbia visto capolavori come The Meaning of Life o …And now for something completely different avrà riconosciuto i tratti di certi sketch giocati sull’assurdo, ma soprattutto il metodo d’animazione dei dipinti con cui Terry Gilliam ha fatto scuola, e che fu utilizzato per sigle e intermezzi dai Monty Python.
Ecco, i dipinti: tutto il lavoro, dicevamo, è basato su opere artistiche dell’epoca. Four Last Things è il risultato di cut-up, collage e successiva animazione di grandi quadri rinascimentali. Fra i due Pieter Bruegel (Vecchio e Giovane), Van Dyck, Van Eyck , Cranach, il Rinascimento pittorico nordeuropeo trova largo spazio, con Hieronymus Bosch a farla da padrone: apertura e chiusura hanno per scenario parti del Trittico delle Delizie, ma le opere del pittore fiammingo sono numerosissime, dalla Nave dei Folli al Concerto nell’uovo sino al Figliol Prodigo, dal quale Richardson ha addirittura preso in prestito il corpo per il protagonista, mettendogli su il volto del mercante Mathias Mulich, dipinto da Jacob van Utrecht. L’opera del visionario pittore olandese è certamente la colonna portante del gioco, e non solo sul piano visivo: lo stesso titolo, Four Last Things, fa riferimento ai Novissimi, le ultime quattro cose a cui l’uomo va incontro al termine della vita: morte, giudizio, inferno e paradiso. I Novissimi sono rappresentati nei quattro medaglioni che si trovano agli angoli dell’olio su tavola Sette Peccati Capitali dipinto dallo stesso Bosch, conservato al Prado di Madrid e qui utilizzato da Richardson per celebrare il completamento di ogni task: a ogni peccato compiuto segue un “giro di ruota”, la quale altro non è che la figura circolare al centro del dipinto dove sono raffigurati i peccati capitali. È una delle chicche di Four Last Things, che è un tripudio d’arte del XV-XVI secolo, insomma: alcuni scenari sono composti da spezzoni di opere messi assieme a formare un unico quadro, altri sono dipinti (o parti di essi) parzialmente editati, altri ancora sono frutto del lavoro di collage che dicevamo prima. Il risultato è visivamente eccellente, e non è affatto facile da ottenere, non basta avere delle opere d’arte straordinarie e bellissime per ottenere automaticamente la bellezza su schermo: il lavoro difficile sta nell’armonizzarle e far sì che l’insieme abbia un suo equilibrio. Del resto, il gioco è programmato con Visionaire Studio 4, un software acquistabile a circa 50 €, che non poteva fare particolari miracoli senza un buon utilizzo alla base.
Richardson è riuscito benissimo nell’intento di creare un punta e clicca rinascimentale sardonico e visivamente godibile, e lo ha fatto non utilizzando neanche tutto il meglio di quell’epoca storica: molti sanno che la culla del Rinascimento è l’Italia, in rappresentanza della quale non si trova alcun artista blasonato nel gioco, che annovera soltanto Francesco Melzi e Vittore Carpaccio, fra gli artisti del Belpaese.
Più spazio lo trovano i musicisti italiano, dove figurano Giovanni Cavaccio, Giovanni Palestrina e Claudio Monteverdi (trovate a inizio pagina la sua bellissima Tirsi e Clori,) e dove Richardson si è preso qualche libertà in più riguardo l’epoca, inserendo anche Vivaldi e Toscanini, musicisti che arriveranno qualche secolo dopo, ma le scelte in termini di colonna sonora risultano congrue, danno forza alle scene e contribuiscono alla creazione del contesto. E poi, diciamola tutta, potremmo mai rimproverare qualcuno per aver inserito la Gymnopédie no. 1 di Erik Satie, anche se risulta una scelta diacronica?
Il risultato audiovisivo è nel suo insieme meraviglioso.

S’ei piace, ei lice

Ideato nel 2016 durante l’Adventure Jam di GameJolt, e rilasciato nel febbraio 2018 su SteamFour Last Things è un punta e clicca unico e ben congegnato. Nelle sue tre ore scarse di gioco non consta di enigmi particolarmente intricati, ma su un paio bisogna riconoscere una certa elaborazione a Richardson, che avrebbe voluto inserire di più nel gioco, dalla possibilità di inserire una modalità “art view”, grazie alla quale visualizzare i quadri originali, a un doppiaggio che sarebbe stato troppo oneroso per i 4178 £ (circa 4660 €) raccolti su Kickstarter. Il risultato in relazione alle risorse è ammirevole, probabilmente qualche professionalità ad affiancarlo avrebbe aiutato nel perfezionare un quest design non particolarmente intricato e avrebbe evitato qualche fastidioso bug (ogni tanto il personaggio comincia a vagare per lo schermo in maniera incontrollata, sfuggendo a ogni motion pattern predefinito e creando problemi che a volte hanno come unica soluzione il riavvio del gioco, con il rischio di perdere qualche azione, dovendo tornare all’ultimo autosave) ma, considerando che si tratta di un lavoro svolto in larga parte da unico soggetto, Four Last Things è un piccolo miracolo, pur non raggiungendo l’eccellenza. Una scrittura intelligente, un umorismo sospeso tra i Monty Python e i toni di The Secret of Monkey Island (con tanto di esplicito omaggio alla scimmia a tre teste), un’armonia visiva e sonora non comuni ne fanno un’avventura bella e piacevole da giocare e ci costringono a puntare gli occhi sul seguito, un The Procession to Calvary che per qualche giorno è ancora possibile finanziare su Kickstarter che si concentrerà molto di più sull’arte rinascimentale italiana, e che lo stesso Joe Richardson descrive come «if Monkey Island 2 had been made in 17th century Florence by a time travelling Terry Gilliam wannabe».
Non vi sembra ci siano già le premesse migliori?




Captain Bone

L’universo dei giochi indie è immenso, con moltissimi titoli sviluppati da piccole software house sparse per il mondo. Una si trova a circa 50 Km da Agrigento, in quella Licata dove lo chef Pino Cuttaia è riuscito a portare due stelle Michelin facendo gridare al miracolo. E un piccolo miracolo – o una sanissima follia – sembra quella di sviluppare videogame in un angolo sperduto di una regione che non si distingue per avanzamento tecnologico e industriale.
Ma il team di sviluppo Orange Team non pare essersi scoraggiato e ha deciso di provarci, sviluppando dal 2016 a oggi quanto basta per produrre la pre-Alpha di Captain Bone che ci consente di completare una singola missione e di visitare un piccolo villaggio.

Captain Bone si presenta come un action-adventure in single player, che ambienta la sua storia nelle isole dei Caraibi durante il XVII secolo, più precisamente nell’isola di Nassau. Il protagonista è un buffo pirata scheletrico rimasto in mutande dopo il suo ultimo sbarco: la prima unica missione di questa versione è quella di recuperare dei vestiti per procedere con la sua avventura.
Dopo esserci ritrovati sul pontile ci avvieremo verso la cittadina. La prima sensazione è di leggero spaesamento: sin dai primi minuti si soffre un po’ la mancanza di indicazioni atte a indirizzare verso il completamento delle quest, che potrebbero essere implementati in futuro con una mappa o qualche espediente che eviti al giocatore di perdersi per ore a girovagare per il borgo in mutande.
Sono presenti pochi NPC con cui poter interagire e allo stato attuale non tutti forniscono indizi grandemente rilevanti. Se dei tre elementi in quest’unica quest da trovare il cappello risulta abbastanza agevole, lo stesso non può dirsi per il giubbotto e per i pantaloni: chi scrive ha dovuto chiedere indicazioni direttamente agli sviluppatori. La risoluzione in effetti non era ardua, ma alcuni asset di gioco (banalmente quello che permette di accedere allo strumento per recuperare i pantaloni) andrebbe forse maggiormente messo in evidenza nell’environment: la cittadina ha una sua ampiezza, è ricca di elementi, e si potrebbe girare molto prima di notare il punto giusto in cui guardare, a scapito della fluidità di gioco. Qualche bug attualmente presente potrebbe inoltre mettere i bastoni fra le ruote o addirittura impedire il completamento della quest: un personaggio molto importante a un certo punto è letteralmente sparito e abbiamo dovuto iniziare nuovamente la partita per dargli modo di riprendere il suo moto e ritrovarlo.
Se le interazioni in termini di indizi sono migliorabili, i dialoghi risultano invece parecchio divertenti e ben studiati, con riferimenti chiaramente lucasiani (se l’ambientazione piratesca non bastasse a richiamare la saga di Monkey Island, i fan più attenti troveranno conferma nella presenza del simbolo ™ al termine di alcune parole) che seguono un algoritmo random: ogni volta che parleremo con loro la conversazione non sarà la stessa, ma con frasi generate in modo casuale, così da  conferire molta varietà ai dialoghi.
Un limite attuale in questa pre-alpha di Captain Bone è l’impossibilità di saltare i dialoghi: bisogna aspettare diversi secondi per potere leggere la battuta successiva, elemento che rischia di appesantire l’esperienza  e che verrà probabilmente corretto permettendo di poter andare avanti premendo un tasto, come ci si aspetta venga implementata nella prossima release l’interfaccia dei dialoghi, al momento abbastanza spoglia e minimale, testo bianco su sfondo nero, che non rende giustizia a dei dialoghi in realtà molto divertenti.

Le animazioni sono fluide e già ben curate, con alcuni movimenti del protagonista da migliorare, come quando, dopo una corsa, ci si ferma e si vede il personaggio scivolare per un po’ prima di fermarsi del tutto.
L’AI, che è sempre un problema non da poco, vede ancora dei margini di miglioramento, con NPC che si lanciano dalle alture o finiscono incastrati tra le varie case, oppure che se colpiti da un gancio del protagonista finiscono per rincorrerlo per tutta la città, non lasciandogli tregua. La vita del capitano non è molta e si perde facilmente, anche solamente saltando da una parte all’altra di una scala o discesa, causando danno. In tal senso, sembra un po’ eccessivo che Captain Bone possa morire a seguito di un semplice salto che ci costringerà a ricominciare da capo.
Come detto, è possibile colpire i personaggi non giocati: ci si aspetta dunque un combat system che in questa fase non è possibile valutare.
Il motore grafico utilizzato da Captain Bone è l’Unreal Engine 4, che riesce a gestire in maniera ottimale luci e ombre di giorno, mentre la luminosità scarseggia dopo il tramonto, presentando qualche piccolo inestetismo nelle lanterne sparse per tutta la città; le luci delle lanterne, molte volte risultano scarse o assenti, lasciando il giocatore quasi completamente al buio.
I modelli tridimensionali dei personaggi hanno una loro personalità: niente spigoli o visi squadrati, ma volti e corpo molto arrotondati che sembrano modellati a mano, creando un effetto simile alla plastilina.
Il comparto sonoro presenta un buon ventaglio di suoni che possono ancora vedere qualche revisione in termini di utilizzo durante la run. La soundtrack, infatti, è molto orecchiabile, in pieno tema piratesco, con un jingle che rimangono facilmente impressi, ma alcuni elementi sono decontestualizzati, come il sound del mare, che si continua a sentire, in maniera abbastanza marcata, anche all’interno della città.
Dei piccoli errori e bug attualmente presenti possono essere risolti senza difficoltà, come delle piccole implementazioni, quali l’uso del tasto Esc per uscire dai vari menù o il caricamento automatico del salvataggio dopo essere andati Game Over, potrebbero essere comunque di peso.
Tirando le somme, possiamo comunque dire con certezza che i ragazzi di Orange Team stiano facendo un bel lavoro con Captain Bone: i difetti riportati sopra sono abbastanza normali in questa fase e c’è di certo ancora non poco da migliorare. Ma la base del gioco c’è tutta, implementando delle buone quest, continuando con dei dialoghi divertenti e dal buon ritmo, e innestando la parte action in maniera equilibrata può venir fuori un prodotto di tutto rispetto.
Restiamo dunque in attesa di sviluppi, e non vediamo l’ora di vedere il resto del gioco.




Bulb Boy

Avete presente quei giochi da giocare quando siete soli a casa? Possibilmente di notte, con le luci spente e nel pieno silenzio? Bene, Bulb Boy, della compagnia polacca Bulbware, è esattamente quel tipo di gioco, un titolo in grado di spaventarti  con animazioni, un crescendo sul piano dell’intensità ed elementi ambientali così bizzarri tanto da farti rimanere basito, inorridito ma al contempo affascinato! In compagnia del solo testone luminoso di Bulb Boy ci siamo addentrati in questa particolarissima avventura grafica per Nintendo Switch: cosa c’è dietro a questo oscuro titolo dalle fattezze ludico-cartoonesche ma allo stesso tempo orripilante, oscuro e incredibilmente bello? Scopriamolo insieme, e dato che ci spaventa farlo da soli… teniamoci per mano!

Presenze inquietanti

Una sera Bulb Boy, tolta la dentiera al Nonno, accudito il cane volante (che c’è? Non ne avete mai visto uno?) e spento il televisore va a dormire; poco dopo essersi messo a letto, la sua casetta viene inglobata da una forza malefica, riempiendo la casa di mostri di ogni tipo; anche se parecchio impaurito, Bulb Boy si arma di coraggio e decide di andare alla ricerca del suo caro cagnolino e del generoso nonno all’interno della sua abitazione invasa dagli orribili mostri. Il gioco si pone come un punta e clicca, nel quale è possibile procedere una volta risolto un puzzle all’interno di una stanza nella quale ci si muove tridimensionalmente; le atmosfere generali ricordano anche titoli come Limbo, ma anche alcuni contesti che vedono certe situazioni da risolvere “in fretta” e con un po’ di abilità, oltre che il solo ingegno. La particolarità di Bulb Boy è che, a seconda dell’enigma da risolvere, può smontare la sua luminosa testa per farla semplicemente rotolare o attaccarla in altri corpi come pesci o ragni (non a caso si chiama “Bulb” boy: la sua testa è una sorta di lampadina da montare e smontare dappertutto); grazie a questo aspetto, il gioco offre la giusta (insolita) varietà, con enigmi da risolvere che risultano sempre molto vari e un gameplay che si rinnova, di conseguenza, molto spesso. A ogni modo, ci capiterà spesso, nelle sezioni flashback (che si avvieranno solitamente fra una stanza e l’altra), di controllare il cane e il lentissimo nonno ma queste sezioni durano molto meno rispetto alle parti ambientate nel presente: onestamente nulla di che ma riescono a dare al gioco qualche sfumatura di profondità in più. Il puzzle solving del titolo varia da semplici interazioni con oggetti a schermate ravvicinate in cui è possibile azionare determinati meccanismi con maggior precisione e dettaglio; in entrambe le situazioni avremo comunque modo di utilizzare degli oggetti che troveremo per casa e completare al meglio i puzzle che ci vengono posti. A tal proposito, che il compimento del puzzle risieda nell’attivare determinati elementi in un ordine preciso o in fretta, le soluzioni sono tanto orride quanto facili; per quanto bizzarro possa essere il risultato delle nostre azioni, la soluzione è spesso troppo ovvia e il fattore sfida generale del titolo è veramente basso e lascerà solamente una sensazione d’orrore e non tanto la soddisfazione di avere risolto un puzzle tosto (come in un punta e clicca della Lucasarts o in Chuchel).
Bulb Boy, tutto sommato, è programmato bene, anche se per un attimo abbiamo creduto di aver corrotto il nostro file di gioco: c’è stato un momento in cui, nella stanza col mostro a forma di pollo arrosto (che c’è? Esistono, e sono pericolosissimi!) il protagonista  non interagiva con gli elementi ambientali necessari per procedere nella stanza e perciò cadevamo sempre fra le grinfie del pennuto trapassato. Per risolvere il problema, abbiamo dovuto cancellare il salvataggio (che non cancella l’intero file ma ci riporta all’inizio di una stanza, cancellando dunque i soli progressi che attivano i checkpoint intermedi) ma il problema continuava a sussistere; a questo punto abbiamo semplicemente resettato l’applicazione e, finalmente, Bulb Boy è tornato ad interagire con gli elementi che componevano il puzzle di quella stanza e siamo così riusciti a procedere nella nostra avventura. Si tratta fortunatamente di un piccolo bug, risolvibile con molta facilità, nulla che guasti la nostra esperienza ma comunque abbastanza sgradevole; speriamo che arrivi prima o poi una patch per risolvere questa minuscola imperfezione.

Hai paura del buio?

Bulb Boy si presenta come una sorta di incubo cupo, verdastro e bizzarro ma con una nota cartoonesca che concede alla grafica un tratto distintivo molto forte e al gameplay una sorta di humor bizzarro (seppur molto spaventoso). Come il nome del protagonista ci suggerisce, la testa del nostro protagonista brilla di luce propria e ci permette di illuminare le buie stanze della sua casa; gli effetti di luce − accentuatissimi visto che si gioca quasi al buio − sono veramente sublimi e, in qualunque posizione ci troviamo o in relazione a come ci muoviamo, le ombre si sposteranno in base a come sono disposti gli oggetti nella stanza restituendo in tutto e per tutto la profondità dell’ambiente. Inoltre, è possibile scegliere la luminosità della testa del protagonista e perciò, a seconda di come la regolate, sarà possibile visualizzare più parti della stanza stando fermi; anche questa è un’aggiunta veramente interessante che potrà mettere alla prova il vostro coraggio (e la vostra vista).
Il character design, si mantiene sempre sul bizzarro, i mostri, che riescono a trasmetterci una sorta di paura, hanno sempre quella nota di “non pauroso” che, grazie alle atmosfere e i toni generali del gioco, riescono a inquietarci al punto giusto, un po’ come succede per la paura per i clown… no, tranquilli, qui non ce ne sono (ci mancavano solo i clown per farlo diventare L’uomo senza sonno)! Le animazioni, nonché le interazioni con gli oggetti dell’ambiente, sono sempre molto bizzarre: Bulb Boy non attiverà mai un interruttore con un dito o farà quello che pensiamo possa fare e perciò il gioco ci sorprenderà di continuo quanto ci inquieterà. Per questi motivi il fattore paura funziona e anche in maniera originale: fortunatamente non ci vengono proposti i soliti jumpscare ma il gioco ci inquieta con un suo senso persecuzione dalla quale nasconderci. Non ci troviamo mai senza un’idea su come risolvere un puzzle o sconfiggere un mostro all’interno di una stanza ma siamo sempre sotto costante paura e ansia, un’inquietudine da “paura del buio” che, bisogna ammettere, funziona molto bene. Inoltre, quando il nostro Bulb Boy viene ucciso, le animazioni sono orrende e spesso e volentieri il nostro volto si deformerà con una forte nota di inquietudine; provare per credere!
La colonna sonora di questo titolo si mantiene su un ambient molto dark e tetro, ideale per un gioco del genere; non ci saranno grossi temi memorabili ma giusto delle tetre melodie e accordi che accompagneranno il nostro protagonista attraverso le buie stanze della sua casa e i suoi brevi ricordi. Una particolare menzione va fatta ai terrificanti effetti sonori; i personaggi (quasi) umani non spiccicheranno una parola riconoscibile in nessuna lingua e i versi dei mostri sono veramente spaventosi, ben eseguiti e mai scontati. Un vero peccato, tuttavia, che pochi elementi del comparto sonoro sono davvero memorabili.

Sarà abbastanza luminoso?

Bulb Boy è un titolo più che ok: la sua bella giocabilità, che sorprende ad ogni interazione, e il suo particolarissimo art-style sono sicuramente buone ragioni per comprare, per i soli 7,99€ del prezzo di lancio, questo bel titolo sull’e-Shop di Nintendo Switch. Tuttavia, nonostante tutti questi bei fattori, l’esperienza è semplicemente troppo facile e troppo corta e perciò risulta difficile consigliare questo titolo sia ai neofiti del genere che ai veterani. Il gioco ha certamente i suoi punti di forza ma la sua giocabilità, seppur molto pulita, non offre né nulla di nuovo né nulla di interessante e il suo art-style, che è sicuramente bellissimo, potrebbe risultare trito e ritrito se messo a paragone con altri titoli dalle stesse tonalità come Little Nightmares e Limbo. Bulb Boy è sicuramente un titolo molto interessante e di certo non merita di passare in secondo piano, è solo che, in un certo senso, risulta difficile trovare un target per questo titolo. Consigliamo questo titolo agli amanti delle avventure grafiche? Agli appassionati dei videogiochi e film horror? I casual gamer? Gli hardcore gamer? Gli indie gamer? Per dirvi la verità non lo sappiamo, ma di una cosa siamo certi: il prezzo non è per nulla proibitivo, perciò mettetelo nella vostra wishlist e, qualora vi trovate qualche spicciolo in più o sarà in offerta, prendete in considerazione l’acquisto di questo titolo.




Chuchel

Da Amanita Design, lo studio ceco che ci ha portato capolavori come Machinarium e Botanicula, arriva Chuchel, una nuova sorprendente avventura grafica (genere che ha da sempre contraddistinto questo developer) dai toni bizzarri ma incredibilmente fantasiosi e coloratissimi; non a caso, il titolo ha vinto il premio “Excellence in Visual Art” al Indipendent Games Festival (meritatissimo, secondo noi), ed è solo l’ennesimo premio simile vinto dallo studio. I giochi di Amanita Design sono sempre curati fin nell’ultimo dettaglio e questo nuovo titolo non è da meno: che sia su PC, Mac, iOS o Android garantisce un gameplay ricco e pieno di risate.

Un tipetto molto particolare

Chuchel è un simpatico pallino nero con una certa affinità con le ciliegie; farebbe di tutto pur di averne una, ma spesso un topino fucsia di nome Kekel e una misteriosa manona pelosa giocano degli scherzetti al nostro bizzarro personaggio e così dovremosempre escogitare qualcosa per raggiungere la nostra ambita ciliegia. Verremo posizionati in scenari in cui spesso ci saranno personaggi e oggetti con i quali potremo interagire; la natura del gioco è quella del punta e clicca, ed è dunque superfluo elencare quali azioni potremo svolgere con i singoli elementi dello scenario; vi basterà solo sapere che spesso e volentieri il nostro Chuchel farà sempre qualcosa di divertente o di adorabilmente ridicolo. Gli scenari sono spesso composti da una sola schermata e i singoli elementi non saranno mai tantissimi ma ciò non significa che i puzzle da risolvere saranno semplici; la soluzione non arriva mai a primo acchito, ci toccherà riprovare più e più volte determinate azioni, sempre con risvolti spesso esilaranti; ci sono poi dei livelli in cui non ci saranno dei veri e propri enigmi ma offriranno al giocatore un divertente intermezzo con il quale poter interagire e dunque avere sempre una scenetta, più o meno personale, fra un livello e l’altro. Le soluzioni dei puzzle non sono mai chiarissime e perciò i game designer hanno pensato bene di inserire alcuni indizi qualora il giocatore si trovi in difficoltà in alcuni punti dall’avventura: il primo ci verrà dato sin da subito, un altro arriverà quando saremo visibilmente in difficoltà e questo sarà un pochettino più ovvio del precedente. Capiterà anche, rimanendo in tema di indizi, che quando cliccheremo su una delle apposite icone, Chuchel comincerà a farfugliarci la soluzione, facendoci sentire, a modo suo (visto che non parla la nostra lingua), dei veri incapaci!
È un titolo che sorprende di continuo e tante volte le meccaniche del gioco cambieranno senza un minimo di preavviso: da un momento all’altro potremo passare da semplici schermate statiche a una planata a bordo di un uccellino evitando ostacoli à la Flappy Bird, ci troveremo a combattere con dei robot giganti, a leccare strani funghi allucinogeni e ad aver a che fare con strambe allucinazioni oppure in un labirinto a mangiare ciliegie insieme a nientepopodimeno che Pac Man!
Al di là di tutto, è sempre il contesto generale a essere imprevedibile: le interazioni con Chuchel o con qualche elemento ambientale sono sempre assurde e, quasi sempre, questo titolo riuscirà a farci ridere e a risollevare il nostro umore, un po’ come avviene quando si guarda un cartone animato con poca logica! Il nostro personaggio infatti è spesso prolisso, esagerato e le lunghe animazioni, cliccando su un elemento dello schermo, servono proprio a sottolineare il brio che il gioco vuole trasmettere. Il gameplay in un certo senso, al di là dei semplici click o di un cambio di meccanica improvviso, potrebbe sembrare un po’ povero ma il titolo ci sorprenderà sempre proprio quando meno ce lo aspettiamo e sempre con risultati spettacolari.

Estasi sensoriale

Chuchel presenta uno stile veramente personale e ogni animazione è veramente curata fotogramma per fotogramma; dire che il solo guardare una schermata del gioco, anche senza far nulla, è un piacere per gli occhi non è un’esagerazione. Alcuni potrebbero lamentarsi del fatto che le animazioni, quando viene triggerata un’azione, non sono skippabili, ma guardare Chuchel risolvere i puzzle “a modo suo” è sempre un piacere da vedere, giocare a questo titolo non è molto diverso dal guardare un bel cartone animato. Descrivere il suo stile grafico non è facile, anche se è chiaro l’intendo di rievocare, a larghe linee, i disegni infantili, e dunque si ritrovano molti tratti in acquerello, a tempera/acrilico e anche a matita, sempre in una maniera imprecisa ma estrosa. È molto difficile dunque accostare un simile art-style a uno già esistente per via della sua unicità e singolarità; potrebbe a tratti ricordare qualcosa come Adventure Time, Gumball o Salad Fingers (se fosse privo di toni macabri e contorti) ma neppure questi esempi sono in grado di descrivere la spettacolare presentazione di questo titolo. Se vi portate a casa la Cherry Edition su Steam otterrete, insieme al gioco, anche l’art book in PDF e la colonna sonora del titolo; inutile dire che questo booklet, composto da ben 89 pagine, è curatissimo e rappresenta davvero un esperienza aggiuntiva perché le illustrazioni al suo interno sono semplicemente fantastiche e il suo acquisto (5€ in più rispetto alla versione base) vale davvero i soldi spesi.
Per accompagnare questo capolavoro di arte visiva c’è un comparto sonoro semplicemente eccezionale; questo è affidato interamente alla band DVA che dunque non ha soltanto composto la soundtrack, che presenta uno stile che si rifà sia alla musica elettronica che a uno strano folk (più precisamente un Freak Folk) e segue spesso l’azione dello schermo come una Silly Symphony, ma hanno anche prodotto tutto l’assetto degli effetti sonori che, probabilmente, è ciò che potrebbe colpire di più il giocatore. Come già accennato in precedenza, “niente è come sembra” e dunque, se ci aspettiamo un “cip” di un uccellino, sentiremo sempre un suono strambo, prodotto spesso sia coi sintetizzatori sia, talvolta, anche a voce! Se utilizzerete le cuffie riuscirete a notare che alcuni effetti sonori, come un’esplosione, un volo o il sibilare di un serpente, sono stati riprodotti con un buffissimo suono fatto a voce, e questo è davvero un tocco di classe!

La ciliegina sulla torta

Chuchel è un gioco davvero spettacolare, che inebrierà i vostri occhi e le vostre orecchie ma, soprattutto, vi farà ridere e vi cambierà le giornate. L’opera attinge molto dai classici del genere, ma è comunque molto accessibile ed è un ottimo titolo sia per chi si vuole aprire verso questo genere e sia per i veterani, anche solo per poter godere dello stupendo art-style e della sua fantastica presentazione. Unica pecca è forse la sua scarsa longevità: i giocatori più esperti potrebbero completarlo in poco tempo e i pochi achievement paralleli non sembrano essere un grosso incentivo per continuare a giocare a questo gioco.
Ci sentiamo dunque di consigliare Chuchel soprattutto ai neofiti del genere che vogliono addentrarsi nel mondo delle avventure grafiche oppure agli estimatori della Amanita Design; questo è solo uno dei spettacolari giochi dello studio ceco e potrebbe costituire un ottimo punto di partenza per conoscere la loro realtà fatta primariamente da giochi simili, per poi recuperare i succitati titoli precendenti.
Il prezzo di Chuchel su Steam non è per niente proibitivo e per 9.99€, o 14.99€ se avete intenzione di guardare l’artbook e ascoltare la colonna sonora (credeteci, sono veramente fantastici), aggiungerete alla vostra libreria un piccolo grande capolavoro fatto di puzzle intriganti, personaggi strambi e suoni buffi! Provare per credere!




Thimbleweed Park

Accendere lo schermo e ritrovarsi improvvisamente negli anni ’80 non appare più strano in un’epoca in cui vari campi dell’arte e della creatività si alimentano di revival. Il meccanismo della nostalgia ha portato alla produzione di svariate retroconsole (non ultima il Super Nintendo Classic Mini e l’ultimissimo Commodore 64), al successo di serie tv come Stranger Things, al ritorno di brand come AlienGhostbusters, Blade Runner e l’anno prossimo potremmo aspettarci un ragionevole successo di Ready, Player One, film a firma Steven Spielberg tratto dal best seller di Ernest Cline interamente improntato su riferimenti anni ’80: quale miglior momento per tornare con un’avventura grafica old style, in pixel art e ambientata, fra l’altro, nei rombanti eighties? Detta così, la nuova opera di Ron Gilbert potrebbe suonare come una grossa furbata, ammiccante a nostalgici e a vecchi fan lucasiani, e uscita nel miglior momento possibile. Ma è davvero questo Thimbleweed Park?

Back to the Mansion

Per i giocatori meno giovani (e per i più giovani che amano studiare un po’ di storia tra retrogaming e vecchie avventure grafiche), le texture e i personaggi sono un diretto richiamo a un unico titolo, quel Maniac Mansion capostipite dei moderni adventure game e pietra miliare del passaggio dall’avventura testuale a quella grafica. Uscito nel 1987 su Commodore 64Maniac Mansion fu una novità assoluta nel mercato videoludico, per l’originalità della storia narrata (una straordinaria parodia di un b-movie horror, con tanto di teenager per protagonisti), per la possibilità di manovrare 3 personaggi in parallelo, per quell’umorismo grottesco e debordante che sarà il marchio di fabbrica dei titoli della LucasFilm Games (poi LucasArts) a venire ma soprattutto perché finalmente “vestiva” ciò che fino a quel momento era stato solo un nudo susseguirsi di linee di testo. Non la prima avventura grafica della storia, ma certamente la prima di successo, al punto da meritarsi un porting su NES, territorio – quello delle console – nel quale il genere languiva. A distanza di 30 anni, gli stessi creatori di Maniac MansionRon Gilbert e Gary Winnick, hanno deciso di celebrare l’anniversario riportandoci indietro nel tempo, proprio in quel 1987 in cui uscì la loro prima, celebratissima avventura grafica.

Welcome to Thimbleweed Park

Ed eccoci dunque catapultati negli anni ’80 nell’amena cittadina di Thimbleweed Park, a vestire inizialmente i panni degli agenti Ray e Reyes, incaricati dal FBI di indagare su un cadavere riverso nel guado di un fiume. Ovviamente l’obiettivo sarà quello di raccogliere prove e interrogare gli abitanti del piccolo paese – ormai spopolato – per trovare il colpevole di quel che è un evidente un omicidio: ci sono le premesse del più classico dei racconti investigativi “made in U.S.A.”, e in effetti l’intento parodistico ha come target proprio storie di questo genere. Non è un caso che la coppia di agenti richiami la fisicità di Mulder e Scully di X-Files e che Thimbleweed Park sembri a tratti una grottesca Twin Peaks (le battute sul “bistrot” e sulle sue presunte prelibatezze, l’incendio alla fabbrica di cuscini, principale azienda della città, che ricorda da vicino quello della segheria; e poi, scusate, mi consentite di non considerare totalmente casuali le iniziali “TP”?). Apparirà subito chiaro – leggendo i loro block notes – che Ray e Reyes nascondono ben altri obiettivi. Nel loro peregrinare all’interno della cittadina, gli agenti entreranno in contatto con vari personaggi, tre dei quali – oltre loro – saranno sotto il diretto controllo del giocatore.

Personaggi in cerca di soluzione

Ed è qui che entrano in scena Ransome il Clown, il fantasma Franklyn e la supernerd Delores: il primo vittima di una maledizione che gli impedisce di togliersi il trucco di scena, il secondo condannato a vagare fra i piani dell’hotel del paese, e la terza tornata a Thimbleweed Park a seguito della morte del nonno Chuck (il nome vi richiama alla mente qualche villain dell’universo Lucas?), fratello di Franklyn (che, sì, è il padre di Delores), proprietario della fabbrica di cuscini e storico plenipotenziario del paese, onnipresente nei dialoghi con gli abitanti, dai quali si potranno trarre informazioni utili per il proseguimento della storia e per la soluzione di vari enigmi. Se i personaggi principali hanno caratteristiche marcate e tratti ben definiti che esprimono bene l’attenzione di Gilbert e Winnick nel delineare a fondo ogni character, questa si vede ancor di più nella cura dei NPC che – dalle sorelle Pigeon Brothers ai complottisti della radio, fino al polimorfo personaggio dello sceriffo-concierge-medico legale, una delle figure più riuscite di tutto il gioco – ci regala maschere straordinarie capaci di caricare ulteriormente il già grottesco e suggestivo quadro d’insieme, contribuendo in maniera decisiva a innalzare il ritmo di gioco e a rendere memorabile il deforme affresco della piccola cittadina americana.

Piccoli enigmi e grandi citazioni

Chi abbia già giocato alle avventure grafiche della Lucas non potrà non aver notato le numerose citazioni presenti in Thimbleweed Park, che spaziano da Maniac Mansion – della quale ritroviamo parte della villa, con l’orologio a pendolo all’ingresso e il salone munito di scala a chiocciola col cartello “out of order” – a Zak McKracken and the Alien Mindbenders (a citare entrambi i titoli basta una motosega) passando per The Secret of Monkey Island, i cui rimandi sono numerosissimi, non ultima la testa del navigatore, che tornerà anche qui utile in uno degli enigmi del gioco.
A proposito di quest’ultimi, pur non essendo proibitivi, non sempre i puzzle presenti risultano semplicissimi. Certo, saranno più avvantaggiati i giocatori avvezzi alle dinamiche dei punta e clicca di casa Lucas, i quali raramente ponevano quesiti risolvibili secondo i dettami logici dei classici puzzle ma, al contrario, costringevano al pensiero laterale, a grossi sforzi immaginativi, basandosi a volte su giochi di parole spesso di difficile adattamento sul piano linguistico (vedi gli enigmi della “red herring” e della “monkey wrench” proprio in The Secret of Monkey Island) e mettendo il giocatore a volte in condizione di dover tentare ogni combinazione possibile pur di andare avanti. I giusti indizi per risolvere ogni enigma non mancano ma, per chi volesse sforzarsi un po’ meno, è possibile selezionare una modalità facilitata, scremata dagli enigmi più ostici (ma mi sento di sconsigliarla).
Tornando in tema di citazioni, Gilbert e Winnick hanno messo in Thimbleweed Park un  bel po’ di autobiografia: il personaggio che più rappresenta gli autori è certamente Delores, che non a caso rappresenta una figura centrale nella storia. Delores riesce a realizzare il sogno di diventare una sviluppatrice di videogame, ed è chiaro come dalla sua scelta scaturisca, oltre alla rabbia del nonno che arriva a diseredarla, il disprezzo degli altri familiari (la sorella in primis) e lo scherno della gente comune. C’è un po’ della visione diffusa della società del tempo che sorrideva a chi dicesse di occuparsi di videogame (oggi va un po’ meglio, ma i passi da fare sono ancora tanti), ma ci sono anche chiari riferimenti gli albori della carriera di Gilbert, dal Graphics Basic, estensione per Basic creata nel 1983 con Tom McFarlane, al fantomatico developer MMucasFlem al quale Delores invia la propria candidatura.
Le citazioni non sono state colte né gradite dall’utenza più giovane e, nell’ultimo aggiornamento, assieme a una sala giochi con vari coin-op giocabili, Terrible Toybox ha aggiunto l’opzione “Citazioni Fastidiose“, attivabile da chi voglia fruire dei numerosi tributi all’universo Lucas presenti nel titolo.

Modernità eighties

Dal punto di vista visivoThimbleweed Park centra perfettamente il punto, unendo un art-style che richiama le avventure grafiche di fine anni ’80 (una su tutte, dicevamo, Maniac Mansion) ma che serba la sua attualità, offrendo ambienti e paesaggi che riescono a essere evocativi di un’epoca passata ma mai vetusti o polverosi, trasportando il giocatore in un altro tempo senza mai dargli la sensazione di essere alle prese con un prodotto figlio del retrogaming, e restituendo anzi un senso di forte modernità nonostante l’impianto grafico old style interamente in pixel-art.
Non può dirsi diversamente riguardo la colonna sonora, nella quale Steve Kirk riesce a compendiare ed enfatizzare il mood delle varie sequenze, chiudendo il cerchio di ogni ambientazione, mischiando sintetizzatori e strumenti classici (addirittura un Theremin) e alternando musiche d’ambiente a ritmiche proprie del rock progressivo. L’effetto ottenuto è quello che dicevamo prima, un retrò che conserva la sua modernità, in questo caso amplificando l’aura di mistero nel dipanarsi della storia, con il plusvalore di rafforzare “l’idea” di ogni ambiente attraversato dal giocatore: i suoni tenui del jingle che fa da sottofondo al Quickie Pal o il tema che suona all’ascensore dell’Edmond Hotel ne sono pregevoli esempli. Ma Kirk si mostra versatile anche nel dar voce al pezzo di Razor and the Scummettes (rock band capitanata dall’omonimo personaggio di Maniac Mansion, Razor appunto), dando prova di gran capacità mimetica nell’elaborazione di un tappeto sonoro steso sotto gli strani accadimenti della rocambolesca Thimbleweed Park, e non facendo per niente rimpiangere il MIDI delle colonne sonore dell’epoca.
Un paio di parole sui vari porting: per scrivere questa recensione, abbiamo interamente giocato la versione per PC in occasione della release del gioco a marzo  2017 (prima, quindi, dei vari aggiornamenti che abbiamo già citato) e rigiocato interamente quella per PS4 a settembre 2017; abbiamo inoltre testato quella per iPad, uscita sempre a settembre 2017; si attendeva per il 3 ottobre la release su Android, che sancirà la presenza di Thimbleweed Park su tutte le principali piattaforme disponibili adatte al gaming, ma Ron Gilbert ne ha annunciato il rinvio.
Le versioni differiscono fra loro quasi esclusivamente sul piano dei controlli, dove la prima (per PC) è ovviamente la più classica e anche la più congeniale al genere punta e clicca: giochi di questo tipo sono stati pensati prevedendo mouse e tastiera tra le mani del player e l’ultimo lavoro di Gilbert non fa eccezione, sancendo però un passo avanti in termini di tempistiche di gioco, fluidità e movimenti, e dunque di gameplay. I percorsi dei personaggi sono ottimizzati in modo da sottoporre il giocatore al minor numero di movimenti “inutili”, e consentendogli di giungere al punto di arrivo nel minor tempo. Su questo non fa eccezione la versione per PS4, la quale ha una minor rapidità di navigazione, ma marginale, tanto da non inficiarne l’esperienza. I tasti direzionali permettono di spostare il cursore e di selezionare i verbi d’azione da correlare agli oggetti presenti nell’inventario o nello scenario per muovere i personaggi e interagire con l’ambiente. Tramite il tasto X si potranno compiere le azioni e accelerare la velocità di movimento del personaggio, mentre il tasto quadrato permette di compiere le azioni che vengono suggerite su schermo. I tasti dorsali (L1 e R1) agevolano il passaggio fra i vari punti di interazione all’interno di ogni scenario, mentre L2 e R2 ci permetteranno di switchare comodamente fra tutti e cinque i personaggi. Scorrendo il dito sul tasto touch-pad potremo inoltre muovere il cursore come se avessimo un mouse, ma alla lunga questa opzione risulta poco comoda.
La versione mobile del gioco risulta altresì maneggevole e funzionale, lasciando invariata l’interfaccia e con il surplus di poter fare a meno del cursore: per spostarsi basterà ovviamente toccare il punto di destinazione, così come per utilizzare oggetti (cliccando sul verbo e poi sull’oggetto). Anche la scelta dei personaggi giocabili e la selezione dei dialoghi è facilitata dall’approccio interamente touch dei punta e clicca, che su mobile sembrano trovare una declinazione ideale, potendo far a meno del puntamento e consentendo al giocatore di cliccare direttamente la propria scelta, rendendo superfluo l’utilizzo di controller, mouse e tastiera che sarà reso possibile nella versione Android.

Come scrivere un Adventure Game

Nel suo storico microsaggio Why Adventure Games Suck, scritto nel 1989 e rivisto nel 2004, Ron Gilbert scriveva:

«One of the most important keys to drama is timing. Anyone who has designed a story game knows that the player rarely does anything at the right time or in the right order. If we let the game run on a clock that is independent from the player’s actions, we are going to be guaranteed that few things will happen with dramatic timing.»

Quello dell’equilibrio dei tempi drammatici è uno degli aspetti su cui il Grumpy Gamer (storico nickname di Gilbert, Ndr) si è sempre incaponito, e che ha caratterizzato negli anni la sua cifra di narratore, prima che di game designer.
Da questo punto di vista, Thimbleweed Park è un modello di arte del racconto videoludico, con tempi narrativi calibrati e un ritmo di gioco che non incespica, dove si gode di una storia scritta splendidamente. I dialoghi sono sulla falsariga dei grandi giochi Lucas, ma con ulteriori passi avanti sul piano stilistico, con una forza che Fabio “Kenobit” Bortolotti ha reso egregiamente in italiano, anche in situazioni impervie come quella di dover rendere intellegibile nella nostra lingua lo scozzese stretto del personaggio di Doug, trasposto in abruzzese, o quella di restituire al meglio l’irriverenza sboccata di Ransome Il Clown.
Non si parla soltanto dell’umorismo lucasiano di cui sono intrise le numerosissime linee di testo: la storia di Thimbleweed Park è figlia di una grande operazione metatestuale, che ci offre maschere vive nei suoi cinque personaggi in cerca di espiazione:  Franklyn, dal temperamento mite, dalla personalità debole ed estremamente remissivo, Ransome, sprezzante, cinico e sboccato, Ray, nella sua durezza e caparbietà, Reyes, un po’ tonto e risoluto, e Delores, tenace, idealista e controcorrente come dovrebbe essere un vero game designer.
È il percorso di una catarsi, quello dei protagonisti del Teatro dell’Assurdo di Thimbleweed Park, ognuno animato dalla propria singolare ricerca; una catarsi probabilmente impossibile all’interno della finzione videoludica, almeno finché il computer che le dà vita resta acceso, sembra dirci Gilbert dai meandri del wireframe, elaborando una storia che certamente ricorderemo.
Thimbleweed Park è un capolavoro di metaletterarietà che sul finale tocca picchi esistenziali come pochi, non meno di quanto lo fu (esistenzialista e metaletterario) quello di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, unendo in un’armonia singolare il grottesco e il drammatico, il demenziale e il serioso in un’opera che è certamente una delle migliori produzioni di Ron Gilbert in tutta la sua carriera di game designer.




Slitta l’uscita di Thimbleweed Park per Android

Ron Gilbert ha annunciato sul sito ufficiale di Thimbleweed Park che il rilascio della versione Android dell’acclamato punta e clicca slitterà di una settimana, dal 3 al 10 ottobre. «La buona notizia», continua Gilbert «è che la build per Android supporterà controller, mouse e tastiera, nonché un più vasto range di hardware».
Gilbert ha spiegato inoltre il perché del ritardo del rilascio sul Play Store: «Lo sviluppo su Android è sempre duro a causa della vasta gamma di dispositivi destinatari. Quando siamo arrivati ​​alla fine del test, alcuni dispositivi hanno mostrato problemi di GPU che era necessario risolvere. Ci siamo impegnati a far sì che la versione Android funzioni con i controller, oltre che a mouse e tastiera, e questo richiede più tempo di quanto preventivato affinché tutto funzioni.»
In chiusura del post, Gilbert sdrammatizza alla sua maniera: «È dura quando la release di una versione di un gioco slitta, senti di aver fallito qualcosa. Ma si tratta solo di una settimana e avremo maggior compatibilità, oltre ai controller, al mouse e alla tastiera. Ho menzionato i controller, mouse e tastiera? Sì, li avremo.»

Thimbleweed Park è stato rilasciato a marzo 2017 per PC, ed è attualmente presente anche su PS4, Xbox, Nintendo Switch, iPhone e iPad.




Annunciate le date d’uscita di Thimbleweed Park per Switch e Mobile

Dopo essere approdato su PS4 lo scorso 22 agosto, si aspettavano soltanto le date di rilascio delle versioni per Nintendo Switch, iOs e Android, e l’annuncio delle date è arrivato: Thimbleweed Park arriverà prima su iPhone e iPad il prossimo 19 settembre, poi su Switch il 22 settembre per poi essere disponibile su Play Store a partire dal prossimo 3 ottobre.
L’ultima opera di Ron Gilbert e Gary Winnick sarà così disponibile su tutte le piattaforme di gaming, forte dell’ottimo riscontro di critica e pubblico che lo ha accompagnato a pochi mesi dall’uscita.

 




Speciale avventure grafiche

Speciale avventure grafiche: dal text based game al walking simulator

Siamo fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni 80; le prime sale giochi sono colme di persone in fila per giocare a giochi come Space Invaders, Galaxian, Pac Man, Defender, Berzerk, Tempest e molti altri. È un vero e proprio fenomeno di massa, i videogiochi sono popolarissimi fra gente di ogni età, ogni dove e ceto sociale. Erano giochi semplici con semplici obbiettivi: mangia i puntini, spara agli alieni, ai robot, completa il puzzle, etc… nessuno di questi giochi era molto cervellotico e fra i giocatori c’era, probabilmente, un bisogno di un qualcosa di più complesso, qualcosa di più intelligente. Un po’ prima dell’avvento degli arcade, il gioco da tavola Dungeons & Dragons fu rilasciato nel 1974; giovani da tutto il mondo si immergevano in queste avventure immaginare, in mondi fantastici a bordo di draghi volanti brandendo spade magiche. La peculiarità di quel gioco stava nella figura del dungeon master che, dietro ad un tabellone con regole ed altro, raccontava l’avventura che man mano si srotolava e metteva i giocatori davanti a situazioni e nemici che potevano essere superati con l’ausilio di una buona cooperazione. Il successo di questo gioco da tavolo spinse uno geniale Scott Adams a portare questo tipo di fruizione, cioè tramite narrazione, nel primo gioco testuale su PC: Adventureland del 1978. Seppur l’effetto carisma, tipico del dungeon master, spariva di fronte ad un testo di sole parole sullo schermo di un PC, Adventureland serviva allo scopo perfettamente; il giocatore si immergeva in dei mondi che effettivamente, non poteva vedere, tutto avveniva come quando si legge un libro, dentro la sua testa. Il fattore immaginazione in questi termini è, ad oggi, è semplicemente scomparso; la grafica, anche nei giochi più frenetici di quei anni, era ancora a uno stadio primitivo e gli elementi sullo schermo rappresentavano vagamente ciò che dovevano rappresentare. Già in un semplice Pong, rilasciato nel 1972, gli utenti vedevano due giocatori di tennis, un campo e una pallina ma in realtà, ciò che avevano di fronte, erano soltanto due barrette che facevano su e giù e un quadratino che rimbalzava da una parte all’altra. Nonostante l’avvento delle arcade, e dunque di giochi graficamente sempre migliori, i giocatori usavano ancora la propria immaginazione per definire meglio gli elementi nello schermo, specialmente a casa con console come l’Atari 2600 o computer come il Commodore Vic-20 che producevano una grafica peggiore rispetto alle loro controparti arcade. L’avvento dei giochi text based adventure sfruttava a pieno questa capacità umana basando l’intero gameplay (se così possiamo chiamarlo) sull’immaginazione del giocatore; al giocatore venivano presentate diverse situazioni risolvibili inserendo comandi semplici come “go north”, “pick item” o “kill enemy” tramite l’ausilio della tastiera. Fu così che i text game cominciarono a prendere piede nelle case di alcuni giocatori e compagnie come la Adventure International (fondata dallo stesso Scott Adams) e la Infocom fecero dei text game i loro prodotti di bandiera; giochi come la Serie di Zork, The Count e The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy (tratto dall’omonimo romanzo conosciuto in Italia come Guida Galattica per autostoppisti dalla quale è stato anche tratto un film nel 2005) furono pionieri di questo nuovo genere videoludico in cui tutto si svolgeva nella testa dei giocatori. I text game continuarono a esistere per tutti gli anni ’80, ma questo genere fu eclissato dall’arrivo delle avventure grafiche che poi si sarebbero evolute in punta e clicca.

L’epoca d’oro

Nel 1980 la neonata Sierra (all’epoca On-line Systems) pubblicò Mystery House per Apple II, considerato da molti l’inizio delle avventure grafiche; il nuovo titolo, che di base era un text game, offriva una vera e propria interfaccia grafica abbastanza primitiva, giusto l’input da dare alla mente umana per poter immaginare l’azione (visto che il display non ne aveva e non aveva neppure il sonoro). Lo scopo del gioco era quello di individuare un assassino all’interno della magione vittoriana investigando e costruendo ipotesi sugli oggetti che si andavano trovando man mano per la magione. Sempre in questo periodo, fra il 1980 e il 1984, vennero ripubblicati alcuni vecchi giochi text game con una nuova interfaccia grafica, simile a Mystery House, per i computer più moderni; fu il caso per il già citato Adventureland che, in occasione della sua uscita sul Commodore 64 nel 1982, fu ripubblicato con una cornice un cui era possibile osservare ciò veniva mostrato a testo. Il 1984 fu un anno importante per le avventure grafiche poiché uscì il primo capitolo della rinominata saga della Sierra Entertainment King’s Quest. Se pur ancora era necessario dover inserire i comandi su tastiera, King’s Quest fu un punto di svolta per le avventure grafiche: il testo fu utilizzato esclusivamente per i dialoghi, Sir Graham (il protagonista) era visibile in terza persona e, animato in ogni singolo dettaglio, lo si poteva vedere camminare, aprire le porte, prendere oggetti, etc… Semplici cose come le bandiere che sventolavano in cima al castello nella prima schermata erano un qualcosa di incredibile e mai visto prima. In precedenza non fu mai pubblicato nulla di simile e King’s Quest aprì le porte per un futuro sempre più luminoso per le avventure grafiche. Dal 1986 la Lucasfilm Games decise di cimentarsi sul campo delle avventure grafiche che, nel frattempo, diventavano sempre più popolari. Con l’avventura grafica del 1986 Labyrinth (tratto dall’omonimo film con David Bowie), la Lucasfilm Games (che poi diventerà Lucasarts) si aprì verso quel genere che diventò la loro specialità. Col successivo (e anche un po’ controverso) Maniac Mansion la LucasArts cambiò gli standard per le avventure grafiche a venire. La sua grande innovazione fu la creazione del motore grafico SCUMM, acronimo di “Script Creation Utility for Maniac Mansion”, che, a metà fra un linguaggio di programmazione ed un interfaccia utente, permetteva una migliore interazione con la scena semplicemente scegliendo un’oggetto col mouse, appena implementato per i videogiochi, per poi compiere un’azione selezionandola da uno dei già elencati comandi testuali. Da quel punto in poi per la LucasArts fu tutta una strada in discesa e il motore SCUMM fu usato per tutte le future uscite come Zak McKracken and the Alien Mindbenders, Indiana Jones and the Last Crusade, Loom ma soprattutto i legendari The Secret of Monkey Island, pubblicato nel 1990, e il suo sequel Monkey Island 2: Le Chuck Revenge. La serie di Monkey Island ebbe un impatto per i computer come Super Mario Bros lo ebbe per il mercato delle console; durante la prima metà degli anni 90 si vive quella che viene considerata l’epoca d’oro delle avventure grafiche. La LucasArts produsse meraviglie come Indiana Jones and the Fate of Atlantis, Sam & Max Hit the Road, Day of the Tentacle (che introdusse vere e proprie linee vocali per i dialoghi), The Dig e Full Throttle. La Revolution Software, un nuovo importante operatore, si buttò nella mischia con validissimi titoli come Lure of the Temptrest del 1992, che diede prova del loro motore grafico “Virtual Theater” che fu usato anche per il successivo distopico Beneath a Steel Sky del 1994, e la saga di Broken Sword iniziata nel 1996 e che dura a tutt’oggi. Sierra Entertainment continuava il suo trend positivo con sage del calibro di Gabriel Knight, i numerosi titoli della saga di King’s Quest e il controverso Leisure Suit Larry. L’apprezzamento delle avventure grafiche arrivò anche in Giappone facendo partire un nuovo filone parallelo di avventure grafiche più comuni come “visual novel”. Ricordiamo la popolare saga di Clock Tower, arrivata anche in occidente, e gli spettacolari Snatcher e Policenauts del 1989 e 1995, programmati dall’acclamato Hideo Kojima, creatore della saga di Metal Gear.

Crisi e ripresa

Verso la metà degli anni 90 l’interesse dei giocatori verso i punta e clicca stava diminuendo in favore dei nuovi giochi con grafica tridimensionale. La Lucasarts, per riconquistare il parere dei fan e della critica dopo un poco rilevante The Curse of Monkey Island, investì diverse risorse in quello che fu Grim Fandango, una delle più belle avventure grafiche mai realizzate. Uscito nel 1998, programmato dalla mente geniale di Tim Schafer, Grim Fandango mostrava una grafica eccellente per i tempi, una storia degna dei migliori film noir, un doppiaggio magistrale con battute degne di Monkey Island e una colonna sonora jazz/bebop di altissimo calibro. Nonostante i numerosissimi premi della critica soltanto 500.000 copie circa furono vendute e purtroppo fu la prova che le avventure grafiche erano in crisi. Dopo un altro (ingiustamente) fallimentare Escape from Monkey Island e dopo la successiva cancellazione di Sam & Max: Freelance Police nel 2004 la Lucasarts dichiarò di non volersi più dedicare allo sviluppo di nuove avventure grafiche. In tempi recenti però, con l’arrivo della ormai nota software house Telltale Games, il genere appare di nuovo in più forte che mai. La Telltale rilanciò un genere ormai infiacchito e riprese brand della Lucas come Sam & Max e lo stesso Monkey Island, puntando ad una struttura ad episodi che le ha garantito il successo con giochi tratti da famose IP quali The Walking Dead, Game of Throne e Batman, dettando le regole delle avventure grafiche moderne. Negli ultimi anni si è assistito a una rivisitazione del genere sia in ambito 3D, come ci dimostra la storia della Telltale o l’ultimo capitolo della saga di Broken Sword: The Serpent’s Curse, sia in ambito 2D con giochi come Machinarium o Whispered World. In un mondo dove le visual novel, come la super celebre Ace Attorney, hanno successo in occidente e il grande gigante del settore Tim Schafer torna sotto i riflettori con Broken age dopo un finanziamento su Kickstarter senza precedenti non ci stupisce più se il già citato Scott Adams ha prodotto il suo ultimo gioco nel 2013, The Inheritance… ovviamente un text game! E indovinate un po’, quest’ultimo gioco ha anche una grossissima innovazione: il sonoro! Insomma, mentre le storie continuano ad appassionare i giocatori, il futuro delle avventure grafiche pare ancora tutto da scrivere e, ovviamente, tutto da giocare.




Thimbleweed Park, il trailer per Nintendo Switch

Ron Gilbert ha pubblicato il trailer della versione per Nintendo Switch di Thimbleweed Park, l’ultimo punta e clicca scritto con Gary Winnick e pubblicato dalla sua Terrible Toybox.
Ancora non si ha una data d’uscita, anche se ieri in un tweet il game designer ha rivelato una finestra di lancio:


Di seguito il trailer di Thimbleweed Park per Nintendo Switch:




Annunciata la data d’uscita di Thimbleweed Park su PS4

Thimbleweed Park arriva finalmente su PS4. Dopo un’attesa di alcuni mesi, anche i possessori della console potranno giocare il punta e clicca di Terrible Toybox a partire dal 22 agosto. La notizia è stata resa nota dallo stesso creatore, Ron Gilbert, in un post pubblicato su PlayStation Blog.
Per chi non conoscesse l’ultima opera del creatore di Monkey Island, si tratta di un’avventura  grafica in pixel art che si rifà ai grandi capolavori dell’epoca LucasFilm Games (Maniac Mansion su tutti, e non a caso è uscita in occasione del trentennale del gioco ed è ambientata nel 1987) ed è una riproposizione parodistica di una detective story dai contorni sovrannaturali che mette dentro elementi tratti dalla letteratura di Stephen King e da note serie tv quali X-Files e Twin Peaks. per offrire un’avventura davvero strana e meravigliosa.

Nel post pubblicato, Ron Gilbert precisa che gli utenti «meravigliati dalla precisione con la quale un punta e clicca funziona su console, senza un mouse», in ragione dell’enorme quantità di tempo spesa dall’intero team a perfezionare i controlli su pad senza far perdere le emozioni delle avventure degli anni ’80 e ’90. In realtà questo era già avvenuto sul NES, dove si può ricordare un porting di Maniac Mansion in 8 bit.
Ron Gilbert ha sviluppato il gioco affiancato da altri due grandi nomi della vecchia guardia Lucas, Gary Winnick e David Fox, e il riscontro della critica è stato estremamente positivo. Il gioco è già giocabile dal 30 marzo su PC, Mac e Xbox One. In attesa della data di rilascio dell’ormai confermata versione per Nintendo Switch, vi lasciamo al trailer di lancio per PS4: